F. Pillitteri, Credito, ricostruzione e sviluppo nella Sicilia del dopoguerra (1940-1965), Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2000, pp.295.
Sono numerose le opere che, per il periodo che va dal 1940 al 1965, riguardano la Sicilia sotto il profilo economico-politico. Per citarne alcune, basta ricordare: La storia dell’industria in Sicilia (Bari, Laterza, 1995) di Orazio Cancila, Sicilia Oggi (Torino, Einaudi, 1987) di Giuseppe Giarrizzo, Anni roventi (Palermo, 1967) di Salvo Di Matteo, Il credito rurale in Sicilia (in Banche e banchieri in Sicilia, Palermo 1982) di Maurice Aymard, Danni di guerra e ricostruzione edilizia in Sicilia (in "Bollettino" mensile dell’Osservatorio economico del Banco di Sicilia, Palermo, 1947) di Luigi Arcuri Di Marco.
Questa di Francesco Pillitteri, Credito, ricostruzione e sviluppo nella Sicilia del dopoguerra (1940-1965), pubblicata da Salvatore Sciascia editore (Caltanissetta-Roma, 2000), non solo si aggiunge ma offre un contributo nuovo ed importante alla storiografia di quel tempo in quanto presenta una ricerca seria sul credito in Sicilia visto nella sua globalità e svolta con riferimento specifico alla ricostruzione, allo sviluppo economico e all’andamento della politica regionale. Ed è merito di non poco conto averla affrontata con la competenza dell’esperto, che ha al suo attivo la pubblicazione di opere qualificate riguardanti il credito e l’esperienza diretta del bancario. Il volume inizia con alcune considerazioni di ordine generale, per passare subito ad un primo giudizio sul sistema bancario anteguerra dell’Isola. Scrive il Pillitteri "La Sicilia... sino alla fine dell’ultima guerra, continuava a disporre di un sistema bancario fragile ed antiquato, attrezzato soltanto per il credito a breve e per quello agrario e minerario...". Ed aggiunge che esso era travagliato nella gestione e, per di più, caratterizzato: "dalla carenza di adeguati risparmi, fattore che rappresentò per l’economia siciliana un dato abbastanza negativo".
Il giudizio riflette una realtà obiettiva, perché è del tutto vero che le banche siciliane fino all’avvento della seconda guerra mondiale erano gestite in forma piuttosto artigianale e, comunque, sconoscevano la pratica del credito legato allo sviluppo economico, così come è altrettanto vero che i siciliani al risparmio bancario preferivano l’acquisto di titoli di Stato e di beni immobili. Peraltro anche l’immediato dopoguerra non ammodernerà di molto il sistema. E ciò non solo perché un’effettiva politica di ammodernamento non si ebbe neppure in campo nazionale, ma anche perché la Regione, dotata di entrate finanziarie proprie che riversava nelle principali banche isolane: Banco di Sicilia e Cassa centrale di risparmio per le province siciliane, non riuscendo ad esprimere chiare linee di sviluppo, finiva con l’alimentare anche le banche, sia pure indirettamente, la politica del guadagno attraverso l’acquisto di Titoli di Stato. Ebbene, Pillitteri ben evidenzia questo aspetto che in seguito, quando lo Stato imporrà la tesoreria unica anche per le Regioni a statuto speciale, darà luogo in modo determinante alla crisi delle due maggiori banche isolane. Comunque con il 1947, sia pure con estrema cautela, il Banco di Sicilia inizia la politica del finanziamento di qualche nuova industria, mentre un risveglio del credito indirizzato allo sviluppo si avrà con la presidenza di Ignazio Capuano al Banco di Sicilia e di Lauro Chiazzese alla Cassa centrale di risparmio. Un impulso ad un credito maggiormente finalizzato verrà dalla Regione, anche se mancherà una effettiva programmazione dello sviluppo in campo industriale e in quello agricolo. Un dato che il Pillitteri particolarmente evidenzia è il rapporto tra la politica regionale e il credito non trascurando di mettere in luce ora le carenze dell’Istituto regionale ora quelle del sistema bancario. Anche il conflitto tra industria pubblica e industria privata che si scatena nell’Isola a seguito della scoperta del petrolio è oggetto di un serio approfondimento. E così dicasi per il forte conflitto Stato e Regione. Scrive Pillitteri: "La realtà degli anni ‘60 fu invece una continua conflittualità fra Stato e Regione, che non nasceva solo da contrasti operativi, ma da motivazioni sostanziali. Lo Stato, infatti, mentre nel Nord si faceva carico delle sollecitazioni dei gruppi economici dominanti, acquisendo in proprio industrie private in difficoltà, divenendo così imprenditore, non interveniva per aiutare le industrie meridionali e condannava come "lesiva del retto intervento dello Stato" ogni nuova iniziativa pubblica tendente ad annullare l’arretratezza delle regioni, come la Sicilia, nelle quali lo stato di povertà delle masse impediva il miglioramento delle condizioni economiche e l’accelerazione dell’inserimento nel processo produttivo di schiere di forze umane senza lavoro".
Il passo citato, tra l’altro, dimostra che, sia pure a flash, l’analisi spesso si estende dalla Sicilia a tutto il Meridione. Uno spettacolo pertanto, quello colto dal Pillitteri, in cui dalla Sicilia emerge il dramma, purtroppo ancora vivo, del Mezzogiorno d’Italia.
L’opera è preceduta da una dotta introduzione di Giano Accame di particolare interesse. L’autore di Una storia della Repubblica (Milano, Rizzoli, 2000) in cui finalmente fatti, avvenimenti e situazioni vengono colti nella giusta luce e i vuoti delle tante omissioni trovano puntuale copertura, ne prende spunto per una disamina, sia pure del tutto sintetica, della realtà bancaria nazionale del dopoguerra. Fa anche di più: ne approfitta per denunziare i tanti sprechi di risorse nel campo del credito (e non solo) da parte degli enti pubblici verificatisi in Sicilia e nella Penisola, soprattutto con l’avvento del centro sinistra, concludendo che dalla ricerca del Pillitteri, in ordine alle occasioni mancate nel campo dello sviluppo economico, traspare tanta amarezza e tanta accoratezza per le speranze deluse.
Ed è così. Credito, ricostruzione e sviluppo nella Sicilia del dopoguerra sono visti dal Pillitteri con trepidante sentimento alle cui radici c’è il profondo attaccamento che egli ha per la nostra terra.
Dino Grammatico
E. GUCCIONE, Gioacchino Ventura. Alle radici della democrazia cristiana, Palermo, Centro siciliano Sturzo 2000, pp. 335; S. PRIVITERA, Francesco Orestano. Persona, società e valori, Palermo, Centro siciliano Sturzo, 2000, pp. 209.
La nuova collana di studi "Cattolicesimo di Sicilia" del Centro Siciliano Sturzo, diretta da Cataldo Naro, si accresce di due volumi dedicati, rispettivamente, a Gioacchino Ventura (Palermo 1792 - Versailles 1861) e a Francesco Orestano (Alia 1873 - Roma 1945).
Il primo lavoro è curato da Eugenio Guccione il quale coglie gli influssi lamennaisiani sul pensiero politico venturiano, procedendo ad un attento studio delle opere filosofiche e apologetiche e mettendo in evidenza come Ventura rappresenti "la pietra miliare della corrente liberale e democratica cristiana del movimento cattolico italiano e, in particolare, del gruppo propagatosi dalla Sicilia tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX" (Ivi, p. 66). L’autore ricorda a tal proposito la diretta influenza esercitata dal teatino sull’orientamento di molti cattolici siciliani, primo fra tutti Luigi Sturzo che, più volte, sollecitò i suoi collaboratori, tra cui Igino Giordani e Gabriele De Rosa, ad approfondire il pensiero politico del sacerdote palermitano. Completa il volume un’ampia raccolta antologica comprendente l’Epilogo e conclusione dell’opera rimasta inedita sino al 1998 Dello spirito della rivoluzione e dei mezzi di farla terminare (1833); le edizioni integrali dell’Elogio funebre di Daniel O’Connell (1847); del Discorso funebre pei morti di Vienna (1848); della Memoria pel riconoscimento della Sicilia come Stato sovrano e indipendente (1848). Tali scritti offrono - al lettore che sino ad ora non si è accostato allo studio del pensiero venturiano - un quadro completo delle tematiche che avevano interessato il teatino. Tra esse ricordiamo la politica come mezzo di realizzazione del bene comune; la democraticità del potere garantita dall’originario riconoscimento del popolo e dalla sua continua attribuzione di consenso; la critica all’accentramento statale e conseguente fiducia nel decentramento amministrativo; la soluzione federalista o confederalista della questione italiana; l’intuizione del principio di sussidiarietà; l’anticipazione, nell’opera Dello spirito della rivoluzione…, delle origini del liberalismo di ispirazione cristiana in Italia; la legittimità delle rivoluzioni - come quella siciliana del 1848 - e, dunque, la liceità del ricorso alla resistenza attiva quando il principe antepone i propri interessi a quelli della collettività calpestando il diritto di libertà in tutte le sue espressioni.
Guccione sottolinea come il pensiero politico di Ventura sia imperniato sugli ideali di Chiesa, popolo e libertà e fondato sul tradizionalismo mitigato che "se da un lato ritiene limitate le capacità della ragione per la scoperta delle verità soprannaturali e delle verità naturali d’ordine religioso e morale, dall’altro ammette la facoltà della stessa ragione, non appena questa recepisce quelle verità dalla rivelazione o dall’insegnamento sociale" (Ivi, p. 39). Un tradizionalismo mitigato che, pertanto, puntava sulla restaurazione del realismo filosofico della scolastica e soprattutto del tomismo, concedendo, al tempo stesso, spazio alle teorie sociali che, aggiornate, sarebbero sfociate nel riconoscimento di una democrazia in senso cristiano.
L’altro volume della collana, curato da Salvatore Privitera, è su Francesco Orestano "filosofo, eticista, fenomenologo", autore paradossalmente sconosciuto a quasi tutti i manuali di Storia della filosofia contemporanea. Privitera, sin dall’inizio del suo interessante lavoro, non manca di cogliere le "luci e le ombre" di questo personaggio che, a causa dei suoi rapporti con il fascismo, subì il duro giudizio della critica filosofica. Dagli scritti orestani emerge il desiderio di "vedere la società governata da una morale universale" ma anche la convinzione "di doversi adoperare in quella situazione per conseguire quanto di positivo poteva essere conseguito" (Ivi, p. 5). La condizione di totale povertà in cui egli morì è indice, secondo Privitera, della sua profonda coerenza interiore e della sua onestà morale e intellettuale. E "l’uomo" Orestano si rivela non solo quando viene presa in considerazione la sua vita di fede ma anche quando "i lineamenti dell’uomo vengono considerati come lineamenti di colui che allo studio, alla riflessione scientifica, all’insegnamento ed alla trasmissione della verità ha dedicato tutta quanta la sua esistenza" (Ivi, p. 16). Soffermandosi sull’insegnamento l’autore osserva come per Orestano il compito del docente non fosse quello di inculcare nozioni o ideologie ma di fare si "che il discente [venisse] messo nelle condizioni di pensare con la propria testa, di ragionare con la propria intelligenza, di filosofare autonomamente" (Ivi, p. 19).
La sezione dedicata ai testi permette l’approfondimento del pensiero teoretico, morale, politico e religioso del filosofo aliese. Dagli scritti riportati nel volume risalta la sua religiosità "profonda e genuina"; la visione filosofica sempre inscindibile dalla sua prospettiva religiosa; il desiderio di pervenire al superamento del concetto di scienza in termini aristotelico-kantiani "adeguando il pensiero riflesso alle esperienze e ricorrendo per tale adeguazione al simbolismo della "matematica, capace di assumere i più diversi significati e valori e per ciò stesso atto ad esprimere nelle sue formule la fenomenologia dell’accadere senza intromissioni di portata ontologica" (Ivi, p. 27); il valore "vita" concepito e presentato come valore-fine ma anche come valore-mezzo cioè come strumento per perseguire altri valori; la priorità nel fatto morale della persona umana in quanto soggetto morale.
Claudia Giurintano
R. MENIGHETTI - F. NICASTRO, L’Eresia di Milazzo, Salvatore Sciascia Editore, Studi del centro "A. Cammarata", Caltanissetta 2000, pp.215
Gli autori, ambedue giornalisti, da anni si occupano, anche se uno solo di loro è siciliano di nascita, di problemi legati all’autonomia siciliana, analizzati con dovizia di particolari e di documentazione nel loro primo libro scritto a quattro mani Storia della Sicilia autonoma. 1947-1996, Caltanissetta -Roma 1998.
In questa nuova opera, fresca di stampa, viene esaminato in maniera di certo più dettagliata che in passato, un episodio, ancora per molti lati oscuro, della storia della Sicilia contemporanea: l’operazione Milazzo.
Sull’operazione Milazzo, infatti, è stato steso un pietoso velo d’oblio, per volere dei vari protagonisti che vi parteciparono, sia a livello i singoli, che a livello di formazioni politiche.
La DC preferisce non rivangare un doloroso episodio della sua storia che la vide per la prima volta confinata all’opposizione e che mise allo scoperto le poco cristiane macchinazioni politiche e i gretti personalismi di cui traboccava il partito cattolico. Il PCI preferì rimuovere il ricordo di un periodo politico che lo aveva visto collaborare con i nemici di sempre: i post-fascisti dell’MSI, il quale, a sua volta, non considera opportuno rievocare quei mesi caratterizzati dalla sua partecipazione ad un’ammucchiata politica generale.
Quell’episodio politico controverso, anche se poi sfruttato dai vari partiti secondo i loro interessi di bottega, rappresenta l’ultimo singulto di orgoglio autonomistico da parte di una classe dirigente e di un popolo che non ebbero la capacità di sfruttare appieno lo strumento statutario allo scopo di assicurare alla Sicilia un progresso costante, inserito nel contesto peculiare delle sue condizioni economiche, sociali, geografiche.
Il milazzismo, nato come protesta sicilianista e ribellione anti partitocratica, fuggito al controllo dei suoi stessi autori, presentò all’opinione pubblica il vero aspetto di un personaggio, fino a quel momento, secondario, Silvio Milazzo, appunto, di cui nessuno, tanto meno il suo protettore di sempre, Luigi Sturzo, si sarebbe aspettato la tenacia e il pragmatismo che invece dimostrò.
Tenacia nel perseguire nella scelta fatta, quello che lui chiamava il malo passo, malgrado le lusinghe e le minacce; pragmatismo nel mettere il primo piano le esigenze e i bisogni della sua terra, la necessità imprescindibile di difendere le prerogative autonomistiche, ormai quasi completamente soffocate dal centralismo politico-amministrativo, supinamente accettato pure dal suo partito e nel considerare l’alleanza con le sinistre, limitata al campo essenzialmente amministrativo, come il male minore per salvare la Sicilia dal pericolo di sciupare l’ultima occasione per affermare la sua diversità e la sua legittima secolare aspirazione ad autogovernarsi: la Sicilia, gravata da montagne di miseria - affermava - non si può permettere il lusso dell’anticomunismo. (p.11)
In questa coraggiosa scelta, che, peraltro non rispondeva affatto alle sue convinzioni ideologiche, Milazzo dovette scontrarsi con il forte apparato ecclesiastico sia siciliano che nazionale. Il clero, in quegli anni di guerra fredda, con l’immagine costantemente presente delle "chiese del silenzio" di quella parte del mondo dominata da regimi filo sovietici, vede nel comunismo il suo principale nemico contro cui deve battersi, per la sopravvivenza della compagine ecclesiale, con ogni mezzo e in ogni campo.
Così, pur se eminenti rappresentanti della Chiesa siciliana come Ruffini e Peruzzo, avevano inizialmente espresso un prudente gradimento sulla formazione di un secondo partito cattolico che tenesse alta la bandiera dell’autonomia, quando questo partito nacque con un’impostazione politica favorevole alla svolta a sinistra, furono costretti a manifestare tutto il loro dissenso, incoraggiati e, in parte, anche costretti, dalle direttive emanate dal Vaticano.
Il fanfanismo, teso all’occupazione integralista, attraverso il partito, di tutte le leve di potere esistenti all’interno dell’apparato politico statale, aveva messo in evidenza, soprattutto in Sicilia come, superata la fase critica della ricostruzione, fossero tornate a prevalere le più grette e detestabili pratiche politiche fondate sui personalismi, sulle vendette trasversali, sulla concessione di privilegi, sul clientelismo più becero e immorale. La classe dirigente siciliana, abbagliata dalle promesse del leader aretino, solleticata nelle ambizioni carrieristiche, sembrava pronta a svendere la preziosa conquista autonomistica per il raggiungimento di traguardi e successi politici di interesse personale. Perciò l’operazione Milazzo, come ribellione a tutto ciò, come tentativo di catarsi della vita politica regionale, fu visto, in un primo momento, con grande simpatia sia dalla popolazione che dalla stessa Chiesa isolana.
Secondo gli autori ciò che Milazzo non capì, o non volle capire, fu la strumentalizzazione che di tale rivolta sicilianista venne fatta dal partito comunista, che la considerò un’occasione da sfruttare, tramite la sua perfetta macchina propagandistica, per rientrare nell’arca governativa nazionale, dopo l’allontanamento subito nel 1947 e per neutralizzare la manovra fanfaniana mirante alla creazione di una maggioranza di centro-sinistra, con lo scopo effettivo, non solo di rafforzare l’esecutivo, ma soprattutto di isolare il PCI dal resto dello schieramento di sinistra, confinandolo in un ghetto da cui difficilmente sarebbe potuto uscire negli anni a venire.
Menighetti e Nicastro sottolineano, con un’accurata documentazione, ciò che finora è generalmente passato sotto silenzio, il sostegno cioè, nella prima fase, di gran parte dell’apparato democristiano, con in prima linea Sturzo, Scelba, Aldisio e Alessi che avrebbe dovuto essere il manovratore prescelto, ma che nel momento in cui la direzione della rivolta venne assunta dal "mite" Milazzo, incapace di un gesto di disobbedienza, o addirittura di insubordinazione, ai suoi autorevoli dante causa (p.38), preferì assumere il ruolo di attivo spettatore trasformato poi, in quello di strenuo oppositore, quando si prospettò l’alleanza tra il partito nato dalla ribellione e i socialcomunisti.
Gli autori sostengono che Milazzo non fu una vittima delle circostanze, accettò l’alleanza con le sinistre, incompatibile con il cattolicesimo a lui continuamente sbandierato, per ambizione e per calcoli personali, respingendo la tesi secondo cui sarebbe stato trascinato dalla sua debolezza e dalla sua ingenuità, nonché dal profondo amore per l’autonomismo, a cedere su principi che aveva sempre considerato irrinunciabili.
Grande sconcerto suscitò nell’opinione pubblica moderata, che fino a quel momento aveva con entusiasmo sostenuto la particolare operazione politica, la notizia, riportata dal corrispondente italiano a Berlino del quotidiano Il Tempo, il giornalista siciliano Sandro Paternostro, dell’incontro tra Corrao e Goetting, segretario del Partito Cristiano democratico e fedele fantoccio del comunista Ulbricht. Il braccio destro di Milazzo e vero ideologo del movimento cristiano sociale, nato dalla scissione con la DC, si era recato nella capitale tedesca, come rappresentante del governo regionale siciliano, ufficialmente per trattare con gruppi imprenditoriali tedeschi la possibilità di ottenere investimenti in Sicilia, ma, di fatto, per avere un colloquio politico nella zona est della città con un prestigioso esponente filosovietico.
L’episodio, secondo gli autori, confermerebbe che Milazzo, che non poteva sapere, si sarebbe piegato alle inusitate scelte politiche del suo braccio destro, non per ideali autonomistici, ma per calcoli e ambizioni personali.
Peraltro, lo stesso episodio potrebbe essere interpretato in senso diametralmente opposto; esso potrebbe dimostrare, invece, l’incapacità politica del calatino di dominare la situazione, passata ormai sotto il controllo di altri e votata al raggiungimento di scopi a lui certamente estranei.
A prescindere dalle polemiche sull’idealismo o sull’arrivismo di Milazzo, gli autori si domandano nell’epilogo quale ruolo ebbe tale operazione nel condizionare i futuri sviluppi politici del Paese.
Certo quella collaborazione tra cattocomunisti che aveva fatto gridare allo scandalo e aveva addirittura provocato l’emanazione di un decreto del Sant’Uffizio, con cui si scomunicavano gli "eretici", divenne pochi anni dopo pratica corrente.
La divisione politica dei cattolici in partiti militanti in schieramenti ideologicamente contrastanti, dopo la caduta del muro di Berlino, venne accettata con grande serenità anche dal Vaticano senza produrre particolari preoccupazioni.
Fu Milazzo l’apripista di tali future alleanze conducenti al completo ribaltamento degli assetti politici nazionali?
"Il futuro potrà, poi, meglio dire quanto l’eresia milazziana abbia influito sull’evoluzione dei rapporti delle istituzioni politiche ed autonomistiche regionali con i poteri centrali. Certo è che oggi le forze politiche siciliane vivono in totale dipendenza dalle gerarchie romane, che hanno portato alle estreme conseguenze il tasso di personalizzazione del sistema e che nella dialettica tra le parti investono sempre più risorse finaziarie ed estetiche, ma nessun principio autentico" (p.204)
Gabriella Portalone
L. E. LONGO, L’attività degli addetti militari italiani all’estero fra le due guerre mondiali (1919-1939), Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico, Roma, 1999, pp. 1-763.
L’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito continua la pubblicazione di numerosi volumi di ricerca storica e archivistica che valorizzano i documenti presenti in quell’Archivio militare e soprattutto integrano le conoscenze che possono derivare dallo studio dei documenti militari con ricerche effettuate nell’Archivio Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri.
Il volume sugli addetti militari italiani all’estero fra le due guerre mondiali è un pregevole studio di ricerca storica e di sistemazione organica di un materiale archivistico suddiviso attualmente in vari Inventari, indubbiamente dettagliati, ma che non hanno avuto ancora il supporto di una catalogazione per soggetto. Questo è un punto di grande importanza per quanto riguarda soprattutto l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito: si tratta infatti di un archivio molto ricco di documentazione, non tutta studiata e soprattutto a volte di complessa consultazione, proprio per il sistema di archiviazione dei documenti e per le vicende belliche del secondo conflitto mondiale, che hanno reso frammentaria la pur amplissima consistenza della documentazione. Lo sforzo scientifico dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito è proprio quello di riorganizzare sistematicamente i documenti e allo stesso tempo renderli noti e studiarli a fondo, come importante complemento nello studio della storia delle relazioni internazionali. Nella maggior parte dei volumi che vengono pubblicati si rileva questo meritorio indirizzo dell’attività editoriale, che vuole coniugare ricerca storica e sistemazione organica.
Solo una parte ristretta e mentalmente chiusa dell’accademia universitaria, che non frequenta tali archivi, ritenendoli di scarso interesse storico, può con arroganza criticare l’impostazione scientifica di questi volumi, non conoscendo e non desiderando conoscere le realtà storiche da scoprire in questi validi archivi. Nello studio sistematico e scientifico di queste carte documentali, si tratta soprattutto di mettere in rilievo, rispetto a fonti già note, quanto di nuovo o di diverso si recepisce dalle relazioni d’epoca, nell’ottica della specificità tecnica del soggetto scrivente, ma rendendo altresì queste nozioni tecniche accessibili al comune lettore, senza peraltro l’aggravio di corpose bibliografie, ove già pubblicate, pur con il rigore scientifico della precisa indicazione della segnatura archivistica del documento studiato.
Il volume di Longo tratta appunto per la prima volta in forma organica, l’operato degli addetti militari italiani fra le due guerre mondiali. Infatti, nonostante la figura dell’addetto militare nelle rappresentanze diplomatiche all’estero sia stata istituita con Regio Decreto n. 6090 del 29 novembre 1870, una trattazione organica per paesi o per periodi storici non era stata ancora fatta: alcune ricerche sono state già pubblicate, sempre a cura dell’Ufficio Storico SME, ma hanno riguardato singoli personaggi o missioni particolari.
Durante la prima guerra mondiale e subito dopo la fine degli eventi bellici, molti ufficiali furono inviati all’estero con funzioni di collegamento presso gli alti comandi dell’Intesa e in seno alle varie strutture create nell’ambito della Conferenza della Pace e nelle missioni di controllo interalleato o di definizione di confini. E’ evidente che questi ufficiali non sono stati degli addetti militari, nel senso giuridico e funzionale dell’incarico, ma furono importanti per gli interessi italiani in alcune aree e fruirono spesso di maggiore libertà di movimento, rispetto al rappresentante diplomatico in loco, conseguendo spesso maggiori possibilità di cognizione di fatti. Le loro relazioni aggiungono molti dettagli che consentono di valutare meglio lo sviluppo e la definizione di alcuni accordi diplomatici di contenuto tecnico-militare o semplicemente diplomatico e sono anch’esse di notevole interesse nel quadro della valutazione generale dell’operato degli ufficiali italiani in missione all’estero.
E’ interessante anche conoscere la dipendenza gerarchica degli addetti militari, una volta raggiunta la sede all’estero: dal 1919 al 1921 dipesero dall’Ufficio Esteri del Reparto Operazioni del Comando Supremo, che divenne in seguito Stato Maggiore del Regio Esercito. Nel corso del 1921 la dipendenza fu attribuita definitivamente all’Ufficio Informazioni, sempre in ambito Stato Maggiore. Nel 1919 le sedi previste erano 8 principali e 15 secondarie. Successivamente le sedi furono variate e furono chiariti meglio i rapporti di dipendenza gerarchica e funzionale con i Capi Missione diplomatici. Nelle pagine introduttive Longo cura con approfondimenti la storia degli addetti militari, con numerosi riferimenti normativi e bibliografici, aggiungendo ulteriori dettagli agli studi in merito di A. Biagini e A. Giuffrida.
L’Autore ha fatto molte ricerche sia nell’Archivio dell’Ufficio Storico SME, sia presso l’Archivio Centrale dello Stato e l’Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri. Sono diciannove le nazioni europee, africane e asiatiche che sono state prese in considerazione: Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovacchia, Cina, Etiopia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Inghilterra, Jugoslavia, Polonia, Romania, Svizzera, Turchia, Ungheria, Urss. Precede l’analisi del lavoro svolto dal singolo addetto militare un inquadramento storico dello stato in cui l’ufficiale era accreditato, ovviamente per il periodo considerato 1919-1939. Alcuni documenti (sedici) sono riportati in originale negli allegati e in appendice è stato elaborato un quadro riepilogativo degli addetti accreditati presso le nazioni considerate e nel periodo in esame e lo specchio della presenza degli ufficiali italiani in qualità di addetti militari al 31.12.1939. Alcune cartine, schizzi e fotografie completano la documentazione del volume.
E’ evidente che i rapporti bilaterali italiani con i singoli paesi sono considerati, in questo contesto, attraverso le percezioni e il lavoro svolto da quegli ufficiali, che quasi sempre erano in stretta collaborazione con la Missione diplomatica. A volte diplomatici e militari divergevano nelle considerazioni globali, in quanto questi ultimi guardavano con un’ottica particolare le possibili risorse economiche e militari della nazione considerata: le divergenze di opinione servirono spesso a diversificare e approfondire le conoscenze e servono attualmente agli studiosi per una migliore valutazione critica degli avvenimenti osservati.
Come ha rilevato chi scrive nel volume relativo al Levante, Vicino e Medio oriente (v. qs. Rivista, n. 7, pp. 207-209), un elemento che emerge dallo studio dei rapporti degli addetti militari è la lucidità con la quale gli ufficiali riescono ad interpretare, nella maggioranza dei casi, gli avvenimenti politici nel paese di accreditamento. In particolare, nel periodo considerato, seguono con attenzione le correnti, più o meno occulte, del traffico di armi tra le varie nazioni, controllandone giacenze, consistenze, provenienze, destinazioni, eventuali intermediazioni, e "triangolazioni", implicazioni finanziarie. Molto spesso riportano impressioni, giudizi, valutazioni di circoli influenti, diplomatici e militari, stranieri rispetto ad alcune iniziative internazionali italiane, quali quelle in Africa Orientale, ad esempio. E’ stata questa una tradizione degli addetti militari il cercare analisi e valutazioni della politica italiana, anche in ambienti giornalistici: molto spesso la loro diligenza nel riportare commenti stampa (accludendo numerosissimi ritagli di giornali) e la loro intelligenza nel commentarli ha fatto vedere come, al di là di una storiografia nazionale d’epoca a senso unico, in realtà non in tutti i circoli i commenti sulle iniziative italiane erano ossessivamente denigratori. Già nel secolo precedente gli ufficiali italiani inviati quali osservatori al seguito della spedizione anglo-egiziana in Sudan, riportavano le impressioni e i giudizi di Lord Kitchener sulle imprese italiane in Abissinia e in Eritrea e quelli che erano stati incaricati di costruire una fabbrica d’armi a Fez fornivano interessanti notazioni sulla disposizione delle altre Potenze nei riguardi dell’Italia, che cercava il suo spazio nel "concerto europeo". L’interlocutore privilegiato, dal 1919 al 1939, e il più diretto fruitore dell’attività degli addetti militari fu il Servizio Informazioni, che era stato riorganizzato sempre nell’ambito del Comando Supremo, a due anni dalla fine della prima guerra mondiale e ristrutturato, dal 1925, in Servizio Informazioni Militari (S.I.M.). Dal loro osservatorio privilegiato gli addetti militari fornirono un buon contributo informativo, facendo quanto era nelle loro possibilità, anche se l’apparato militare italiano, soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali, a giudizio dell’A., era privo di una centrale d’intelligence degna di questo nome.
Molto spesso i rapporti degli ufficiali dimostrano una viva capacità di osservazione associata ad una non comune sensibilità percettiva nei confronti di situazioni e di ambienti complessi rilevando, di essi, elementi significativi e contrassegnati da una specifica valenza psicosociale: volentieri chi scrive si associa a questa valutazione di Longo. Lo studio accurato di quei documenti infatti fa risaltare la preparazione e l’accurato lavoro svolto dalla maggior parte degli ufficiali accreditati. E’ peraltro evidente che vi furono individui meglio preparati ed equipaggiati mentalmente ed altri che non riuscirono bene nella loro funzione, ma in complesso la funzione svolta dagli addetti militari merita veramente un’attenzione storiografica maggiore di quella che ha avuto finora. Il lavoro editoriale svolto dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito va in questa direzione e in questo senso validi studiosi e ricercatori collaborano con questo Ufficio, per presentare ad un pubblico di addetti ai lavori e di lettori interessati alle problematiche militari concreti risultati di approfondite ricerche.
Maria Gabriella Pasqualini
U. BALISTRERI, Pirriere e pirriatori nel Bagherese, ISSPE, Palermo, 2000, pp. 89.
In un momento storico in cui si sente sempre più parlare di new economy e di lavori legati all’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche sembra quasi provocatorio e anacronistico l’ultimo lavoro di Umberto Balistreri Pirriere e Pirriatori nel Bagherese edito dall’Istituto Siciliano Studi Economici e Politici.
In realtà quello che può sembrare un doveroso riconoscimento ad un settore lavorativo che sino a qualche anno fa muoveva l’economia di una striscia di costa della provincia di Palermo, si rivela ad un’osservazione più meditata un grande affresco etno-antropologico volto all’analisi di una sedimentazione culturale che ha eletto a modo di vita la resistenza, la semplicità, la crudezza che sono proprie della pietra d’Aspra e che metonimicamente si sono trasferite da essa ai suoi "pirriatori" e alle loro famiglie. "Le pietre della Sicilia sono la nostra storia" afferma non a caso Balistreri.
Quella dello studioso palermitano è un’indagine scrupolosa, arricchita con un essenziale corredo fotografico, di quella che è stata sino a qualche anno fa la realtà delle pirriere (le cave di pietra d’Aspra) e dei pirriatori. Balistreri si è servito non solo di sopralluoghi accurati ma anche delle testimonianze orali di vecchi pirriatori. Completano il corredo iconografico anche pregiate tavole di vari artisti che in qualche modo si sentono vicini alla realtà delle pirriere.
Ecco allora che la storia affascinante di questa pietra d’Aspra che per la sua peculiarità (resistenza all’azione del tempo perché si induriva al contatto con l’aria) ha dominato l’attività edilizia almeno sino alla diffusione capillare dell’uso del cemento armato.
Addirittura risale già al periodo greco la conoscenza e l’uso della pietra d’Aspra, come testimonierebbero i resti archeologici di Solunto, uso che venne continuato da altri popoli dominatori della Sicilia, particolarmente gli Arabi e i Normanni.
Anche in epoche più recenti la pietra d’Aspra è stata utilizzata per la costruzione di importanti e lussuose ville del bagherese e del palermitano ma anche del Teatro Massimo di Palermo.
Con l’utilizzo massiccio del cemento armato, lamenta Balistreri, la fiorente attività dell’estrazione della pietra d’Aspra e del suo indotto commerciale cominciarono a venire meno, facendo scomparire un mondo e una cultura che oggi può rivivere soltanto grazie al sapiente lavoro di chi come l’autore ama quel mondo e cerca di sottrarlo all’oblio della memoria, ma anche di quei poeti che hanno fatto vibrare le corde della loro musicalità guardando a quell’affascinante e un pò (ormai) esotico mondo delle Pirriere e che trovano ospitalità nell’appendice del libro di Umberto Balistreri.
Giovanni Taibi
S. CORSELLO, La politica tra natura e artificio. L’antropologia positiva di B. Spinoza, prefazione di Giuseppe Barbaccia, Palermo - São Paulo, Ila Palma, 1999, pp. 198.
Il volume di Sabrina Corsello - frutto di anni di ricerche e di studio iniziati a Pisa con un dottorato - fa parte della collana "Costellazioni" diretta da Giuseppe Barbaccia e Pietro Violante che occupa un posto di rilievo nel panorama delle Scienze politiche.
L’autrice è stata mossa dalla duplice esigenza, "interiore e scientifica", di approfondire il pensiero di Baruch Spinoza (1632 - 1677) per meglio comprendere l’uomo come "essere armonico e unitario"; l’antropologia, dunque, come punto di partenza dell’indagine filosofica. Affrontando lo studio della filosofia politica spinoziana, Corsello non può prescindere dalle premesse metafisiche poiché il filosofo olandese procede seguendo una linea speculativa che va dal problema della conoscenza a quello della morale. L’attenzione di Spinoza è costantemente rivolta alla comprensione della condotta umana tenendo in considerazione persino le stoltezze e i vizi umani. Comprendere tutto ciò significa liberarsi dalle passioni e conquistare la felicità. L’uomo è un dato della natura che ritrova nella sua potenza - concetto distinto da quello di potere - la causa naturale di tutti i suoi comportamenti. La natura ha posto l’uomo in modo da non potere eliminare il "patimento" ma vi sono tre vie per porre fine a tale sofferenza attraverso l’uso della ragione: la consapevolezza di aver compiuto il proprio dovere; il senso del limite della propria potenza che non poteva arrivare ad evitarli; la conoscenza dell’ordine della natura e la consapevolezza di esserne parte.
Corsello opera un’attenta comparazione del pensiero spinoziano con quello hobbesiano dimostrando l’autonomia del primo dal secondo. Rispetto al coevo Hobbes, il filosofo olandese non ha avuto la stessa diffusione forse per il difficile modo di esprimersi, forse per "l’apparente marginalità del tema politico" nelle sue opere. Entrambi i pensatori sono accomunati dal tema cardine della filosofia politica del XVII, lo stato di natura, che costituisce il punto di partenza del modello contrattualistico; ma essi si differenziano in tema di legge, di diritto, di forza, di alienazione dei diritti nel passaggio dallo stato di natura alla società civile. Essi affrontano gli stessi problemi ma muovono da prospettive antitetiche che li faranno approdare l’uno ad un’antropologia "negativa", l’altro ad un antropologia che l’autrice definisce "positiva" prendendo, in tal modo, le distanze da tutti gli studiosi che avevano definito pessimistica la visione spinoziana che aveva fatto della natura il dominio della logica dell’istinto, "dove il pesce più grande mangia il pesce più piccolo", e in questa naturalità della vita, non c’era nulla di ingiusto. L’autrice ritiene che, anche se emerge il carattere deterministico della natura che porta gli uomini alla sofferenza, tale caratteristica non esclude il valore positivo della antropologia di Spinoza "grazie al modo in cui essa supera e risolve il difficile rapporto tra ciò che dell’uomo può esser detto natura e ciò che di contro può esser detto artificio" (ivi, p. 17). E quando il filosofo olandese afferma che gli uomini in natura sono nemici non vuole dire che essi sono "necessariamente tali" per natura ma che lo sono "nella misura in cui possono essere soggetti unicamente alle passioni" (ivi, p. 105). L’antropologia non va interpretata in termini pessimistici poiché le passioni non si oppongono alla ragione ma, anzi, esse diventano indispensabili per la costituzione della ragione universale. Se per Spinoza il diritto di natura ha un carattere "regolativo e necessario", per Hobbes esso diventa "a-regolativo" definendone l’ambito di applicazione nella contingenza: "il diritto naturale spinoziano si afferma sulla base di una ragione insita nella natura, […], il diritto naturale hobbesiano si afferma al contrario sullo sfondo di una natura che è pur dotata di leggi sue proprie ma queste tuttavia non assumono alcun carattere regolativo" (ivi, p. 76).
Anche in tema di libertà i due filosofi sembrano divergere: per Hobbes la libertà è vista solo in termini negativi; per Spinoza lo Stato rafforza e accresce la libertà individuale affermando che l’uomo è più libero nello Stato che nella solitudine. Il fine dello Stato, osserva Corsello, non si risolve nel perseguimento della sicurezza e la vis coactiva viene giustificata solo per raggiungimento del vero fine: la libertà. Libertà individuale e sicurezza sociale sono elementi che, insieme, contribuiscono al potenziamento razionale della natura "ai fini della libertà e della conservazione individuale" (ivi, p. 126). Spinoza, dunque, precursore del pensiero liberale moderno e, anche per questo, collocabile agli antipodi di Hobbes.
La vera libertà spinoziana si identifica con la libertà "della mente" rispetto alla quale lo Stato non ha alcun potere. Ecco perché il filosofo olandese ridefinisce "l’assoluto" commisurandolo all’estensione del consenso. E la stessa libertà politica diventa così partecipazione consapevole all’esercizio del potere: ogni stato civile - monarchico, aristocratico o democratico - per durare nel tempo e costituirsi legittimamente deve essere "determinato dalla potenza della moltitudine, che in esso individua l’unica via per il conseguimento del bene comune" (ivi, p. 161). Ma l’unica vera forma di organizzazione sociale naturale è la democrazia poiché solo in essa la libertà trova la sua massima espressione e viene garantita l’uguaglianza. La democrazia, più di ogni altra forma di governo, realizza l’essenza della società politica poiché fa coincidere l’utile di chi detiene il potere con l’utile della maggioranza. Il potere sovrano, a differenza di Hobbes, non si contrappone alla totalità dei cittadini; il sommo potere non può mai sfuggire alla paura di essere contestato e rifiutato dai cittadini: l’uomo non si sottomette interamente alla volontà altrui poiché non è disposto a far cessare la sua facoltà di giudicare e di pensare. L’assolutismo spinoziano, pertanto, non è inteso come ab-solutus ma va interpretato in positivo: "in base all’estensione dell’esercizio concreto del potere e non in senso negativo dall’assenza di impedimenti" (ivi, p. 179). L’autrice sottolinea come l’insopprimibile tendenza naturale alla vita razionale trova compimento solo all’interno di uno Stato che assicura il libero esercizio delle funzioni umane.
Dal lavoro di Corsello emerge che la filosofia politica spinoziana si propone come antropologia politica "come uno dei modi […] in cui il rapporto tra morale e politica può pensarsi positivamente" (ivi, p. 21). E tale studio è affrontato considerando lo stretto rapporto tra diritto naturale e potenza, e la distinzione tra potenza e potere. L’elaborazione teorica di Spinoza viene così rivalutata come possibilità alternativa di concepire il rapporto tra il singolo e la politica. In questa dimensione - e in ciò si coglie uno degli aspetti ancora oggi validi - il compito dello Stato diventa non solo quello di proteggere e assistere l’uomo ma anche di creare le condizioni di una promozione individuale.
Il merito di Sabrina Corsello, pertanto, non è solo quello di far parte di quella schiera di studiosi che hanno reso giustizia al pensiero spinoziano ma, soprattutto, di averne ricostruito, organicamente e analiticamente, il pensiero politico partendo dai suoi fondamenti ontologici rivendicando l’autonomia del suo pensiero dal contemporaneo Hobbes.
Claudia Giurintano
F. Lo Jacono Battaglia, Solunto, Bagheria 2000.
Da una consapevole ed orgogliosa condizione di storico-locale - che per lui non è stata mai riduttiva - di storico puntiglioso, tenace, Francesco Lo Jacono Battaglia ha condotto un'esemplare operazione di ricognizione e di rilettura del passato soluntino attingendo attentamente e criticamente alle fonti classiche - che, in parte, ripropone in appendice - ma anche a Paolo Diacono, Tommaso Fazello, Vincenzo Mortilllaro, Gregorio Ugdulena, Antonio Salinas, Luigi Pareti, M. Finley, Biagio Pace, Vincenzo Tusa. Ricognizione e rilettura che si ammantano, però, di una significativa originalità e di un indubbio acume interpretativo, specialmente quando illustra l'itinerario religioso soluntino: dai primitivi culti, alla promiscuità etnico-religiosa dei più antichi popoli stanziatisi nel territorio, ai miti di Ercole e del gigante Solunto, al trionfo del Cristianesimo. E con un'accurata descrizione degli edifici sacri, del tobhet con i Betili, della necropoli.
Tale analisi del sacro, viene affrontata metodicamente, seguendo un procedimento rigoroso, che analizza il comportamento dello uomo religioso dell'antichità. Lo Jacono, perciò, si riferisce brevemente, ma incisivamente, all'homo symbolicus e all'homo religiosus. Il primo considerato nei suoi rituali, nel suo linguaggio, nei suoi miti, l'uomo, per dirla con Mircea Eliade, con le sue "ierofanie", cioé con le realtà che permettono la manifestazione visibile della trascendenza, l'altro nella certezza dell'esistenza di una realtà che supera questo mondo.
E sul doppio binario dell'historia loci particolareggiata, ricca di riferimenti completi, e della storia "mediterranea" soprattutto quando si riferisce alla vicenda dell'imperium romano, Lo Jacono Battaglia costruisce con un'avvincente dettato narrativo, pagina dopo pagina, un validissimo progetto storiografico che consente al lettore di avere anche un preciso quadro sinottico degli avvenimenti. Il tutto con un linguaggio scarno, sobrio, senza sbavature, non paludato, e però coinvolgente ed appassionante. Lo Jacono Battaglia non proviene dalla cultura accademica, cattedratica, da una cultura canonizzata, istituzionalizzata o, peggio ancora, da quella etichettata, funzionalizzata, ma dalla cultura militante e da una storiografica volta a "destare idee-forza", a ristabilire anche una una continuità rispetto agli ideali, ai simboli e alle vocazioni di una più alta umanità. E per questo la sua "piccola storia" è calata nella realtà, nella tradizione socio-culturale, nella rappresentata storica di una comunità e di un territorio, nel quale l'Autore è profondamente radicato e per la cui promozione culturale ha lungamente e positivamente operato.
L'epopea di Solunto - la greca Soloeis, la romana Soluntum - fondata dai Fenici che ne fecero un importante emporio, viene analizzata, nel suo svolgersi: dall'avversione alla prepotenza ed allo espansionismo greco all'egemonia di Cartagine, che esercita un ruolo attivo nei confronti di Solunto, che diventa caposaldo dell'"epigrazia" punica, alla devastante conquista romana, con il pesante carico di vessazioni e corruttele della gestione verrina e con la conseguente perdita dell'identità politica e la trasformazione in città "decumana", con la fine dell'autonomia politico-amministrativa goduta con i cartaginesi, quando Solunto fu città-stato, svincolata, pertanto, da controlli da parte della città egemone, ai cui indirizzi si uniformava soltanto in materia di politica estera e di difesa. Particolarmente valide le puntualizzazioni sulla zecca soluntina, sulla circolazione monetaria dal pericolo fenicio-punico sino a quello romano, sulla Solunto arcaica, sulla Solunto "tucididiana". Lo Jacono in merito avanza l'ipotesi della stretta dipendenza fra la prima, la Solunto arcaica, e gli insediamenti di Monte Porcara, veri e propri villaggi fortificati.
L'Autore, poi, contesta con una lucida analisi la tesi dell'abbandono della città all'inizio del III secolo, che essa rimane ancora attiva ben oltre ed è più appropriato semmai riferirsi ad un lento spopolamento verificatosi nel corso di alcuni secoli, considerato anche che è Paolo Diacono a riferire della sua distruzione da parte degli Arabi.
Un'attenta disamina concerne l'attività economica, in testa agricoltura e pesca, doppia vocazione nel territorio che Lo Jacono Battaglia riconduce alla diversa composizione etnica degli abitanti dell'antica Solunto: i Sicano-Elimi pastori e contadini, i Fenicio-Punici marinai, commercianti e pescatori, dualità tramandatasi sino ad oggi. Le attività legate alla pesca, poi, e centinaia di anfore recuperate lungo la costa e di fronte a Porticello, alle Formiche, vero e proprio cimitero di navi onerarie, ricordano le conserve ittiche, tra cui il ta rixos, pesce salato - allora, come oggi, l'attività conserviera era importante - salse di pesce, di tonno e di pasce spada - come il ga rum, di origine fenicia - che venivano largamente commercializzate.
Singolare il ritrovamento di ami, fiocine, aghi per tessere le reti, molto simili a quelli in uso ancora presso i pescatori di Porticello e S. Elia. Attività, queste che caratterizzano l'attività di buona parte della comunità flavese o, se si preferisce, "soluntina".
Una storia, dunque, che si legge d'un fiato, pervasa dal senso vasto e profondo della comunità e che si affida all'attenzione del lettore nella convinzione che esso possa ritrovare nell'insegnamento della "piccola storia" tracciata da Francesco Lo Jacono Battaglia stimoli per riscoprire le vicende e le tradizioni dei propri padri.
Umberto Balistreri
Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana
Il movimento associazionistico salemitano trova nelle "maestranze" la sua radice storica. L’arco di tempo che va dall’indomani dell’Unità d’Italia al 1910 vide una splendida fioritura di società di mutuo soccorso, circoli culturali, associazioni contadine e la nascita nella cittadina trapanese della prima Banca Popolare Cooperativa e di Piccoli Prestiti, nonché della Cassa Agraria Cooperativa Aliciana poi Cassa Rurale ed Artigiana. Dalla lettura di giornali dell’Ottocento e dalla tradizione orale è possibile venire a conoscenza dell’effettiva esistenza a Salemi di sodalizi i cui statuti sono andati dispersi menomando in tal modo una conoscenza ancora più completa del movimento associazionistico salemitano.
Le associazioni venivano fondate per fini esclusivamente mutualistici in modo da elevare le condizioni economiche e morali delle classi lavoratrici. Esse proliferarono nei centri urbani con interessante rapidità tanto da impensierire severamente i governi dell’epoca.
L’esistenza di talune associazioni di cui non ho trovato gli statuti è comprovata, comunque, da articoli ricavati da alcuni giornali del tempo come L’Esule, di Trapani riportante la notizia della nascita a Salemi il 27 dicembre 1891 della Società Democratica(1), di chiara ispirazione mazziniana, alla cui inaugurazione parteciparono i circoli Buoni Amici e Favara di Salemi. Dalla rivista trapanese Il Mare (già L’Esule) ho tratto la notizia della nascita a Salemi il 10 dicembre 1892 del sodalizio del Fascio dei lavoratori(2) preceduta e seguita dalla costituzione di uguali sodalizi in tutta la Sicilia. La speranza socialista della conquista della campagna ad opera dei contadini andò delusa quando il 3 gennaio 1894 il generale Manra a Palermo decretò dopo i disordini verificatisi in tutta la Sicilia, lo stato d’assedio. I Fasci dei lavoratori vennero sciolti per legge e fu disposto l’arresto dei membri del comitato centrale ritenuti responsabili dei disordini avvenuti nell’isola(3). Uguale sorte toccò al medico Alessandro Catania, presidente del Fascio dei Lavoratori di Salemi, il quale venne tratto in arresto per i disordini verificatisi a Salemi la sera del 31 dicembre 1893 e quella successiva quando la popolazione diede alle fiamme i "Casotti del Dazio" nonché il Casino dei Civili manifestando contro il sindaco e la giunta municipale(4).
Il dottore Alessandro Catania, autore del romanzo a sfondo autobiografico Gli Illusi, venne condannato dal Tribunale Militare di Guerra in Trapani il cui disposto originale della sentenza è conservato presso l’Archivio di Stato di Trapani(5). Lo statuto del Fascio dei lavoratori di Salemi, è andato disperso così come quello antecedente della Società Operaia fondata da Alberto Maria Mistretta nel 1866(6). Il presente studio si avvale, in compenso, dell’analisi di altri statuti esistenti nella Biblioteca Comunale di Salemi, nella "Fardelliana" di Trapani nonché nella Biblioteca Regionale di Palermo.
Abolite le Maestranze ad esse si sostituirono le congregazioni religiose come quella di S. Eligio, fondata in Salemi nel 1885, il cui scopo precipuo era quello di contribuire alla crescita morale dei congregati secondo i principi cristiani(7). All’interno di tale congregazione, della quale potevano far parte unicamente i fabbri ferrai e gli stagnini, non tutti i soci godevano di uguali diritti distinguendosi, a tal proposito, tra fratelli fondatori, iscrittisi entro il 31 marzo dell’anno di fondazione, e semplici benefattori i quali, pur godendo dei vantaggi dei congregati, "sono privi di voce attiva e passiva"(8). L’ordinamento interno si regge su un’articolata organizzazione gerarchica al cui vertice si trova il Superiore coadiuvato da un Direttore Spirituale da lui stesso scelto(9). Scendendo verso la base di questa piramide troviamo due assistenti, il primo dei quali svolge la mansione di cassiere mentre, uno dopo l’altro, faranno le veci del Superiore in caso di impedimento di quest’ultimo(10).
Le decisioni di maggiore o minore importanza, comunque, sono prese dalla consulta, un organo a composizione piuttosto ristretta della quale fanno parte quattro consultori, i due assistenti nonché il maestro dei novizi(11). Si evince dallo statuto che non viene espressamente previsto l’organo assembleare, ma si ordina che la congregazione decida sull’ammissione dei soci benefattori e questo senza specificare cosa debba intendersi con congregazione, dovendosi forse interpretare come la riunione di tutti indistintamente i congregati(12).
Se ispirarsi ai veri principi democratici all’interno di un’associazione significa rimettere all’assemblea la decisione sulle questioni di maggiore rilevanza, si arguisce come all’interno della Congregazione di S. Eligio domini uno spirito accentratore.
L’ordinamento interno della Società Operaria di Mutuo Soccorso, fondata a Salemi nel 1879 è, invece, imperniato sulla centralità dell’assemblea generale dei soci, organo a cui è affidato il potere decisionale, esprimendo in tal modo una sincera aspirazione alla democrazia. Nello statuto della Società Operaia del 1879 è ampiamente disciplinato l’istituto assembleare come, d’altronde, nello statuto della Società Operaia di Mutuo Soccorso del 1883 ed infine come nello statuto della Società Operaia del 1888 sotto titolata, imitando la precedente, "Lavoro e Fratellanza".
È da rilevare che la costituzione della Società Operaia di Mutuo Soccorso "Lavoro e Fratellanza" del 1883 fu curata dal barone Domenico Villaragut insigne filantropo, abilissimo artista del legno, nonché compositore. Le notizie riguardanti la figura del barone Domenico Villaragut, morto nel novembre del 1923(13), sono state raccolte attraverso fonti orali riportatemi dal nipote barone Domenico Villaragut.
Nei primi tre statuti menzionati è possibile cogliere non solo analogie chiare e inequivocabili ma anche differenze formali e sostanziali della disciplina dell’assemblea essendo stati redatti in anni e, immagino, circostanze diverse. In tutti e tre gli statuti l’assemblea è definita come la riunione di tutti i componenti la società, tuttavia, in quello del 1879 e in quello del 1888 è specificato che all’assemblea possono partecipare soltanto i soci effettivi rimanendo esclusi, in tal modo, i soci onorari e quelli benemeriti(14). Nello statuto del 1888 è, inoltre, espressamente affermato che nell’assemblea risieda il potere supremo(15) a testimonianza della sua centralità. L’assemblea, nello statuto della Società Operaia del 1879, elegge a maggioranza assoluta un consiglio direttivo(16) cui compete l’esecuzione delle delibere assembleari e la gestione societaria nonché l’elezione, sempre a maggioranza assoluta, di una commissione di pacieri o giurati(17) che si compone di quattro membri(18). Del consiglio direttivo fanno parte il presidente, due vice presidenti, un segretario, due vice segretari, un amministratore e 12 consiglieri i quali, come i membri della commissione dei pacieri, durano in carica un anno, sono rieleggibili e prestano la loro opera gratuitamente(19). Mentre nello statuto del 1879 e in quello del 1888 l’assemblea elegge gli ufficiali societari riunendosi in seduta straordinaria(20) nello statuto del 1883 il rinnovo delle cariche sociali avviene in seduta ordinaria(21). L’assemblea elegge, secondo quanto disposto dallo statuto della Società Operaia del 1879, il presidente la cui scelta può ricadere oltre che sui soci effettivi anche tra quelli onorari e benemeriti(22). Diversamente da quanto prima, lo statuto della Società Operaia del 1883 dispone che l’assemblea elegga il presidente tra persone estranee al sodalizio ma idonee all’ufficio(23), mentre lo statuto del 1888 stabilisce che il presidente può essere scelto "fra persone che non sono operai ma che appartengano alla Società"(24). Per la validità delle sedute assembleari nello statuto del 1879 non è richiesto un quorum particolare essendo le stesse legali qualunque sia il numero degli intervenuti(25) mentre nello statuto del 1883, per la validità delle sedute in prima convocazione, è richiesta la presenza della metà più uno dei soci; in seconda convocazione qualunque numero di presenti è sufficiente per la legalità delle riunioni assembleari(26). A norma dello statuto della Società Operaia del 1888 le riunioni sono rese valide dalla presenza in prima convocazione della metà più uno dei soci mentre si discute e si delibera soltanto sulle questioni iscritte all’ordine del giorno(27). Tale norma statutaria, già rintracciabile nello statuto della Società Operaia del 1879, aveva il fine di regolamentare e ordinare i lavori assembleari che altrimenti si sarebbero svolti in maniera caotica e dispersiva(28). Secondo quanto disposto dalla normativa statutaria del 1879(29), a cui si ispireranno i due successivi statuti, l’assemblea è chiamata a deliberare sull’ammissione dei soci a scrutinio segreto.
Il ricorso alla votazione per scrutinio segreto è un sistema ancor oggi accolto nella disciplina normativa di ordinamenti di qualsiasi livello al fine di garantire il voto individuale da ingerenze e condizionamenti esogeni. L’assemblea, secondo gli statuti delle società operaie di mutuo soccorso, gode anche di importanti attribuzione economico-finanziario e, infatti, ha il potere di deliberare sul bilancio di previsione e i conti consuntivi predisposti da altri organi di amministrazione interna. Il bilancio di previsione e il conto consuntivo sono, come si è potuto rilevare, istituti di origine remota i quali, attraverso un lungo processo evolutivo, sono pervenuti ai nostri giorni non senza quelle modifiche intervenute necessariamente per adeguare questi istituti a esigenze del tempo. Ritornando all’organo assembleare, un’altra norma dello statuto del 1879 che desta interesse è quella secondo cui tutti i soci, senza distinzione tra effettivi, onorari e benemeriti, possono partecipare alle adunanze assembleari ma hanno diritto al voto soltanto i soci effettivi che hanno raggiunto il 18° anno di età(30).
Quest’ultima disposizione la incontriamo anche nello statuto della Società Operaia del 1883 in cui si legge ancora "che non possono pigliare parte alle discussioni, né votare i soci che siano in mora di 2 pagamenti mensili"(31). Tale regola ha una chiara natura disciplinare nonostante sia posta in quel titolo dello statuto dedicato in via primaria all’assemblea e sue funzioni. Sempre a proposito dell’assemblea, è disposto che le sedute siano pubbliche e l’accesso alla sala delle adunanze avvenga previa presentazione da parte dei soci dei rispettivi libretti di iscrizione(32). Nello statuto della Società Operaia del 1888 ricorrono norme simili, a proposito di quanto precedentemente detto, cioè che alle adunanze assembleari tutti i soci possano partecipare alle discussioni rimanendo esclusi dal diritto di voto soltanto quelli che non abbiano pagato la retta da tre mesi(33).
Null’altro essendo disposto circa l’estensione e i limiti del diritto a partecipare alle discussioni assembleari e conseguenti deliberazioni, si può affermare che i soci al di sotto della maggiore età godano dei diritti sopra citati diversamente da quanto disposto nei precedenti statuti. L’assemblea ricorre allo scrutinio segreto in occasione di votazioni riguardanti persone il che fa presupporre il ricorso ad altri metodi di votazione quando è chiamata a deliberare su argomenti di altra natura. A tal proposito il regolamento della Società Operaia di Mutuo Soccorso del 1888 dispone che le votazioni possano avvenire non solo per scrutinio segreto ma anche per alzata e seduta nonchè per appello nominale(34). Ancora oggi tali metodi di votazione sono adottati riconoscendosi, talvolta, l’inutilità del ricorso allo scrutinio segreto, per affari di minore importanza o, comunque, non concernenti il rinnovo delle cariche sociali nonché l’ammissione o l’espulsione dei soci.
Si ricorre allo scrutinio segreto, sempre secondo il regolamento precedentemente citato, per l’approvazione dei bilanci nonché quando deve ricorrersi a modifiche statutarie(35). A tal proposito lo statuto della Società Operaia del 1879 dispone che, qualunque modifica dello stesso, potrà intervenire "dopo un anno dalla sua approvazione"(36) per garantire in tal modo l’operatività dello statuto in uno spazio di tempo minimo. La modifica statutaria sarà proposta dal Consiglio o dai venti soci e su questa l’assemblea sarà invitata a deliberare con l’intervento dei due terzi dei soci e ad approvare con i due terzi dei votanti(37). Diversamente, lo statuto della Società Operaia del 1883 dispone che la proposta di modifica statutaria intervenga dopo un anno dalla sua approvazione ma su iniziativa di trenta soci e senza che eguale facoltà sia concessa al consiglio(38). Quanto disposto dallo statuto del 1883 in materia di modifica dello stesso lo ritroviamo nella Società Operaia del 1888 il cui ordinamento estende la facoltà di proporre modifiche statutarie al Consiglio e prevede che le stesse siano approvate con il voto dei due terzi dei presenti(39). La norma che prevede la maggioranza qualificata dei due terzi dei voti per approvare le modifiche statutarie mira indubbiamente a garantire lo statuto societario da maggioranze occasionali. Il ricorso ad una maggioranza qualificata nonché la norma secondo cui è possibile procedere a modifiche dello statuto non prima di un anno dalla sua entrata in vigore dimostrano il chiaro intento dei redattori di ispirarsi al principio della rigidità dello stesso accolto anche dalla Costituzione Repubblicana del 1948.
Abbiamo sino ad ora analizzato gli statuti delle società operaie di mutuo soccorso i cui iscritti sono operai ed artigiani e il cui grido di protesta, riecheggiante in tutta Europa, rivendicava condizioni di vita migliori e un ampio riconoscimento dei diritti civili e politici. All’indomani dell’Unità d’Italia solo il due per cento della popolazione sul territorio nazionale ha diritto di voto su base censitaria(40).
Soltanto nel 1882 il suffragio elettorale viene allargato con la riforma introdotta da Depretis e cresce, pertanto, l’interesse di una certa classe dirigente verso gli operai elettori. Nel 1891, intanto, sorge a Salemi la prima Associazione degli Agricoltori il cui scopo sociale consisteva nel miglioramento delle condizioni materiali e morali degli associati(41) secondo quanto previsto, in via generale, da tutte le società operaie di mutuo soccorso. Il movimento operaio precede in Europa come in Italia quello dei contadini sensibilizzati ai problemi sociali con un certo ritardo a causa di una scarsa informazione la quale con particolare difficoltà riusciva a penetrare nelle sperdute campagne. Una immatura sensibilizzazione ai problemi sociali, unita ad una scarsa forza di coesione posticiparono la nascita delle associazioni contadine rispetto a quelle operaie. A questa che possiamo considerare, in linea di principio, una regola non sfuggì nemmeno la cittadina di Salemi in cui la prima Associazione degli Agricoltori nasce soltanto verso la fine del secolo scorso. L’ordinamento interno di tale sodalizio s’ispirò apertamente ai principi del vivere secondo democrazia imitando in tal modo le Società Operaie di Mutuo Soccorso.
Un’innovazione in senso assoluto, comunque, è l’istituzione di una "Cassa di anticipazione" con il compito di effettuare prestiti a favore dei soci per l’acquisto di sementi, di attrezzi agricoli e bestiame(42). La qualità di socio è connessa con quella di azionista e, pertanto, sono soci coloro i quali avranno sottoscritto almeno un’azione il cui importo è pari a lire 25(43). L’ammissione dei soci, diversamente da quanto disposto dalle Società Operaie di Mutuo Soccorso, è deliberata dal consiglio di amministrazione(44) il cui presidente ha il compito di presiedere, tra l’altro, l’assemblea dei soci chiamata a deliberare sugli affari ad essa attribuiti(45). La circostanza per la quale l’ammissione dei soci non è deliberata dall’assemblea non deve indurci a credere che la stessa sia priva di reali poteri, quantunque, questa e ulteriori competenze vengano attribuite al consiglio di amministrazione in via esclusiva. Come per le società operaie di mutuo soccorso, l’ordinamento interno dell’Associazione degli Agricoltori attribuisce all’assemblea il potere di approvare i bilanci all’uopo predisposti dal consiglio di amministrazione(46).
Spetta ancora all’assemblea il compito di stabilire un’indennità a favore di non più di tre soci i quali, all’interno del consiglio di amministrazione, svolgono particolari mansioni(47). E’ regola generale che le funzioni dei membri del consiglio siano svolte gratuitamente. La norma prima citata rappresenta una deroga a un principio accolto negli statuti delle Società Operaie.
L’assemblea dell’Associazione degli Agricoltori deliberava a maggioranza assoluta dei presenti(48), salvo quanto disposto circa lo scioglimento del sodalizio per il quale era necessario l’unanimità dei voti(49). Un altro punto meritevole d’attenzione riguarda i metodi di votazione previsti ovvero l’appello nominale e lo scrutinio segreto. Dalla lettura dello statuto emerge che il metodo di votazione usuale è quello per scrutinio segreto, tuttavia, è possibile procedere per appello nominale qualora venti soci ne facciano espressamente richiesta, salvo restando il ricorso al primo metodo "quando si tratta di persone"(50). Da quanto detto possiamo affermare con certezza che nell’assemblea, sia delle società operaie sia dell’Associazione degli Agricoltori, risiede il potere di determinare la politica societaria mentre al consiglio d’amministrazione o direttivo è attribuito il compito, in linea di massima, di portare ad esecuzione le delibere assembleari.
La divisione di competenza fra i due organi è piuttosto rigida mancando occasioni di collegamento se non in circostanze ben definite come, ad esempio, la predisposizione dei bilanci da parte del consiglio su cui l’assemblea è chiamato a deliberare.
Ritornando alla storia del movimento associazionistico a Salemi si ricorda la nascita di due circoli e cioè il "Nuovo Circolo" nel 1894 dalle "ceneri" del "Casino Buoni Amici" e per iniziativa del barone Domenico Villaragut e il circolo "L’Avvenire" nel 1910. Il "Nuovo Circolo", diversamente da quanto si prefiggevano le società operaie e l’Associazione degli Agricoltori, si disinteressava del miglioramento materiale degli iscritti rivolgendo la sua attenzione, in particolar modo, "all’affratellamento della classe colta"(51). La crescita culturale e morale degli associati era anche il fine del circolo "L’Avvenire" i cui soci effettivi, onorari, temporanei e studenti erano invitati a intrattenersi "in conversazioni utili e morali"(52).
Nello Statuto del "Nuovo Circolo" costituiscono le assemblee i soli soci effettivi al corrente dei pagamenti per contributo mensile e tassa giuochi(53).
Analogamente nello statuto del circolo "L’Avvenire", l’assemblea è composta unicamente dai soci effettivi(54) la cui maggioranza assoluta, in adunanza, conferisce validità alla stessa(55). Per entrambi i circoli le assemblee generali dei soci sono convocate dal presidente che le presiede tramite invito ai soci spedito a domicilio otto giorni prima(56), mentre le deliberazioni assembleari vengono prese a maggioranza assoluta dei presenti(57) accogliendo, in tal modo, un principio comune alle società operaie di mutuo soccorso. Lo statuto del "Nuovo Circolo" prevede, inoltre, che l’avviso di convocazione in favore dei soci possa essere affisso nelle sale del circolo(58). E’ competenza delle assemblee dei due circoli l’approvazione sia del bilancio di previsione sia del rendiconto generale(59). Gli statuti dei due sodalizi, tuttavia, contengono disposizioni diverse in merito alla possibilità degli stessi di essere sottoposti a modifica: qualunque modificazione allo statuto del "Nuovo Circolo" è deliberata da non meno dei due terzi dei soci presenti aventi diritto al voto(60) mentre per la modifica dello statuto del circolo "L’Avvenire" è richiesta semplicemente la maggioranza assoluta dei presenti(61). Il secondo statuto, pertanto, sembra ispirarsi al principio della "flessibilità" non essendo richiesta per la sua modifica alcuna maggioranza qualificata come, invece, disciplinato nell’ordinamento della Società Operaia del 1888(62). Suscita particolare interesse la disposizione contenuta nello statuto del circolo "L’Avvenire" secondo la quale qualsiasi socio ha facoltà di sindacare l’operato dell’amministrazione attraverso una domanda rivolta per iscritto al presidente e nella quale si chiede che "l’affare sia sottomesso alla deliberazione dell’assemblea"(63). La novità della norma consiste nel fatto che attraverso la stessa è stato possibile istituire uno strumento ispettivo azionabile dal singolo socio nonostante che, per la sua stessa ammissibilità, la domanda deve "essere firmata dal reclamante e da un quinto dei soci effettivi"(64). Questo nuovo istituto sembra intaccare il principio della rigida separazione delle competenze, già caro ai sodalizi post-unitari, immaginando un nuovo modo di procedere nello svolgimento dei rapporti tra assemblea, da una parte, e direttivo, dall’altra. La crescita e il proliferare di varie associazioni ha contribuito, attraverso un processo lento e difficile, alla nascita di istituzioni "veramente" democratiche sul piano nazionale.
Lo Statuto Albertino del 1848 aveva concesso la libertà di riunione e di associazione permettendo, in tal modo, il diffondersi delle società operaie, prima nel Regno di Sardegna e poi nel resto d’Italia(65).
La fondazione nel 1860 della prima Banca Popolare Cooperativa a Lodi a opera del Luzzati(66) fu un esempio seguito nella cittadina di Salemi dove nel 1908 venne istituita una Banca Popolare Cooperativa e di Piccoli Prestiti(67). Una prima società cooperativa, a dire il vero, era già sorta in Salemi nel 1891 e andava sotto il nome di Associazione degli Agricoltori di Salemi munita di una "Cassa di Anticipazione" per effettuare prestiti a favore esclusivamente dei soci(68).
La Banca Popolare Cooperativa del 1908 concede prestiti anche ai non soci entro limiti definiti da un apposito regolamento interno(69), ha la forma di una società per azioni e la qualità di socio è connessa al possesso di un’azione del valore di lire venti(70). Nonostante il C.d.A. eletto dall’assemblea e composto dal presidente coadiuvato da otto consiglieri(71) abbia importanti attribuzioni, tra cui quella di decidere sull’ammissione o meno degli aspiranti soci(72), la centralità dell’organo assembleare non è messa in discussione. Una separazione piuttosto rigida di competenze fra organi, cui si ispirava l’ordinamento interno, non precludeva all’assemblea la facoltà di far valere le eventuali responsabilità del consiglio sia al momento del rinnovo delle cariche sociali sia in occasione delle "deliberazioni riguardanti la loro responsabilità"(73). L’istituto della mozione, quale strumento ispettivo e di controllo azionabile collegialmente, era ancora sconosciuto del tutto alle assemblee come, d’altronde, lo era ai primi regimi parlamentari. Le assemblee vengono convocate in via ordinaria o straordinaria secondo una prassi ormai consolidata e, quindi, l’unica novità da rilevare è che i sindaci della Banca Popolare Cooperativa, i quali vegliano sulla rigida osservanza dello statuto, dei regolamenti nonché delle deliberazioni sociali, hanno il potere di convocare l’assemblea in via straordinaria(74). Per l’approvazione delle proposte all’ordine del giorno l’assemblea deliberava a maggioranza assoluta dei presenti secondo un principio caro alle società operaie, mentre si ricorreva allo scrutinio segreto qualora, trattandosi di persone, almeno venti soci lo richiedessero(75). Sia l’Associazione degli Agricoltori, sia la Banca Popolare Cooperativa, essendo delle vere e proprie società per azioni, prevedevano che, in caso di scioglimento, l’assemblea determinasse le procedure di liquidazione e nominasse, a tal fine, i liquidatori. Lo scioglimento dell’Associazione degli Agricoltori, tuttavia, andava decretato all’unanimità dei voti(76) mentre per la Banca Popolare Cooperativa, era sufficiente la maggioranza dei tre quarti dei presenti in un’assemblea convocata espressamente a tal fine e alla quale fossero intervenuti almeno la metà dei soci(77). L’inosservanza delle norme statutarie provocava, come diretta conseguenza, l’applicazione di sanzioni disciplinari e pecuniarie a carico dei soci trasgressori. Abolite le maestranze a esse si sostituirono, come abbiamo già detto, le congregazioni religiose e a Salemi venne fondata nel 1885 la Congregazione di S. Eligio. Lo spirito sentitamente religioso della congregazione emerge dalla normativa regolamentare imperniata su un rigido principio di cristiana carità e santificazione dell’anima; tanto è vero che il "non essersi per tre volte confessato" o "l’ostinata bestemmia" sono considerate cause di espulsione(78). La pena dell’espulsione è, tuttavia, comminata anche nei confronti di chi continuamente viola i regolamenti o non interviene immotivatamente alle riunioni(79). Una sanzione ben più mite, affibbiata a coloro che non intervengono agli accompagnamenti funebri senza alcun valido motivo, consiste nel pagamento della multa di una lira che andrà "a beneficio comune"(80). E’ chiaro che la sanzione più severa nei confronti dei trasgressori è costituita dall’espulsione la quale significa la perdita dei diritti e dei vantaggi goduti nella qualità di congregati. Essendo la moralità un requisito essenziale che dovevano possedere, indistintamente, tutti i congregati, una condanna per "omicidio", "furto" o "disonestà" costituiva una ragione per decretare l’espulsione del congregato autore di un crimine così grave. L’espulsione era prevista, inoltre, a danno di quei congregati i quali, con la loro indecorosa condotta avevano attentato al buon nome e all’immagine della congregazione di cui erano membri. La continua "ubriachezza", "il pubblico scandalo" nonché la "pubblica discordia", motivavano l’espulsione del congregato reo(81). Non era di certo ammissibile che un’associazione di ispirazione profondamente religiosa potesse tollerare il comportamento immorale dei suoi membri senza entrare in contraddizione con lo spirito che l’animava e con gli scopi perseguiti. La perdita di tutti i diritti può derivare, inoltre, dal mancato pagamento delle somme di cui i congregati siano debitori nei confronti della loro congregazione(82). Un’analoga disposizione è contenuta nello statuto della Società Operaia del 1879 a norma del quale i soci i quali si trovano da tre mensilità in ritardo col pagamento dei contributi mensili e non si siano messi in regola, nonostante l’avvertimento del consigliere, cesseranno di far parte del sodalizio, previa deliberazione assembleare e con conseguente perdita di tutti i diritti precedentemente goduti(83). Nello statuto della Società Operaia del 1883 nonché in quello del 1888, nonostante sia disciplinata l’espulsione dei soci in ritardo di sei mesi con la contribuzione mensile, tuttavia, non è previsto il ricorso all’assemblea per deliberare l’espulsione del socio moroso(84). L’espulsione, a norma dello statuto della Società Operaia del 1879, può essere decretata dall’assemblea anche nei confronti di quei soci che abbiano commesso qualche crimine o che, a causa della loro condotta, abbiano attentato al "buon costume"(85). Nello statuto della Società Operaia del 1883 è prevista, analogamente, l’espulsione nei confronti dei soci che abbiano commesso un qualsiasi crimine o, con la loro condotta biasimevole, abbiano attentato al "decoro della società"(86). Disposizioni sostanzialmente affini, a tal proposito, sono contenute nello statuto della Società Operaia del 1888 nel quale è espressamente disciplinata l’espulsione di quei soci condannati a pene criminali o correzionali(87). Indubbiamente l’espulsione è la pena più grave che possa essere inflitta in quanto determina la perdita di tutti i diritti acquisiti precedentemente e preclude la possibilità di essere riammessi. Il ricorso all’espulsione, a norma dello statuto della Società Operaia del 1879, è previsto anche nel caso in cui un socio infrange le disposizioni statutarie o, addirittura, tenti di "far sciogliere" il sodalizio di cui è membro(88).
Norma similare è contenuta, nel regolamento della Società Operaia del 1888, secondo il quale un socio che abbia tentato o tenti di far sciogliere la società di cui è membro viene espulso previa delibera assembleare(89).
E’ utile distinguere tra espulsione ed esclusione in quanto con la prima sanzione è preclusa al socio la possibilità di essere riammesso mentre con la seconda è espressamente stabilito che lo stesso possa essere, per così dire, reintegrato nei quadri societari.
L’esclusione è deliberata a carico di quei soci che avranno agito contro il sodalizio, disubbidito alle decisioni assembleari o istigato altri a farlo(90). La sanzione dell’esclusione, data la sua gravità, in quanto determina la perdita dei diritti acquisiti e delle somme già versate(91), è votata sempre dall’assemblea e non dal consiglio direttivo al quale è rimessa la decisione su questioni di minore rilevanza e clamore. Le pene inflitte dal consiglio direttivo consistono nell’allontanamento del socio dalle riunioni per un periodo di tempo lungo sino a sei mesi o, ancora, nella perdita della capacità elettorale attiva e passiva per un periodo di due anni(92). Queste ultime pene vengono comminate nei confronti del socio che abbia offeso con "atti e parole improprie" la solennità delle riunioni, abbia commesso "scandali" all’interno del circolo, abbia "brigato" per l’ottenimento di determinate cariche sociali e sia dedito ai vizi nonché ai cattivi costumi(93). Nello statuto della Società Operaia del 1883 e in quello del 1888 è previsto il ricorso ad una sanzione pecuniaria a carico di quei soci i quali, senza un valido motivo, non siano intervenuti alle onoranze funebri di un consociato(94). Non essendo presenti alle cerimonie funebri, evidentemente, si negava quel sentimento di umana solidarietà che invece doveva animare i membri di tali sodalizi. Il ricorso ad una sanzione pecuniaria in caso di assenza immotivata durante una cerimonia funebre era prevista anche nel regolamento della Congregazione di S. Eligio del 1885. Nello statuto della Società Operaia del 1888 è decretata l’espulsione anche nei confronti di quei soci i quali "simulano malattie o dolosamente le prolungano per godere del sussidio"(95). Certamente non si ricorre all’espulsione in qualsiasi circostanza, tant’è vero che sono previste sanzioni di diversa natura e gravità come, a esempio, quella prevista dallo statuto della Società Operaia del 1883 a norma del quale il socio "la cui condotta lascia qualche cosa a desiderare" subisce l’ammonizione del presidente il quale provoca un voto di censura o l’espulsione a danno del socio reo di "grave insubordinazione" durante le adunanze generali(96). Siamo, evidentemente, dinanzi a disposizioni sanzionatorie miranti a tutelare il regolare e sereno svolgimento dei lavori assembleari. Le sanzioni come l’ammonizione e la censura, comminate dal presidente, non sono date riscontrare negli altri statuti delle Società Operaie mentre è comune quella disposizione statutaria la quale prevede la cessazione dall’ufficio di consigliere a danno di colui il quale non sia intervenuto a tre sedute consecutive(97). Evidentemente tal disposizione normativa che prevede, inoltre, la sostituzione immediata del consigliere decaduto, mira a garantire l’espletamento del complesso lavoro del consiglio direttivo da defezioni continue e magari ingiustificate. A proposito di sanzioni merita attenzione una disposizione contenuta nello statuto della società operaia del 1883 secondo la quale il socio in ritardo col pagamento di due mensilità non può prendere parte alle discussioni assembleari né, tanto meno, votare; mentre a norma dello statuto della Società Operaia del 1888 "il socio che non paga da tre mesi può prendere parte alle discussioni generali ma gli è negato il diritto al voto"(98). Tali disposizioni, nonostante siano contenute in quella parte degli statuti dedicata alle assemblee generali, hanno un carattere inequivocabilmente disciplinare e sanzionatorio. Nel 1891, intanto, viene fondata l’Associazione degli Agricoltori di Salemi il cui statuto prevede, tra l’altro, il ricorso all’espulsione del socio resosi indegno di appartenere al sodalizio a causa di comportamenti contrari alla morale comune o perché venuto meno agli obblighi societari(99). Il consiglio direttivo, assumendo le funzioni di organo giudiziario, delibera sull’espulsione del socio il quale può, tuttavia, appellarsi al comitato dei probi viri che agisce, pertanto, quale giudice di secondo grado(100). Analoga facoltà di appello al comitato dei probi viri è concessa, secondo quanto stabilisce lo statuto della Banca Popolare Cooperativa e di piccoli prestiti, al socio la cui esclusione sia stata decretata dal consiglio direttivo(101). La sanzione, a norma dello statuto ultimo considerato, è comminata a danno dei soci condannati a pene criminali o correzionali "per reato di corruzione, di falso, di furto e di truffa" nonché a danno del socio nei cui confronti la banca sia stata costretta "ad Atti Giudiziari" per ottenere il soddisfacimento delle obbligazioni da lui contratte con la medesima(102). Una sanzione grave, come l’espulsione, è prevista anche dallo statuto del Nuovo Circolo a norma del quale il presidente, di sua iniziativa o su proposta di dieci soci, può invitare l’assemblea a deliberare l’espulsione del socio il quale abbia mancato "ai doveri dell’onore, della moralità e dell’educazione"(103).
Quest’ultima disposizione ricalca sostanzialmente quella contenuta nello statuto del circolo "L’Avvenire" a norma del quale l’espulsione del socio, resosi "indegno di appartenere al Circolo", è deliberata dall’assemblea a maggioranza assoluta dei soci(104). Nello statuto del "Nuovo Circolo" è prevista una misura disciplinare particolare nei confronti del socio in ritardo col pagamento di due mensilità e cioè l’affissione del nome del socio moroso in una delle sale del circolo "a ciò destinate"(105). Se malgrado tale misura disciplinare, il socio persiste per ben altri due mesi nella sua morosità, allora, il suo nome sarà automaticamente cancellato dall’albo senza pregiudizio per la successiva azione creditoria intentata nei confronti del medesimo(106). L’inadempienza del tesoriere nell’espletamento delle funzioni che a lui competono rende lo stesso responsabile "di fronte all’Amministrazione del pagamento delle somme dovute dal socio moroso"(107).
Analogamente lo Statuto del Circolo "L’Avvenire" prevede la cancellazione dall’albo del socio moroso che non si è messo al corrente con i pagamenti delle quote dovute nonostante l’avviso del socio cassiere(108).
Analizziamo adesso gli scopi perseguiti dai sodalizi attraverso un’attenta lettura degli statuti.
Il sistema della "sicurezza sociale", comprendente la tutela dei rischi propri dei lavoratori, la protezione dei medesimi soggetti e dei loro familiari da una serie di bisogni ritenuti essenziali alla vita e l’assistenza dei restanti cittadini contro l’indigenza e le malattie, è affidato, oggi, allo stato perciò definito "stato assistenziale" o anche "stato sociale" o "welfare state". Il termine sicurezza sociale introdotto dalla legislazione americana nel 1935 attraverso il "Social Security Act" si è diffuso in maniera quanto mai rapida probabilmente a causa della suggestione derivante dal termine "sicurezza"(109). Lo stato assistenziale, secondo una definizione coniata dalla dottrina tedesca, agisce per la tutela di innumerevoli bisogni come, a esempio, le malattie, l’invalidità e la vecchiaia, avvalendosi di enti e organi di respiro nazionale istituiti per i fini sopra accennati. Non bisogna credere che lo "stato sociale" sia sempre esistito in quanto, originariamente, la tutela di determinati bisogni essenziali alla vita era affidata a sodalizi ispirantisi al principio del mutuo soccorso. Nel 1850 a Torino viene fondata la Società Generale degli Operai(110) che segna la nascita del movimento mutualistico italiano, in ritardo rispetto a quello degli altri paesi europei ma ciò a causa dello spirito corporativistico delle categorie e delle tendenze regionalistiche delle iniziative(111). Il movimento mutualistico, diffondendosi in tutta la penisola, interessò anche la cittadina di Salemi dove all’indomani dell’Unità d’Italia, come abbiamo visto, furono costituiti diversi sodalizi perseguenti fini dichiaratamente mutualistici. Nel 1885, sostituendosi alle antiche maestranze, viene fondata la Congregazione di Sant’Eligio il cui scopo era "attendere la santificazione dell’anima con l’esercizio della cristiana virtù e con la pratica della cristiana carità" nonché "assistere i poveri infermi e ai componenti la Santa Congregazione"(112). L’assistenza nei confronti "del fratello gravemente infermo" non consiste in un sussidio in denaro o in prestazioni sanitarie completamente a carico della congregazione ma in un aiuto, per così dire, morale prestato dal "Superiore" il quale avrà il dovere di visitare, ogni giorno, l’infermo accompagnato "da due fratelli"(113). Ma già nel 1879 era stata fondata a Salemi una Società Operaia di Mutuo Soccorso fra gli onesti operai di Salemi, il cui fine precipuo era il "mutuo soccorso materiale, intellettuale e morale tra i suoi soci"(114), da realizzarsi attraverso la corresponsione di "sussidi ai soci ammalati e l’assistenza medica, soccorrendo i vecchi impotenti al lavoro, promuovendo l’istruzione dei soci mediante aperture di scuole..."(115). Anche lo statuto della Società Operaia del 1883 si prefigge come scopo il miglioramento delle condizioni materiali e morali degli iscritti da realizzarsi promuovendo tra gli associati la fratellanza, l’istruzione, l’onestà e soccorrendo i soci necessitati, specialmente in caso di malattia o altri accadimenti nefasti(116). E’ previsto un sussidio in denaro per i soci ammalati nonchè l’assistenza del medico e "l’apprestamento dei medicinali a spese della società"(117), a condizione però che i soci infermi siano "in saldo del pagamento della tassa d’entrata e della retta mensile"(118). L’assistenza medica, tuttavia, non è prevista per quelle malattie provocate da intemperanza o da cattiva condotta(119), essendo i requisiti morali dei soci una discriminante e il miglioramento morale degli stessi uno scopo societario. Tale disposizione era già presente nello statuto della Società Operaia del 1879(120) in quanto anche per quest’ultima l’elevazione della condizione spirituale dei soci era uno dei principali scopi da perseguire. Sarebbe stata una chiara contraddizione, infatti, attribuire un sussidio ad un socio la cui infermità fosse stata causata da un comportamento biasimevole. L’assistenza medica è un diritto del socio infermo anche secondo lo statuto della Società Operaia del 1888(121), la quale persegue lo scopo del mutuo soccorso per il miglioramento delle condizioni materiali degli iscritti(122). Il mutuo soccorso è finalizzato anche al miglioramento morale degli associati che sarà conseguito promuovendo "tra loro l’istruzione, il lavoro e il sentimento della fratellanza, dell’onestà e del risparmio"(123). Comune agli statuti, precedentemente menzionati, è la norma secondo la quale l’infermità derivante da cattive abitudini fa venir meno il diritto all’assistenza medica e a qualsiasi tipo di sussidio pecuniario. Lo scopo del mutuo soccorso materiale è conseguito, ai sensi dello statuto della Società Operaia del 1879, oltre che con l’assistenza medica in caso di infermità anche con la corresponsione di una pensione giornaliera a favore degli associati i quali, raggiunto un determinato limite d’età, vengono dichiarati ormai inabili al lavoro(124).
L’istituto del pensionamento per inabilità al lavoro non è previsto negli statuti della Società Operaia redatti nel 1883 e poi ancora 1888. Quest’ultimi statuti prevedono la corresponsione di un sussidio in denaro in favore degli associati che versano in condizioni di salute precaria mentre, secondo lo statuto della Società Operaia del 1879, il sussidio in caso di malattia non è corrisposto all’associato che già gode di una pensione giornaliera per dichiarata inabilità al lavoro(125). Se la nostra Costituzione Repubblicana del 1948, fissa il diritto di "ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere" al mantenimento e all’assistenza sociale, nello scorso secolo tale diritto non era previsto dalla legislazione statale allora vigente la quale sembrava adattarsi con difficoltà e lentezza alle trasformazioni politiche e sociali in atto. La evidente sfasatura tra la normativa associazionistica dello scorso secolo e la legislazione statale in materia sociale sembra essere stata superata con l’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana del 1948 contenente disposizioni programmatiche relative al sociale. Dopo questa breve parentesi, desidero riportare l’attenzione sugli scopi che si prefiggevano le società operaie di mutuo soccorso rispetto agli altri sodalizi già menzionati. Le Società Operaie di Mutuo Soccorso d’ispirazione laica si prefiggevano il miglioramento delle condizioni materiali e morali dei soci, mentre lo scopo della Congregazione di S. Eligio era, ricordiamo, "l’attendere" esclusivamente "alla santificazione dell’anima".
A proposito della Società Operaia del 1883 merita attenzione una disposizione statutaria e specificatamente quella che prevede la formazione di una "cassa di prestiti" da cui potevano trarre vantaggio esclusivamente i soci(126). Tale disposizione è strettamente connessa ad uno degli scopi societari e segnatamente quello riguardante il miglioramento delle condizioni materiali degli associati. Il "miglioramento materiale, morale ed intellettuale" dei soci è uno scopo che si prefiggeva anche l’Associazione degli Agricoltori di Salemi(127) la quale, tra l’altro, può perseguire scopi accessori diretti, tuttavia, al perfezionamento dell’agricoltura e delle classi agricole(128). Per il conseguimento di migliori condizioni economiche l’associazione si avvale di una "Cassa di Anticipazione" al fine di agevolare i soci, nell’esercizio dell’industria agricola, attraverso "piccoli prestiti per l’acquisto di sementi, attrezzi agricoli, bestiame"(129). La società si preoccuperà di prendere in affitto terreni che cederà successivamente ai soci rimanendo, tuttavia, al consiglio di amministrazione la facoltà di determinare il sistema di conduzione(130). Ricordiamo che l’Associazione degli Agricoltori, fondata nel 1891, era sostanzialmente una società per azioni come lo era la Banca Popolare Cooperativa la quale, analogamente alla prima, aveva il compito di "assumere in gabella" terreni da succoncedere in lotti ai propri iscritti(131). I mezzi approntati dalla Banca Popolare Cooperativa, erano diretti esclusivamente al miglioramento delle condizioni materiali degli associati, disinteressandosi, per così dire, della cura delle loro anime. I requisiti di ordine morale non erano determinanti per essere ammessi come soci alla Banca Popolare Cooperativa mentre lo erano ancora per l’Associazione degli Agricoltori, a norma del cui statuto la domanda di ammissione del candidato doveva essere controfirmata da due soci a garanzia dell’"onorabilità" del primo(132). La norma è in sintonia con quella che prevede di conseguire il miglioramento morale dei soci. L’Associazione degli Agricoltori si fa carico di "procurare lavoro ai soci che ne difettano" e di fornire un’adeguata istruzione sia con "scuole festive, sia con conferenze relative all’agricoltura"(133).
Lo studio del movimento associazionistico a Salemi si completa considerando gli scopi che si prefiggevano il "Nuovo Circolo", oggi Circolo di Cultura Buoni Amici e il circolo "L’Avvenire".
Entrambi i sodalizi appena menzionati erano interessati esclusivamente al miglioramento intellettuale e morale degli iscritti diversamente da quanto previsto negli statuti delle società operaie le quali si proponevano, come abbiamo già visto, di conseguire sia il miglioramento morale che quello materiale degli associati espressione di una classe intimamente debole e disagiata.
A ragione Salvo Mastellone afferma che le associazioni sorsero per "ovviare alla mancanza di legislazione sociale" e alla mancanza di ogni previdenza sul lavoro(134) oltre che per rispondere alla necessità di un ordinamento veramente democratico e cioè aperto alla partecipazione attiva di tutte le classi. Gli associati del "Nuovo Circolo", esponenti della classe colta, godevano di una situazione patrimoniale brillante, circostanza desumibile dal fatto che allora ben pochi erano così fortunati da raggiungere un certo livello di istruzione. Il grado di istruzione agiva da elemento discriminatore a proposito dell’ammissione del candidato ma ciò non è espressamente previsto dallo statuto del circolo. Per promuovere e consolidare l’affratellamento della classe colta, il "Nuovo Circolo" disponeva di una sala di "lettura" provvista di "giornali politici" ma anche di "libri e riviste letterarie"(135) nonchè di una sala da gioco fornita di carte apprestate dal circolo stesso(136). Gli statuti delle società operaie di mutuo soccorso, invece, proibivano agli associati di impegnarsi in discussioni riguardanti la politica o il culto religioso, mirando a evitare che si manifestassero divergenze di opinioni tali da minare quell’armonia interna, necessaria al perseguimento dei fini che gli erano propri(137).
Va infine sottolineato il carattere democratico del movimento associazionistico testimoniato dalla centralità dell’assemblea. E concordiamo con Salvo Mastellone nell’affermare la profonda connessione tra associazione e democrazia: "dove le associazioni a fini pacifici e sociali non sono ammesse, non può esserci vera democrazia"(138).
L’associazionismo, pertanto, come scuola, "palestra" di democrazia.
Bisogna stabilire innanzitutto se parlare di differenza fra essere e linguaggio è, in termini heideggeriani, possibile. Perché se l’Unterschied cui il pensatore fa nelle sue ricerche continuo riferimento può essere compreso solo sulla base di ciò che egli chiama "differenza ontologica" allora per ragioni che ci apprestiamo ad esporre, si dovrà rinunciare a parlare della differenza come di quella relazione che distinguendo e unificando fonda la comunanza fra l’essere e il linguaggio. Nondimeno, sgombrato il campo dalla tesi che intende porre la differenza ontologica a fondamento di tale relazione, restiamo tuttavia nella necessità d’interrogarci a proposito di questo rapporto. La differenza ontologica fin dalla Premessa del 1949 a Vom Wesen des Grundes, viene intesa da Heidegger come ambito della trascendenza abissale dell’essere rispetto all’ente, dunque della distanza incolmabile che sempre sussiste fra il piano ontico e il piano ontoiogico; questa differenza precisa Heidegger, non è una semplice distinzione operata dall’atteggiamento divisivo della ratio metafisica bensi la lontananza di ciò che più è vicino esperita esistenzialmente come quel "non" che sempre sussiste fra un participio (ens) e l’infinito (esse). Questo "non" che allontanando dall’ente fa giungere nei pressi della vicinanza fra l’essere e il niente rimane ambito di un percorso di pensiero che la metafisica come storia del pensiero occidentale ha via via dimenticato:
Il niente è il "non" dell’ente, quindi l’essere esperito a partire dall’ente. La differenza ontologica è il non tra ente e essere. Ma allo stesso modo in cui l’essere come "non" relativo all’ente non è un niente nel senso del nihil negativam, cosi la differenza come "non" tra ente ed essere, non è il semplice prodotto di una distinzione dell’intelletto (ens rationis).(1)
La differenza fra essere e linguaggio, ammesso che se ne possa parlare, non può dunque essere studiata sulla base della "differenza ontologica" perché anche il linguaggio, come l’essere, non è un ente fra gli altri; non vi è cioè fra essere e linguaggio quella diversità di rango e quello sbalzo che potrebbero dare ragione di una differenza recante i tratti della differenza ontologica. Essere e linguaggio coabitano invece quella stessa regione dell’Aperto che costituisce uno dei tratti dell’ontologisch Unterschied; non vi è in tal modo, né potrebbe esservi, fra essere e linguaggio quello stesso "non" abissale in cui si attua la trascendenza che separa e però lega ogni ente all’essere perché il linguaggio, come l’essere, è quello stesso abisso da cui tutti gli enti e tutte le cose infinitamente differiscono - tanto che risulterebbe estremamente più comodo parlare di identità fra essere e linguaggio piuttosto che di differenza.
La differenza tuttavia si dice in molti sensi, anche come identità(2); e, sebbene quella ontologica costituisca la cifra fondamentate deUa Differenzephilosophie heideggeriana non vi è dubbio che i principali testi del pensatore riguardanti il linguaggio(3), facendo procedere il loro cammino, com’è naturale in Heidegger, nella contrada dell’essere e chiamando costantemente in causa la questione della differenza indichino con una certa risolutezza proprio nella differenza(4) la via che porta alla chiarificazione della relazione sussistente fra essere e linguaggio. Dice fra l’altro il pensatore:
Il linguaggio è la casa dell’essere.(5)
Fra linguaggio ed essere sussiste un legame alla luce del quale si afferma che l’uno è qualcosa dell’altro. Oltre che unire però, come si vede, questo legame distingue, distingue anzi con lo stesso movimento col quale unisce: il linguaggio non è stricto sensu l’essere, è tuttavia dell’essere qualcosa di massimamente intimo, qualcosa che il pensiero nomina come Hauss. Sussiste dunque fra essere e linguaggio, per rimanere entro la metafora, lo stesso rapporto che si configura fra abitatore e abitazione? In che senso l’essere abita il linguaggio? Che cosa significa abitare? Rispondere a questi interrogativi riguardanti la Haus, o meglio, mettersi in ascolto di quanto il Dire originario(6) esprime a questo proposito tramite il linguaggio dell’uomo può significare cogliere i tratti fondamentali di un legame che per prudenza ancora esitiamo a indicare come differenza. Dal momento che la parola Hauss infatti compare nella citazione come termine medio fra linguaggio ed essere, identificandosi anzi con questo fra, lo studio del pensiero heideggeriano sul senso di questa parola diviene fondamentale per la determinazione del cammino che abbiamo scelto d’intraprendere.
Questo cammino poi, fin dal suo progetto, non può che seguire la via che il pensatore ha nominato come Weg zur Sprache perché il linguaggio in quanto casa dell’essere e dimora dell’uomo non può non costituire il termine o il fine autentico del procedere storico dell’uomo dunque ciò rispetto a cui un cammino e qualunque cammino si dà: effettivamente sembra che in Heidegger ogni cammino sia un cammino verso casa un procedere sempre estatico e progettante che in quanto tale è comumque diretto verso il proprio compimento; secondo gli intendimenti del pensatore infatti un cammino di ricerca sussiste soltanto nell’indicazione continua della fine. Ma chi o che cosa è in cammino verso il linguaggio? Anzitutto dovremmo chiederci se sia lecito domandare "chi" o "che cosa" visto che entro questo domandare risuona quel "che cos’è" che fin dall’antichità ha rabbassato l’essere al rango di concetto e, costringendo il Fragen del pensiero all’onticità della metafisica ha velato la chiarezza e la voce dell’essere all’ascolto e allo sguardo del pensiero stesso. Nondimeno, una risposta pronunciata dallo stesso Heidegger ci dà occasione per domandare: chi e che cosa è in cammino verso il linguaggio?
L’essere, diradandosi, viene al linguaggio. Esso è sempre in cammino verso il linguaggio. A sua volta, il pensiero e-sistente, nel suo dire, porta al linguaggio questo adveniente (dieses Ankommende).(7)
Le prime due proposizioni rispondono al che cosa la terza proposizione risponde al chi. Fermiamoci innanzitutto sulle prime due. L’essere è ciò che viene, ciò che diradandosi e rischiarando(8) giunge al linguaggio: questo giungere rischiarante e illuminante è un eterno cammino verso il linguaggio, verso casa. La distanza sussistente fra l’essere, sempre in cammino, e il compimento del cammino inteso come dimora è l’ambito proprio del Lichten, dunque il cammino stesso dell’essere che rischiarando si fa parola. Di conseguenza se fra essere e linguaggio vi è un cammino la parola Weg sarà uno dei nomi da imporre al rapporto che si da fra l’uno e l’altro, a ciò che per ipotesi chiamiamo differenza. E se la differenza è un cammino, una distanza fra due estremi sempre da colmare, il portare cui in sé accenna la parola "differenza"(9) indicherà un’attività strettamente commessa a questo essere in cammino: non solo infatti, in quanto differisce, l’essere è un cammino verso il linguaggio, esso è portato al linguaggio ed è in cammino verso il linguaggio proprio in quanto portato. Giungiamo in questo modo a interrogarci sul chi. Chi porta l’essere al linguaggio?
Chi fa si che l’essere proceda nel suo cammino di rischiaramento sino a che giunga presso la propria dimora? A questa domanda risponde la terza proposizione della citazione precedente:
A sua volta, il pensiero e-sistente, nel suo dire, porta al linguaggio questo adveniente (dieses Ankommende).(10)
L’essere viene. L’essere è anzi ciò che ha da venire essendo portato al linguaggio dal pensiero dell’uomo(11). La differenza fra essere e linguaggio è ricondotta in tal modo al ruolo svolto in questa e per questa da parte dell’esserci esistente, fino quasi a suggerire l’idea che il pensiero umano sia anzi l’ambito specifico in cui questa differenza si realizza. Qualcosa di analogo era accaduto in Sein und Zeit: il problema del senso dell’essere, nella sua ripetizione, era stato immediatamente riportato all’analitica ontologica dell’esserci a causa del primato ontico-ontologico di quell’ente (l’uomo) che noi sempre siamo; il ritrovamento del senso dell’essere può avvenire solo attraverso uno studio sistematico dell’esistenza umana perché l’uomo fra tutti gli altri enti, è l’unico a porsi il problema dell’essere, l’unico ente a percepirsi come ambito della trascendenza e della differenza abissale dell’essere dall’ente(12). A vent’anni di distanza il problema della differenza torna a legarsi in modo indissolubile alle questioni dell’esistenza; non si tratta più della differenza ontologica o della pura trascendenza dell’essere dall’ente ma di quella differenza fra essere e linguaggio che solo il pensiero umano può percepire come tale. Percepire e agire, perché è proprio il pensiero esistente che fa questa differenza ponendo l’essere in cammino verso il linguaggio. Così l’uomo è pastore dell’essere perché l’essere si dispone all’uomo disponendo dell’uomo come del proprio custode.
Se il pensiero esistente è ciò che porta l’essere al linguaggio quel che Heidegger intende nella citazione precedente con pensiero non coincide perfettamente con quell’attività che ha preso storicamente il nome di filosofia. Con l’espressione "pensiero e-sistente" si dovrà intendere invece quel Sagen che secondo le tesi del Brief über den "Humanismus" rende l’uomo veramente tale, quel dire in ascolto del quale il pensiero si è fatto storicamente parola come poesia e come filosofia; tant’è che questo dire del pensiero esistente cioè storico viene detto elemento comune tanto del poetare quanto del pensare - inteso, questa volta, come pensiero realizzatosi storicamente nella filosofia:
Il poetare si muove nell’elemento del dire, né diversamente il pensare. Riflettendo sulla poesia ci troviamo, con ciò stesso, già nell’elemento in cui si muove il pensiero. [...]Oscuro rimane come si determini il loro rapporto autentico e donde quello che noi non senza pigrizia mentale chiamiamo l’autentico tragga autenticamente origine. Ma - comunque noi prendiamo a riflettere sul poetare e sul pensare - sempre già ci si è fatto presso uno stesso e unico elemento: il dire, sia che noi vi facciamo caso o no.(13)
Il Sagen si configura in tal modo come ambito specifico della distinzione e della somiglianza fra poesia e filosofia il terreno sul quale fiorisce la pianta del pensiero come già originariamente scissa nella duplice diramazione di pensiero poetico e pensiero filosofico. Nella prospettiva dello studio della differenza fra essere e linguaggio ci si fa innanzi così la necessità di considerare un’ulteriore differenza quella fra poesia e filosofia cui Heidegger da il suggestivo nome di "vicinanza":
[...] i due - per eccellenza - modi del dire, il poetare e il pensare, non sono stati investigati così come chiedevano d’esserlo, cioé nella loro vicinanza. Eppure si parla fin troppo spesso di poetare e pensare. L’espressione è divenuta una formula vuota e pappagallesca. Forse nell’espressione "poetare e pensare" la "e" acquista pienezza e determinazione, se entriamo nell’idea che quella "e" possa significare la vicinanza tra poetare e pensare.[...] Come la parola stessa dice, vicino è uno che abita in prossimità a un altro e con un altro [...] La vicinanza è quindi una relazione risultante dal fatto che uno si porta nella prossimità di un altro.(14)
Se il dire del pensiero esistente costituisce così quell’uno su cui si fonda la dualità di filosofia e poesia, quel fondamento che alimenta la comunanza e la distinzione fra linguaggio poetico e linguaggio filosofico, la vicinanza fra poetare e pensare sarà appartenenza reciproca, riferimento di un livello in cui sussiste la scissione ad un altro, più basso e più originario, in cui la scissione non sussiste. In quest’idea di vicinanza o meglio di "vicinato" fra poesia e filosofia viene coinvolto inoltre il tema dell’abitare. Non a caso. Il modo dello stare in serenità, dunque dell’attardarsi presso la propria dimora non è che il ritrovarsi dell’uomo, poeta e pensatore, nella perfezione del linguaggio, nella contentezza di un dire in cui la chiarezza dell’essere riluce infine pienamente. È nella regione del linguaggio intesa come autentico dispiegamento dell’essere che poeti e pensatori si stabiliscono, l’uno di fronte all’altro, intrattenendo rapporti di vicinato.
Lo studio della differenza dunque del cammino sussistente fra essere e linguaggio implica immediatamente lo studio del pensiero e-sistente inteso come attività che porta l’essere al linguaggio mettendo in atto questa differenza. A sua volta il pensiero e-sistente, in questo portare, si realizza via via come linguaggio originariamente differenziato in linguaggio poetico e linguaggio filosofico. È per questo che Heidegger afferma:
Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all’essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono.(15)
La differenza fra essere e linguaggio è quel cammino che poeti e pensatori percorrono per condurre al linguaggio e fare del linguaggio la chiarezza dell’essere. L’agire del pensiero è un costruire il linguaggio come casa per l’essere, un vegliare e un custodire la casa e l’essere nel linguaggio come nella sua dimora. Il cammino dell’essere verso il linguaggio e così il duplice e contrario percorso della filosofia e della poesia. La prima differenza accenna di per sé alla seconda. Sul terreno della distinzione unificante di essere e linguaggio fiorisce già dall’origine la vicinanza fra poesia e filosofia. Per studiare tuttavia la differenza fra il linguaggio della poesia e il linguaggio della filosofia converrà fermarsi sull’uno e sull’altro analizzandoli singolarmente. Vista la vicinanza in cui il pensatore pone i due linguaggi rispetto all’indeterminatezza del Sagen è forse indifferente che si cominci con l’uno o con l’altro; certo è però che se il linguaggio della metafisica è pensato da Heidegger come ambito storico della dimenticanza dell’essere mentre il linguaggio della poesia rimane campo sovratemporale della rammemorazione, converrà cominciare con lo studio del linguaggio della metafisica e continuare con lo studio del linguaggio della poesia per il semplice fatto che può esservi rammemorazione solo di Ciò che originariamente si era dimenticato.
Il linguaggio della metafisica
La metafisica, come storia dell’essere, è nel pensiero di Heidegger la storia della dimenticanza dell’essere intesa come oblio della differenza fra essere e ente.(16) Il procedere del pensiero occidentale, da Anassimandro a Nietzsche, non è che il progressivo sottrarsi dell’essere al pensiero, corrispondente ad un cammino nel quale il linguaggio dell’uomo ha via via tranasciato la propria origine differenziandosi da essa per giungere al misconoscimento infine totale del senso dell’essere. Questo cammino ha scandito i suoi passi nell’avvicendarsi delle f_losof_e dei pensatori essenziali. La metaf_sica, come storia del progressivo abbandono del pensiero(17), è in tal modo l’epoca dell’essere, il momento nel quale le progressive sospensioni e ritrazioni dell’essere dal pensiero corrispondono ai punti nodali, agli autori fondamentali cioè della storia del pensiero occidentale. Dall’alba di questo percorso, intrapreso con quell’anassimandreo tò cre¢wn, che è considerato da Heidegger la prima parola dell’essere(18), sino al suo tramonto nichilistico nel pensiero nietzscheano - rispetto al quale ci si domanda ormai "che ne è dell’essere?"(19) - l’elemento in cui si è storicamente consumata questa dimenticanza è stato il linguaggio:
l’oblio della differenza con cui inizia il destino dell’essere per compiersi in esso, non è però una mancanza ma l’evento più ricco e più ampio in cui ha luogo e si decide la storia occidentale del mondo. E l’evento della metafisica.[...] La differenza fra essere ed ente può essere riconosciuta come obliata solo se si è già svelata con l’esser-presente - dell’essente-presente ed ha così lasciato una traccia che resta salvaguardata nel linguaggio a cui l’essere giunge(20).
Se il linguaggio della metaf_sica è l’ambito specif_co della dimenticanza dell’essere, se l’espressione "mettersi in ascolto dell’essere" implica necessariamente che l’essere è linguaggio, all’oblio dell’essere, in una sorta di rimando che ha a che fare con la differenza, dovrà corrispondere un oblio del linguaggio. E così è:
- la decadenza del linguaggio, di cui da qualche tempo si parla molto, anche se tardivamente, non è pero il fondamento, ma già una conseguenza di quel processo per cui il linguaggio, sotto il dominio della moderna metafisica della soggettività, cade in modo quasi inarrestabile fuori dal suo elemento(21).
Se la metafisica è dimenticanza progressiva dell’essere, se in questo destino di oblio è coinvolto un linguaggio umano che essendosi fatto linguaggio tecnico porta ormai a compimento la decadenza dell’occidente, sarà opportuno tentare un recupero della dimensione originaria del dire seguendo un cammino che Heidegger indica come via che porta alla possibilità di fare esperienza del linguaggio. Tutto ciò che importa è appunto percorrere questa via. Avvicinarsi al senso dell’espressione "fare esperienza del linguaggio", cercato dal pensatore nel gioco etimologico fra il verbo Erfahren (esperire) e il verbo Fahren (andare), costituisce infatti uno degli obbiettivi principali delle conferenze raccolte in Unterwegs zur Sprache:
Le tre conferenze che seguono portano il titolo: l’essenza del linguaggio. Esse vorrebbero portarci alla possibilità di fare esperienza del linguaggio. Fare esperienza di qualcosa - si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio - significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma.[...] Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall’appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso.(22)
Questo tentativo di ritrovare la via che porta ad esperire il linguaggio corrisponde idealmente al tentativo di recupero del senso dell’essere prospettato in Sein und Zeit e fallito proprio a causa dell’insufficienza del linguaggio della metafisica ad esprimere tale senso:
[...] finchè non è pensata la verità dell’essere, ogni ontologia resta senza il suo fondamento. Per questo il pensiero che con Sein und Zeit tentava di pensare in direzione della verità dell’essere si qualificava come ontologia fondamentale. [...] Il pensiero che tenta di pensare in direzione della verità dell’essere, nella difficoltà di aprire il primo varco, porta al linguaggio solo ben poco di questa dimensione assolutamente diversa.(23)
La corruzione progressiva del linguaggio, parallela nel senso esposto alla Seinsvergessenheit, necessita di una cura perché la decadenza del linguaggio è, come minaccia all’uomo, un tenersi distante e un rifiutarsi del linguaggio, in quanto Dire originario, all’essenza dell’uomo:
La devastazione del linguaggio, che rapidamente si estende ovunque, non consuma solo la responsabilità estetica e morale che si ha in ogni uso del linguaggio. Essa proviene da una minaccia dell’essenza dell’uomo [...] Il linguaggio ci rifuta ancora la sua essenza, che consiste nell’essere la casa della verità dell’essere.(24)
La radicale cura proposta dal pensatore auspica il ritorno ad una dimensione assolutamente originaria del linguaggio e dell’essenza dell’uomo: vivere il linguaggio dovrà significare rinunciare al linguaggio come strumento di dominio sull’ente per farne il fine autentico dell’esistenza. Quando si tornerà, nell’assenza di nomi, a questa povertà e a questa semplicità il linguaggio sarà nuovamente dell’essere con la stessa innmediatezza con la quale le nuvole sono del cielo(25):
[...] se l’uomo deve ancora una volta ritrovare la vicinanza all’essere, deve prima imparare a esistere nell’assenza di nomi[...] prima di parlare, I’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sotto questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire. Solo cosi viene ridonata alla parola la ricchezza preziosa della sua essenza, e all’uomo la dimora per abitare nella verità dell’essere.(26)
Nella storia (Geschichte) dell’essere, pensata da Heidegger come dispiegamento temporale di un destino (Schicksal) già tutto scritto da sempre nel suo avvio (Schickung) iniziale e compiuto per sempre in una conclusione che esaurisce del tutto le sue possibilità, è possibile - oltre che utile - distinguere l’intero svolgimento dai momenti dell’inizio e della fine. Nella circolarità dell’essere, detta ultimamente da Nietzsche - conclusore della metafisica - tramite la dottrina dell’Eterno Ritorno e anticipata da Anassimandro nella parola più antica del pensiero occidentale, avvio e conclusione si ritrovano infatti in una vicinanza essenziale che, facendosi coincidenza si differenzia nella storia dell’essere mantenendosi tuttavia in essa:
Al culmine del compimento della filosofia occidentale incontriamo queste parole: "Imprimere al divenire il carattere dell’essere, questa è la suprema volontà di potenza. [...] "L’essere" di cui parla Nietzsche qui è "l’eterno ritorno dell’eguale". [...] Il primo detto del pensiero iniziale e l’ultimo detto del pensiero finale conducono a farsi parola il Medesimo, ma non dicono l’Eguale. Quando nel diseguale è possibile parlare del Medesimo è soddisfatta da se stessa la condizione fondamentale per un colloquio fra inizio e fine.(27)
Questa terza differenza fiorisce dalla seconda con lo stesso impulso col quale la seconda era nata in seno alla prima: lo studio della differenza fra essere e linguaggio accennava in sé alla distinzione fra pensiero poetico e pensiero filosofico; la vicinanza di inizio e fine pone ora la necessità di distinguere avvio e conclusione della metafisica dal suo svolgimento. Individuata quest’ultima differenza fra i termini estremi e il corpo essenziale del pensiero occidentale, rimane chiaro che il cammino dell’essere verso il linguaggio è, come metafisica, un cammino di dimenticanza nel quale il Medesimo, dispiegandosi, non fa che ritrarsi, nel quale il duplice movimento di rivelazione e nascondimento avviene nel linguaggio e verso il linguaggio.
Il linguaggio della poesia
Se il cammino dell’essere verso il linguaggio, dunque, nel senso che intendiamo dare a questo cammino, la differenza fra l’essere e il linguaggio s’identifica dal punto di vista della metafisica, con l’oblio, questa stessa differenza, dal punto di vista della poesia, non è che rammemorazione. Il linguaggio della poesia è a parere di Heidegger l’ambito proprio dell’infinito manifestarsi dell’essere, l’elemento nel quale l’essere si fa parola. Non può esservi, come nel caso della metafisica, una storia(28) del pensiero poetico perché ciascun poeta si è scelto nella storia la propria vicinanza all’essere in modo; indipendente da ogni altro, e non si verifica, come invece è nel pensiero flosofico, quel declino progressivo per cui ciascun pensatore essenziale risente del grado di dimenticanza che caratterizza la sua epoca. La differenza fra un poeta e l’altro non risiede perciò, come accade per i filosofi, nell’avvicendarsi di passi consecutivi appartenenti ad un cammino unitario e sovraindividuale bensì nella scelta che ciascun poeta ha fatto da sempre di lasciarsi reclamare più o meno autenticamente dall’origine:
Come destino che destina la verità, l’essere rimane velato. Ma il destino del mondo si annuncia nella poesia senza esser già manifesto come storia dell’essere. Il pensiero di Hölderlin, di portata storica universale, che nella poesia Andenken si fa parola, è perciò essenzialmente più iniziale e di conseguenza più carico d’avvenire di quanto non lo sia il semplice cosmopolitismo di Goethe.(29)
Il pensiero esistente di Hölderlin si fa parola nella poesia Andenken perché il pensiero poetico, in senso contrario rispetto al dimenticare del pensiero metafisico, è un rammemorare. In questo nesso si stabilisce l’unità e quindi la differenza fra poesia e filosofia; non può esservi infatti rammemorazione se non di ciò che era caduto nell’oblio, si persegue anzi l’oblio al fine di rammemorare. In tal modo, se lo spirito poetante è talmente valoroso da abbracciare l’esilio pur di sentire il richiamo della patria il suo oblio sarà un valoroso dimenticare perché il rammemorare, l’Andenken, come Heidegger fa notare, è un Denken an, un pensare che si rivolge a qualcosa di smarrito, a qualcosa che di lontano chiama la memoria:
Il valoroso dimenticare è il coraggio sapiente, pronto all’esperienza dell’estraneo in vista di un’appropriazione ventura del proprio. Nel frattempo il valore dello spirito poetante ha fatto esperienza della lunga escursione in terra straniera. Lo spirito è arrivato a casa perché ha amato la colonia.(30)
Solo in terra straniera, solo nella distanza e nella differenza fra la terra straniera e la patria il poeta può sentire la voce della patria come qualcosa che chiama di lontano. In questo modo il pensiero andrà indietro e, volgendosi indietro, giungerà all’origine. Il pensiero del poeta è infatti quella stessa corrente del fiume che, nominato da nome straniero, è capace a tratti di volgersi verso la propria sorgente:
Nel suo corso superiore, vicino alla sorgente, il Danubio scorre, tra le rocce, esitando. Le sue acque scure talvolta ristagnano e, formando dei vortici, si spingono addirittura all’indietro.[...] Quasi come se il fiume che, col nome di Istro, appartiene all’Oriente straniero, fosse presente nel Danubio superiore. [...] Il fiume di casa viene chiamato con un nome che non è di casa. Questo nasconde l’enigma dell’origine della sua essenza fluviale che deve essere poetata(31).
L’enigma dell’origine è così l’aprirsi di qualcosa che per dare origine a qualcos’altro si chiude:
[...] L’origine si mostra innanzi tutto nel suo originarsi. Ma ciò che vi è di più vicino all’originarsi è ciò che da esso si origina. L’origine lo ha lasciato andare da sé, ma in modo da non mostrarsi essa stessa in ciò che si è originato, bensì nascondendosi e ritraendosi dietro al suo apparire.(32)
Nella distanza provocata dall’oscurità fiorisce il rammemorare come bisogno di luce. Per questo si nomina il fuoco celeste:
Una delle condizioni per divenire di casa nel proprio, l’escursione in terra straniera è adempiuta. Ma l’adempimento è adempimento solo finché ciò di cui è stata fatta esperienza (il chiarore e l’ardore del fuoco celeste) viene conservato affinchè il poeta, rappresentandolo, impari a servirsi liberamente di ciò che gli è proprio.(33)
Nella lontananza dalla patria il pensiero rammemorante è un salutare che riporta alla patria, un saluto affidato al vento di casa che, giungendo dal paese d’origine, si fa carico di stabilire la vicinanza fra il poeta e l’origine. Tutto il Denken nella poesia è così dedicato all’essere inteso come origine perché
Salutando, chi saluta nomina, sì, se stesso, ma solo per dire che non vuole niente per sé, ma che rivolge invece al salutato tutto ciò che gli spetta.(34)
Così quando il pensiero esistente si esprime nel linguaggio della poesia, il suo dire è pienamente dell’essere, e lo è in un rapporto di appartenenza reciproca fra essere e pensiero. Nel linguaggio della poesia 1’essere giunge nella propria dimora e la differenza fra essere e linguaggio, perfettamente dispiegata si compie. Il fuoco celeste ossia la luce dell’essere riluce pienamente nel saluto col quale l’origine ricambia il saluto di chi ritorna in patria. In questo saluto fra il poeta e l’origine il perfetto rilucere dell’essere nel linguaggio della poesia:
Il sereno si trattiene nel suo inappariscente apparire radioso. [...] E già nel gioioso che per primo viene incontro al poeta si dispiega il saluto di ciò che rasserena. Ma coloro ai quali e commesso il saluto del sereno sono i messaggeri, [...], gli "angeli". È per questo che il poeta, dando un saluto di benvenuto al gioioso della patria che gli si fa incontro, chiama, nell’Arrivo a casa, gli "angeli della casa" e gli "angeli dell’anno".(35)
La perfezione della lingua dice l’essere in un’intimità di casa infine pienamente raggiunta e l’essere, come origine, coincide, perfettamente con la lingua delle poesie del poeta, come ciò che pur offrendosi viene sottratto. È "il tedesco" che attende ancora chi ritorna e che, non potendo appartenere ai conterranei immersi nelle loro cure, viene tenuto in serbo per il poeta:
Quanto la patria ha di più proprio si è preparato da lungo tempo e già destinato a coloro che abitano nel paese natio. Quanto la patria ha di più proprio e già il destino (Geschick) di una destinazione (Schickung) ossia è, come noi diciamo adesso, storia (Geschichte). Ma nella destinazione, tuttavia, il proprio non è ancora traspropriato. Viene ancora ritenuto.[...]. Ma di ciò che è già stato donato e tuttavia viene al tempo stesso ancora negato si dice che è in serbo(36)
Un Manoscritto dell’Archivio Nazionale di Parigi
La storia di molti paesi europei ed extraeuropei nel secolo XVIII è ricca di avvenimenti legati all’economia e alle relazioni commerciali. Fra questi paesi spiccano, per l’intenso e travagliato rapporto che li univa, la Francia e il regno delle Due Sicilie. Tanti sono i documenti del tempo che testimoniano le relazioni franco-napoletane.
Proprio recentemente è stato rinvenuto da Messina, autore tra l’altro di diverse pubblicazioni sul secolo XVIII, presso l’Archivio Nazionale di Parigi (sezione Affaires Etrangères ai segni B3, 407), un Mémoire sur le commerce de la France et de l’Angleterre avec le Royaume de Naples. Pur non essendo datato, é probabile che la sua redazione risalga all’anno 1743. Già il Romano(1) lo collocava intorno al 1740-41. In realtà il manoscritto stesso fornisce le indicazioni per la sua datazione, in quanto l’autore, peraltro anonimo, fa esplicito riferimento ai trascorsi anni 1741 e 1742. Il 1743 non viene citato, con ogni probabilità perché è l’anno in corso. Se, infatti, il documento fosse posteriore al 1743, essendo l’autore particolarmente diligente ed esauriente nel riportare dati e cifre, quasi certamente avrebbe fornito notizie anche su quell’anno. Invece non l’ha fatto. Per tutte queste ragioni, il 1742 può essere assunto come termine post quem e il 1743 come il probabile anno della redazione del Mémoire.
Scopo dell’autore era quello di dare un’idea generale del commercio della Francia con le Due Sicilie, confrontandolo con quello anglo-napoletano, in una fase storica in cui la rivalità tra Francia e Inghilterra era ai massimi livelli e si risolveva sul piano del grande commercio internazionale. Se questo era chiaro a tutti, allora come oggi, non erano però altrettanto evidenti le ragioni della supremazia inglese in campo economico, particolarmente nel settore industriale e in quello commerciale. L’autore del Mémoire vuole appunto far luce su questi aspetti e si concentra nella ricerca delle cause "qui nous ont privés de la vente plusieurs de nos marchandises"(2) , ponendosi ovviamente dal punto di vista francese. Ma non si limita a questo; dichiara che proporrà delle soluzioni e indicherà possibili strade da percorrere. L’obiettivo è "entrer en concurrence avec les anglois"(3).
Il Mémoire si divide in tre parti. Nella prima l’autore espone cifre e dati sia del commercio franco-napoletano che del commercio anglo-napoletano, riporta le due bilance commerciali e stabilisce un primo confronto in termini di cifre, nettamente a favore degli inglesi. La seconda parte contiene le notazioni dell’autore sui prodotti francesi inviati nelle Due Sicilie (lo zucchero e i drappi i più rilevanti) e sulle importazioni francesi dal regno (olio, grano, seta ecc..). La terza parte è dedicata al commercio inglese nel regno delle Due Sicilie.
L’interesse del manoscritto risiede non tanto e non solo nelle notizie che l’autore mette a disposizione, ma soprattutto nella modernità delle sue osservazioni, in quanto non si limita a descrivere e rapportare ma fa un’analisi approfondita del mercato napoletano. Per comprendere i motivi della decadenza del commercio francese nel regno delle Sicilie, decadenza che si fa più significativa a partire dalla seconda metà del secolo, è dal mercato che bisogna partire. E il mercato in fondo non è che un insieme di persone, coi loro gusti e necessità, inserite in una particolare situazione storica, politica ed economica, e come tale in continua evoluzione. E’ in quest’ottica che l’autore passa in rassegna i manufatti francesi, sottolineandone difetti e punti di forza che non sono tali in assoluto, ma solo in relazione al mercato. Il confronto di tali prodotti con gli equivalenti inglesi, poi, risulta quanto mai illuminante perché consente di cogliere dal vivo gli effetti di due politiche commerciali profondamente diverse.
E’ questo il cuore della questione: che cosa si deve intendere per politica commerciale? Certamente è qualcosa che oltrepassa la semplice vendita, come evidenzia l’autore. E’ piuttosto l’organizzazione delle vendite in vista di determinati obiettivi e si riflette poi su tutte le singole azioni commerciali e sui prodotti stessi. Ed è proprio nella maniera di intendere la politica commerciale come quid che sovrintende a tutte le mosse del commercio che i francesi dovrebbero imitare gl’inglesi. La necessità di una revisione degli articoli (che l’autore suggerisce) è una conseguenza di un errore di strategia da parte francese. Dalla filosofia al prodotto finale il passo non è poi tanto lungo come si crede, e la relazione di causa effetto è più pregnante che mai. Ce lo dimostrano i campioni di stoffe (francesi e inglesi) che l’autore allega al Mémoire affinché i francesi possano riprodurre gli esemplari inglesi e toccare con mano gli effetti di due modi molto diversi di porsi nei confronti degli acquirenti. Secondo l’autore del Mémoire ogni politica commerciale dovrebbe prendere le mosse dalle richieste dei clienti, sia acquisiti che potenziali. Ecco perché ancora prima di fabbricare i prodotti e di intraprendere un commercio è necessario raccogliere informazioni sulla cultura, l’economia, la storia del paese o della regione a cui tali prodotti sono destinati. Ed è esattamente ciò che facevano gl’inglesi, i quali tenevano in alta considerazione gli orientamenti, o come diremmo oggi, le esigenze del mercato. Essi recepirono questo importante concetto e, soprattutto, per primi applicarono tale filosofia commerciale. I francesi, al contrario, finivano spesso per fabbricare i prodotti e poi imporli al mercato.
Oggi, alla luce delle teorie del marketing, è naturale affermare che ogni politica commerciale debba originarsi da un’attenta analisi di mercato che preceda il lancio di ogni prodotto. Nel XVIII secolo invece non era altrettanto scontato parlare di soddisfazione del mercato, come fa l’autore del Mémoire, le cui osservazioni si rivelano di una modernità straordinaria.
Una delle dirette conseguenze della sua analisi del mercato napoletano è l’individuazione dei settori che i francesi dovrebbero incentivare per avere maggior presa sul regno delle Due Sicilie. Per esempio perfezionare alcune stoffe, come le Calmandes de l’Isle, significherebbe entrare in un giro d’affari dove gl’inglesi sono finora i soli e ne traggono tutti i vantaggi. L’autore sottolinea con acutezza quelli che sono i settori da prendere in considerazione: sa che quando vi è molta richiesta di un articolo e questo è fornito da una sola nazione, è facile per un secondo paese produttore inserirsi nel mercato, purché lo faccia con un prodotto buono e a prezzi ragionevoli.
Oltre a queste considerazioni, egli sottolinea altri due aspetti innovativi. Il primo consiste nell’importanza di dare ai prodotti "un air de nouveuté" (4) e rinvia al moderno concetto di immagine di marca. Non è forse quello che fanno oggi le aziende più all’avanguardia quando decidono di rinnovare l’immagine di un prodotto?
Gl’inglesi da bravi psicologi, oltre che mercanti, sapevano cogliere esigenze espresse e inespresse dei loro clienti e, nel caso dei napoletani, li conquistavano con il fascino della novità e prezzi allettanti. Se, infatti, la qualità veniva ogni tanto trascurata i napoletani non se ne curavano, adescati dall’apparenza. Invece i francesi mostravano scarsa capacità di adattarsi all’esigenza psicologica del mercato italiano e di quello meridionale in particolare, che domandavano prodotti di media qualità ma di buona apparenza. Ciò che contava per loro, l’autore del Mémoire non si stanca di sottolinearlo, era l’appretto dei tessuti, non tanto la loro resistenza.
Il secondo concetto innovativo riguarda quella che ai nostri giorni viene definita la "diversificazione della produzione". Dal momento che mercato non significa soltanto concorrenza, acquirenti, potere d’acquisto, ma coinvolge gli uomini inseriti in una situazione politica, culturale, socio-economica particolare, i mercati non sono tutti uguali, proprio come gli uomini di cui sono composti. Per questa ragione bisogna rispettare e seguire i gusti delle diverse nazioni a cui ci si rivolge, diversificando la produzione. Il nostro autore non poteva saperlo, ma è proprio in direzione della soddisfazione del mercato che si sarebbe andati. Agl’inglesi il primato, non tanto di averlo capito per primi, ma di aver saputo mettere in pratica la loro concezione di commercio. Ed essa probabilmente fu la chiave del loro successo nei traffici internazionali del Settecento. L’Inghilterra nel corso del secolo seppe sfruttare le opportunità offerte dai suoi vasti domini coloniali e trasformarle in elementi di attivazione e incentivazione del commercio sia interno che esterno.
Ritornando al nostro autore, è essenzialmente nei tre strategici concetti di studio del mercato, immagine di prodotto e diversificazione della produzione che è racchiusa tutta la forza innovativa di questo Mémoire che anticipa concetti e considerazioni che solo ai nostri giorni hanno trovato riscontro in una teorizzazione precisa, quella del marketing, come si diceva. La sua analisi è particolarmente rilevante perché, come gl’inglesi, ha capito che il punto di partenza di ogni politica commerciale sta non nei prodotti, ma nel mercato. I francesi fabbricavano gli articoli e poi li immettevano sul mercato, diciamo che il loro sforzo consisteva nel farglieli accettare e acquistare. Gl’inglesi, al contrario, prima "si creavano" il mercato, lo studiavano e lo definivano, poi fabbricavano gli articoli che esso chiedeva. Nel commercio francese nel regno delle Sicilie, quindi, non sono i prodotti in sé che non vanno, ma i prodotti rispetto a come i meridionali li vorrebbero. E’ un problema di impostazione a-priori che si riversa poi su ogni singolo articolo. Ma anche a-posteriori si può fare qualcosa. Riguardo ad alcuni generi, come ad esempio le serges à la princesse, l’autore afferma che gl’ispettori delle manifatture potrebbero consultare i negozianti e dopo essere stati da loro informati sul gusto e sugli usi delle nazioni con le quali avviene il commercio, dovrebbero obbligare i fabbricanti a conformarvisi, diversificando la produzione. Se non è una mini indagine di mercato, allora cos’è?
Nella parte finale del Mémoire l’autore ribadisce, in un ennesimo confronto tra le due produzioni, quella inglese e quella francese, i suggerimenti espressi in direzione del perfezionamento delle stoffe francesi come elemento decisivo per facilitare e accrescere le vendite. Riconosce inoltre l’abilità dei fabbricanti d’Inghilterra che con la loro arte sono capaci di fare con la lana ciò che le altre nazioni non riescono a imitare con la seta.
Ma in chiusura evidenzia anche come gl’inglesi siano avvantaggiati da una serie di condizioni favorevoli: innanzi tutto diritti di entrata delle loro merci nelle Sicilie molto più bassi rispetto ai francesi; in secondo luogo esonero dal pagamento dei diritti di uscita dall’Inghilterra; felice posizione delle loro fabbriche con conseguente agevolazione dei trasporti, e altre ancora.
Con questa rassegna conclusiva delle cause "qui nous ont privés de la vente de plusieurs de nos marchandises"(5). l’autore chiude il suo Mémoire, col quale si proponeva di dare un’idea generale del commercio della Francia e dell’Inghilterra nelle Due Sicilie, come lui stesso in apertura dichiarava. In realtà la sua analisi è andata ben oltre le intenzioni, giungendo non solo a fornire un quadro al contempo ampio e particolareggiato del suddetto commercio, ma anche a dare ai suoi contemporanei, e a noi moderni lettori, una lezione di economia e, oseremmo dire, di studio del mercato.
Il commercio della Francia nelle Due Sicilie nel secolo XVIII
Il grande avvenimento nell’ambito degli scambi commerciali del Settecento fu lo sviluppo straordinario assunto dal commercio marittimo e, soprattutto, atlantico. Il commercio transoceanico non era una novità, ma durante il secolo XVIII si fece di proporzioni gigantesche rispetto al Seicento. Non solo, ma esso alimentò vertiginosamente anche le correnti di traffico tradizionali. Le rotte europee, infatti, furono sempre più attraversate da navi cariche di prodotti coloniali. Secondo alcuni studiosi, fu proprio il commercio uno dei fattori determinanti nell’accumulo del capitale che sarebbe andato ad alimentare la nascita delle prime concentrazioni industriali. Il Sée(6), tra gli altri, afferma che "è soprattutto in vista di questo grande commercio marittimo e coloniale che furono create le prime società per azioni [..] che diedero un particolare incremento al capitalismo mettendo a sua disposizione potenti mezzi d’azione". Il passaggio, cioè, dalla società pre-industriale a quella industriale è da ascrivere proprio alla dimensione straordinaria assunta dal commercio europeo ed extraeuropeo. Ma non è necessario arrivare alla Rivoluzione industriale per cogliere tale dimensione.
Gli inizi del Settecento si presentavano già carichi di interessanti novità e alla metà del secolo il commercio era in una fase profondamente matura. A dominare mari e oceani erano Francia, Inghilterra, Province Unite. Ma queste ultime "n’ont plus la première place"(7), come ai tempi della secentesca Compagnia Olandese delle Indie. Tuttavia mantenevano ancora un ruolo rispettabile. Negli scambi commerciali di queste tre potenze, la parte relativa alla riesportazione dei prodotti coloniali seguì un ritmo crescente nel corso del secolo: "40 % des exportations anglaises en 1750, et plus de 50 % à la fin du siècle; plus du tiers du commerce extérieur des Provinces Unies en 1776". La Francia e l’Inghilterra erano le massime potenze mondiali.
E il Settecento le vide scontrarsi sul piano politico e commerciale. In realtà, al di là delle ragioni ufficiali, la guerra dei Sette anni, per i due paesi, non fu altro che l’occasione per misurare una rivalità che durava dal 1688, e sancire così un predominio commerciale e quindi economico. Questo, sfortunatamente per la Francia, fu inglese. E inglesi divennero infatti la ex Louisiana francese e gli ex territori francesi del Canada, nonché quelli indiani. Ma non tutto era perduto: le Antille consentirono ai francesi di detenere il monopolio mondiale dello zucchero, elemento di primo piano nella bilancia commerciale della Francia.
Non si può parlare del commercio franco-napoletano nel Settecento senza accennare alla rivalità franco-inglese, perché moltissime relazioni e documenti del periodo vi fanno continui riferimenti. In effetti il suddetto commercio traduce e svela forze e debolezze dell’una e dell’altra potenza. Non solo per quel che concerne il loro diverso approccio verso la politica commerciale, ma anche relativamente ai prodotti stessi e quindi ai sistemi manifatturieri che vi stavano dietro.
Non ci si deve lasciare ingannare di fronte a documenti come il trattato franco-inglese del 1786, perché questo non era affatto un accordo di libero scambio, ma un compromesso teso a stabilire reciproche concessioni e limitazioni. Traduceva pertanto un bisogno di fissare i confini commerciali per non creare ulteriori tensioni. Secondo il De Viguerie(8). "le traité favorisa les manufacturiers anglais dont les produits étaient moins chers que ceux des Français. Il fut également bénéfique aux grands propriétaires fonciers français, mais il eut sur l’industrie française, dans son ensemble, des effets plutot malheureux. [...] Le traité [...] abaisse les droits d’entrée sur les produits manufacturés anglais".
Ciononostante la bilancia commerciale francese era sempre in attivo: le esportazioni costituivano sempre più del 50 % del commercio totale, quindi superavano le importazioni, come si addice a una grande potenza. Un posto importante era riservato alla riesportazione dei prodotti coloniali. Per esempio Bordeaux tra il 1721 e il 1778 ridistribuiva in tutta Europa il 73,8 % dello zucchero importato dalle Antille. "Toutefois, - avverte il De Viguerie - la structure du commerce français n’est pas dans sa qualité aussi moderne que celle du commerce anglais. Les besoins en produits fabriqués restent constants: 14,1 % du total en 1716 et 13,3 % en 1787, et les exportations de produits alimentaires ne descendent pas au-dessous de 50 % du total"(9).
Nel 1734, anno in cui Carlo di Borbone si insediò a Napoli, il commercio delle Due Sicilie con la Francia necessitava decisamente di essere rinverdito. La tensione nei rapporti franco-austriaci aveva influito negativamente sugli scambi del regno con la Francia. E gl’inglesi avevano colto l’occasione per organizzare basi commerciali nel Mediterraneo. All’arrivo del Borbone a Napoli, i rapporti franco-napoletani erano ridotti a ben poca cosa. Riducendosi le esportazioni francesi, si contrassero anche le importazioni dal regno perché l’acquisto dei prodotti napoletani veniva effettuato sulla base di uno scambio di merci e non sul pagamento in moneta. Dunque esportazioni e importazioni erano direttamente proporzionali le une alle altre.
La presenza del Borbone sul trono napoletano faceva ora sperare, e a ragione, che questi favorisse i rapporti con la Spagna e con la Francia. Effettivamente le cose andarono così, ma non grazie alle varie iniziative diplomatiche, editti e proclami emanati allo scopo di riprendere le relazioni commerciali con la Francia. Anche, certo. Ma la ragione essenziale sta forse nel fatto che i due regni, quello meridionale e quello francese, avevano bisogno l’uno dell’altro. Una fitta rete di interessi li univa. Il regno delle Due Sicilie aveva più seta, più lana, più olio, più grano di quanto i mercati, attraverso gli inglesi e i genovesi, potessero assorbire. Le industrie francesi aumentavano la loro produzione e quindi avevano bisogno di nuovi mercati di sbocco o che fossero ripristinati quelli vecchi. Contemporaneamente le fabbriche della Provenza e della Linguadoca e le seterie lionesi avevano bisogno di più lana e di più seta di quanta potessero procurarsene, a prezzi convenienti, su altri mercati che non quelli napoletani. Alle fabbriche di sapone di Marsiglia, per esempio, occorrevano olio e cenere di soda per sostenere il ritmo crescente della produzione. Per tutte queste ragioni era naturale che i due regni si attraessero.
Un trattato di commercio, al quale si lavorò dal 1736 fino al 1788 con sei fasi principali e che alla fine non fu stipulato, sarebbe stato quantomeno superfluo. Allora perché lo si voleva così tenacemente e perché era così difficile da raggiungere? Per un motivo molto semplice: i francesi, da buoni vecchi clienti nonché acquirenti, volevano un trattamento almeno uguale a quello ricevuto dai rivali, inglesi e genovesi. Questo in termini concreti significava: parità di pagamento di dazi per i prodotti, parità di trattamento da parte degli agenti doganali. Ma non era facile per i Napoletani comunicare, così d’un colpo, agli inglesi e ai genovesi, che acquistavano una gran quantità di prodotti, che non sarebbero più stati i privilegiati. E di fatto non lo si fece: "clienti di tal genere non è possibile alienarseli: olio, lana e grano sono prodotti che abbondano nel Mediterraneo: l’Africa del Nord, la Grecia, Corfù, la Morea, la Turchia ne hanno da vendere, cercano affannosamente degli acquirenti"(10).
Tuttavia gl’interessi reciproci franco-napoletani erano così forti che, con o senza trattato, gli scambi si svolsero e anzi ripresero vigore proprio mentre le trattative a tavolino giungevano sempre al solito punto morto. Per i francesi i diritti da pagare per commerciare con Napoli erano più forti di quelli pagati da inglesi e genovesi. E nonostante ciò c’era ancora convenienza. Ma a un certo punto i privilegi dei concorrenti inglesi non contarono più nulla perché la questione si spostò dal piano ufficiale a quello illecito: il contrabbando divenne l’elemento risolutore. Fu proprio in virtù di esso che i privilegi inglesi e genovesi persero consistenza e che le relazioni franco-napoletane si intensificarono.
I governi si rendevano conto di tutto ciò? La risposta può essere affermativa, considerato che "se nel 1736 lo scopo principale di un trattato era di creare le premesse di una attività commerciale, di dare a questa l’avvio a divenire sempre più vasta, già nel 1745 esplicitamente si dichiarava che ‘il punto più importante come il principale motivo per il quale si è desiderato un trattato’ è impedire il contrabbando"(11). Ma se davvero si fosse raggiunto l’accordo su questo punto, eliminando il contrabbando, facendo pagare tutti i diritti ai francesi, i privilegi inglesi e genovesi sarebbero risultati ingombranti e di ostacolo al commercio. L’analisi degli scambi franco-napoletani mostra, al contrario, una crescita graduale ma costante degli stessi durante il Settecento, e particolarmente a partire dall’avvento di Carlo III. Il movimento delle esportazioni e delle importazioni dei due regni non resta comunque identico durante lo scorrere degli anni.
Il Romano(12) ha individuato due fasi principali per il suddetto movimento. La prima metà del secolo, che segna anche la ripresa del commercio francese nel regno napoletano dopo la fase di crisi che durava dalla fine del secolo XVII, presenta una bilancia commerciale favorevole alla Francia. La seconda metà del XVIII secolo, invece, vede un’inversione di tendenza: a partire dagli anni 1754-55 la bilancia commerciale è favorevole a Napoli e lo resterà fino al 1815, eccezion fatta per gli anni 1811-13.
Ripercorrendo il secolo dall’inizio e seguendo il doppio movimento di esportazione e importazione delle merci in oggetto, si possono cogliere nel vivo le ragioni di questo capovolgimento. Agl’inizi del secolo il cammino tra Francia e regno di Napoli era tutto da rifare. Degli antichi traffici l’unico a resistere ancora era quello dello zucchero. Gli altri, come quelli delle drapperie e delle sete un tempo fiorenti, erano definitivamente decaduti. Dello zucchero il regno di Napoli era sempre stato un gran consumatore. Questo traffico così importante presentava un andamento discontinuo, a sbalzi. Infatti i padroni di navi francesi portavano pour leur compte le merci caricate a Marsiglia. Di conseguenza, le consegne non avvenivano con regolarità, col risultato che in alcuni momenti sul mercato napoletano vi era grande abbondanza di zucchero e ciò faceva abbassare i prezzi e riduceva i guadagni dei patrons francesi. In questa prima fase la bilancia commerciale, come si è detto, pendeva dalla parte della Francia. Le esportazioni dal regno di Napoli si limitavano a un po’ di legname per costruzione. I tradizionali invii di olio, seta e lana subivano un arresto temporaneo.
Ma già dai primi anni del regno del Borbone, la situazione mutò. Inizialmente il tipo di commercio rimase identico, ma se ne accrebbe l’entità, a tutto vantaggio della bilancia francese. Verso il 1748 la Francia iniziò finalmente a effettuare forti acquisti di seta e di olio, in coincidenza con lo sviluppo assunto dalle seterie lionesi e dalle fabbriche di sapone di Marsiglia che abbisognavano di olio. Purtroppo non disponiamo di esaurienti studi per il periodo 1748-1758. Ma dando uno sguardo ai dati del 1759 si registra un saldo positivo nella bilancia commerciale napoletana con la Francia. E non fu l’unico anno, perché da allora fino al 1815 il saldo si sarebbe fatto sempre più positivo per il regno meridionale. Questo renversement risale probabilmente agli anni 1754-55, quando inizia una fase "larvée" della guerra dei Sette anni. A causa della guerra le comparse di navi francesi nel regno di Napoli si fecero più rare, e la marina mercantile napoletana ne approfittò per fare più frequenti comparse nei porti francesi, gestendo così direttamente i traffici con la Francia. Addirittura, per alcuni generi coloniali, i napoletani si mettevano direttamente in contatto con il luogo d’origine.
Ma perché i francesi, dopo la guerra, non ripresero la loro posizione di predominio? Le ragioni sono molteplici. In primo luogo la concorrenza inglese aveva avuto modo di fortificarsi durante l’assenza dei francesi. In secondo luogo bisogna dire che, sotto l’impulso del re Carlo di Borbone, sorsero nel regno delle Due Sicilie alcune attività manifatturiere. Gl’inglesi, avendo campo libero, si affermarono definitivamente nel regno meridionale, soprattutto nel settore delle drapperie, cioè laddove i francesi avevano fallito la loro politica commerciale. Pertanto, gli italiani, pur riconoscendo la superiorità dei drappi francesi, accordarono la preferenza a quelli inglesi. Per quanto riguarda i prodotti coloniali invece (zucchero, caffé, pepe, spezie) alcune fette di mercato italiane e napoletane furono sottratte alla Francia dagli olandesi.
Riguardo alla seconda causa della decadenza del commercio francese e del suo perpetuarsi nella seconda metà del secolo, questa è da ricollegare all’opera di rinnovamento economico e industriale promossa da Carlo III. Egli fece chiamare operai dalla Francia, da Venezia, da Firenze. Purtroppo proprio quando il processo di ripresa napoletano era avviato, gl’inglesi, comprendendo gli svantaggi che ne sarebbero derivati per il loro commercio, ingaggiarono una battaglia sul piano dei prezzi che stroncò non solo l’attività napoletana ma anche quella francese.
A queste due ragioni, è da aggiungerne una terza, di carattere più generale. Le importazioni napoletane erano a carattere rigido perché riguardavano prodotti come lo zucchero, il caffè, la seta. Il che significa che, a meno di improvvisi e consistenti aumenti di popolazione o di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti, i suddetti acquisti si attestavano bene o male sugli stessi livelli quantitativi. Tutt’altro discorso va fatto per la Francia, dove l’aumento delle importazioni dal regno napoletano che si verificò a partire dalla seconda metà del secolo, era indice di sviluppo delle sue industrie perché i prodotti importati erano materie prime come l’olio, la seta, la lana, oppure generi di prima necessità come il grano.
Ed effettivamente si può notare come lo sviluppo delle saponerie marsigliesi procedesse di pari passo all’incremento delle spedizioni napoletane di olio e quello delle seterie lionesi ricalcasse l’andamento delle importazioni di seta. Lo stesso vale per la lana: alla progressiva diffusione dell’industria laniera nel sud della Francia(13), corrispondevano arrivi sempre più consistenti di lana dal Sud Italia. Dunque, proprio per il carattere intrinseco del commercio francese nel regno delle Due Sicilie, a partire dalla seconda metà del secolo, la bilancia commerciale fu sfavorevole alla Francia. All’aumento di invii dal regno di Napoli si accompagnò, infatti, una stabilizzazione o addirittura una contrazione delle spedizioni dalla Francia. Queste ultime consistevano essenzialmente in étamines du Mans, drapperie, seterie, zucchero, caffé. Le importazioni napoletane di étamines erano notevoli negli anni 1740-41, quando si aggiravano sulle 4000 pezze. Ma già nel periodo 1765-73 la media annua si dimezzò: solo 2000 pezze.
Dal 1776 al 1783, fu un continuo decrescere degli arrivi di étamines a Napoli, fino a giungere a N° 0 balle nel 1783. Il 1784 segnò una ripresa, ma le importazioni riguadagnarono presto la tendenza negativa già dall’anno successivo(14). Vicenda analoga vissero le drapperie: ritmo decrescente di spedizioni francesi a Napoli fino al 1780, poi vi furono timidi accenni di ripresa. Le seterie sembrarono resistere un po’ di più. Questo settore, che pure conobbe una decadenza in termini di importazioni napoletane fra il 1765 e il 1780, vide poi un rialzo decisivo a partire dal 1783. Negli anni successivi i quantitativi spediti dalla Francia superarono quelli degli inizi degli anni Settanta. Ma i prodotti che davvero mantennero una loro stabilità negli acquisti napoletani furono i generi coloniali: zucchero e caffè non subirono cadute, tranne per una leggera curva discendente nel triennio 1778-1780. In seguito ripresero con vigore.
La decadenza del commercio francese nel regno delle Due Sicilie nella seconda metà del Settecento ci è confermata dall’andamento del movimento delle navi francesi nei suoi porti. Mentre la marina mercantile francese perdeva terreno, quella napoletana cominciava realmente a svolgere un ruolo attivo, in barba a genovesi, inglesi, olandesi.
Esiste uno stretto parallelismo tra la situazione della bilancia commerciale e quella dei noli: "basterà pensare che proprio nel 1754 (anno in cui sembra potersi fissare il capovolgimento dell’andamento della bilancia commerciale tra i due paesi) si ha anche una contrazione del movimento della navigazione francese nel regno di Napoli"(15). A conferma di ciò vi sono i dati degli arrivi in Francia dai "ports d’Italie, d’Espagne et de Sicile" che presentano un movimento ascensionale inversamente proporzionale a quello delle navi francesi nei nostri porti. Il Sonnino(16), ha inoltre confrontato gli arrivi di navi francesi e napoletane nel porto di Livorno negli anni Settanta e Ottanta del secolo in questione. Egli ha notato che mentre i primi fanno registrare stabilità e anzi regresso, gli arrivi di navi napoletane, al contrario, seguono un aumento costante.
In conclusione, a partire orientativamente dalla metà del secolo, la marina napoletana riacquista forza e incisività, specie se paragonata alla decadenza della marina provenzale. Ripercorrendo le vicende del commercio e della navigazione franco-napoletani nel corso del Settecento, è possibile tracciare un itinerario in tre stadi. Dalla fine del secolo XVII al 1734-35, gli scambi (favorevoli alla Francia dal punto di vista della bilancia commerciale) avvenivano prevalentemente su legni napoletani e genovesi. Poi, a partire dai suddetti anni 1734-35, quando il regno delle Due Sicilie fu investito da una stagione di rinnovamento economico, i battelli francesi intervennero più attivamente in quei traffici.
Parallelamente aumentò l’entità degli scambi. L’inizio della guerra di successione austriaca diede vantaggio ai napoletani, i quali, approfittando della neutralità della loro bandiera, gestirono attivamente il trasporto dei carichi provenienti dalla Francia o ad essa destinati. Addirittura essi si inserirono nelle relazioni tra la Francia e il Levante. Naturalmente al termine della guerra, i francesi tentarono di recuperare i loro vantaggi, ma senza successo, anche perché un’altra guerra, quella dei Sette anni, sopravvenne ad aggravare le loro posizioni. Pertanto, al termine di quest’ultima guerra, il numero delle navi francesi che toccavano i porti del regno meridionale, rimase pressoché uguale a prima della guerra, mentre le spedizioni da Napoli, come si è visto, aumentavano. Non resta che ribadire quanto osservato prima: i napoletani nella seconda metà del secolo non furono più oggetto bensì soggetto delle relazioni commerciali con la Francia.
Ultimo aspetto, ma non ultimo in termini di importanza, a cui tanti documenti e Mémoires del tempo rimandano, è il contrabbando. Questo sembra essere l’elemento chiave grazie al quale i traffici franco-napoletani si moltiplicarono, nonostante i trattati ufficiali, come si è detto, attribuissero privilegi e monopoli a inglesi e genovesi. Ricostruire la storia del contrabbando purtroppo, per la sua stessa natura, non è possibile. Ma testimonianze, ufficiali e non, evidenziano che i primi tempi del regno del Borbone furono segnati da un prevalere del contrabbando francese, anche se proprio in quegli anni si cominciava ad avere un contrabbando esercitato dai napoletani. "E lentamente il gioco cambia: più che i francesi a far contrabbando d’entrata sono i napoletani che fanno contrabbando di uscita in direzione della Provenza. [...] Certo si è che, solo da questo momento appaiono le prime lamentele da parte francese contro i Napoletani"(17).
Dunque le osservazioni fatte a proposito della gestione dei traffici e della marineria da parte dei napoletani nella seconda metà del secolo, le si può estendere anche alla pratica del contrabbando. Fino a quando erano i francesi a condurre il gioco, erano sempre loro i contrabbandieri. Ma scambiandosi le parti, francesi e napoletani, si dovettero necessariamente scambiare anche il commercio sotterraneo. Così, mentre i loro governi stipulavano convenzioni per ovviare al contrabbando, questo prosperava. Come? Grazie alla corruzione, a qualche mancia offerta alle guardie doganali affinché tutto alla fine si trovasse en règle.
Il contrabbando si avvaleva di vari escamotages: bandiere e passaporti falsi e false dichiarazioni di tonnellaggio dei battelli, come ha messo in risalto, tra gli altri, Dardel(18). Se poi tutto questo non fosse stato sufficiente, sarebbe venuto in soccorso l’uso della forza a "sistemare" tutto. Ora, il ricorso alle armi, non fa altro che tradurre una "metamorfosi della violazione della norma in norma"(19).
Il contrabbando veniva sentito ormai come la cosa più naturale del mondo. Perché altrimenti l’ambasciatore genovese scriveva con stile pacato e disinvolto al suo governo: "Si aspettano fra breve i bastimenti di bandiere franche con loro carichi di grano in contrabbando, e si conferma esservene più d’uno con bandiera mascherata."?
La risposta ci viene offerta dal Galanti(20): "il contrabbando è divenuto presso di noi un commercio salutare, perché si oppone alla rovina dello Stato, alla quale sono dirette le antiche leggi che non ancora sono in tutto riformate".
Alcune considerazioni
Le vicende di cui napoletani e siciliani, francesi e inglesi sono stati protagonisti lungo il XVIII secolo, inducono a una considerazione: il concetto di commercio non è da intendersi solo come semplice scambio di merci, ma va considerato nella pluralità delle sue manifestazioni e alla luce delle ragioni storiche e sociali in cui si inserisce. Frutto di politiche economico-sociali, potente attivatore di produzione di beni, fonte di guerre e contrasti internazionali, motivo di lunghe trattative diplomatiche, medium attraverso cui passano relazioni umane e culturali, il commercio da sempre rivela forze e debolezze di popoli e nazioni. E attraverso di esso è possibile scoprire tanti aspetti della storia di un paese, del suo approccio sia verso la politica interna che verso la politica estera, dei suoi usi e costumi, delle abitudini di vita, della mentalità dei suoi abitanti.
La ragione è semplice: le relazioni commerciali sono innanzi tutto relazioni umane. E l’uomo, questo animale sociale, da sempre crea relazioni nelle quali convergono esperienze di vita, di lavoro, di cultura. Tali relazioni sono al tempo stesso rivelatrici dell’innata tendenza dell’uomo a misurarsi col presente e a incidere sul futuro attraverso la sua capacità di fare, comprendere, progettare, programmare. Il commercio, come la storia, ha le sue strategie e risponde a delle logiche precise. Meglio: riflette la storia e ne fornisce una chiave di lettura. Così nella Francia del Sei e del Settecento il mercantilismo è la conseguenza di una politica assolutistica.
Nel regno delle Due Sicilie, sotto Carlo di Borbone, il contrabbando traduce il tentativo di superare un’empasse diplomatica oltre che economica, nella quale si sarebbero altrimenti arenati i rapporti commerciali con la Francia, i quali, invece, riprendono vigore proprio alla metà del Settecento. E questo avviene nonostante tutto: nonostante gl’inglesi, nonostante la mancanza di un trattato di commercio, nonostante i diritti esosi che i francesi dovevano pagare alla dogana di Napoli.
Cosa lega i due regni, dunque? Le affinità culturali, certo. E poi? I Borbone. E ciò non è di poco conto, perché Carlo III non può che favorire le relazioni con la Francia. Ma più di tutto la liason è costituita dalla complementarità dei due paesi: l’uno ha quello che all’altro manca. Non per questo comunque i rapporti tra napoletani e francesi sono idilliaci. Specie quando tra di loro si interpongono veneziani e genovesi. C’è però la volontà degli uomini, se mancano le agevolazioni governative, a portare avanti un commercio ricco di interessanti prospettive. Le circostanze storiche hanno contribuito, è vero, a provocare la decadenza del commercio francese nel regno meridionale (guerra di successione spagnola, guerra di successione austriaca ecc..) favorendo piuttosto gl’inglesi, ma i francesi non per questo intendono rinunciare all’olio di Napoli, che così bene si adatta alla produzione del sapone marsigliese, oppure al grano della Sicilia (tanto più che quello importato dal Levante non sempre basta) o alla seta per le fabbriche di Lione. E i napoletani continuano ad acquistare molti draps francesi, nonostante quelli inglesi siano spesso meno cari. Tuttavia queste relazioni commerciali, secondo i francesi, potrebbero essere ancora più fiorenti.
L’anonimo autore del Mémoire sur le commerce de la France et de l’Angleterre avec le Royaume de Naples ha tracciato un’analisi del commercio francese nel regno meridionale e ha evidenziato come le ragioni profonde della sua decadenza siano da ricercare non tanto nei singoli prodotti oggetto di scambio ma nella politica economica e commerciale che li sottende. Prezzi, prodotti e distribuzione non sono che una conseguenza. Il diverso approccio commerciale di Francia e Inghilterra nei confronti delle Due Sicilie esemplifica questo concetto: è la filosofia commerciale a influenzare la produzione, le vendite e, infine, i rapporti tra gli attori del commercio stesso.
E’ anche vero che gli esiti diversi a cui il commercio francese e quello inglese giungono nel regno delle Due Sicilie riflette due situazioni nazionali profondamente diverse: gl’inglesi partono avvantaggiati non solo per i privilegi di cui godono da parte del re delle Sicilie, ma anche perché la politica inglese incentiva il commercio molto più di quanto non faccia la Francia e, ancora meno, il regno di Napoli.
Per non parlare di quel vasto impero coloniale, realizzato attraverso le guerre, che alimenta le attività manifatturiere e provoca l’exploit del commercio internazionale. E non è affatto escluso che quest’ultimo sia alla base della nascita del capitalismo moderno, che si avrà proprio in Inghilterra. Tutti questi aspetti certamente creano un terreno favorevole alle iniziative e ai rapporti commerciali che gl’inglesi stabiliscono, non ultimi quelli con i napoletani. Tuttavia ritengo che senza la loro filosofia commerciale e la capacità di analizzare anche da un punto di vista psicologico l’economia napoletana, gl’inglesi, con tutti i loro privilegi, non avrebbero fatto molta strada. Non si può dire che i francesi non si rendessero conto di tutto ciò, come dimostrano le considerazioni dell’autore del Mémoire, brillanti e moderne almeno quanto lo è la struttura del commercio inglese.
Ma uscire dal circolo vizioso per i francesi non è facile: tenere testa agli inglesi è possibile solo migliorando l’immagine e la fattura dei prodotti. Ma per far questo bisogna pensare in termini di esigenze del mercato, o meglio dei mercati nei quali avviene il commercio, diversificando la produzione, perché non tutti i paesi sono uguali, e a interlocutori diversi corrispondono gusti diversi, frutto di culture e mentalità che bisogna saper penetrare. Allora il punto è sempre lo stesso: innanzitutto bisogna rivedere la politica economica e commerciale. E questa risente, in fin dei conti, della volontà politica. Allora ecco che per aggirare gli ostacoli si fanno avanti contrabbando ed escamotages diversi. E la "riforma" del commercio attende. I francesi non si accorgono che questo circolo vizioso può precludere le future esportazioni nelle Sicilie.
Ad ogni modo, i rapporti franco-napoletani continuano e anzi si intensificano, ma grazie al nuovo corso della politica inaugurata da Carlo III, la bilancia commerciale si fa sempre più favorevole al regno delle Due Sicilie. I napoletani cominciano, infatti, a gestire direttamente i rapporti con la Francia perché le migliorate condizioni economiche del regno incentivano la produzione. E allora entra in funzione quel meccanismo per cui produzione e commercio si spronano a vicenda e l’uno agisce da volano per l’altro. Se i napoletani e i siciliani non avessero approfittato della favorevole congiuntura politico-economica degli anni di Carlo di Borbone, probabilmente nulla sarebbe cambiato nella bilancia commerciale franco-napoletana, e in più i genovesi e i veneziani avrebbero continuato a gestire la maggior parte dei loro traffici. Tuttavia così non fu. Per questo, a mio avviso, le relazioni commerciali sono innanzitutto relazioni tra uomini. Uomini che determinano la qualità delle relazioni stesse e che, nel loro agire, si misurano con un complesso di variabili storico-culturali.
Ci troviamo di fronte a un volume organico che, ricostruendo in maniera equilibrata la realtà di Corleone dal 1944 al 1968, ha cura dei molteplici aspetti, ognuno dei quali trova ospitalità in virtù dell’importanza e dell’incisività nel periodo storico esaminato. Grande merito dell’autore è certamente quello di descrivere fatti e personaggi con chiarezza di stile e con distacco di valutazione.
Egli, corleonese doc, testimonio degli avvenimenti raccontati, non si lascia coinvolgere in giudizi di parte o in considerazioni prive di fondamento. Storia - si sa - è ricerca ed elaborazione critica dei risultati conseguiti. Nonuccio Anselmo si attiene scrupolosamente a questa metodologia e dispone di un patrimonio di dati che, reperiti in archivi pubblici e privati, risultano preziosi ai fini della realizzazione del suo piano di lavoro.
L’autore, capo redattore del Giornale di Sicilia, coniugando felicemente il metodo giornalistico con quello storico, ricorre, attraverso interviste e dichiarazioni, anche alle fonti orali, ossia alla raccolta di gran parte di testimonianze sul passato, destinate, per lo più, a dileguarsi inesorabilmente nel tempo. Si tratta del recupero di dati dei quali oggi - dopo secoli di indifferenza e di trascurata o sospettosa considerazione - comincia ad essere particolarmente avida anche la storiografia accademica. Tanto è vero che è notevolmente aumentato il numero delle tesi di laurea basate sulla ricerca di testimonianze orali relative a eventi e protagonisti di storia contemporanea e, di conseguenza sono sorti gli archivi di fonti orali, in seno a Dipartimenti di Studi Storici per custodire il materiale cartaceo e le registrazioni in nastro o in dischetti.
Nonuccio Anselmo è, egli stesso, un’interessante e diretta fonte di questo terzo volume su Corleone Novecento (Corleone, Palladium Editrice, 2000, pp.236), sia perché il periodo in questione coincide in gran parte con gli anni della sua giovinezza trascorsa in paese - tanto che egli avverte il rischio che la commozione e la nostalgia per il tempo passato possano "appannare il giudizio" - sia perché le sue analisi trovano spontanei confronti e sicure verifiche attraverso quell’importante osservatorio che fu ed è il Giornale di Sicilia, dove egli svolge il suo lavoro quotidiano.
L’autore, in ogni modo, è consapevole di imbattersi, per la stesura di questo volume, in difficoltà non incontrate nell’elaborazione dei primi due volumi. "Mediamente, - Anselmo confessa nella premessa - questi anni non sono stati né migliori né peggiori dei precedenti e dei successivi. Anni belli e brutti. Belli perché sono quelli del miracolo economico in cui l’Italia diventa una nazione tra le più avanzate, perché comincia a girare nelle tasche qualche soldo in più, perché si alza il livello della qualità della vita, perché si costruisce la nuova Corleone ed il paese esce dall’isolamento del feudo per raggiungere il grado di evoluzione degli altri centri siciliani. Brutti perché viene di nuovo spenta nel sangue l’ansia di riscatto di migliaia di braccianti, perché un altro leader dei contadini viene trucidato, perché la mafia cambia pelle per farsi, se è possibile, sempre più sanguinaria mostrando già i primi sintomi della predisposizione allo stragismo, perché il paese comincia ad essere marchiato come capitale di Cosa nostra, perché migliaia di persone per sopravvivere debbono andar via da casa, perché la politica è sempre meno servizio e sempre più sopraffazione".
Nella comparazione tra gli anni belli e gli anni brutti e nel bilancio tra le cose buone e le cose perverse, avvenute in questa città nell’immediato dopoguerra, Anselmo, da attento e corretto osservatore, riesce a dare di Corleone un’immagine completa, sostanzialmente diversa, certamente più vera, sicuramente più autentica di quella conosciuta nel mondo. Egli - si badi bene - non ha fatto uso della bacchetta magica per annientare il male e il ricordo di esso. Ha semplicemente raccolto e descritto, con dovizia di documentazione, la gran quantità di bene esistito ed esistente a Corleone, senza con ciò mettere veli sui crimini e sui misfatti accaduti. Così dalle pagine di questo terzo volume di Corleone Novecento emerge una storia parallela a quella più funestamente nota, una storia di gran lunga più intensa e più interessante, fatta anche di beghe paesane e di crisi comunali, di lotte religiose e di radicati e inestirpabili ritualismi, di affermazioni collettive e di orgogli soffocati..., ma il tutto nel regolare svolgimento di una vita comunitaria civicamente condotta all’insegna della libertà e ormai aperta alla logica e al ritmo della democrazia.
Di tale storia parallela è stato ed è protagonista, nella varietà dei compiti privati e sociali di ognuno, il 99 per cento dei corleonesi. In essa si vede aleggiare lo spirito filantropico di Bernardino Verro attraverso l’operato di uomini come Vincenzo Schillaci, Luciano Rizzotto, Placido Rizzotto, Giovannino Di Carlo (il sarto), mastro Binnu Streva (il calzolaio, "il primo sindaco eletto del dopoguerra", p.27), e anche l’avvocato Lodato, Vincenzino Porrazzo, Totò Picone e tanti altri. E, in pari tempo, vi si coglie – ovviamente in contrasto con socialisti e comunisti – il genuino ideale delle forze di destra rappresentate da Vincenzo Mancuso e da Vincenzo ("Ciuzzo") Ciancimino in costante e alterno rapporto di odio e amore con le forze di rinnovamento della Democrazia Cristiana, quella non compromessa, seppure divisa in correnti, rappresentata da esponenti come Carmelo Pennino (sostenuto e favorito dall’amicizia di Salvatore Aldisio), Leonardo Liggio, Salvatore Castro, Giusto Catania (fondatori questi ultimi tre della "Pia Unione Braccianti"), Mario Mancuso, Bruno Ridulfo, Pino Giacopelli, Totò Mangano il quale, da giovane universitario in medicina - come posso testimoniare personalmente - ebbe un ruolo di primo piano presso il Comitato Civico Regionale della Sicilia e presso l’ORUP (l’Organismo rappresentativo universitario di Palermo). Sono certo che Nonuccio Anselmo nel quarto volume su Corleone Novecento non mancherà di mettere in luce il contributo all’associazionismo palermitano del giovane Mangano, che è anche tra i più attenti storiografi di Corleone.
Un posto prioritario – sia in questo come nei due precedenti volumi – occupa la Chiesa corleonese con l’Insigne Collegiata di San Martino al vertice di una comunità ecclesiale esuberante di giovani energie e feconda di iniziative religiose e sociali. Si deve a tale costante e incisiva missione – più che a una personale scelta dell’autore – se molte pagine del libro sono dedicate alla vita e alla vitalità della Chiesa locale. Anselmo, sempre con il suo apprezzabile distacco, vi coglie, ovviamente, luci e ombre. E, così, vengono fuori anche le forti – e pur innocenti e legittime – ambizioni di un clero che, con sofferenza, si vede ripetutamente escluso dalla prestigiosa carica di decano, ma che, con manifesta e dignitosa rassegnazione, si piega alla decisione della Curia arcivescovile di Monreale e finisce per accettare la guida pastorale di don Alonzo Bajada e, successivamente, quella di don Emanuele Catarinicchia: il primo, nativo di Carini, "un pretino giovane, magro e ossuto" (p.31); e l’altro, nativo di Partinico, "un omaccione grande e grosso – quasi per una sorta di legge del contrappasso – con una montagna di capelli nerissimi, una voce tonante ed un’altezza da cestista" (p.191). Insomma un "Homo longus", che, dalla cima della sua altezza, non si faceva scrupoli a esercitare i necessari controlli, non solo sulla vita religiosa del paese, ma anche su quella politica e, in particolare, sulle vivaci anime della D.C. locale.
Il giudizio di Anselmo sui due prelati è complessivamente positivo e scorge in essi l’impegno per la realizzazione di due rispettivi progetti, apparentemente distinti, ma sostanzialmente integrativi: don Alonzo Bajada, infatti, si prodigò per la "dignità della Chiesa" in un momento difficile di ricostruzione e di difesa, anche dagli attacchi degli evangelisti di Gaspare Grasso; mentre don Emanuele Catarinicchia puntò sulla "dignità dell’uomo" in una società contaminata dalla faida e ferita dai sospetti. La convergenza dei due progetti era evidente: don Bajada, attraverso la dignità della Chiesa, mirava a scoprire il valore dell’uomo, mentre don Catarinicchia, attraverso la dignità dell’uomo, si proponeva di diffondere e di applicare il magistero della Chiesa.
Anselmo, in ogni modo, sembra manifestare qualche perplessità sulla metodologia adottata da don Catarinicchia e ne parla come di "un’aggravante" asserendo che "il nuovo decano era uno molto sanguigno e questo l’avrebbe portato in rotta di collisione con tutti i poteri: quello politico, quello mafioso e perfino quello del colonnello dei carabinieri Milillo, che per fare terra bruciata attorno ai boss, "per mostrare i muscoli dello Stato, ordinava retate di centinaia di persone"".
A tal proposito don Catarinicchia, intervistato da Anselmo, ribadisce implicitamente di schierarsi per la "dignità dell’uomo" anche contro la "ragion di Stato" e racconta il seguente episodio: "alle mie proteste" contro le indiscriminate retate di centinaia di persone "un giorno Milillo mi venne a trovare per chiedermi chi volessi liberato. Risposi che non ci eravamo capiti, che doveva trattenerli tutti se a loro carico c’era qualcosa, o che doveva rilasciarli tutti se a loro carico non c’era nulla. Gran parte di quella gente fu poi rimessa in libertà" (p.192).
Pilastro morale e culturale della Chiesa e dell’intera comunità corleonese fu don Giovanni Colletto, insigne e indimenticabile figura di sacerdote, insegnante, oratore, soldato, autore nel 1936 di una Storia della città di Corleone in 34 capitoli e 444 fitte pagine che "anche oggi – secondo il giudizio di Anselmo – rimane la base di ogni ricerca storica su Corleone, essendo rimasta unica, forse anche perché qualsiasi riscrittura sarebbe comunque risultata per grandi parti un doppione" (pp.79-80).
Nella storia parallela alla più nota Corleone vanno, intanto, collocate le suggestive pagine scritte da Nonuccio Anselmo sul calcio locale degli anni ’50 e ’60, allorquando erano sufficienti una fornata di pane e un buon fiasco di vino per ottenere tifo, passione, qualche successo e... molte soddisfazioni; sul recupero del ricordo dell’eroe risorgimentale Francesco Bentivegna, la cui opera fu strettamente unita a quella dell’eroe cefaludese, Salvatore Spinuzza; sull’emigrazione nell’immediato dopoguerra dei cinquemila corleonesi, partiti, per lo più, con la valigia di cartone, verso il triangolo industriale e i paesi dell’Europa Centrale, e raggiunti nel 1968, a causa del terremoto, da un altro migliaio di compaesani; sulla vocazione musicale dei corleonesi, coltivata con la formazione di intraprendenti complessi orchestrali e di famose bande musicali sotto la direzione di maestri e compositori come Pietro Cipolla, Franco Rossitto, Franco Falco, Archimede Pennino; sulla "Corleone by night" o, come titola l’autore, Notti sotto le stelle, notti trascorse al "Circolo dei buoni amici" o all’Azione Cattolica o impegnate nella creazione di gruppi teatrali di matrice confessionale e laica, la cui attività, attraverso apposite tournées, sconfinava nei paesi vicini: erano anche i tempi delle prime serate di cinematografo, degli incontri al bar, della passeggiata di "quattro specie" (alle balate, all’albero, a Santa Lucia, a Santa Lucuzza), ridotte successivamente a due sottospecie (la passeggiata lunga e quella breve), e, poco dopo, sostituita dai più fortunati con il giro in automobile o in moto e... con qualche eccezionale parentesi di "dolce vita".
Corleone Novecento, oltre a offrirci, nel bene e nel male, la descrizione della vita di una comunità attiva e con una propria fisionomia, si presenta anche come un ricco "album di famiglia". E ciò a corredo e a tutto vantaggio del testo. La straordinaria serie di fotografie, molte delle quali appartengono all’archivio di Pietro Oliveri (don Pitrinu), contribuisce a dare all’opera di Nonuccio Anselmo una valenza storica di eccezionale portata, nel senso che le immagini, assieme alla parola scritta, aiuteranno le presenti e, soprattutto, le future generazioni a conservare la memoria storica delle proprie origini e ad essere gelose della propria identità.
Tali radici, ovviamente, non hanno alcunché da vedere con l’altra Corleone, quella più conosciuta e niente affatto "corleonese", su cui per necessità e per completezza di analisi Nonuccio Anselmo ha dovuto anche scrivere e ha scritto con senso critico, ma di cui io, per scelta, di proposito sottovalutandola, ho voluto tacere giacché essa non è rappresentativa dei corleonesi veri, dei corleonesi autentici
Siamo in un tempo in cui la politica, pur vivendo le sue contraddizioni, i suoi conflitti, le sue agonie, resta al centro di una discussione che è fondamentale per le scelte di un Paese. Non so se questo definirlo un bene o un male. Ma il più delle volte dietro la camicia della politica si nascondono vuoti paurosi. Il più delle volte. Ma non è sempre così. Il guaio è che dietro a una contestazione di proposta resta solo la contestazione e non una proposta alternativa. E questo avviene in tutti i campi degli schieramenti.
Per riassumersi in sintesi due sono i problemi-aspetti. Occorrerebbe una classe dirigente capace di confrontarsi con le "evoluzioni" di una società costantemente in transizione ma si pensa soltanto ad un consenso numerico senza rendersi conto che questo consenso si ottiene da un consenso basato su una reale progettualità delle tematiche che incombono in un quotidiano che deve saper guardare al futuro. Occorre, ecco il secondo aspetto-problema, che la cultura si impossessi della politica in termini reali.
È ormai un dibattito antico questo. Ma è sempre più opportuno non toglierlo dallo scenario che abbiamo davanti. La politica come qualità di significati e di senso ha perso di valore e di valori. Le cause sono tante; e nonostante tutto non si cerca di porre dei rimedi perchè forse come scrive Gaia de Beaumont: "Tutti vogliono salvare la terra e nessuno vuole, appunto, portare giù la spazzatura" (in Vogliamoci male, Marsilio). Ma c’é un concetto poi non tanto diverso che risale a Seneca quando afferma ne L’ira che: "Il padrone d’una nave che lascia entrare molta acqua dalle commessure allentate, se la prende forse con i marinai e con la nave stessa? Piuttosto corre ai ripari e una parte d’acqua la ferma, un’altra la sgotta, ottura falle evidenti, resiste con continuo impegno a quelle invisibili che lasciano entrare acqua di nascosto, e non è indotto a fermarsi dalla constatazione che, quanta acqua sgotta, altrettanta se ne riforma. Contro i mali continui e che si riproducono c’é bisogno d’un soccorso persistente, non perchè cessino, ma perchè non abbiano la meglio".
Valori e progettualità sono i contenuti e le linee portanti di un processo che prima di essere politico era ed è sostanzialmente culturale. Un processo al quale spesse volte ci siamo richiamati come modello di quella identità che vedeva nella destra possibile una chiave di lettura fondamentale per capire la realtà del nostro tempo. Quella destra possibile era ed è la destra dei valori, delle idee, della ricchezza della discussione politica dalla quale non si può prescindere se si vuole andare verso una identità non fossilizzata né schematizzata ma che si richiama ai grandi significati del sentimento di radicamento. La destra è radicamento di valori nella costante proposta di una progettualità i cui riferimenti politici non possono che trovare nella cultura i punti marcanti di una visione ideale che guarda al futuro con capacità di risposte concrete.
È su questa base che il dibattito all’interno della destra trova una sua motivazione di spessore e un interlocutorio valido proprio nell’istante della civiltà contemporanea che viene assorbita dai problemi quotidiani della società in un rapporto tra attualismo e modernismo.
La destra, quella destra possibile alla quale si faceva cenno, ha sottolineato ed ha discusso queste motivazioni sia in termini storici sia in termini problematici sia in termini prospettici. Il futuro della destra resta inevitabilmente legato ai due fattori già evidenziati. Ovvero i valori e la progettualità. L’identità è dentro un’offerta che crea un legame consistente, appunto, tra politica e cultura. Ma l’identità non è focalizzata nella stabilità di un tempo che non conosce nuovi percorsi e varianti.
Quella destra possibile oggi è la stessa destra al tempo dell’Ulivo. Gennaro Malgieri, parlamentare, direttore del Secolo d’Italia e della rivista Percorsi, saggista e scrittore di testi dedicati a Carlo Costamagna, al pensiero evoliano, ai sindacalisti rivoluzionari ha scritto ed è nelle librerie in questi giorni: La Destra al tempo dell’Ulivo, edito da Editoriale Pantheon (pp. 339, L. 30.000). Malgieri, in realtà, è l’autore del saggio La destra possibile pubblicato dalla stessa casa editrice nel 1995.
In questo nuovo libro di Malgieri, che raccoglie numerosi articoli e saggi pubblicati nel corso di quest’anni, c’è una analisi precisa e molto elastica dal punto di vista espressivo del ruolo che ha rivestito la destra in questa importante stagione che va dal 1995 all’era di D’Alema.
Si parla della destra e principalmente, in molti aspetti, di Alleanza Nazionale. Il ruolo di AN e il dibattito che si è riuscito a creare sui problemi veri, sulle riforme, sulle lacerazioni che insistono nella sinistra e nel centro, sulla politica economica e sulla politica estera, sul sentimento di unità e identità nazionale.
Ma è prioritario, a mio avviso, la discussione che apre intorno alla dialettica tra politica e cultura in un tempo in cui la dominazione della sinistra è consistente.
Metafore che ci riportano alla questione viva del rapporto politica-società-cultura. Un tema persistente e che ha una sua valenza ormai storica. L’impegno della cultura nella politica deve essere un impegno di coraggio e di coerenza sulle linee progettuali che sono linee sia di sviluppo in termini più ampi sia esistenziali. La società non è un apparato o un gregge. È un sistema esistenziale ed etico. Non possiamo dimenticare, noi popolo Mediterraneo, noi popolo dalle "Vite parallele" proprio il Plutarco de Il simposio dei sette sapienti. Non possiamo dimenticare l’insegnamento di Senofonte quando ne La tirannide ci educa ad una "felicità senza invidia". E la politica invece è tutto il contrario. È una infelicità colma di invidia? Non possiamo dimenticare la lezione di Cicerone nell’affermare che nulla avrà valore "se non ci riuscirà di dimostrare non solo che è falsa l’idea che non si possa governare lo stato senza ingiustizia, ma che è bel vero, al contrario, che non lo si può governare senza estrema giustizia" (in La repubblica luminosa). Non possiamo tralasciare quel concetto forte che ci fa ritornare ancora a Plutarco: "Il politico è multiforme, e tratta ciascuna situazione nel modo più adatto a trarne guadagno..." (in Sertorio). Nell’immaginario collettivo cosa è cambiato. Ma poi Plutarco ammonisce e suggerisce: "....la politica non è un servizio che ha l’utile come scopo: essa è piuttosto la vita stessa di un essere mite, socievole e politico..." (in Anziani e politica).
Perchè queste citazioni? È vero che lo status della politica ha delle caratteristiche fondamentali che restano fisse nella storia e nel tempo ma è anche vero che ogni società e ogni civiltà ha la sua politica e pratica la politica con gli strumenti e con le classi dirigenti che si trovano in un determinato contesto. Ma ciò che conta, nelle contraddizioni stesse del fare politica, nella proposta di un fare politica in un modo diverso, dopo la fine delle ideologie che abbiamo vissuto, è il saper dialogare con la cultura e porre la cultura come riferimento di consensi.
Si è in grado di fare questo? Qui invece si ripete la massima di Antifonte sottolineata in La Verità: "Chi progetta di danneggiare i vicini, e pensa che non ne trarrà danno, non è saggio". Basterebbe guardarsi intorno per collocare ogni citazione di queste da me riportate ad un preciso avvenimento politico accaduto nel nostro recente passato e nel nostro impatto con il presente.
Non facciamo in modo che la politica possa morire. La civiltà che ci appartiene, quella già citata delle "vite parallele" (ovvero greca e romana), è una civiltà fondata sull’essere della politica, eredi di Platone e di Aristotele. Ma siamo sempre immersi nel mare della politica. E pur essendo immersi in un tale mare dobbiamo comunque sempre tenere presente ciò che affermava Seneca ne Le consolazioni: "Tutto ciò che l’uomo ha di meglio non è alla portata dei potenti".
Non si tratta di una consolazione. Ma di riappropriarci di quell’essere della politica che è la vita stessa. Utopie? Probabilmente si. Ma si dovrebbe avere il coraggio, perchè d’altronde è poi così di dire alla politica quello che sosteneva Socrate dal carcere riportato in La vita felice di Seneca: "Io sono come uno scoglio solitario di fronte al mare, che le onde flagellano da ogni parte senza riuscire a smuoverlo e logorarlo nonostante l’assalto di secoli. Attaccatemi, datemi addosso, io vi vincerò sopportandovi. Contro gli ostacoli saldi, insuperabili, tutto ciò che si lancia a colpirli sfoga la sua violenza a sue spese; vi conviene quindi cercare materia più molle e cedevole ove infiggere i vostri dardi".
La metafora continua. La cultura e la politica. Noi siamo ancora un popolo Mediterraneo che ha bisogno di conservare la tradizione della politica. Siamo altresì consapevoli che le ideologie sono finite. Ma siamo altrettanto coscienti che questa politica suicidandosi porta in rovina una eredità di valori e di idee che è dentro l’uomo che crede ancora che la cultura possa salvarla. Dobbiamo convincerci di essere come lo scoglio solitario di Socrate e sollevare dall’abisso quella politica che si è illusa di divertirsi come se fosse in un circo e in un teatro mandando in rovina idee e valori forse ignorando che è da questi che bisogna partire per dare senso alla vita stessa.
Si è in grado di fare ciò? Siamo Mediterranei ed essendo Mediterranei siamo innanzitutto greci e poi romani.
Così scrive Malgieri: "La Destra al tempo dell’Ulivo si è ridefinita. È riuscita, pur tra tante difficoltà, ad interpretare il suo ruolo all’opposizione in maniera costruttiva, assumendo la fisionomia della Destra riformista e della Destra dei valori". È su questo piano che bisogna lavorare perché tutto ciò venga accompagnato, aggiunge Malgieri da una "campagna contro l’omologazione culturale, contro il ‘pensiero unico’ quale forma di nuovo totalitarismo che sembra domini anche l’‘ideologia’ ulivista, o che almeno condizioni importanti settori politici e culturali di Centro-sinistra, il ‘pensiero unico’ è il fenomeno pre-politico che caratterizza il nostro tempo".
Ecco, allora la necessità di un rapporto sempre più stretto tra politica e cultura. Un rapporto che deve essere efficace soprattutto per il tempo che ci troviamo a vivere. Un tempo lacerato in un Paese che soffre di una malattia che é dovuta ad una mancanza di riferimenti culturali. Altrimenti non si spiegherebbe la svolta di un Governo retto da un ex o post comunista fiancheggiato ancor una volta da spezzoni del mondo cattolico. Bisogna risalire ad una verifica forte tra spirito di una Nazione e nuove e antiche contraddizioni che affliggono appunto un Paese malato.
L’identità vive tra la storia e la cultura, tra i segni di una appartenenza e una evoluzione che è legata ai passaggi epocali stessi. Bisogna prendere atto di ciò e la consapevolezza é soprattutto un segno di maturità che permette di superare le logiche dell’accerchiamento. In questa dimensione il gioco tra la storia e la tradizione diventa straordinaiamente affascinante.
La destra è la tradizione che va nel futuro attraverso non il razionale dell’identità ma attraverso una identità che si confronta con il tempo in trasformazione e con la società. La politica è lo strumento della possibilità della comprensione soltanto se le radici stesse della politica hanno una loro incisività nella cultura.
Il dialogo tra politica e cultura propone la necessità di affrontare il futuro grazie ad una offerta, come si diceva, di valori e di indicazioni progettuali. Altrimenti occuperà il campo l’incapacità di pensare al futuro e saremo affollati dalla mediocrità che invaderà ogni settore.
Il compito della destra sta nel sapere disegnare un quadro di riferimenti valoriali nella condivisibilità di una politica fatta di ideali e di contenuti, di testimonianze e di significati che hanno sempre posto al centro l’uomo.
In questo paese malato campeggiano realismi ibridi. Ha ragione Malgieri quando sostiene che: " Il ‘quadro’ politico non è deturpato soltanto dagli ibridi ed innaturali connubi che vi si ‘leggono’. Tecnocratici liberal-democratici e neo-comunisti in una logica neo-consociativa possono anche trovare motivi che giustificano lo stare insieme. Ciò che sconcerta, invece, è l’assoluta mancanza di progettualità da parte dell’Ulivo che ha, in effetti, consumato se stesso - tanto da risultare niente di più che un cartello elettorale - votandosi esclusivamente alla conquista di Maastricht. La Sinistra si è ridotta a puro (e nemmeno tanto esaltante) esercizio di potere".
Davanti a questo quadro catastrofico la destra, certamente, deve attrezzarsi e organizzarsi non solo sul piano dell’impegno ma anche su quello delle capacità e delle presenze, sul piano di una proposta progettuale, che, come si diceva, deve avere un senso non soltanto in termini gestionali ma soprattutto nella proposizione dei valori.
La destra al tempo dell’Ulivo e al tempo di D’Alema non può fare solo opposizione, non può limitarsi a controbattere e ad assorbire le manifestazioni di arroganza che serpeggiano sia a livello governativo che negli Enti locali.
Dice bene Malgieri: "La Destra, se vuole dare un senso non solamente politico alla sua opposizione, deve attrezzarsi al confronto con il governo sul piano dei valori e di una cultura alternativa. Diversamente è destinata a soccombere o, nella migliore delle ipotesi, a diventare marginale".
Bisogna chiaramente evitare una simile situazione. La destra deve giocare un ruolo da protagonista attraverso una offerta di cultura alternativa. Ma occorrono capacità e spirito di iniziativa. Soprattutto in AN c’è bisogno di volare alto non solo politicamente ma culturalmente. Un’opposizione se alla base non ha una struttura che si caratterizzi culturalmente è difficile poter impostare un processo di alternanza.
Non bisogna abbassare la guardia su quel rapporto tra cultura e politica che diventa ancor più fondamentale e in modo particolare oggi che si vive in un Paese non solo malato ma lacerato da conflittualità certamente economiche ma anche di identità.
Un libro, quello di Gennaro Malgieri, che innesca una vitale e vivace discussione all’interno della destra e nel quadro della politica che ha bisogno di una scossa per ritrovare il suo senso e liberare quelle intelligenze di cui tanto si ha bisogno
Il giorno 10 marzo 2000, alle ore 16.30, nell’aula magna del Liceo classico Umberto I di Palermo, si è svolto un seminario di studi in ricordo di Renato Composto, che di questo Liceo fu per diversi anni Preside. Presenti il Provveditore agli studi dott. Guido Di Stefano e numerose personalità del mondo della cultura, allievi parenti e colleghi tra i quali il prof. Francesco Brancato, avanti negli anni, che ha voluto essere presente a testimonianza della sua stima e del suo affetto per il collega.
Ha i diretto i lavori il prof. Pietro Mazzamuto che ha parlato, in chiusura di Renato Composto poeta-filosofo.
Hanno relazionato il prof. Armando Di Pasquale, presidente onorario del T.A.R.: Renato Composto storiografo siciliano del Risorgimento, il prof. Salvatore Lo Bue, prof. di Estetica all’Università di Palermo: tra finito e infinito il magistero di Renato Composto, la professoressa Ida Rampolla del Tindaro, ispettore del Ministero della P.I.: Renato Composto uomo di scuola.
Formulo l’auspicio che l’iniziativa possa avere un più ampio sviluppo, trattandosi di uno studioso di alto livello e di molteplici interessi, di un docente che visse nella scuola e per la scuola, da additare alle future generazioni.
In calce alla presente si allega copia della lettera inviata, per l’occasione, dalla vedova Sig.ra Laura Manfrino al prof. Mazzamuto e si dà notizia della bibliografia essenziale, da me compilata, delle pubblicazioni del Composto e degli studi critici relativi alla sua opera.
Torino 7 marzo 2000
Stimatissimo prof. Mazzamuto
Ho appreso qualche giorno fa, da una telefonata di mio figlio Attilio, del suo interessamento per un dibattito volto a ricordare la figura di mio marito.
Le sono molto grata per l’iniziativa che mi auguro voglia suscitare un qualche interesse per l’opera di uno studioso, destinato ad essere dimenticato.
Vorrà, la prego, estendere il mio ringraziamento e quello dei miei figli Antonio e Attilio a tutti i promotori di questo dibattito.
Colgo l’occasione per congratularmi con lei per la sua vena di narratore: ho letto qualche tempo fa su Famiglia Cristiana la notizia del premio ricevuto da un suo romanzo, Il parroco scrive lettere d’amore, così mi pare.
In precedenza avevo letto un altro suo libro Memeo che mio fratello Lionello aveva ricevuto in prestito dal compianto Augusto Cascarella.
Seguo sempre con interesse le notizie riguardanti le mie conoscenze di Palermo.
Intanto le giungano i miei saluti e quelli dei miei figli, estensibili a sua moglie e alla famiglia tutta.
Laura Manfrino ved. Composto.
Bibliografia
Tre note storiche, Patti 1952, Libreria G. Panta in 8°, pp.21.
La Borghesia siciliana di fronte al problema unitario nel 1860, in Rassegna storica del Risorgimento, XLI 1954, I, pp. 9-16.
Paolo Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra (1855-1874), Recensione in Biblioteca di cultura storica, n. 51, Torino 1954, pp. 678-680.
Annuario del Liceo ginnasio V. Emanuele III, in Patti anno scolastico 1953-54, 2° annuario della scuola edito a cura del Preside, Carto Libreria G. Panta 1954, p.19.
Angelina Lanza Damiani, in Quaderni del Meridione, Palermo, ottobre-dicembre 1958, pp. 412-413.
Le giornate di Calatafimi ed il contributo del volontarismo siciliano (pubblicato sulla rivista Trapani, ottobre 1960, pp.11-17).
La Sicilia verso l’Unità d’Italia, Palermo, Ed. Manfredi 1960, pp. 47-52.
La situazione rivoluzionaria nei primi giorni del 1860 e un dispaccio inedito del Principe di Castelcicala, in Atti del XXXIX Congresso dell’Ist. per la storia del Risorgimento italiano, Palermo 1960, pp. 47-52.
Il conservatorismo sociale in Sicilia prima dell’unificazione, Atti Convegno Trapani, Erice 1960, pp.91-110).
Carteggi del Risorgimento. Lettere del Conte di Sant’Adriano a Michele Amari e Luigi Naselli, in A.S.S., 1962, pp. 7-21.
La coscienza politica siciliana della Costituzione del 1812 all’Unificazione. Estr. da Annuario dell’Istituto magistrale statale "Pascasino" di Marsala, anno scol. 1961-62, p.18.
Le idee sociali del primo Crispi, 1839-1849, Istituto Poligrafico dello Stato, pp. 200-216, Estr. da Rassegna storica del Risorgimento, anno 49, fasc. 2, Aprile-Giugno 1962.
La missione di Torre Arsa a Londra, Trapani Grafiche G. Corrao, p 7, Estr. da Trapani, Rassegna mensile della Provincia, Giugno 1962, anno 7, n°6.
L’Iniziatore, un coraggioso giornale Trapanese del tempo dei Borboni, estr. da Trapani, Rassegna mensile della Provincia, anno VII, n° 1, Gennaio 1962, p.8.
L’iniziativa regia nell’inverno del 1959-60, in Giglio di Roccia, Palermo 1962, pp.7-10.
Democratici e società operaie sulla via di Aspromonte, Istituto poligrafico di Stato, pp.184-226, Estr. da Rassegna storica del Risorgimento, anno 51, Aprile-Giugno 1964, fasc. 2.
Conservatorismo e fermenti sociali nella Sicilia pre-unitaria, Palermo S.F. Flaccovio 1964, p. 55.
Padre Francesco Lo Cicero T.O.R. nella rivoluzione del 1848, in Annali del Liceo G.G. Adria, 1964, p.31.
Sulle origini della nuova Europa, in Rass. storica toscana anno X, 1964, pp. 201-217.
Unità e libertà prima esperienza di giornalismo socialista in Sicilia, in N.Q.M., 1964, n°6.
Economia e politica nel giornalismo antiborbonico: il commercio 1850-1860, Palermo S.F. Flaccovio, Estr. da Il Risorgimento in Sicilia, rivista trimestrale del Seminario di Storia del Risorgimento della Facoltà di Magistero dell’Università di Palermo, anno 1, Gennaio-Giugno 1965, n°1-2.
Sarnico Palermo 1965, pp. 277-304, Estr. da Atti dell’Accademia di Scienze lettere e arti di Palermo, serie 4, vol. 25, parte 2ª.
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L’Associazione unitaria italiana di Genova 1861-62, Pisa, Domus mazziniana, p.87, Estr. da Bollettino della Domus mazziniana, n°1, 1967.
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Crispi - De Pasquali 1850-51. Contributo alla biografia di Gaetano De Pasquali, in A.S.S., S IV, vol. I, pp.161-168, Palermo 1975.
Sull’itinerario politico di Crispi nel 1848, Pisa, Pacini 1975, pp.319-333, Estr. da Bollettino della Domus mazziniana, 1975, n° 2.
Un giornale democratico agrigentino dell’ottocento "La rupe atenea", in A.S.S., S IV vol. II, pp.169-179, Palermo 1976, ripubblicato in N.Q.M., anno XV, n°58, pp. 200-209, Palermo 1977.
Schede di giornali siciliani dell’ottocento, in N.Q.M., anno XIV, n°53, pp.106-112, Palermo 1976.
Francesco Crispi da moderato a democratico, in A.S.S., S IV, vol. VI, pp.295-408, Palermo 1980.
Rosalia Montmasson, in Annali del Liceo G.G. Adria, 1982, p.39.
Tra le pieghe della biografia Crispina - Postilla, in N.Q.M., anno XX, n°77 pp.117-121, Palermo 1982.
Il primo amore di Francesco Crispi, in A.S.S., S IV vol. VIII, pp.231-242, Palermo 1982.
Lettere di Francesco Crispi al padre, in N.Q.M., anno XXII, n°87-88, pp.303-330, Palermo 1984.
Due lettere di Rosina D’Angelo a Francesco Crispi, in N.Q.M., anno XXV, n°100, pp.523-527, Palermo 1987.
Le amministrazioni comunali nell’iter politico di Francesco Crispi, in A.S.S., S IV, vol. XI, (1985), pp. 253-269, Palermo 1987.
Una donna fra i Mille: Rosalia Montmasson - Crispi, p.99, ed. Novecento, 2ª edizione, Palermo 1989.
Appunti sul pensiero politico di Francesco Ferrara sino al 1848 quasi un approdo a Mazzini, estr. da "Bollettino della Domus Mazziniana", anno XXXV, n°1, Pisa 1989.
Tommaso Crispi sindaco borbonico, in Rivista storica del Risorgimento, 1989, I, pp. 37-49.
Sul memorandum di Francesco Ferrara a Cavour, in "Francesco Ferrara e il suo tempo" (atti del Congresso - Palermo 27-30 ottobre 1988) pp. 697-713, Bancaria ed. Roma 1990.
Non sono riportate le numerose recensioni apparse su A.S.S., e N.Q.M.
Kant e Herder, Palermo 1937.
Logica rivoluzionaria del partito nazionale fascista, in Quaderni di studi politici e letterari, diretti da Matteo G. Tocco, n. 3, pp. 27, Palermo 1939.
La quarta critica Kantiana, Palermo, Ed. Palumbo 1954.
Introduzione al Critone di Platone, Palermo 1950.
Il problema dell’io nel Common Place Book Berkeleyano, in Giornale critico della Filosofia italiana, vol. 8°, pp.530-538. Razionale e irrazionale Palermo, A. Renna s.d., in 8°, pp. 8-12, Estr. vol. 2° numero della rivista La giara.
Il problema del bello e dell’arte in Plotino, Palermo, ed. Palumbo 1957.
Dalle origini a Kant, vol. 1, 1966, p. 335
La scuola e l’uomo. I problemi fondamentali dell’educazione. Profilo storico della Filosofia e della Pedagogia dall’Umanesimo ad oggi, 2ª ed. Palermo, Edizioni Bodoniane, Luxograf 1964.
Storia della Filosofia, Vol. 2, Editore Manfredi, Palermo 1966 e 1970.
Il pensiero contemporaneo, 1970, pp. 301.
Illuminismo e storia: i lineamenti, Palermo, Stab. tip. fratelli Vena e c., p. 43.
Mi liberava il canto, Ed. Guanda 1953.
Dodici poesie, Palermo, ed. V. Prima 1954
Stagioni di Sicilia, Palermo ed. Utes, 1959
In Labor rivista trim. di cultura e attualità fondata nel 1960 a Palermo da Cosmo Crifò sono pubblicate le poesie:
Laminetta orsica, 1960, fasc. II, pag 134
Mandorlo fiorito, 1961, fasc. II, pag. 85
Elegia nissena, 1962, fasc. I, pag. 21
Il cono di sole, 1963, fasc. IV, pag. 165
Nella casa natale di Carducci, 1964, fasc. I, pag. 23
Stagione acerba, 1964, fasc. III, pag. 135
L’amaro ricordo, 1965, fasc. III, pag. 171
Ciane, 1966, fasc. IV, pag. 246
Cave di Maiano, 1967, fasc. I, pag. 32
Ritorno in Africa, 1969, fasc. III, pag. 150
Solo un momento, 1970, fasc. I, pag. 44
Nuvole, 1971, fasc. IV, pag. 209
Lago di Bolsena, 1976, fase III, pag. 128
Scritti su Renato Composto
Salvatore Candido, Uno storico del Risorgimento, ricordo di Renato Composto in Colapesce, almanacco di scrittura mediterranea, semestrale 4’/98-99. Direttore Editoriale Aldo Gerbino. Redattore capo Salvatore Di Marco.
Aldo Gerbino, Abbagli "d’anni liceali". Un ricordo per Renato Composto in Colapesce almanacco di scrittura mediterranea semestrale, 4’/98/99. Direttore Editoriale Aldo Gerbino. Redattore capo Salvatore Di Marco.
Aldo D’Asdia, Renato Composto. Ricordo di un amico, Stampa privata, Palermo 1999.
Pietro Mazzamuto, Renato Composto poliedrico uomo d’intelletto, in Oggi, nuova Sicilia, quotidiano, 10 Marzo 2000.
Pietro Mazzamuto, Renato Composto filosofo-poeta, in In Sicilia periodico di cultura, storia, arte, turismo, attualità, e pubbliche relazioni, anno III, Luglio 2000. Direttore editoriale Tony Marotta. Direttore responsabile Franco Vaiarelli
Per comprendere il testo di Storia della filosofia di Renato Composto, pubblicato da Umberto Manfredi nel corso degli ormai mitici anni sessanta del secolo ventesimo, bisogna rifarsi alla Storia della filosofia in Sicilia di Vincenzo Di Giovanni, pubblicata nel 1873, quando colui, che fu docente di discipline filosofiche e preside della facoltà di lettere e filosofia dell’Ateneo di Palermo, sosteneva che la storia della cultura nazionale di un popolo non è mai una totalità, ma un insieme di pezzi che compongono un mosaico ricco e complesso. Senza con ciò volere privilegiare le varie forme di provincialismo o di regionalismo, l’autore della Storia della filosofia in Sicilia intendeva sottolineare che le singole componenti di una cultura costituiscono una complessità ricca di significati, che, nel caso della filosofia, appunto, ha seguito un percorso irto e, a volte, scosceso, che da autori, come Empedocle di Agrigento o Gorgia da Leontini, conduce a personaggi, come Vincenzo Miceli e la sua scuola monrealese o a Benedetto D’Acquisto e Simone Corleo, che aprirono l’Ateneo palermitano alla contemporaneità della cultura nazionale ed europea nel dialogo e nel confronto con le altre espressioni culturali (non ultime la scienza e la psicologia).
In questo caso la memoria, ancor prima che allo stesso Renato Composto, conduce a Giuseppe Maria Sciacca, docente di Storia della filosofia a Magistero e a Lettere nel corso della seconda metà del secolo e per molti maestro di vita; proprio a Giuseppe Maria Sciacca si deve l’Appendice di aggiornamento alla Storia della filosofia in Sicilia di Vincenzo Di Giovanni, relativa al periodo tra il 1870 ed il 1950, pubblicata nel 1985 per i tipi della Casa Editrice Cappelli di Bologna su iniziativa della selezione palermitana della Società Filosofica Italiana.
Nel caso di Renato Composto ci troviamo di fronte ad un intellettuale e ad un uomo di scuola che proprio da Palermo ha saputo dare molto alla cultura e alla comunità del tempo, certamente in momenti ed in anni difficili che sarebbero diventati difficilissimi. In un periodo in cui non era ancora di moda scrivere un manuale di filosofia ed elaborare ad ogni costo nuove metodologie didattiche, il testo di colui che fu prima docente e poi preside di liceo si compone di due volumi, il primo (pubblicato nel gennaio 1966) va Dalle origini a Kant e consta di 335 pagine, il secondo (pubblicato nell’aprile 1970) riguarda Il pensiero contemporaneo e consta di 297 pagine. Si tratta quindi di un testo scolastico snello e scorrevole, che non ha la presunzione di contenere una storia universale dell’umanità, come nel caso (anch’esso positivo) del testo di Carlo Greca, tutto contenuto in un solo volume di 435 pagine, pubblicato nel medesimo periodo storico. Il testo di Renato Composto, per certi versi, anticipa l’orientamento di questi ultimi anni, di non confondere un manuale scolastico con un’enciclopedia comprendente una miriade di brani antologici, che possono più confondere che agevolare il percorso formativo, che va seguito sia da parte del docente sia da parte dei discenti (nelle rispettive competenze dei ruoli); il testo scolastico, quando è scritto da persona competente e bene informata, deve fornire informazioni rapide ed immediate, soprattutto nel caso del vasto programma di filosofia, che comprende oltre venticinque secoli di autori e di testi, rispetto ai quali bisogna saper operare una opportuna selezione.
Nel primo volume Composto offre una breve introduzione storica delle varie correnti filosofiche, partendo dalla filosofia greca e romana, passando a quella medievale (la patristica e la scolastica), sino a giungere a quella moderna (empirismo e razionalismo), per chiudere con Kant, opportunamente considerato il punto di arrivo della modernità ed il punto di partenza della contemporaneità.
"L’ampiezza e la profondità speculativa del pensiero Kantiano - sostiene Composto - riverberano l’esigenza del Criticismo sulle sistemazioni successive: così, non soltanto coloro che intesero sviluppare le premesse kantiane o valutare aspetti particolari della complessa architettura, ma anche coloro nei quali si ripresentarono esigenze che Kant non aveva inteso o che aveva ritenuto di superare, ebbero sempre un punto di riferimento fondamentale nel Criticismo" (vol. I, pag.326).
Il secondo volume evidentemente riguarda l’ottocento ed il novecento, offrendo un quadro completo delle filosofie dell’ottocento con le varie correnti di pensiero che si sviluppano sul piano dell’anti-idealismo alla morte di Hegel (1831). Dopo avere esaminato romanticismo, idealismo e post-kantismo, è la volta della filosofia della restaurazione e quindi di tutti i movimenti che si determinarono e si svilupparono in polemica all’idealismo; il realismo di Herbart, il volontarismo di Schopenhauer, la categoria del singolo di Kierkegaard, il materialismo storico, il positivismo non sfuggono all’attenzione e all’intelligenza del suo autore, che sa guardare con occhio attento e scrupoloso pure alla filosofia italiana del tempo (Romagnosi, Rosmini, Gioberti, Mazzini). Il panorama della filosofia del secolo diciannovesimo è completato con l’esame della filosofia di Nietzsche, considerato dagli scritti giovanili (La nascita della tragedia) all’ultima sua opera (La volontà di potenza); il pensiero francese a cavallo tra ottocento e novecento (Boutroux, Bergson, Blondel); quello angloamericano (Bradley, James, Royce); quello tedesco (lo storicismo di Dilthey, il sociologismo di Weber, la filosofia dei valori di Windelband, l’intuizionismo di Simmel, la fenomologia di Husserl, la psicoanalisi di Freud); quello italiano (l’idealismo di Croce e Gentile, il pragmatismo di Vailati); quello spagnolo (Unamuno).
L’analisi storica e storiografica di Composto prosegue e si conclude con le filosofie del novecento: Jaspers e Heidegger, Ortega y Gasset, Marcel, Maritain, Wittgenstein, Whitehead, Dewey, Plekhanov, Lenin, Luxemburg, Lukács, Gramsci. Pur trovandosi in una condizione di obiettiva limitazione, per il fatto di scrivere negli anni sessanta il suo manuale risulta ben informato e ricco di autori e di correnti, in modo tale da mostrare una sicura consapevolezza sul piano del contenuto e del metodo. Difatti, pur potendo offrire un quadro completo solo della filosofia della prima metà del secolo ventesimo, di quella della seconda metà o, meglio, dell’immediato secondo dopoguerra lo stesso Composto sa di poter fare solo cenni, quasi a preludere tutte le avanguardie che si sarebbero sviluppate negli anni a venire. Ma mostra di comprendere e di anticipare che tutti i segmenti, che si sarebbero sviluppati tra gli anni sessanta e la fine del secolo ventesimo, avrebbero trovato la loro radice nell’humus della filosofia della prima metà del secolo. Ci sembra di cogliere questa felice intuizione nel lavoro di Renato Composto, proprio in alcune parole poste nel Commiato al suo testo, dove dice appunto: "ci sembra che dopo il secondo conflitto mondiale, di là dal contrapporsi dei "blocchi" maggiori, di là dalle crisi che possano, in essi, corrodere ora la "civiltà dei consumi", ora il raffiorante stalinismo, entro la più ampia società umana gli uomini abbiano veramente posto un tema il cui arco di svolgimento è appena all’inizio" (vol.II, p. 291).
Senza dubbio nel testo di Composto compaiono alcuni vuoti; ad esempio la Scuola di Francoforte (Marcuse, Adorno, Horkhaimer), lo strutturalismo, la filosofia del linguaggio. Ma, sebbene si tratti di movimenti di idee sorti ad inizio di secolo, in effetti si sono sviluppati nell’ultimo quarto di secolo; di questi fenomeni culturali si è cominciato a parlare (almeno in Italia) proprio negli anni in cui Renato Composto licenziava il suo manuale per l’editore Umberto Manfredi, pure lui docente (di lettere classiche) e impareggiabile maestro di vita, artigiano della cultura e fine intellettuale di un tempo, che oggi rimpiangiamo insieme a tanti altri amici di sempre, passati a miglior vita.
In ogni caso Renato Composto, Umberto Manfredi (con Giuseppe Maria Sciacca, G.B. Palumbo) furono uomini tutti di un pezzo che ci insegnarono, non solo le discipline filosofiche o letterarie, ma pure e soprattutto le regole del buon gusto, della lealtà, della correttezza, che certamente noi giovani (allora) non potevamo trovare dentro le aule dell’ateneo o del liceo, ma nel cuore, ancor prima che nel cervello.
Chissà che un giorno non si possa costituire una biblioteca di libri preziosi, come questo di Composto ed altri ancora.
E raccogliere il suo affettuoso monito: "guardando alla storia del pensiero umano, nel suo porsi, lungo il corso dei secoli, ora come sintesi, ora come fulcro del progresso della civiltà, ciascuno affronti con umiltà il cammino che è suo destino di compiere" (vol.II, p.291)
Il ricordo di Renato Composto uomo di scuola è per me indissolubile da quello dell’uomo di cultura, di una cultura profonda e varia, ma intrisa di profonda umanità.
Prima di conoscerlo personalmente, lo conoscevo già di fama: sapevo che quando era prigioniero in Africa dal 1943 al 1945, per impiegare utilmente il tempo, aveva organizzato insieme a un gruppo d’amici e cioè i professori Pietro Mazzamuto, Aldo D’Asdia, Franco Salvo ed altri - divenuti poi quasi tutti presidi o docenti universitari - un vero e proprio liceo classico, con lezioni e conferenze seguite con profitto e interesse dagli ufficiali: una grande dimostrazione pratica dell’utilità e del confronto degli studi nelle circostanze più difficili o dolorose.
Dopo aver insegnato storia e filosofia al liceo classico V. Emanuele, Composto vinse un concorso a Preside e iniziò la sua carriera al liceo classico di Patti, dove ebbe come allievo uno degli attuali più alti esponenti dell’amminisrazione scolastica, Carmelo Maniaci, che ha sempre conservato un luminoso ricordo della figura di Composto educatore e uomo di scuola.
Tra gli altri prestigiosi istituti da lui diretti bisogna ancora ricordare il liceo classico di Partinico e, a Palermo, l’Educandato statale M. Adelaide, il liceo scientifico Cannizzaro e il liceo classico Umberto.
Quando, appena giunta all’Umberto in qualità di docente di francese. mi presentai a lui. cominciò subito col citarmi un autore francese del quale mi ero in quel periodo occupata e sul quale avevo scritto degli articoli che egli dimostrò di conoscere. Ecco dunque. per me, la prima sorpresa: Composto era un preside che non si chiudeva nelle sue discipline specifiche ma amava allargare i propri orizzonti e dare spazio, come ebbi in seguito modo di constatare, a quelle che allora. in un liceo classico, erano un po’ le cenerentole, e cioè le lingue straniere.
È vero che il francese conservava allora una sua valenza culturale che poi a poco a poco ha perduto di fronte all’importanza che il fattore comunicativo andava assumendo nella società della comunicazione, con il conseguente predominio dell’inglese: ma nei licei, anzi nei ginnasi, perché le lingue allora si studiavano solo al biennio, queste non erano considerate importanti quanto le altre materie. Composto invece non la pensava cosi ed era attento anche ai nuovi sviluppi dello strutturalismo, che proprio in quegli anni si andava affermando ma che, nell’ambiente scolastico, era studiato, agli inizi, solo da alcune associazioni di insegnanti di lingue attenti alle nuove suggestioni metodologiche che giungevano d’oltralpe.
L’aggiornamento, nelle scuole, consisteva in sporadiche lezioni-conferenza tenute da docenti universitari su argomenti sempre rigorosamente disciplinari. Di interdisciplinarità non si parlava ancora, né si ricorreva a lavori di gruppo, Composto, per fare interessare i docenti alle novità metodologiche, ricorse ad un ingegnoso stratagemma: in una circolare si servì di alcuni termini tipici dello strutturalismo, come sincronia e diacronia, facendo riferimento all’opera del Saussure, che nel frattempo aveva provveduto a far acquistare per la biblioteca. Qualche giorno dopo mi disse, con un risolino soddisfatto, che il suo nascosto invito all`aggiornamento aveva funzionato e che diversi insegnanti avevano chiesto il libro in prestito.
Questo senso di apertura verso le novità in campo didattico caratterizzò sempre la sua opera di preside: per quanto riguarda le lingue, poi il preside Composto può essere considerato un antesignano delle nuove metodologie.
Ricordo la sua soddisfazione quando una quinta ginnasiale recitò con vivacità e passione nel palcoscenico dell’aula magna una commediola in francese: era il primo rudimentale tentativo di quella drammatizzazione di cui poi, per quanto riguarda l’insegnamento linguistico, si è tanto parlato, ma che allora - nei primi anni Sessanta - rappresentava una novità. Ricordo anche il suo deciso appoggio all’abbonamento a riviste straniere per ragazzi, che prima, in un liceo classico, non si erano mai viste, e la sua gioia quando due alunne vinsero un concorso bandito da un giornalino francese: venne addirittura in classe con il pacco-premio ancora chiuso, e volle aprirlo in loro presenza, felice quanto le vincitrici. E ricordo l`appoggio da lui dato a un giornalino scolastico che si chiamava Colibrì, fatto in collaborazione con un liceo di Ajaccio, il liceo Letizia Bonaparte, dove si studiava l’italiano, con articoli scritti in italiano dai ragazzi corsi e in francese dagli alunni dell`Umberto. Allora non esistevano gli scambi o i programmi europei, quindi una collaborazione con l’estero aveva tutti i caratteri della novità. Perfino il Giornale di Sicilia dedicò un articolo all’iniziativa.
Composto aveva dunque, già allora, una concezione moderna della didattica e amava quelle novità che poi, dopo il ‘68, sarebbero state richieste a gran voce dagli studenti mentre allora, all’Umberto, venivano già attuate grazie al suo appoggio.
Naturalmente, come preside era anche attento a tutto l’andamento scolastico: teneva moltissimo alla puntualità, all’ordine, alla precisione e non esitava a fare le sue rimostranze nei rari casi in cui ciò si rivelava necessario. Non alzava però mai la voce: le sue osservazioni erano accompagnate sempre da un sorrisetto a volte quasi sardonico, da un’ironia sottile e da uno sguardo penetrante che sembrava frugare dentro il pensiero delle persone. E c’era in lui un’altra straordinaria qualità: una memoria formidabile, che gli consentiva di ricordare non solo i nomi degli alunni a distanza di anni, ma anche le loro caratteristiche umane e il loro rendimento scolastico. Tutto questo non era legato solo alla memoria, ma alla sua sincera e profonda partecipazione alla vita della scuola in tutti i suoi aspetti. Qualsiasi avvenimento legato alla vita personale di alunni o insegnanti era infatti da lui seguito con attenzione e anche con affetto.
Si interessava particolarmente degli alunni che avevano particolari difficoltà nel rendimento e faceva tutto il possibile per invogliarli allo studio e per sbloccarli nel caso di inibizioni o di problemi caratteriali. Aveva però un suo rigore interno e un profondo senso della giustizia, che gli faceva respingere, negli scrutini, qualsiasi ingiustificata indulgenza nei confronti di chi non aveva studiato per scarso impegno e per poca volontà.
In quegli anni, Composto scrisse un’opera dal titolo significativo, La scuola e l’uomo: la sua maniera di intendere la scuola era imprescindibile dall’azione formativa che questa deve avere per gli alunni, per aiutarli, appunto a diventare uomini.
Il ‘68 fu un anno difficile, non solo per le agitazioni degli studenti, ma anche per il terremoto, che portò alla chiusura delle scuole per lunghi periodi. Nel ‘69, alla ripresa delle agitazioni, Composto decise di lasciare la scuola. Si trattò di un autentico dramma, scaturito da un intenso travaglio interiore. Il suo rigore morale, il suo senso dell’ordine, il suo rifiuto di qualsiasi compromesso, la sua alta concezione della scuola e il suo amore per il corretto funzionamento della vita scolastica gli facevano respingere qualsiasi forma di demagogia e qualsiasi chiassosa contestazione, ai suoi occhi ingiustificata e immotivata. Non era affatto lontano, come si è visto, dai problemi dei giovani, anzi era estremamente sensibile a tutte le loro necessità, era aperto a tutte le innovazioni in campo didattico e culturale, ma non ammetteva quelle azioni che contrastavano con i valori in cui credeva.
Ecco dunque in che cosa si è rivelata quella che altri chiamavano rigidità e che non era, invece, che la coerente applicazione della sua lezione di vita: il dovere ad ogni costo, costi quel che costi. Troncare volontariamente una carriera in nome dei propri principi non è da tutti e rappresenta un raro e nobile esempio di coerenza e di onestà intellettuale.
Lasciata la scuola, Composto si rifugiò, come aveva già fatto in prigionia, nei suoi studi, trovando in questi, oltre che negli affetti familiari, conforto e appagamento.
Il ricordo che ha lasciato come uomo di scuola è dunque legato al suo profondissimo senso del dovere e della giustizia, alla sua figura di educatore dalla profonda umanità arricchita anche da un tratto sempre affabile e signorile, alla sua figura di studioso aperto al nuovo e sempre portato a quella formazione continua che è tipica della vera cultura.
Non ho conosciuto Renato Composto: la frequenza della sua opera è stata merito dell’affetto e della intuizione umana della carissima signora Mazzamuto, che ha voluto fortemente il convegno che recentemente lo ha celebrato, dimostrando la felice cura di chi della verità del tempo e della verità delle opere si fa partecipe. A Lei devo grazie per un incontro postumo con un maestro dimenticato, che ora rivive non soltanto in chi lo ha amato, ma nel gesto imperioso delle sue opere e nel potere delle idee.
Comincio allora col dire che Renato Composto è uno "spirito guerriero", un uomo della contraddizione e del disincanto: le due anime, che in lui creavano polemos ideologico e ideale, rendevano inquieta la sua trasferta terrena e il suo magistero quotidiano, perché in lui evidenti e manifeste erano per un verso la tensione per le battaglie terrene, per l’affermazione del diritto e della giustizia, vissute con uno spirito inflessibile e moralmente dissolvente i dubbi; e per altro verso la tensione per le regioni chiare dell’azzurro, per la notte oscura della privazione e del misticismo, fatto non però di adesione a un assoluto esterno, ma di cura a un assoluto interiore, il logos stesso e la parola scritta e detta, cui dedicare la speranza del compimento, l’affermazione della verità.
In un tempo in cui pensare era difficile perché tutto omologato alle parole del potere, egli pensò sempre contro, e non per pregiudizio, ma per testimonianza.
In un tempo in cui sentire era problematico, egli sentì pagando di persona la qualità del suo esistere e del suo professare e del suo testimoniare la verità.
In un tempo in cui insegnare richiedeva il tempo del rigore e dell’impegno, egli si scontrò contro il disordine del nuovo, contro la ribellione delle generazioni, contro altri giovani spirti guerrieri, che egli non capì e nei confronti dei quali si tormentò, perché non era fatto il suo cuore di materia malleabile, e il Sessantotto richiedeva un plasmatore di forze, un artista, non un filosofo, per potere essere compreso.
Ma nonostante tutto, Renato Composto seppe incarnare il declino consapevole di un’epoca e la nascita difficile di una nuova era, tra un confine e l’altro egli consistente, se pure non idoneo a quel salto che avrebbe consentito al suo cammino di continuare e al suo spirito di espandersi nel nuovo.
Restano, comunque, le opere e i giorni del suo insegnamento, la traccia della luce che egli seppe diffondere in quella cultura siciliana così avida di colore, così destinata alla gioia, così commossa dalla contraddizione e dal turbamento. Di questa cultura Renato Composto è stato uno dei maestri riconosciuti, che continuano a vivere nelle anime solitarie di chi ha assunto come principio il dovere, come mezzo il logos, come fine la verità
È con un certo senso di pochezza che mi accingo a ricordare adesso la figura di Renato Composto dopo quanto hanno già scritto di Lui Aldo D’Asdia e Salvatore Candido.
Aldo D’Asdia, suo più giovane amico, compartecipe di dolorose vicende di prigionia di guerra e poi collega quale preside di liceo, in un denso opuscolo fuori commercio, Lo ha rievocato tratteggiando la Sua personalità umana con commosse e commoventi parole.
Salvatore Candido, insigne storico del Risorgimento, purtroppo anch’egli scomparso, già collega e amico di Renato, quando erano entrambi studenti nell’Università di Palermo, in un saggio contenuto nel periodico Colapesce ha analizzato con competenza, anzi con autorevolezza, non disgiunta da cordiali reminiscenze, l’opera e gli originali contributi scientifici dati dal Composto.
Ma è anche con una particolare personale emozione che parlerò di Renato Composto, poiché posso dire di averlo da sempre conosciuto, fin dalla mia infanzia, per una relazione di parentela che mi legava a Lui, appena di me maggiore di cinque anni di età. E rivedendo una fotografia di un grande gruppo parentale, vecchia di tre quarti di secolo, mi ritrovo proprio accanto a Lui, come a voler manifestare, già da bambino, la mia ammirazione per Lui, che già nella cerchia familiare si faceva notare per la passione alla lettura e per la sua tranquilla avidità di sapere.
E mi piace subito dire che Renato, come rimase sempre riconoscibile nelle sembianze, pur attraverso le inevitabili modificazioni dovute al tempo, all’età, così conservò la sua caratteristica personalità, ove la serietà si accompagnava alla semplicità, la modestia ad un senso di dignità, con una inequivoca coerenza di comportamento in ogni frangente della vita, senza, nella sua maturità, alcun trasformismo ideologico, giustificativo di più convenienti adeguamenti pratici, e perciò anche severo con se stesso prima di essere severo con gli altri.
Ricordo poi Renato Composto all’Università, proprio al momento della sua felice laurea in Filosofia, mentre io vi entravo come matricola nella Facoltà di Giurisprudenza.
Il destino volle che dopo la seconda guerra mondiale ci ritrovassimo nelle istituzioni scolastiche secondarie (sia pure in ordini diversi, Lui al classico, io al tecnico), ove Egli mi precorse sia come insegnante sia come preside e ove già godeva di grande prestigio. Ma soprattutto ci ritrovammo appassionati alla ricerca storica. E così ricordo che di tanto in tanto mi faceva omaggio delle sue pubblicazioni con affettuose dediche che mi lusingavano (ad Armando caro come cugino e come amico). Negli ultimi tempi la vicinanza delle rispettive abitazioni ci permise una relativa frequenza, finché un giorno di dieci anni fa Renato mi telefonò informandomi che il giorno successivo sarebbe partito per Torino (ove già risiedeva suo figlio Attilio), per cagione della sua salute.
L’andai a trovare a casa. Fu praticamente il nostro addio in questa vita terrena, che effettivamente Renato, non molto tempo dopo, nel 1994, lasciò dal Piemonte, come un esule.
Per comprendere, spiegare e valutare l’attività storiografica di Renato Composto e la sua risonanza nella scienza storica occorre rifarsi alla sua personalità umana e alla sua condizione professionale. Renato, nato a Palermo e quivi cresciuto e, per quanto gli fu possibile, pure vissuto, apparteneva ad una normale ordinata caratteristica famiglia siciliana. Ma Renato, primo di tre figli maschi, quando era poco più che ragazzo, perdette il padre, morto precocemente e di cui quindi soffrì la mancanza, cui cercò di sopperire la madre, donna intelligente e virtuosa, che con saggezza assunse le redini della famiglia, dedicandosi all’educazione dei figli su solidi principi morali.
Con queste basi familiari Renato proseguì negli studi classici, umanistici, a Lui congeniali, con un senso dell’onestà e del dovere non soltanto nella vita privata, ma anche nella condizione di studente, di insegnante, di capo d’istituto e infine nella ricerca e nella pubblicistica storiografica, che è veramente valida se svolta con onestà e obiettività.
Renato Composto, seguendo le sue inclinazioni, si dedicò inizialmente alla speculazione e alla pubblicistica filosofica, ma poi, a partire dal 1954, Lo vediamo anche impegnarsi nella storiografia del Risorgimento con il saggio La borghesia siciliana di fronte al problema unitario nel 1860, pubblicato nella Rassegna storica del Risorgimento.
Il Composto in seguito pubblicò altri saggi nello stesso periodico, forse il più importante per la storia del Risorgimento, e parecchie memorie, note e recensioni nell’Archivio Storico Siciliano, nei Nuovi Quaderni del Meridione e in tanti altri periodici siciliani e anche non isolani. Varie volte intervenne con originali contributi in diversi convegni riguardanti fatti e personaggi del Risorgimento. Pubblicò, con i tipi di varie case editrici, diverse monografie attinenti sempre fondamentalmente l’Ottocento siciliano, mostrando conoscenza anzi padronanza di tutta la storiografia siciliana del Risorgimento, e particolarmente della pubblicistica periodica dell’Isola. Gli eventi su cui più particolarmente si soffermò vanno dalla Costituzione del 1812 alla rivoluzione del 1848-49, alla restaurazione borbonica, agli eventi connessi all’impresa dei Mille. I personaggi storici più particolarmente da Lui presi in considerazione furono Francesco Crispi, Michele Amari, lo storico e il suo omonimo Conte di S. Adriano, Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez, Gaetano De Pasquali da Licata. Ma tali fatti e personaggi, che danno luogo ai titoli dei suoi lavori, non sono che gli angoli visuali da cui viene prospettata dal Composto la società siciliana dell’Ottocento, nei suoi vari risvolti dalla famiglia alle varie istituzioni politiche.
Il Composto non è il semplice ricercatore che scopre un documento e lo pubblica, ma è un attento analista del documento, che anzitutto lo cerca nel luogo ove presuntivamente ritiene possa trovarsi. E non è il semplice narratore di ciò che ha appreso a seguito delle sue ricerche, né tanto meno il semplice coordinatore dei racconti altrui, ma è l’indagatore acuto, il narratore forbito e preciso e soprattutto, a conclusione della sua fatica, il critico, l’interprete dei fatti e dei personaggi per la ricostruzione della verità storica.
Renato Composto non parte da una precostituita tesi storica, che potrebbe anche essere, dietro le quinte, una tesi politica. Tra parentesi ricordo che Egli non svolse mai alcuna attività politica. E nella ricerca e nella pubblicistica storiografica Egli non mostra di seguire alcun maestro. Egli è un indipendente, che si è formato da sé, e come tale non può inquadrarsi in alcuna categoria o corrente di storici. Non liberale, non marxista, non clericale, né anticlericale, né unitarista di tendenza accentratrice, né antiunitarista di tendenza separatista etc. Potremmo dirlo uno storiografo puro, con una sua metodologia, con la quale, per la ricostruzione del personaggio o del fatto, va alle radici, a cominciare dall’anamnesi familiare dei soggetti, del loro ambiente, anche con una materiale visitazione dei luoghi ove vissero i personaggi o si verificarono gli eventi storici e con una stringata analisi non soltanto cartacea, ma anche e soprattutto delle cause psicologiche e sociali che determinarono le azioni dei singoli e i comportamenti delle masse.
Così il Composto non è mai un fanatico del personaggio o del movimento collettivo studiato, ma un indagatore che cerca di spiegare azioni e fatti, senza alcun punto esclamativo e senza tema, viceversa, di lasciare tanti punti interrogativi. Con la conseguenza che Egli non dà un giudizio sul personaggio, né tanto meno sull’avvenimento storico, lasciando al lettore, ad altri studiosi un eventuale discutibile giudizio.
Nelle numerose recensioni apparse qua e là in diversi periodici, Renato Composto mostra non soltanto una grande padronanza della letteratura storiografica dell’età moderna, ma anche un acuto senso critico e tratta con molto garbo, conforme al suo stile, gli autori recensiti, pur senza rinunziare ad opportune osservazioni anche su lavori di insigni storici e soprattutto a severe decise stroncature nei confronti di qualche sprovveduto autore che ha commesso banali errori per assoluta ignoranza di fatti storici elementari.
L’interpretazione complessiva del Risorgimento in Sicilia, cioè dei movimenti politici che portarono dall’inizio del secolo XIX all’impresa garibaldina è delineata sinteticamente da Renato Composto in uno dei suoi primi lavori di storiografia risorgimentale La coscienza politica siciliana dalla Costituzione del 1812 all’unificazione, pubblicato in un Annuario scolastico a Marsala nel 1962. Egli spiega come il movimento di unificazione si realizzò in Sicilia pur partendo da una iniziale aspirazione unionista federalista sentita congiuntamente sia dalla classe intellettuale (che noi ricordiamo essersi formata sulla base della cultura illuministica italiana ed europea in generale, più specificamente francese ed inglese) sia dalla aristocrazia siciliana decisamente antiborbonica, già dagli ultimi decenni del Settecento per i tentativi riformisti del Caracciolo e del Caramanico e poi ancor più per il colpo di Stato effettuato da re Ferdinando con il decreto dell’8 dicembre 1816, per il quale veniva costituito l’unico Regno delle Due Sicilie con l’accentramento dei poteri a Napoli e con la conseguente esclusione da ogni privilegio della classe aristocratica siciliana, che con la costituzione del 1812 si era trasformata, in poche parole, in una casta sociale privilegiata per diritto ereditario.
Il Composto rileva, intanto, l’evoluzione del ceto medio dopo il 1812 e la sua aspirazione a sostituirsi alla aristocrazia come classe dirigente, nonché dei fermenti anche nel ceto più basso, cosicché accanto alla tradizionale istanza indipendentista scorge affiancata una istanza sociale che ovviamente trovava facili agganci extraisolani.
Il Composto, al termine dell’analisi dell’evoluzione della coscienza politica in Sicilia, conclude che "Delle vicende successive all’unificazione alcune nascono da una coscienza popolare inappagata in quelle aspirazioni ad un rinnovamento sociale che avevano pure alimentato la rivolta dell’aprile 1860 ed avevano posto troppe speranze nell’azione garibaldina; quanto all’irrigidirsi delle correnti autonomistiche, esso non può essere scisso dall’imposizione degli angusti criteri accentratori dell’unitarismo piemontese".
A simile conclusione arriverà il Composto alla fine del successivo e più ampio lavoro Giornali siciliani nella restaurazione borbonica, edito a Palermo nel 1972 dalla casa ed. Manfredi (in cui, con una rassegna della stampa periodica fatta con scrupolosa metodicità, veramente esemplare, vien messa in rilievo la italianità espressa dai redattori non filoborbonici), scrivendo: "Erreremmo a giudicare i sentimenti del decennio attraverso i sentimenti e i risentimenti suscitati dal nuovo stato unitario" (pag. 171).
Fra i contributi specifici dati dal Composto meritano di essere particolarmente segnalati il saggio su Michele Amari, Conte di S. Adriano, membro del Parlamento Siciliano del 1848, e il saggio su Gaetano De Pasquali, pure membro del Parlamento Siciliano, entrambi pubblicati nell’Archivio Storico Siciliano. E per dare la dimensione storica di quest’ultimo personaggio il Composto esordisce con queste sagge parole: "Non sempre e non a tutti coloro che esercitano il mestiere dello storico è dato affrontare i massimi problemi storici - i grandi eventi e le figure dei protagonisti - sì da ottenere che convergano interesse scientifico e motivi di suggestività. Ma la vicenda umana è pur intessuta dal concorrere infinito di azioni e d’eventi, ed assolve un suo compito anche l’operaio che analizza i risvolti particolari, minori, senza presumere che la propria analisi debba avere un valore paradigmatico ed insieme consapevole che soltanto le analisi preparatorie danno fondamento e giustificazione alle successive e più ambiziose sintesi".
Ma il maggiore e costante interesse il Composto lo ha dimostrato verso Francesco Crispi con diverse opere (La giovinezza di Francesco Crispi, ed. Vittorietti, Palermo, 1972; Francesco Crispi da moderato a democratico, in A.S.S., Palermo, 1980; Una donna fra i Mille: Rosalia Montmasson-Crispi, ed. Novecento, Palermo, 1989) e con parecchie memorie e note apparse in A.S.S. e N.Q.M.
Si può dire che Egli sapesse tutto su Crispi, sui suoi genitori e su tutti i suoi parenti, sui vari luoghi di residenza, sui suoi viaggi, le sue donne, i suoi matrimoni, per mezzo e per effetto della puntigliosa esplorazione di archivi parrocchiali, anche all’estero, dell’Archivio Centrale dello Stato e di vari Archivi locali di Stato e anche privati e anche per la scrupolosa visitazione personale dei luoghi ove il Crispi visse o soltanto passò.
E tutto questo per potere capire, spiegare e in certo modo logicamente giustificare il comportamento e il pensiero politico del Crispi dalla sua giovinezza nella società siciliana alla sua maturità nel più ampio agone politico italiano. E il Composto ritiene di trovare la spiegazione del carattere di Francesco Crispi nelle sue origini: il padre, Tommaso, greco-albanese di Sicilia, precisamente di Palazzo Adriano, trapiantatosi per la gestione dei suoi beni a Ribera, in provincia di Agrigento, ove Francesco nacque e visse nell’infanzia. Il Composto mette quindi in risalto la particolarità delle origini etnico-religiose del Crispi e, nella formazione del suo pensiero politico, anche l’influsso delle origini borghesi. Del Crispi ricorda le prime manifestazioni infantili di ribellione, ma soprattutto di autoritarismo, ereditato dal padre, e l’aspirazione a farsi avanti, manifestata con l’attività giornalistica, con il tentativo di ottenere qualche ufficio nell’amministrazione borbonica, per cui non ebbe scrupolo alcuno ad avanzare anche suppliche alle autorità, ed infine col trasferimento a Napoli per ivi potersi meglio affermare nell’esercizio dell’avvocatura. Per il periodo della rivoluzione del 1848-49 il Composto analizza l’attività del Crispi nell’amministrazione governativa, particolarmente in quella della guerra, in cui mostra, il Crispi, di perorare provvedimenti energici, fra cui, anche, quello, non accolto, di una leva militare obbligatoria per resistere all’azione di riconquista della Sicilia da parte del Borbone. Il Composto si intrattiene anche abbastanza sui rapporti affettivi del Crispi fin dalla sua gioventù e perciò con le donne da lui sposate o non sposate e quindi sulle vicende giuridico-matrimoniali, sfruttate dai suoi oppositori politici, ma riesce a cogliere nel Crispi un velo di malinconia per la perdita della donna amata in gioventù e perduta insieme ai figli da lei aiuti.
Il lettore dei lavori del Composto sul Crispi potrebbe forse essere portato a dare un giudizio sullo stesso Crispi, ma Renato non ne dà alcuno. E non è facile darlo su chi, con tanti diversi aspetti, si è presentato alla ribalta delle vicende politiche italiane dell’Ottocento e la cui personalità, quindi, nella unificazione italiana, non è ad un livello inferiore di quelle di Mazzini, Cavour e Garibaldi.
Concludendo sull’attività storiografica di Renato Composto è da dire che conseguenza del Suo carattere e del Suo comportamento, scevri da ogni specie di servilismo, è che Egli poté arrivare soltanto tardi all’insegnamento, a livello universitario, di Storia del Risorgimento e che la Sua stessa attività, pur riscuotendo i dovuti apprezzamenti, non ebbe quella risonanza che meritava mentre era in vita. Ma la Sua attività, per la metodologia, per la Sua onestà di studioso, per i Suoi contributi nelle interpretazioni storiche è pienamente valida. E noi siamo qui per ricordarlo.
Nel classico volume su Cavour e i Balcani il Tamborra ha osservato che, quando nel 1844, a Capolago, Cesare Balbo dava alle stampe le sue Speranze d’Italia, "certamente non immaginava che le idee in esso espresse avrebbero avuto una vita ben lunga"(1).
Effettivamente, come ebbero a mettere in rilievo tra i primi Gaetano Salvemini(2), Carlo Morandi(3) e Federico Chabod(4), alla tradizione mazziniana auspicante uno smembramento dell’impero austro-ungarico, oltre che di quello turco, al fine di restituire l’indipendenza a tutte le nazionalità da essi oppresse , e che sarà ripresa allo scoppio della grande guerra soprattutto da Leonida Bissolati, si contrappose una tradizione balbiana, più moderata, che ispirò vari momenti della politica estera italiana postunitaria, e anch’essa ripresa durante la grande guerra soprattutto da Sidney Sonnino.
Tutto questo è ovviamente ormai ben conosciuto e documentato.
Vi è tuttavia spazio per precisare ancora qualcosa, e cioé che i riferimenti, diretti o indiretti, alla teoria di Balbo sono stati più numerosi di quelli generalmente ricordati, che essa fu ripresa - in qualche caso - anche da esponenti democratici dello schieramento politico e che, infine, un’eco di essa può essere rinvenuto perfino negli anni del primo dopoguerra, a crollo dell’Austria-Ungheria ormai avvenuto.
Dunque, Mazzini era avversario dichiarato della diplomazia, che voleva un equilibrio europeo puramente dinastico ed esteriore, fondato sulla forza, mentre ormai la rivoluzione, sosteneva, voleva un equilibrio fondato sulle nazionalità indipendenti. Sulle orme di Mazzini, un altro grande italiano sosteneva queste stesse idee, Carlo Cattaneo. Anche per lui vi era la necessità di una rivoluzione generale in Europa diretta a riscattare le nazionalità oppresse. I principali ostacoli erano, anche per lui, l’Austria e la Turchia. I due imperi non erano suscettibili di riforma; bisognava, per la libertà dell’Europa, abbatterli entrambi.
Alla rivoluzione generale delle nazionalità predicata da Mazzini e da Cattaneo si contrappose l’idea del Balbo. Niente rivoluzione generale. L’Austria è necessaria all’Europa, costituisce un punto fermo, è l’avamposto della civiltà cristiana; la sua funzione non è terminata, è destinata anzi ad accrescersi e deve svolgersi nella valle del Danubio, nei Balcani. Per fare questo, l’Austria abbandoni i suoi possessi italiani, che sono un peso morto, un vincolo alla sua azione, e riversi verso Oriente l’eccedenza delle sue energie. Era il concetto, diventato presto celebre (e spesso oggetto di commenti sarcastici da parte dei democratici) dell’"inorientamento" dell’Austria(5).
Questa teoria fu definita da Giuseppe Ferrari una "utopia diplomatica"(6), ma la storiografia più recente tende in qualche modo a rivalutarla, o almeno a giudicarla con maggiore equilibrio rispetto al passato. È il caso, ad esempio, di Alfonso Scirocco, il quale ha osservato recentemente che, scartate le possibilità di un’azione concorde dei sovrani italiani, di una sollevazione popolare nazionale, e dell’intervento di un’altra potenza straniera, Balbo si soffermava sulle prospettive offerte dal disfacimento dell’impero turco, che egli riteneva imminente, facendo presente l’interesse dell’Europa ad impedire che la Russia si impadronisse delle vie di accesso al Mediterraneo e a far sì che gran parte dei possedimenti turchi nei Balcani passasse agli Asburgo. In questo caso, "si poteva ragionevolmente supporre che, in ossequio al principio dell’equilibrio tra le grandi potenze, l’Austria fosse costretta a lasciare le province italiane"(7).
Anche secondo il Marcelli, l’idea del baratto dei territori "si manifesta meno puerile di quanto può essere apparsa, perché in sostanza s’identifica coll’idea di fare del problema italiano un problema di politica europea, ed offre qualche aspetto di praticità, sia pure più in un’atmosfera di diplomazia settecentesca che del XIX secolo, e d’altra parte anche il secolo XIX non rifuggì affatto da simili mercanteggiamenti"(8).
È stato d’altra parte precisato più volte che questa idea dell’inorientamento non era del tutto nuova. Lo stesso Balbo cita come suo precedente in proposito il suggerimento dato dal Telleyrand a Napoleone dopo Ulm e Austerlitz, di compensare l’Austria della spoliazione delle province italiane con la Moldavia, la Valacchia, la Bessarabia e parte della Bulgaria, al fine di distoglierla dall’Italia e di contrapporla alla Russia(9). Altri precedenti sono quelli del Sismondi, che Balbo tuttavia non conobbe e del Marocchetti(10); secondo il Mastellone, poi, Balbo riprese anche alcune suggestioni espresse da Santorre di Santarosa in un saggio dal titolo Le speranze degli Italiani(11).
È stato infine Gioacchino Volpe, tra i primi, a notare come a possibili vantaggi da una eventualità del genere avevano cominciato a sperare, già nella seconda metà del ‘700, i Savoia, "sempre fissi con gli occhi sul Milanese, sempre vigilanti e in attesa". E, dopo di allora, queste speranze guidarono spesso l’azione dei diplomatici sabaudi, specialmente nei rapporti con la Russia. In caso di una spartizione austro-russa della Turchia, si diceva ad esempio nelle istruzioni all’inviato a Pietroburgo nel 1817, le Potenze potranno ingrandire lo Stato sabaudo in modo proporzionato al compito assegnatogli di mantenere l’equilibrio europeo(12).
Una prima e poco nota eco del concetto balbiano la troviamo in due lettere del marchigiano Diomede Pantaleoni a Marco Minghetti. Nella prima, del 31 ottobre 1853, Pantaleoni fece un primo accenno ad un eventuale aumento territoriale per l’Austria nei Balcani, giudicandolo "un saggio freno imposto alla Russia"(13). In essa non era contenuto il riferimento ad un corrispettivo abbandono di provincie italiane, riferimento che troviamo invece nella seconda lettera, del 25 marzo 1854, nella quale scriveva: "Sono convinto che l’impero turco in Europa è alla fine né vi ha mezzo di formare altro sulle sue rovine. È una mescolanza di elementi eterogenei che se ne andrà in mille parti. Io non vedo a quell’ardua questione che una sola soluzione europea e ragionevole: Dare i principati all’Austria [...] spingerla sopra la sua vera base, il Danubio, facendole lasciare l’altra del Po che non potrà mantenere"(14).
Secondo il Salvemini, furono anche gli insuccessi mazziniani (in particolare l’insurrezione di Milano del 6 febbraio 1853) e i successi della politica liberale e costituzionale piemontese a far "rivivere la vecchia idea di Cesare Balbo"(15). Fatto sta che gli italiani non erano i soli a considerare la questione italiana come legata alle vicende orientali. Ad esempio, il 12 maggio 1854 Carlo Marx, in uno dei suoi lucidi articoli sulla New York Tribune a proposito della questione d’Oriente, mise bene in chiaro come le nazionalità più immediatamente interessate alle complicazioni orientali fossero, accanto ai tedeschi, i magiari e gli italiani(16). Dello stesso avviso si mostrò la francese Revue des Deux Mondes, condividendo l’impostazione del Crepuscolo di Carlo Tenea(17) e della Rivista contemporanea(18).
La prima concreta applicazione della teoria dei compensi fu tentata, come si sa, da Cavour, amico di Balbo, del quale, aveva non letto ma "divorato" le Speranze d’Italia, come gli scrisse nell’aprile 1844, esprimendogli "simpatia e ammirazione"(19). Al Congresso di Parigi del 1856, seguito alla guerra di Crimea, appena gli fu possibile, Cavour, con il famoso Memorandum del 21 gennaio, propose lo scambio di territori alla diplomazia inglese e francese. Ma va detto che fin dal dicembre 1854, in alcune istruzioni diplomatiche agli ambasciatori a Parigi e a Londra D’Azeglio e Villamarina, aveva fatto riferimento alla possibilità di una riduzione d’influenza austriaca in Italia in cambio di un suo rafforzamento a oriente(20). Pur lasciata cadere al Congresso di Parigi, la proposta cavouriana raggiunse tuttavia lo scopo di porre sul tappeto la questione italiana, da risolvere nel senso di alleggerire il peso e la presenza dell’Austria nella Penisola.
Nel 1859 fu il bulgaro Cibacev, in un saggio pubblicato a Parigi, a proporre la cessione dei Principati danubiani all’Austria, previa rinuncia da parte di quest’ultima ai suoi possedimenti italiani(21).
Tra il 1863 e il 1866 l’idea fu ripresa dalla politica ufficiale italiana, allorquando la soluzione veneta venne cercata, dapprima, per via di accordi con l’Austria alla quale avrebbero dovuto andare per l’appunto i Principati danubiani(22).
D’altra parte, come è stato osservato, l’impero asburgico continuava a detenere le chiavi dei massimi problemi italiani: il completamento dell’unità era una questione che non poteva risolversi se non con Vienna. Si era creata quindi nei suoi confronti una condizione di interdipendenza, che aveva fatto nascere un’attrazione-ripulsa, una tensione che non voleva dire necessariamente conflitto e che poteva voler dire accordo, ma che non era mai indifferenza, e che conferì alle relazioni fra i due paesi un tono di bivalenza che sarebbe durato sino al loro epilogo nel 1915(23).
Se ne rendeva eloquente interprete Minghetti quando dichiarava alla Camera nel 1872 che i sentimenti di avversione per l’Austria egli non li sapeva più comprendere, non avendo essi più alcuna ragione di esistere. "Deposti gli antichi rancori - affermò - bisogna vedere nell’Austria soltanto una nazione sorella, guardare ad essa, ormai nostra amica, con benevolenza ed affetto"(24). E, nonostante le ripetute smentite dei fatti, costantemente alla base della politica italiana di accordo e poi di alleanza con l’Austria, fu la speranza che questa avrebbe acconsentito alla cessione di tutte o parte delle terre italiane in cambio di un qualche accordo italiano per gli ingrandimenti austriaci nella penisola balcanica.
Gli eventi dovevano purtroppo dimostrare che questa aspettativa sarebbe stata altrettanto vana quanto la speranza dei democratici di risolvere il problema delle terre irredente mediante la forza.
In nessun momento dopo il 1870 Vienna pensò mai realmente alla possibilità di cedere alcuna parte dei territori dell’impero all’Italia, poiché ciò avrebbe significato accettare un principio di cui poi avrebbe potuto essere invocata l’applicazione anche a beneficio di altre popolazioni sottomesse. Lo aveva scritto già il Metternich nel 1854 nelle sue Memorie, osservando che spingere l’Austria verso oriente avrebbe coinciso "con l’eliminazione dell’Austria dall’occidente"(25).
In ogni caso, i governanti moderati italiani continuarono a ritenere che l’Austria difendesse, a oriente, l’interesse generale della cristianità.
Alle paure della Russia si aggiunsero, dopo il 1870-71, e cioé dopo la creazione dell’impero germanico, anche i timori per un eccessivo dilatarsi della Germania: l’impero asburgico era visto come necessario anche per fermare l’espansione tedesca, per evitare che l’Italia si trovasse sulle Alpi e nell’Adriatico ad immediato contatto con quello che veniva considerato uno Stato assai più vigoroso e potenzialmente pericoloso. Lo disse chiaramente il conte di Robilant, per il quale l’interesse dell’Italia era di conservare in vita la vecchia monarchia "onde mantenga lontano da noi il pangermanesimo ed il panslavismo, la cui contiguità ci sarebbe ben altrimenti pericolosa"(26).
Nel luglio 1874 il Robilant auspicava "l’annessione" della Bosnia e dell’Erzegovina da parte dell’Austria, poiché si sarebbe così presentata "la propizia ed anzi la sola desiderabile occasione di ottenere alla nostra volta l’annessione all’Italia di quelle terre la cui popolazione è della nostra stessa famiglia, e che nessuna soluzione di continuità da noi divide"(27).
Anche il Visconti Venosta, fin dall’inizio della crisi balcanica del 1875-76, espresse la previsione che l’Austria-Ungheria avrebbe potuto un giorno essere indotta ad occupare la Bosnia e l’Erzegovina piuttosto che lasciar costituire un forte Stato slavo alla sua frontiera meridionale. In una simile eventualità, egli era convinto che l’Italia non avrebbe dovuto restare inerte, ma bensì cercare di raggiungere un’intesa con Vienna: il Trentino in cambio della Bosnia. Sempre il vecchio pensiero, dunque, di Cesare Balbo. Per Visconti Venosta questo discorso con Vienna avrebbe dovuto essere aperto però al momento favorevole e senza forzature, in un quadro di amicizia e fiducia reciproca.
Più esplicita fu la presa di posizione del quotidiano l’Opinione, che in un articolo del 3 ottobre 1876 parlò di interessi italiani minacciati dall’eventuale occupazione austriaca della Bosnia Erzegovina; così come abbastanza esplicito era il tono delle istruzioni segrete del Depretis al Crispi (che si accingeva al suo viaggio nelle capitali europee) dell’agosto 1877, nelle quali si accennava agli interessi italiani "offesi" non solo dal partito ultramontano in Francia ma anche dall’ingrandimento dell’Austria con l’annessione di alcune province ottomane(28). Ed era proprio questo l’appiglio a cui si afferravano gli irredentisti per chiedere i compensi nel Trentino e sull’Isonzo, rispolverando i vecchi pensieri del Balbo.
L’idea che l’Italia, divenuta una potenza europea, avesse diritto a dei "compensi" in relazione all’espansione delle altre nazioni era insomma, come ha osservato Alfredo Capone, "comunemente accettata e faceva parte del concetto stesso di equilibrio europeo che l’imperialismo incipiente non era ancora riuscito a stravolgere"(29). Era spiegabile, pertanto, che Crispi, in giro per l’Europa - a Parigi, Berlino, Londra e Vienna - ne facesse oggetto dei suoi colloqui con i vari responsabili della politica estera. Meno spiegabile è come Crispi intendesse conciliare tale principio con quello di nazionalità in un’Europa dominata dall’accordo austro-tedesco e con quella fiaccola mazziniana che anche nel 1871 era stata tenuta accesa da un giornale a lui vicino come La Riforma(30).
In realtà, vi era un’intima contraddizione tra la politica dei compensi e quella del principio di nazionalità(31).
Questa contraddizione emerse clamorosamente nel discorso alla Camera di Felice Cavallotti del 9 aprile 1878. Un discorso tanto singolare e clamoroso in quanto Cavallotti, combattivo leader radicale, era considerato da tutti un irredentista ostile all’Austria, tanto che l’anno precedente aveva tenuto una accesa commemorazione dell’insurrezione mazziniana del 6 febbraio 1853. Ebbene, in quel discorso dell’aprile ‘78 Cavallotti, parlando della minaccia russa nei Balcani, disse che il posto dell’Italia doveva essere "a fianco dell’Austria e dell’Inghilterra". E fece capire che, come compenso di questo appoggio, l’Austria avrebbe potuto cedere le provincie di lingua italiana, e precisò: "Solo in un accordo cordiale, intero, espansivo coll’Italia, l’Austria può trovare la soddisfazione di quegli interessi, che per lei sono oggi questione di nuova vita. Buon amico, io per conto mio, terrei anche il diavolo, purché il diavolo fosse galantuomo e mi rendesse il fatto mio [...] . Sì, siamo amici coll’Austria; e per esserlo e restarlo, cerchiamo il suggello dell’amicizia nella soddisfazione dei legittimi reciproci interessi"(32). Era una piena adesione alle tesi del Balbo, che i suoi maestri Mazzini e Cattaneo non avrebbero certamente approvato.
Come non l’approvò il giornalista triestino Eugenio Popovich, fervente irredentista, che gli scrisse una dura lettera, riportata dal Galante Garrone, nella quale gli faceva presente che l’Austria non avrebbe mai acconsentito a cedere qualche suo territorio se non con la forza, oppure dopo una qualche "colossale sconfitta"(33). E probabilmente furono reazioni come questa a ricondurre Cavallotti sulla strada di un irredentismo più vicino alle idee di Mazzini che a quelle di Balbo(34).
Non fece invece marcia indietro Crispi, il quale - anzi - accentuò il suo convincimento circa la necessità dell’esistenza dell’Austria. Il 15 marzo 1880 pronunciò infatti le famose parole che tutti i testi riportano: "L’impero austro-ungarico è una necessità per noi. Quell’impero e la Confederazione elvetica ci tengono a giusta distanza da altre nazioni che noi vogliamo amiche, che devono essere nostre amiche come furono altre volte nostre alleate, ma il di cui territorio è bene non si trovi in immediato contatto con l’Italia"(35). Concetto che ripete, da presidente del Consiglio, il 4 maggio 1894(36).
Ancora più vicina alla teoria di Balbo è però la lettera, poco ricordata, da lui scritta al re il 16 agosto 1887, nella quale, parlando delle sorti della Bulgaria, manifestò l’opinione che occorreva "favorire l’influenza dell’Austria a preferenza di quella di ogni altra potenza", la qualcosa equivaleva ad "aiutare lo spostamento verso Oriente del centro dei suoi interessi".
L’impostazione balbiana era riemersa anche durante il Congresso di Berlino del 1878, allorquando i governanti italiani, con in testa il ministro degli Esteri Luigi Corti, videro con favore i vantaggi conseguiti dall’Austria verso Oriente, nella convinzione che essi aumentassero le possibilità di compensi nelle terre irredente. Riemerse soprattutto nella clausola, aggiunta nel 1887 al Trattato della Triplice Alleanza firmato la prima volta nel 1882, e che nel 1891 sarebbe divenuto il famoso art.7, con cui si prevedevano espressamente dei compensi all’Italia a seguito di un eventuale ingrandimento austriaco. Secondo Federico Chabod, questo articolo costituiva "l’applicazione diplomatica della dottrina di Cesare Balbo"(37).
Nei primi anni del Novecento, allorquando l’"Intesa cordiale" con la Francia sembrava preludere ad una modifica della politica estera italiana, da parte di alcuni esponenti sonniniani venne ribadito il concetto che, nelle regioni balcaniche, non si potesse procedere che d’accordo con l’Austria. È il caso del deputato Guicciardini, futuro ministro degli Esteri di Sonnino, che, nel maggio 1904, riprendendo pari pari l’idea di Balbo, affermò alla Camera: "Un ulteriore inorientamento dell’Austria, qualora avvenisse rispettando l’Albania e desse luogo ai compensi territoriali pattuiti, non solo avverrebbe senza danno dei nostri interessi specifici, ma potrebbe essere forse l’occasione in cui trovassero soddisfazione voti ardenti del nostro cuore"(38).
Idee non dissimili espresse, pochi giorni dopo, un altro deputato conservatore, Bruno Chimirri(39).
Ma, di fronte ad ogni proposta italiana di rettifica delle frontiere, il rifiuto austriaco resta sempre incrollabile.
Questo rifiuto intransigente di qualunque concessione, ha osservato a suo tempo il Salvemini, "condanna ad un perenne fallimento la politica di compromesso preconizzata da Cesare Balbo e tentata continuamente da tutti i governi italiani" ed è necessario "che l’impero degli Asburgo si sfasci, secondo le aspettazioni di Mazzini, perchè le frontiere del 1866 possano essere riassestate non più col metodo balbiano dei compromessi, ma con quello mazziniano delle soluzioni radicali rivoluzionarie"(40).
Resta comunque il fatto che, anche al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, l’impostazione balbiana fu ripresa in pieno dai ministri degli Esteri Salandra e Sonnino che, al contrario di Bissolati, e dello stesso Salvemini, non si mostrarono affatto interessati al crollo dell’Austria, né alla liberazione di tutte le nazionalità da essa oppresse.
Ma, se il binomio Salandra-Sonnino è ritenuto il più fedele interprete di una politica lontana dall’impostazione democratico-mazziniana, troppo spesso si dimentica che altrettanto lontano da questa impostazione è da ritenersi l’atteggiamento di Giolitti. Infatti, tanto lo statista piemontese quanto i due ministri attuano nei primi mesi del 1915 una politica che, per quanto apparentemente opposta, risponde ad una stessa visione, in quanto l’uno e gli altri sostengono la neutralità o l’intervento in base all’ampiezza delle concessioni territoriali che le parti belligeranti sono disposte a compiere.
L’unico a farlo notare, che io sappia, è stato il Monticone, che ha osservato giustamente che "intavolare o proporre di intavolare trattative sulla base di un articolo del trattato della Triplice Alleanza per ottenere compensi quale corrispettivo di eventuali ampliamenti austriaci nei Balcani significava restare ancorati ad un sistema ormai vecchio e, sul piano morale, avallare la politica aggressiva dell’Austria-Ungheria"(41).
Per quanto riguarda i due ambasciatori italiani a Vienna e a Berlino, Avarna e Bollati, che vengono generalmente inseriti nel gruppo liberal-moderato erede della tradizione balbiana, va precisato che questo è vero solo in parte, in quanto essi erano sì favorevoli alla conservazione dell’Austria - Ungheria, la cui liquidazione - come scrisse il Bollati nell’aprile del 1915 - poteva essere desiderata solo dai "politicanti da caffé di Belgrado, di Cettigne e di Milano"(42), ma non furono mai convinti sostenitori della teoria dei compensi per liberare le terre irredenti. Erano, insomma, molto più moderati dello stesso Balbo.
Un’ultima, lontana eco della dottrina balbiana la si può rinvenire addirittura, come detto all’inizio dopo la fine della prima guerra mondiale, quando l’impero austro-ungarico era ormai scomparso. Mi riferisco al gruppo nazionalista raccolto attorno alla rivista Politica, fondata alla fine del 1918 da Francesco Coppola e Alfredo Rocco.
Per la verità, nei primi numeri di questo periodico, tra il 1918 e il 1920, si trovano articoli che plaudono alla scomparsa dell’Austria(43), che reclamano all’Italia perfino la Carinzia(44), o che definiscono ormai l’Austria un "superstite e inutile staterello che non ha mezzi né libertà di vita"(45). Ma nella primavera del 1921 l’atteggiamento della rivista cambia radicalmente e, dopo aver versato fiumi d’inchiostro sulla Casa d’Asburgo, si dichiarò favorevole ad una restaurazione asburgica, anche se non ad una restaurazione integrale dell’ex impero austro-ungarico che avrebbe cancellato i frutti della vittoria italiana. Fu in particolare Coppola a farsi portavoce di questa posizione, con una serie di articoli pubblicati a breve distanza di tempo su "Politica" e sull’"Idea nazionale".
Il clamoroso mutamento di opinione fu determinato da vari fattori: la politica a suo avviso "slavofila" del conte Sforza, il pericolo dell’espandersi del bolscevismo nell’Europa centrale e meridionale e soprattutto la formulazione di due progetti diplomatici ritenuti entrambi dannosi per gli interessi italiani, quello di una annessione dell’Austria alla Germania e l’altro di una Confederazione danubiana caldeggiata dalla Francia e forse anche dal Vaticano. "La soluzione italiana - del problema austriaco - scrisse Coppola nell’aprile 1921 - potrebbe essere, invece, un’altra: quella di una rinnovata unione della piccola Ungheria. La quale, a sua volta, non sembra concepibile che sotto la forma di una limitata restaurazione asburgica"(46).
Nel settembre dell’anno successivo, Coppola tornò a proporre una "unione, sia pure asburgica, della piccola Austria con la piccola Ungheria", rafforzata da una "forma di unione economica e di alleanza politica italo-austriaca", dal momento che "una catastrofe economica, e quindi politica, dell’Austria non sarebbe stata senza gravi pericoli economici e soprattutto politici per la pace europea"(47).
I pericoli da fronteggiare restavano principalmente quello di una annessione alla Germania o quello di una "convulsione dissoluzione bolscevica". All’Italia non restava altro da fare, secondo il leader nazionalista, che aiutare l’Austria, anche per ottenere questi altri vantaggi, da lui puntigliosamente elencati: "Restituire a Trieste la sua funzione, non solo economica, ma politica, di massimo porto dell’Europa centro-orientale [...] tagliare definitivamente gli slavi del nord da quelli del sud; annullare per sempre ogni disegno di Confederazione danubiana; obbligare gli Stati della Piccola Intesa a gravitare nella nostra orbita politica; assicurarci una prevalenza indiscutibile ed irresistibile sull’Europa centro-occidentale; accrescere di gran lunga il peso dell’Italia nell’equilibrio europeo; e specialmente, assicurarci solidamente le spalle, dedicarci con pienezza di mezzi e di libertà al nostro necessario avvenire mediterraneo"(48).
Anche Leonardo Vitetti, in un articolo di alcuni mesi dopo, definì la restaurazione asburgica a Vienna utile per l’Italia, in quanto essa avrebbe contribuito ad allontanare l’Austria dalla Germania(49).
Con il che si conferma che la concezione di Cesare Balbo, variamente ripresa o parzialmente adattata alle circostanze, e comunque la si possa giudicare, ha avuto una vita assai più lunga di quanto alcuni suoi scettici contemporanei avevano profetizzato
Chi farà il consuntivo della cultura palermitana del sec.XX non potrà non porre in primo piano la figura di Renato Composto, intellettuale di notevole livello speculativo e storico, di autentica fattura umanistica, non solo perché seppe di greco e di latino come uno specialista, ma anche perché, come i grandi umanisti dell’epoca rinascimentale, fruì di un’eccezionale poliedricità, essendo stato filosofo, storico del pensiero, storico civile, poeta, pittore, docente liceale e docente universitario. Lo dimostra la sua nutrita bibliografia e lo dimostrano alcuni inediti filosofici e teologici che meritano di venire alla luce, affinché la sua personalità emerga a tutto tondo e abbia i più larghi consensi possibili.
Un significativo consenso intanto è già venuto da un seminario di studi organizzato dal Liceo classico Umberto (svoltosi il 10 marzo 2000), dove fu a lungo preside di forte prestigio pedagogico e didattico, oltre che di vasta responsabilità morale e ideologico-politica, se, per ricordare qualche episodio, egli seppe governare con superiore misura i fatti dell’occupazione.
L’uomo di scuola, infatti, è venuto fuori nella sua complessa interezza, in quanto docente di parola chiara e persuasiva e di contenuti scientificamente dotati e resi disponibili attraverso un impianto analitico che portava sempre a una sintesi ordinata di facile e sicura intelligenza e assimilazione. Così dalla prima relazione ad opera della professoressa Ida Rampolla del Tindaro, ispettrice ministeriale della P.I., che fu docente presso il Liceo Umberto sotto la sua presidenza.
Dalla relazione di Salvatore Lo Bue, docente di Estetica presso l’Università di Palermo, sono emersi sia lo storico del pensiero, condensato in due volumi (editore U. Manfredi, 1970) ed esposto con impareggiabile chiarezza e con dovizia di documentazione e interpretazione, attraverso le quali si offre di ciascuna corrente e di ciascun filosofo non solo una motivazione per così dire logica, collegata allo svolgimento del pensiero, ma anche una giustificazione più largamente storica, capace di investire e illustrare l’intera personalità ed esperienza dei pensatori protagonisti delle sue pagine; sia il contributo teoretico, specialmente estetico, delle sue personali meditazioni, che son venute fuori improntate ai più alti sensi della libertà e della socialità e coniugate in modo da garantire una dialettica di notevole modernità novecentesca, perché impegnata a ricostruire l’identità dell’individuo compromessa da alcuni recenti indirizzi di pensiero.
Il professore Armando Di Pasquale, già docente presso la facoltà di Giurisprudenza e presidente onorario del TAR, ha posto, a sua volta, l’accento sui contributi di storia siciliana e risorgimentale, dai quali sono emerse le sue qualità di ricercatore attento e puntiglioso e dunque la confacente documentazione, anche d’archivio, posta alla base delle sue interpretazioni, apparse tutte di largo respiro, improntate cioè alla più rigorosa storiografia civile e politica.
Alla fine il sottoscritto ha ricostruito, attraverso la poetica e l’utilizzo dei più autorevoli modelli della letteratura novecentesca, la tematica e i relativi esiti strutturali e stilistici delle sillogi liriche, anch’esse documento di non secondario valore del suo complesso impegno culturale.
Alcune testimonianze (tra queste quella particolarmente significativa del provveditore agli Studi Di Stefano e del prof. Francesco Brancato) hanno confermato tale impegno, che, come appare dalle recenti rievocazioni di Salvatore Candido e Aldo D’Asdia, merita un’ulteriore illustrazione di respiro ancora più ampio e documentato.
La filosofia, come visione del mondo totalizzante, ha influenzato - attraverso i secoli, com’è noto - tutti i settori del sapere, della vita, dei costumi, e dell’opinione pubblica; non esclusa, naturalmente, la moda vista l’importanza che, nel corso dei tempi, essa ha rivestito come indizio di un’epoca o di un gusto. Ora, senza partire da troppo lontano bisogna aggiungere che nel mondo greco romano è facile rinvenire quegli atteggiamenti o espressioni di idee artistiche che vanno sotto il nome, appunto, di moda; ferma restando, però, la considerazione secondo la quale già le civiltà orientali - segnatamente l’egizia - offrono esempi di alta eleganza ad onta della semplicità e della genuinità, insieme, delle fogge e delle forme.
Ora, siccome la Grecia resta la patria della filosofia - e non solo di questa - da qui ci piace partire per un "excursus" intorno all’articolazione della moda attraverso i tempi; moda, condizionata non soltanto dal movimento di idee, nella fattispecie la filosofia, di un dato momento storico, ma anche da altri motivi quali, ad esempio, il clima, i materiali e, non ultimo, le continue modificazioni del gusto. Per restare in Grecia, tra i secoli VI e IV a.c. - secoli in cui dominano i grandi sistemi di Socrate, Platone e Aristotele - l’abbigliamento, maschile e femminile risente, di tale temperie mantenendosi intatto per molto tempo.
Per quanto riguarda gli abiti dei due sessi di tale periodo, essi vanno dal chitòne, maschile e femminile, all’imàtio; il primo, per gli uomini, è una sorta di veste, senza maniche, fino al ginocchio; quello femminile è più elaborato perché è costituito di stoffa oblunga avvolta attorno al corpo e con delle aperture per le braccia. L’imàtio rimane coperto sul capo e sulle spalle, mentre la clàmide è affibbiata al collo o all’omero. Sempre per le donne greche, molto elaborato resta, in quest’epoca, il peplo, sorta di sopravveste di lana pregiata; famoso al riguardo, è il peplo di Pallade Atena elaborato dalle fanciulle di Atene per le feste panatenee. È questa, dice lo studioso Ugo M. Palanza, " la Grecia delle grandi battaglie e delle passioni" che "non ebbe lunga vita, ma la Grecia della moderazione e della religiosità dell’equilibrio spirituale e dell’armonia delle forme (...) è immortale.
Passando, adesso, a Roma, la situazione inerente alla moda rimane, nel complesso, identica salvo alcune sostanziali differenze. In età imperiale, da una parte, gli uomini portano la tunica che assomiglia parecchio al chitòne e, dall’altra, la tunica lunga con laticlavio o la tunica lunga con angusticlavio sebbene sia la toga il mantello nazionale dei Romani.
Essa, portata sopra la tunica, è fatta di lana e sale dall’incrocio dei piedi alla spalla sinistra da dove scende al fianco destro per, poi, adagiarsi dietro ai calcagni.
Le donne romane, dal loro canto, indossano abiti molto elaborati ed eleganti come la stola - veste femminile che arriva fino ai piedi - e il mantello anch’esso abito muliebre molto ampio e di rara bellezza. Per avere un’idea dell’eleganza e della finezza dell’abbigliamento latino, basta osservare le leggiadre vesti dei romani e delle romane rappresentate sulle pareti dell’"Ara Pacis" a Roma, nonché le statue di Cesare e di Augusto. Senza contare, poi, l’effigie del filosofo Marc’Aurelio, ritratto mentre compie un sacrificio, le immagini di Stilicone e della moglie Serena, nonché di numerosissimi altri personaggi dell’Urbe.
Sicché ha ragione lo studioso W. Koppo quando osserva, giustamente, quanto segue: "come splendidamente doveva far risalto colà tra le variopinte fogge dei barbari, il temuto drappo dei Romani!".
L’alto Medioevo, com’è noto, non riserva particolare importanza all’abbigliamento e ciò anche per effetto della filosofia e della cultura che dominano in tale frangente. Visioni della vita, queste ultime, improntate a particolare rigore morale e a grande senso del peccato e, in quanto tali, negatrici della vita. In questi secoli - segnatamente quelli che si articolano dal V all’VIII, ma anche nei due successivi - la speculazione è priva di originalità tant’è vero che i pensatori dell’epoca si limitano soltanto ad elaborare sintesi scolastiche e compilazioni enciclopediche di scarso valore.
Le questioni teologiche, comunque, tengono il campo e il rigore dei costumi è sempre presente quantunque la classe nobiliare feudale si ammanti di fogge talvolta eleganti e di squisita fattura. Sicché, bisognerà attendere il secolo XII - in piena rinascita comunale e in una situazione di notevole miglioramento delle condizioni di vita - per assistere ad un certo cambio di prospettiva anche nel campo della moda. Pure la filosofia prende slancio e - prima, con Abelardo, S. Bernardo e i Vittorini e, nei secoli successivi, con l’avvento della Scolastica - favorisce un mutato clima culturale, sociale e spirituale.
Il pensiero, segnatamente italiano, mette le ali e le potenti sintesi di S. Bonaventura, S. Alberto Magno, e S. Tommaso d’Aquino influenzano ogni ramo dell’umano sapere. Dietro tali stimoli, la moda fa alcuni passi avanti anche se il vestito è ancora di lana - più spesso di tela considerato che quello di seta è quasi proibitivo - e sostanzialmente identico per entrambi i sessi. Esso consta, generalmente di un solo pezzo che partendo dal collo raggiunge le caviglie e vi si adagia. Nel secolo XIII, la situazione resta, nel complesso, immutata, perché se è vero che la filosofia scolastica offre grandi prospettive di rinnovamento, è altrettanto certo che il corpo umano - restando il veicolo ineliminabile per un corretto e adeguato abbigliamento - non è ancora autorizzato ad esprimere la ricchezza delle sue fattezze.
In tal atmosfera, le vesti si mantengono sempre lunghe con cintura ai fianchi e un mantello, anch’esso esteso fino alle caviglie; anche in questo caso, l’eleganza è assicurata. Frattanto, siamo nel secolo XVI, anche la Scolastica si sta esaurendo sebbene le ultime voci - quelle di Scoto e Okham - siano dottrine originali; il preumanesimo inizia a far sentire la sua efficacia e già si intravedono i primi frutti della nuova concezione della vita che opera un taglio netto col passato.
La moda, maschile e femminile, diventa più smaliziata ed ecco che nuove forme di abiti appaiono all’orizzonte come preludio ai due secoli successivi durante i quali l’Umanesimo e il Rinascimento si eleveranno ad altezze mai prima raggiunte. La moda del XIV secolo qualche novità, ad ogni modo, la introduce per il semplice motivo che i vestimenti dei due sessi assumono una fisionomia di modernità. Quello, ad esempio delle donne, ampio col suo panneggio, tocca terra insieme con un mantello che conferisce grandissima dignità a chi lo indossa. Nell’uomo compaiono, al contrario, le lunghe calze con al di sopra una specie di tunica che raggiunge i ginocchi senza coprirli. Ma saranno, come abbiamo accennato, gli umanisti e i filosofi della Rinascenza che determineranno una svolta nella moda per la semplice ragione che tali dottrine affermeranno non solo la dignità dell’uomo, ma anche la centralità di quest’ultimo, in quanto microcosmo, nell’universo infinito o macrocosmo.
Ficino, Pico, Cusano, questi alcuni nomi della svolta che coinvolge l’intero sapere e tutta l’attività umana in una tensione verso l’alto che rende l’uomo l’autentico signore del mondo; uomo che non ha più limiti davanti a sé e che, con le sue forze si rende "faber fortunae suae". Per avere una prova del mutamento di direzione, in tale campo, è sufficiente esaminare i dipinti e le opere figurative dei grandi artisti del periodo quali, per fare qualche esempio, Raffaello, Botticelli, Leonardo e numerosissimi altri.
Per conoscere, portando un altro esempio, le fogge dell’età del duca di Milano, Ludovico il Moro (1452-1508) basta recarsi presso la Chiesa di S. Maurizio a Milano e ammirare gli affreschi di Bernardino Luini nei quali grande è lo sfarzo e l’eleganza dei personaggi più in vista del tempo, dame e cavalieri. Ciò perché, adesso, i gusti sono più squisiti e sofisticati ragion per cui anche l’abbigliamento si allinea con lo spirito dei tempi nuovi. E, al riguardo sintomatico resta "Il Corteggiano" di Castiglione perché anch’esso è un affresco letterario - uno dei più seducenti - di questo periodo giudicato dal Burkhardt quasi inarrivabile per la raffinatezza dell’arte e dei costumi.
Sicché, se l’abbigliamento femminile, così come quello maschile, è così elaborato nelle forme, nei colori, nelle stoffe, nei panneggi e nei veli, allo stesso modo, una notevole distanza separa il modo di vestire delle gentildonne e dei gentiluomini da quello del popolo. Gli abiti di quest’ultimo conservano sì la loro misurata dignità, ma non possono, in nessun modo, rivaleggiare con le ricercatezze e il buon gusto dei ceti nobiliari e più abbienti.
Se, infatti, il popolo veste in maniera più semplice, le classi egemoni non si risparmiano in affettazioni e sottigliezze d’ogni tipo specialmente durante le cerimonie legate alla danza, ai matrimoni e alle rimanenti occasioni di vita mondana. La celebre "Primavera" di Botticelli e "Il Presepio" di Raffaello, limitandoci solo a due esempi, ne sono la prova più tangibile; segno evidente della singolare ricerca di perfezione di tale epoca storica che non ha pari nel corso dei secoli. Ma sono i grandi filosofi del periodo che preparano questa temperie di alto valore speculativo se è vero, com’è vero, che Ficino, da una parte - con la celebre dottrina dell’uomo "copula mundi" - Pico della Mirandola - con la teoria del "De hominis dignitate" - e Cusano - con la concezione della "coincidentia oppositorum" - dall’altra, raggiungono le vette del pensiero umanistico.
Spetterà, nel secolo successivo, ai grandi Telesio, Bruno e Campanella definire e portare alla perfezione i motivi dell’Umanesimo mediante una precisione speculativa dell’immensa potenza espansiva della personalità dell’uomo nell’universo. Di conseguenza, anche per effetto di tali impulsi ascensionali, i vestiti, maschili e femminili, dei secoli XV e XVI si presentano abbastanza simili, ma non identici; la veste lunga, talmente lunga da coprire addirittura i piedi, rimane sempre una caratteristica tipicamente femminile benché, nel Quattrocento, prevalga la manica larga rispetto alla manica corta del Cinquecento.
Le fogge maschili di questi due secoli sono simili con la differenza, però, che nel secolo sedicesimo il cavaliere porta la spada al fianco sinistro quale simbolo di autorità e di potenza. Esauritasi, frattanto, la grande stagione rinascimentale, il secolo XVII si presenta, almeno in Italia, come periodo di parziale decadenza; parziale in quanto le arti figurative risultano abbastanza vitali nelle loro ricerche seppure nelle sembianze del barocco con le sue ricercatezze formali.
La società italiana, infatti, compresa una parte di quella europea, risente dell’influsso esercitato dal pensiero spagnolo; pensiero fatto di orpelli e di cose pompose sicché alla moda non resta che adeguarsi. Ora, se è vero che in Italia vive uno dei più grandi pensatori di ogni età, Giambattista Vico, è pure certo che egli resta un isolato come isolato sarà il suo contemporaneo Spinoza. Ora, siccome questa è un’epoca di ristagno e di fiacchezza etica, anche la moda risente del clima negativo raggiungendo forme affettate e insincere con gli uomini coperti di capaci pantaloni, ampie giacche e grossi cappelli ad estese falde. Le donne, dal loro canto, indossano lunghi vestiti, finemente lavorati, che si avvalgono di spaziosi colletti su cui poggia la testa. Fanno la comparsa, in questo momento storico, i grandi cinturoni e i grossi stivaloni forniti di fibbie; tali accessori rendono, spesso, impacciate le movenze degli uomini.
La moda seicentesca francese non si discosta, in sostanza, dai canoni citati anche se privilegia, per i cavalieri una folta capigliatura e altri ornamenti, come le spalline di tessuto pregiato, e per le dame, dei tessuti finissimi e molto elaborati stilisticamente.
Il XVIII secolo è la stagione dell’Illuminismo che in così larga misura impregna di sé l’intera società francese ed europea, in generale. La filosofia settecentesca - col suo razionalismo, ottimismo, cosmopolitismo, antistoricismo etc. - si afferma, con prepotenza in tutto il vecchio continente imponendo le sue regole e i suoi metodi anche al modo di vestire, segnatamente durante la Rivoluzione.
L’"esprit de géometrie", il primato della ragione, la polemica contro l’oscurantismo medievale, lo stato di natura, il deismo e l’idea di progresso, tutti questi motivi favoriscono un clima di radicale cambiamento dei costumi, del modo di vivere e della moda delle generazioni del singolare momento storico nell’abbigliamento, ad esempio, osserviamo tre atteggiamenti fondamentali. Il primo vede, infatti, la donna fasciata dall’ampia e ricamata veste che, stretta alla vita, si allarga fino a formare una sorta di campana. Un turbante le copre i capelli e un ventaglio dispiegato nella mano destra contribuisce a conferirle dignità.
Il secondo, detto "merveilleuse", risalente al periodo del Direttorio, coglie la donna in un atteggiamento più dimesso, con una lunghissima veste e un grande cappello ovale. Se la scelta cade su vestiti semplici, ciò significa, pertanto, che il clima è cambiato: sempre per le donne, vige, ad esempio, non solo il divieto per il colore rosso, ma anche la proibizione di portare le parrucche o i capelli divisi a metà fluenti sulle spalle. La moda maschile è logicamente intonata all’atmosfera rivoluzionaria - atmosfera che ha come padre Rousseau con la sua rigorosa dottrina morale e della volontà generale - tant’è vero che ci si veste con meno artifici visto che scompaiono anche i galloni, i fregi e i ricami. In seguito prenderà il sopravvento il vestito popolare con giacca corta, camicia senza cravatta e pantaloni lunghi.
Il terzo atteggiamento, infine, chiamato "impero" ci porta in epoca napoleonica. L’abbigliamento femminile rinnova le linee verticali e le stoffe sono pregiate perché composte di raso, velluto e velo; la donna si avvale pure di una chioma a coda di cavallo particolarmente efficace.
In questi frangenti occorre valorizzare di più il corpo femminile, ragion per cui si affermano le scollature e le braccia nude come segno di femminilità e di erotismo, mentre l’abbigliamento maschile rimane, invece, più sobrio e misurato: "coulottes" fino al ginocchio, fascia avvolta obliquamente attorno alla giacca e, per finire, spada al fianco e calzature con fibbie stilizzate. Ma c’è anche una variante al modo di vestire degli uomini in questo momento storico; i quali uomini indossano un lungo giaccone, un paio di stivaloni con risvolti e un grande cappello quasi alla brigante.
Il nuovo secolo, il XIX, si apre con la presenza in Europa di tanti fermenti, politici, culturali, sociali ed economici tant’è vero che allo spirito reazionario - incarnato dal Congresso di Vienna - si giustappone il clima rivoluzionario e libertario del Romanticismo. Ancora una volta la speculazione influenza, in maniera determinante, i costumi, le abitudini, le usanze e, naturalmente, la moda. L’opposizione romantica al razionalismo illuministico è vigorosa e una nuova categoria, il sentimento, s’impone come denominatore comune della nuova grande stagione culturale che si concretizzerà con l’avvento del possente pensiero idealistico.
Pensiero che esprimerà sommi filosofi come Fichte, Schelling, Hegel e altri uomini di cultura di prim’ordine che impregneranno di sé l’intero secolo. La moda non è da meno nel clima di rinnovamento voluto dal Romanticismo ed ecco che nel primo trentennio dell’Ottocento la maniera di vestire delle donne assume nuove dimensioni estetiche. L’abito, molto stretto alla vita, si allarga a forma di campana fino a strisciare per terra coprendo i piedi. Le maniche sono lunghe fino ai polsi e una evidente scollatura lascia intravedere il seno. La moda maschile assume anch’essa una nuova fisionomia - e ciò in ossequio al fervore di quegli anni - tant’è che, da una parte, l’uomo, indossa lunghi e aderenti pantaloni e, dall’altra, calza scarpe con fibbie stilizzate. Sopra i calzoni egli porta un giubbetto un po’ sbottonato e allacciato al collo un elegante mantello che arriva fin quasi alle caviglie. Pure il bastone su cui si appoggia la mano destra conferisce al cavaliere di questo periodo un certo decoro.
Tali fogge restano sostanzialmente intatte per diversi decenni, ma verso il 1890 assistiamo ad una nuova svolta per il semplice motivo che anche a causa delle teorie positivistiche che, tra l’altro, si stanno esaurendo - i toni diventano più dimessi per l’emergere di istanze concrete. Il vestito maschile non presenta grandi novità, mentre quello femminile, in aderenza alla mentalità dei tempi, si presenta molto aggraziato nella sua semplicità. La veste è sempre unica, lunga da toccare terra, accollata e densa di panneggi; le maniche sono lunghe, ma si allargano molto ai polsi, mentre i capelli sono coperti da un piccolo e grazioso cappellino. Un ombrellino valorizza il portamento della donna di fine secolo.
Il XX secolo si apre con grandi aspettative e grandi speranze anche se l’ombra di un eventuale conflitto di portata catastrofica attutisce gli entusiasmi e gli ottimismi. Le filosofie neoidealistiche, intuizionistiche e pragmatistiche tengono il campo sicché anche i gusti si trasformano in direzione di forme decisamente più attuali. Gli slanci vitali di tali dottrine - bergsonismo, attualismo, filosofia dell’azione - preparano una temperie estetica oltremodo dinamica e per la prima volta l’abbigliamento degli uomini si distingue per la praticità e l’eleganza insieme del cosiddetto completo rimasto sostanzialmente identico fino ai nostri giorni.
Sotto la giacca, a tre bottoni e tasche laterali, spicca una camicia con colletto rotondo e relativa farfalla; le scarpe sono un po’ a punta e un cappello ovale funge da copricapo appoggiato leggermente alla testa.
L’abito della donna rimane sempre lungo ed è allacciato alla vita con una cinta che scende al centro a mo’ di sciarpa; la scollatura è a balconcino e un cappellino a fiori con una lunga tesa spicca sulla testa. Verso il 1925, l’abbigliamento femminile diventa più snello ed essenziale senza che ne soffra l’eleganza; il vestito è formato da un solo pezzo e arriva al ginocchio; esso non è stretto né largo e si fa valere per la sua sobria delicatezza; la scollatura è a "v", le maniche sono lunghe e una lunga collana con un nodo al centro scende delicatamente fino alla vita. Anche le scarpe sono più agili e una sottile fibbia le allaccia in senso trasversale. L’abito maschile è più o meno uguale al precedente; solo la giacca è più snella, ha due bottoni e un taschino laterale in alto; la camicia è come quella di oggi e la cravatta sostituisce la farfalla.
La coppola, a quadri scozzesi, infine, prende il posto del cappello poiché d’impronta più sportiva.
Da questo momento, dagli anni Trenta ad oggi, cioè, la moda di entrambi i sessi si arricchisce di tali forme, sagome, strutture e fogge da diventare una vera e propria arte con gli stilisti che - almeno negli ultimi decenni - si presentano come i veri ed autentici depositari delle tendenze, degli indirizzi e delle innovazioni più rispondenti alle multiformi esigenze degli interessati. I messaggi della moda dei nostri giorni sono così fertili di progetti, proposte, idee e quant’altro - ivi comprese le sofisticazioni in essi presenti - da essere sotto gli occhi di tutti sebbene si debba, doverosamente, aggiungere che l’ultima influenza filosofica degna di nota, nel bene e nel male, sulla moda è stata quella - tra gli anni Cinquanta e Sessanta - dell’esistenzialismo letterario francese di origine speculativa.
Ci riferiamo al clima imperante nei sotterranei, intrisi di fumo, dove i giovani e i meno giovani bruciano il loro tempo in atteggiamenti languidi e comportamenti esistenziali di carattere decadente; l’abbigliamento, è, naturalmente, scuro e i cosiddetti "blousons noirs" fanno tendenza fino quasi ad imporre atti e condotte alla maggioranza della gioventù d’oltralpe. Anche i loro cantanti più in voga hanno nomi famosi: Yves Montand e Juliette Gréco. Quella stagione è finita da un pezzo e, nella generale crisi di valori che attanaglia l’intera società contemporanea, pure la moda rischia di fossilizzarsi in esiti volgari e di cattivo gusto.
Premessa
Una delle norme sullo snellimento amministrativo e, segnatamente, l’art. 17, commi 51-58, della legge n. 127 del 15 maggio 1997 - la cosiddetta "Legge Bassanini bis" - consente agli Enti locali di procedere alla trasformazione delle aziende speciali, deputate alla gestione dei servizi pubblici, in società per azioni o a responsabilità limitata con capitale misto, pubblico e privato, anche a partecipazione minoritaria.
L’istituto della trasformazione, tuttavia, non è nuovo al sistema dei servizi pubblici locali. Con la legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali - la n. 142 dell’8 Giugno 1990, recepita nell’ordinamento siciliano con la legge regionale 11 dicembre 1991 n. 48 - il Legislatore disponeva, infatti, che Comuni e Province potessero organizzare l’erogazione dei servizi pubblici locali servendosi di determinati modelli di gestione tra i quali, in particolare, elencava "l’azienda speciale, anche per la gestione di più servizi sociali di rilevanza economica ed imprenditoriale" (art. 22), dotandola, rispetto al passato, "di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto" (art. 23).
Tale previsione normativa ha fatto sì che la maggior parte dei grandi Comuni d’Italia, ivi compresi i tre principali Capoluoghi di Provincia siciliani - Palermo, Catania e Messina - si sia trovata a dover trasformare le aziende municipali già esistenti, al fine di attribuire loro siffatta nuova veste giuridica, in forza di quanto previsto dall’art. 4, comma 3, del decreto legge 31 gennaio 1995, n. 26, convertito dalla legge 29 marzo 1995, n. 95, che ha imposto agli Enti locali di adeguare l’ordinamento delle proprie aziende speciali alle disposizioni contenute nel Capo VII della legge n. 142/90.
A distanza di dieci anni dalla legge n. 142/90, ci troviamo di fronte ad una situazione ancora abbastanza diversificata, in quanto mentre in quasi tutti gli Enti locali il processo di conversione da azienda municipalizzata (o provincializzata) in azienda speciale è stato portato a termine, in altri è ancora in corso l’ulteriore trasformazione da azienda speciale in società mista e in alcuni, pochi in verità, tale operazione è stata addirittura completata.
L’esperienza del Comune di Palermo si ascrive, ad esempio, nell’ambito della prima delle situazioni delineate. Tale Amministrazione, infatti, dopo aver portato a termine il primo passaggio concernente la trasformazione delle quattro aziende municipalizzate ad essa appartenenti in aziende speciali, pur avendo avviato il procedimento relativo all’ulteriore trasformazione delle medesime in società per azioni (sia pure cominciando da una soltanto di esse, l’azienda speciale AMAP), non è ancora riuscita, tuttavia, a completare detto processo di conversione per tutte quante le aziende erogatrici di pubblici servizi.
Ebbene, dopo l’esperienza effettuata dagli Enti locali a seguito dell’emanazione della legge n. 142/90, appare, a questo punto, assai interessante interrogarsi, in particolare, sul motivo per il quale il Legislatore del ‘97 abbia scelto di insistere, al fine di porre compiutamente in essere la riforma dei servizi pubblici locali, sull’utilizzo (peraltro facoltativo) dello strumento giuridico della trasformazione e misurarne l’impatto dell’applicazione nel diritto pubblico.
Premettendo, a tale scopo, soltanto alcuni brevi cenni sull’istituto civilistico della trasformazione di società, si cercherà di focalizzare le modalità mediante le quali il Legislatore -nel 1990 prima e nel 1997 poi- è intervenuto per attuare la riorganizzazione del sistema dei servizi pubblici locali, analizzando la nozione di "servizio pubblico" desumibile dalla legiferazione più recente, nonché le varie forme di gestione di esso, con particolare riguardo all’azienda speciale, prevista dall’art. 22, comma 3, lett. c) della legge n. 142/90, alla società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, di cui alla lett.e) della medesima norma, oggi modificata dall’art.17, comma 58 della legge n. 127/97, ovvero senza partecipazione pubblica maggioritaria, a norma dell’art. 12, comma 1, della legge 23 dicembre 1992, n. 498.
Si tenterà, quindi, di evidenziare, anche alla luce dell’esperienza siciliana, le peculiarità che hanno caratterizzato l’applicazione in ambito pubblico dello strumento della trasformazione e che sono state inevitabilmente determinate dalla connotazione di soggetto pubblico, e non privato, del soggetto agente.
E proprio in considerazione del frenetico lavorìo parlamentare che si svolge in atto sui temi della riforma dei servizi pubblici locali, si reputa di notevole interesse il poter ripercorrere le fasi di un lento processo di riforma, avviatosi da un decennio a questa parte fino ad arrivare alla novella "Bassanini" del ‘97, attraverso il quale il Legislatore ha intrapreso un progetto di riorganizzazione, in chiave privatistica, degli apparati di gestione dei servizi pubblici locali, sì da improntarne l’esercizio a criteri di produttività, efficacia, efficienza ed economicità. Nell’ambito di tale ricostruzione, assume altresì rilievo l’esame dell’eventuale "impatto" dell’ingresso dello strumento societario della trasformazione nel mondo delle organizzazioni pubbliche, che si tenterà, oltretutto, di esaminare, al fine di comprendere, per tale via, le motivazioni che hanno indotto il Legislatore ad optare per l’utilizzazione di tale istituto, verificandone le conseguenze fino a questo momento percepibili.
L’istituto civilistico della trasformazione societaria
Il Codice Civile, agli artt. 2498-2500, disciplina, sia pure in maniera non del tutto esaustiva, la trasformazione delle società e la definisce letteralmente un "cambiamento del tipo di società" (art. 2437, comma 1)(1).
Il dettato normativo contenuto nei predetti articoli risulta, infatti, abbastanza scarno, in quanto regola esclusivamente la trasformazione dal genere delle società di persone (in nome collettivo o in accomandita semplice), prive, cioè, di personalità giuridica, in quello delle società di capitali, che ne sono, al contrario, dotate.
Nonostante l’art. 2498 c.c., dunque, menzioni soltanto l’ipotesi "...di trasformazione di una società in nome collettivo o in accomandita semplice in società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata...", la dottrina, tuttavia, unanimemente ammette che, nonostante il tenore letterale di tale norma, possa realizzarsi anche l’ipotesi inversa (ossia da società di capitali in società di persone) nonché la trasformazione di una società semplice in società di persone o di capitali e viceversa, purché, in questo secondo caso, la società trasformata non si ritrovi, dopo tale trasformazione, ad esercitare un’attività commerciale(2).
Con la trasformazione, in altri termini, la società realizza il passaggio da un tipo societario ad un altro e viceversa, in base alla decisione di adottare un modello diverso da quello utilizzato, al fine di sottrarsi, così, alle norme che l’hanno disciplinata fino a quel momento e di assoggettarsi, per il futuro, al regime normativo proprio del nuovo tipo(3).
Dubbi sono sorti in dottrina sulla natura giuridica da attribuire alla trasformazione ma, superata definitivamente quella teoria che ricollega tale figura ad un fenomeno di tipo successorio come vicenda estintivo-costitutiva(4), prevale, ormai del tutto, l’opinione secondo cui la trasformazione viene considerata una modificazione dell’atto costitutivo societario(5). Con la trasformazione non si verifica l’estinzione di una società, seguita immediatamente dalla nascita di una diversa; la società che si trasforma continua a vivere e ad operare, resta sempre la medesima: essa cambia soltanto veste legale, ossia il suo ordinamento interno. Gli elementi fondamentali costitutivi della società (quali la sede, l’oggetto, il capitale, ecc.), vengono, pertanto, a subire un cambiamento soltanto qualora in connessione con il tipo societario che si abbandona, avendo la trasformazione la fondamentale funzione di mantenere intatti i medesimi (e, con essi, l’identità della società stessa) e non di alterarli. Nella prassi accade sovente, tuttavia, che una società adotti una delibera di trasformazione unitamente ad altre modifiche statutarie, quali, ad esempio, aumento o riduzione del capitale sociale, trasferimento della sede, cambiamento dell’oggetto societario, ecc.
La figura della trasformazione, ricostruita come semplice vicenda modificativa dell’atto costitutivo di società, appare, pertanto, un duttile strumento, offerto all’autonomia privata dal Legislatore, che consente ad una società di adattare il proprio assetto organizzativo alle nuove esigenze sopravvenute durante la vita della stessa. Esso permette ai soci di realizzare tale obiettivo, evitando loro di dover necessariamente procedere a liquidare la precedente società e a costituirne una nuova, con notevoli vantaggi anche di carattere fiscale.
La legge stabilisce, infine, che la trasformazione, alla stregua di qualsiasi modificazione dell’atto costitutivo societario, si realizzi formalmente in base ad una deliberazione dell’organo assembleare, la quale "deve risultare da atto pubblico e contenere le indicazioni prescritte dalla legge per l’atto costitutivo del tipo di società adottato" (art.2498, comma 1, c.c.). Ciò significa che la trasformazione deve essere deliberata secondo le modalità previste dalla legge per le modificazioni dell’atto costitutivo di società e con l’osservanza delle relative maggioranze(6).
Tale deliberazione ha la precipua funzione di fissare le basi organizzative della società, la quale, dotata di una nuova veste giuridica, viene fuori in forza del cambiamento del tipo societario, il cui effetto di maggior rilievo si esplica, per altro, sul regime di responsabilità dei soci.
La riforma dei servizi pubblici locali: il quadro normativo e la nozione di servizio pubblico locale
Come anticipato nella premessa, il Legislatore nazionale ha avviato un ampio processo di riorganizzazione del sistema dei servizi pubblici con la legge sul nuovo ordinamento delle Autonomie locali - la n. 142 del 1990 - la quale pone in essere i presupposti per l’attuazione della riforma del precedente regime.
Quest’ultimo, fino all’emanazione della legge n. 142/90, era fondamentalmente retto dal testo unico sulla municipalizzazione, T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578, nonché dal relativo regolamento approvato con D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902. Il primo disciplinava l’intero assetto di base dei servizi locali, avendo sostanzialmente recepito la legge 29 marzo 1903, n. 103 (Legge Giolitti), che era stata la prima normativa emanata in materia di assunzione diretta di servizi pubblici locali da parte di Comuni e Province(7); il secondo, invece, costituisce un testo organico di raccolta delle innovazioni, introdotte soprattutto in materia di gestione aziendale, quali, ad esempio, l’obbligo del pareggio di bilancio (legge 27 aprile 1978, n. 143), l’introduzione dell’adozione obbligatoria da parte delle aziende di un bilancio pluriennale e di un piano di programma (legge 23 aprile 1981, n. 153), nonché quella del Collegio dei revisori dei conti (legge 26 febbraio 1982, n. 52 e legge 26 aprile 1983, n. 131).
La legge n. 142 del 1990 - che è stata recepita, come si è già detto, dalla Regione Siciliana con L.R. n. 48/91 - ha inteso favorire la spinta verso la privatizzazione della gestione dei servizi pubblici locali ed, improntando la riorganizzazione dei medesimi a criteri di efficacia, economicità, produttività e funzionalità(8), ha dedicato ai servizi pubblici locali l’intero capo VII ove, oltre ad accennarne una definizione, ne elenca le relative forme di gestione nonché le modalità di svolgimento, in associazione o in convenzione, delle quali Comuni e Province possono servirsi(9).
E’ appena il caso di osservare che tutta la legislazione sui servizi pubblici viene considerata settoriale e specifica, priva, cioé, del carattere della generalità. Come sostenuto dalla dottrina più attenta, "nel nostro ordinamento amministrativo è sempre mancata una disciplina generale dei servizi statali o nazionali, così come dei servizi regionali, perché è stata seguita la soluzione di una loro esclusiva regolamentazione di settore"(10).
Tale settorialità deriva, peraltro, dalla diversificazione per settori, tipica della normativa comunitaria, la quale, pur imponendo "comunque un approccio settoriale in ragione della propria ricaduta nell’ordinamento interno", non "esclude però una legge generale sui servizi pubblici, che abbia un’impostazione analoga alla legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo"(11).
Gli articoli 22 e 23 della legge n. 142/90, i quali elencano e disciplinano le diverse forme di gestione consentite in materia di servizi pubblici locali (in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, a mezzo di istituzione, a mezzo di società mista), sono le norme alle quali conviene anzitutto fare riferimento, al fine di evincere, se possibile, la nozione di servizio pubblico utilizzata dal Legislatore(12) nonché, in particolare, la nuova veste giuridica che con tale normativa è stata attribuita alla figura dell’azienda speciale.
Riguardo a tali disposizioni è stato, peraltro, sottolineato dalla dottrina più recente come con esse si sia voluto, in definitiva, introdurre delle norme di natura programmatica, contenenti principi innovativi in materia di servizi pubblici locali, ai quali conformarsi in sede di adozione dei propri statuti da parte di Comuni e Province, senza, tuttavia, intendere con ciò abrogare del tutto le norme del vecchio regime, onde potere ricomprendere in un unico quadro normativo tutte le disposizioni succedutesi nel tempo e garantire, per tale via, una certa "adeguatezza gestionale, efficacia ed economicità per i servizi pubblici locali"(13).
Quanto, poi, alla nozione di "servizio pubblico locale", di essa non è stata mai fornita dal Legislatore una definizione chiara ed unitaria.
Un primo riferimento normativo si ritrova, anzitutto, nell’art. 43 della Costituzione ove si parla - pur senza ricavarne una definizione diretta - di "servizi pubblici essenziali", che la dottrina non ha esitato a definire quali "attività economiche che incidono direttamente sulla collettività e che, per questa loro caratteristica, possono essere esercitate dallo Stato e dagli enti pubblici"(14).
L’art. 22 della legge n. 142/90, d’altra parte, non fornisce alcuna indicazione su che cosa si debba intendere per servizio pubblico, limitandosi soltanto a menzionarne l’oggetto, ossia la produzione del bene, nonché lo svolgimento dell’attività rivolta a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale(15).
La circostanza, dunque, che neanche dalla legislazione ordinaria sui servizi pubblici sia possibile evincere una nozione in positivo dei medesimi ha indotto la dottrina a supporre "che il legislatore si sia ben poco preoccupato di delimitare il campo" ad essi relativo, reputando assai arduo addivenire ad una definizione unitaria di "servizio pubblico"(16).
Indubbiamente notevoli, infatti, sono stati gli sforzi posti in essere dalla dottrina al fine di elaborare una nozione precisa ed esaustiva di "servizio pubblico locale", che fosse valevole universalmente(17).
A tale scopo sono state, di volta in volta, formulate diverse teorizzazioni sul concetto di servizio pubblico(18), che ne hanno, di volta in volta, messo in luce ora l’aspetto soggettivo ora quello oggettivo.
Secondo la teoria soggettiva, per "servizio pubblico" deve intendersi quella attività che viene svolta da un Ente pubblico ovvero da un soggetto privato che sia legato, però, funzionalmente con la P.A. che ha disposto l’erogazione del servizio. Si tratta di una nozione che si fonda sulla natura del soggetto gestore e, come tale, contestata dai sostenitori della teoria oggettiva di servizio pubblico(19), la quale fa leva, viceversa, sulla destinazione del servizio ad una pluralità non ristretta di soggetti(20).
La dottrina più recente(21) propende, tuttavia, per un terzo orientamento intermedio che individua nel servizio pubblico una "attività di facere (con eventuale dare strumentale al facere stesso) non autoritativa, o limitatamente autoritativa, svolta da un Ente pubblico ... attraverso un modello di organizzazione tipizzato e finalizzato al perseguimento di un fine sociale", quale bisogno fondamentale della collettività che l’Ente medesimo riconosce attraverso un proprio atto unilaterale.
Alla nozione di servizio pubblico, in definitiva, non è stata mai attribuita da dottrina e giurisprudenza una connotazione univoca e ben precisa, sicché, alla stato attuale, può convenirsi con l’opinione secondo la quale tale nozione si riferirebbe "ad un fenomeno i cui indici di esistenza saranno individuati, a seconda dei casi, dal Legislatore o dall’Ente locale territoriale e infine riesaminati, sotto il profilo della ragionevolezza, dal giudice costituzionale o dal giudice amministrativo"(22).
E’ auspicabile, ad ogni modo, che il Legislatore possa risolvere questo nodo dogmatico con l’attuazione della riforma, prossima ad essere varata, sui servizi pubblici locali, il cui disegno di legge si trova in discussione (e, si spera, ancora per poco) attualmente in Parlamento.
Le forme di gestione
Si è già accennato in premessa come il Legislatore del ‘97, con la legge "Bassanini bis", prevedendo per gli Enti locali la facoltà di procedere alla trasformazione delle proprie aziende di gestione ed erogazione dei servizi pubblici locali in società per azioni, o anche a responsabilità limitata, abbia chiaramente dimostrato di preferire, a questi fini, il modello societario.
Già sette anni prima, tuttavia, aveva manifestato tale preferenza e, precisamente, con la legge n. 142/90, ove, elencando all’art. 22 le possibili forme di gestione dei servizi pubblici locali da parte degli Enti pubblici territoriali, alla lett. e) del comma terzo faceva menzione della "società per azioni a prevalente capitale pubblico locale", quale tipo societario da utilizzare "qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati".
L’art. 22 dispone, segnatamente, che i "comuni e le province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali", indicando, così, i presupposti in base ai quali l’assunzione di un servizio pubblico debba essere giustificata(23). Stabilisce, inoltre, che dette attività possono essere esercitate secondo alcune forme di gestione dei servizi che vengono, dal medesimo art. 22, tassativamente individuate come segue: 1) in economia; 2) in concessione a terzi; 3) a mezzo di azienda speciale; 4) a mezzo di istituzione; 5) a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico.
La legge n. 142/90 ha formulato, in altri termini, una tipizzazione di alcuni modelli organizzativi attraverso i quali conseguire determinati fini sociali, nella cui attività l’art. 22 individua l’oggetto dei servizi pubblici(24).
L’art. 22, comma 2, dispone inoltre che è la legge a stabilire quali servizi debbano essere "riservati in via esclusiva ai comuni e alle province", operando, in sostanza, una vera e propria riserva di legge.
Dovendo, pertanto, essere soltanto la legge a prevedere il modello di gestione di un servizio pubblico, istituendolo direttamente o prevedendone le modalità di istituzione da parte della P.A. (in regime di monopolio o in regime di concorrenza), si può quindi affermare, con la migliore dottrina, che anche a livello locale "la natura pubblica del servizio trova riscontro nella previsione normativa della modalità di gestione, in quanto occorre garantire la relativa conduzione in termini rispondenti alle finalità per cui è stato istituito". Ne deriva, pertanto, "che ogni servizio pubblico, e segnatamente quello locale, non può essere organizzato in forma libera, ma secondo i tipi previsti dall’ordinamento"(25). Nel settore degli Enti territoriali, peraltro, proprio in forza dell’autonomia costituzionalmente garantita di cui essi godono, la legge ha sempre lasciato alle Amministrazioni locali ampia facoltà di scegliere discrezionalmente il modello gestorio ritenuto più rispondente alle esigenze delle relative comunità(26).
Il primo degli strumenti che la legge n. 142/90 mette a disposizione degli Enti locali per l’esercizio dei servizi pubblici è quello della cosiddetta "gestione in economia", previsto dalla lett. a) del comma terzo dell’art. 22, a norma del quale essa riguarda servizi di modesta dimensione od aventi caratteristiche tali per cui "non sia opportuno costituire un’istituzione o una azienda", di cui alle rispettive lett. d) e c) della medesima disposizione. Da tale configurazione deriva, anzitutto, che la gestione in economia non comporta la creazione di un’organizzazione differenziata dall’Ente locale di riferimento, rispetto al quale, peraltro, non vi è separazione dal punto di vista contabile. Al contrario, l’attività effettuata attraverso la forma della gestione in economia viene inglobata nel bilancio generale dell’Ente, con la conseguenza che ne risultano difficilmente verificabili i relativi risultati nonché la rispondenza di tale strumento ai criteri di economicità ed efficienza di gestione, ai quali il Legislatore ha ispirato il proprio intervento normativo di riforma. Sono questi i motivi, peraltro, che inducono la dottrina a considerare quella "in economia" una forma residuale di gestione dei servizi pubblici(27), da utilizzare cioè quando, per dimensioni o caratteristiche del servizio, non sia opportuna l’adozione di un altro modello gestorio, tra quelli che sono elencati dall’art. 22 della legge n. 142/90.
Un altro strumento, offerto dalla vigente legislazione, è quello della "concessione a terzi" (art. 22, comma 3, lett. b), che può essere utilizzato "quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale" e solo laddove il servizio concesso sia riservato in via esclusiva all’Ente locale concedente. Tale forma di gestione implica che il servizio pubblico venga svolto da un soggetto diverso dall’Ente concedente. Il rapporto tra quest’ultimo e il concessionario viene regolato da una concessione-contratto oppure da una convenzione, in cui siano indicate le modalità di gestione del servizio(28).
Il terzo modello gestorio che l’art. 22 della legge n. 142/90 menziona è quello dell’azienda speciale(29), previsto "anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale" (comma 3, lett. c). E’ questa una forma di gestione già prevista nel nostro ordinamento dal R.D. n. 2578 del 1925 e profondamente innovata dalla legge n. 142/90, la quale ha attribuito all’azienda speciale un diverso regime consistente nel conferimento "di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto" (art. 23)(30). Conseguenza immediata di tale innovazione è stata la configurabilità dell’azienda speciale quale organismo autonomo e distinto dall’Ente locale, dotato di autonomia nella gestione del servizio, attività che deve essere informata a criteri di "efficacia, efficienza ed economicità" con obbligo "del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti" (art. 23, comma 4)(31).
Scopo di siffatta previsione, almeno nelle intenzioni del Legislatore, è quella di consentire alle aziende speciali (come all’altra figura della "istituzione") di non accumulare più quelle passività di gestione che in passato avevano considerevolmente compromesso gli equilibri di bilancio degli Enti locali, loro promotori.
Un modello gestorio di nuova introduzione è, invece, quello della cosiddetta "istituzione", previsto dalla lett. d) del terzo comma dell’art. 22 della legge n. 142/90 "per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale" e di dimensione non modesta(32). L’istituzione, come l’azienda speciale, viene dalla legge definita "organismo strumentale dell’ente locale ... dotato di autonomia gestionale" (art. 23, comma 2), differisce, tuttavia, dall’azienda speciale per il fatto di non essere dotata di personalità giuridica. Per tale ragione, mentre "l’ordinamento ed il funzionamento delle aziende speciali sono disciplinati dal proprio statuto e dai regolamenti", l’organizzazione, l’ordinamento interno ed il funzionamento delle istituzioni "sono disciplinati dallo statuto e dai regolamenti dell’ente locale da cui dipendono" (art. 23, comma 5)(33).
Con riferimento alla quinta ed ultima forma di gestione, la lett. e) del terzo comma dell’art. 22 della legge n. 142/90 menzionava la "società per azioni a prevalente capitale pubblico locale", da utilizzare qualora si rendesse "opportuna, in relazione al servizio da erogare la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati"(34). Detta disposizione è stata recentemente modificata dall’art. 17, comma 58 della legge n. 127/97, il quale, accanto alla S.p.a., ha introdotto, quale altra possibile forma di gestione dei servizi pubblici locali, la società a responsabilità limitata, sempre "a prevalente capitale pubblico locale". Entrambe le forme societarie vanno costituite o partecipate dall’Ente "titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale la partecipazione di più soggetti pubblici o privati".
Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, già prima di tale ultima novella propendevano per un’ampia interpretazione dell’art. 22, comma terzo, lett. e), secondo la quale l’espressione "società per azioni" venisse riferita al genere "società di capitali", fra cui rientra anche il tipo societario della S.r.l., dal momento che "non si ravvisa alcuna diversità apprezzabile ... tra la formula della S.p.a. e quella della S.r.l."(35).
Occorre, ancora, precisare che la figura della società mista è stata ulteriormente definita dall’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, con il quale il Legislatore ha concesso a Comuni e Province la possibilità di costituire "apposite società per azioni … senza il vincolo della proprietà maggioritaria", di cui alla lett. e), comma 3, dell’art. 22 della legge n. 142/90, per l’esercizio dei servizi pubblici e per la realizzazione delle infrastrutture e delle opere necessarie al corretto svolgimento dei medesimi.
A fronte, poi, della pluralità degli strumenti appena descritti, predisposti per l’esercizio dei servizi pubblici locali, si pone, per le Amministrazioni comunali e provinciali, il problema della scelta della forma di gestione economicamente e funzionalmente più vantaggiosa, da effettuare conformemente ai criteri stabiliti dalla legge e dai rispettivi statuti.
Con riferimento, in particolare, all’esercizio dell’attività economica in forma imprenditoriale da parte dello Stato e degli Enti pubblici territoriali, nel nostro ordinamento giuridico è consentito alle imprese pubbliche di operare "prevalentemente attraverso l’utilizzazione degli schemi privatistici, in particolare di quello della società per azioni"(36).
Tale modello societario, la cui utilizzazione è stata prevista, come accennato, dapprima con la formula di partecipazione "a prevalente capitale pubblico locale" (art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142/90) e, successivamente, "senza il vincolo della proprietà mggioritaria di cui al comma 3, lettera e) dell’articolo 22 della legge 8 giugno 1990" (art. 12, comma 1, della legge n. 498/92), si pone in entrambe le suddette forme di partecipazione come la struttura organizzativa più diffusa per lo svolgimento dell’attività d’impresa, anche nell’ambito dell’iniziativa pubblica in campo economico.
Riguardo, poi, alla gestione dei servizi pubblici locali, come per l’azienda speciale, anche per la S.p.a. con capitale misto, pubblico e privato, è possibile, quindi, affermare che essa costituisce il modello organizzativo "eletto" per l’esercizio in forma di impresa della relativa attività di erogazione dei medesimi.
La possibilità, concessa dal Legislatore a Comuni e Province, di utilizzare il modello societario della società per azioni implica, di per se stessa, il coinvolgimento di soggetti terzi, siano essi privati o pubblici, nel capitale di rischio della società.
La forma della società per azioni a prevalente capitale pubblico locale rappresenta uno strumento privatistico, soggetto alla disciplina delle società commerciali (inclusa quella fallimentare) prevista dal Codice Civile, che, nelle intenzioni del Legislatore, va utilizzato per l’affidamento di servizi caratterizzati da un elevato livello di imprenditorialità e suscettibili di produrre utili di gestione, sì da coinvolgere, come si è detto, l’interesse di altri soggetti pubblici e privati alla partecipazione nella formazione del capitale azionario.
Il ricorso alla società per azioni per l’esercizio di un servizio pubblico viene preferito dalla legge, in quanto modello di gestione in grado di raggiungere nel minor tempo possibile i fini pubblici per i quali un dato servizio è stato creato e dotato di una struttura snella ed elastica, capace di organizzare al proprio interno la collaborazione tra Enti locali ed altri soggetti e di consentire rapidità nelle decisioni.
Sono inoltre notevoli, come accennato, le novità introdotte in questo campo dalla legge n. 127/97 (legge "Bassanini bis"), la quale con l’art. 17, comma 58, ha riformato il tenore della norma contenuta nell’art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142/90.
Viene, anzitutto, superato il limite posto da quest’ultima norma, che menziona tra i tipi di società di capitali esclusivamente la società per azioni, in quanto il Legislatore del ‘97 aggiunge a questa forma quella della società a responsabilità limitata. Tale limite, in verità, era già stato superato dalla giurisprudenza(37), la quale aveva proposto un’interpretazione non restrittiva dell’art. 22, asserendo che l’espressione "società per azioni" dovesse estensivamente intendersi come sinonimo di "società di capitali", all’interno delle quali è annoverabile anche la società a responsabilità limitata.
Una "sorpresa" della legge n. 127/97 viene costituita dalla circostanza che la medesima ha preso in considerazione unicamente il modello societario "a prevalente capitale pubblico locale", dimostrando in tal modo di non tenere conto della diversa ipotesi, prima nominata, della società a prevalente capitale privato, ossia a partecipazione pubblica minoritaria. Sulla base di tale rilievo, parte della dottrina sostiene che siffatta nuova formulazione, "costituendo ius superveniens rispetto all’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, potrebbe ingenerare seri dubbi sulla intentio legis di conservare lo strumento della società a capitale pubblico minoritario"(38).
Non vi è dubbio, tuttavia, che con l’introduzione della società per azioni, operata dalla legge n. 142/90, fra i possibili modelli organizzativi a disposizione degli Enti locali per espletare le attività necessarie al conseguimento dei loro fini sociali ed economici, sia stato affermato il potere contrattuale privato di Comuni e Province, risolvendo, in tal modo, la questione, ampiamente dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza già prima della riforma delle Autonomie locali, circa l’ammissibilità dell’autonomia privata in capo agli Enti pubblici(39).
E’ questo il motivo per il quale l’innovazione introdotta dall’art. 22, comma 3, lett. e), lungamente attesa soprattutto dagli amministratori pubblici, era stata salutata con grande favore, in quanto colmava un vuoto normativo da tempo avvertito, con la creazione di "una struttura organizzativa di diritto privato, esterna alla pubblica Amministrazione, ad essa legata da rapporti di diritto privato ma completamente autonoma e svincolata"(40).
La riforma dei servizi pubblici locali: peculiarità degli interventi legislativi
In attesa che venga emanata la nuova legge di riforma dei servizi pubblici locali, al fine di analizzare quello che si potrebbe definire "l’ingresso" nell’ambito del diritto pubblico dello strumento societario della trasformazione, finalizzato all’ottimizzazione dell’esercizio dei pubblici servizi, occorre fare riferimento ai due principali interventi normativi che hanno contrassegnato l’ormai quasi decennale processo di riforma relativo al riordino del sistema dei servizi pubblici locali nel nostro Paese: la legge n. 142/90 e la legge n. 127/97.
Con la prima normativa, che ha disciplinato il nuovo ordinamento delle Autonomie locali, al fine di affrontare il problema della diffusa inefficienza dei servizi pubblici(41), è stato dato un notevole impulso alla riorganizzazione del sistema relativo ai servizi pubblici locali. Con la legge n. 127/97, invece, sono state introdotte importanti novità nell’ambito delle forme di gestione dei predetti servizi; è stato previsto l’utilizzo (facoltativo) dello strumento civilistico della trasformazione, al fine di favorire l’adozione del modello gestorio della società per azioni a capitale misto, considerata dal Legislatore struttura organizzativa idonea, più delle altre, ad operare uno snellimento e, quindi, una maggiore velocizzazione delle attività finalizzate all’esercizio dei servizi pubblici locali nonché a conseguirne, contemporaneamente, l’ottimizzazione dei risultati di gestione.
Come si è già avuto modo di esporre, con le norme contenute nella legge n. 142/90 - gli artt. 22 e 23 - il Legislatore ha inteso rivedere l’intero sistema dei modelli di gestione dei servizi pubblici locali, introducendone dei nuovi ovvero rinnovando il regime giuridico di quelli allora già esistenti nel nostro ordinamento.
Nel caso dell’azienda speciale, il Legislatore ha proceduto, come è noto, conferendo a questa figura una nuova veste giuridica rispetto a quella delle precedenti figure dell’azienda municipalizzata o provincializzata, deputate all’esercizio di pubblici servizi nell’ambito delle rispettive comunità.
La predetta normativa, però, non ha innovato automaticamente il regime delle predette aziende, facendo piuttosto ricadere sugli Enti locali l’obbligo di provvedere alla conversione di esse secondo il nuovo modello giuridico.
Con l’art. 4, comma 3, del D.L. n. 26/95, convertito con legge n. 95/95, infatti, era stato fissato il termine del 30 settembre 1995 entro il quale ciascun Ente locale avrebbe dovuto provvedere a conformare l’ordinamento delle proprie aziende speciali ai dettami dell’art.23 della legge n. 142/90, procedendo entro i successivi novanta giorni ad iscriverle nel registro delle imprese.
Si può affermare, anzitutto, che ormai quasi tutti i Comuni, grandi e medio-grandi, del Paese hanno provveduto in tal senso, sia pure andando oltre il predetto termine(42).
Si deve considerare, in particolare, che l’art. 4 del citato decreto-legge convertito, nell’imporre a Comuni e Province il descritto adempimento, non si esprime in termini di trasformazione dell’ente-azienda ma letteralmente dispone: "Gli enti locali adeguano l’ordinamento delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, L. 8 giugno 1990, n. 142..."
E’ prevalso, tuttavia, sia in dottrina che nell’ambito delle Amministrazioni pubbliche, il convincimento che tale adeguamento dovesse essere operativamente attuato mediante un atto di trasformazione, il cui procedimento amministrativo viene a caratterizzarsi per la peculiarità della natura del soggetto agente, che, trattandosi nella fattispecie di un Ente locale, è una persona giuridica pubblica e non privata.
In base a quanto operato da parte della quasi totalità dei Comuni, si può, infatti, senza dubbio affermare che il processo di conversione delle aziende municipalizzate in aziende speciali sia stato tecnicamente realizzato intendendo il medesimo alla stregua di un vero e proprio procedimento di trasformazione.
Nel momento attuale, a conclusione della fase del passaggio al nuovo regime delle aziende speciali, non manca, comunque, in dottrina chi sostiene che si sarebbe dovuto considerare e definire tale operazione piuttosto come un procedimento di conversione o di adeguamento, integrando la medesima, nella sostanza, un semplice cambiamento di veste giuridica.
Si potrebbe, infatti, addurre che neanche le norme contenute nella legge n. 142/90 forniscono indicazioni utili al fine di definire necessariamente come una trasformazione tout court, intesa in senso privatistico, il procedimento per la conversione delle aziende erogatrici dei servizi pubblici locali in aziende speciali, costituendo, quest’ultimo, piuttosto un procedimento di diversa natura, che solo impropriamente viene definito "trasformazione".
A tale affermazione è possibile opporre, tuttavia, che, nonostante il Legislatore, del ‘90 e del ‘95, non abbia mai espressamente fatto menzione dell’istituto della trasformazione, la ratio legis dei predetti interventi normativi sia stata pur sempre quella di conferire alle aziende speciali preesistenti, come si è visto, una nuova veste giuridica, la quale circostanza, soprattutto in considerazione del conferimento ad esse della personalità giuridica, ha posto questi Enti, né più né meno, sullo stesso piano di quelle società di persone, le quali, trovandosi sfornite di tale speciale attribuzione, decidano di procedere al cambiamento del proprio tipo societario.
Tale opinione viene ulteriormente confermata dalle indicazioni procedurali che il Legislatore, sia pure laconicamente, ha dettato per la regolamentazione di tale fattispecie. Egli, infatti, alla stregua di qualunque costituzione di società che debba acquistare la personalità giuridica ovvero di qualsivoglia modificazione dell’atto costitutivo di società di capitali, impone l’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese, aggiungendo "per gli effetti di cui al primo comma dell’articolo 2331 del codice civile"(43).
Si deve, pertanto, asserire quanto affermato dal Consiglio di Stato nel parere n. 405 del 18 maggio 1993, e cioè che la legge n.142/90 "non ha trasformato ex lege le aziende municipalizzate in aziende speciali a carattere imprenditoriale" e dotate di personalità giuridica, che acquistano dal momento della loro effettiva costituzione, cui si correlano l’approvazione del relativo statuto e l’iscrizione nel registro delle imprese. Se, infatti, l’art. 22 si è limitato ad indicare "soltanto i possibili modi di gestione dei servizi pubblici", l’art. 23 ha "definito i caratteri e la natura delle aziende speciali, senza per questo ovviamente contraddire l’articolo precedente nel senso di stabilire la sostituzione delle nuove figure soggettive alle preesistenti aziende".
L’espressione usata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, alludendo chiaramente alla figura della trasformazione, costituisce ancora una conferma di quale sia stata la natura giuridica unanimemente attribuita al procedimento di adeguamento "delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, L. 8 giugno 1990, n. 142", imposto dalla legge a Comuni e Province.
Non alla stessa maniera si è comportato il Legislatore del ‘97, invece, con riguardo al passaggio degli enti strumentali per l’erogazione dei servizi pubblici dalla forma di azienda speciale al modello di società per azioni, avendo scelto, questa volta - e probabilmente sulla scorta della precedente esperienza - di definire tecnicamente come "trasformazione" il relativo procedimento.
Con riguardo, poi, alle modalità operative mediante le quali tutti gli Enti locali, e soprattutto i Comuni - compresi quelli siciliani(44) -, si sono trovati a dover procedere alla trasformazione delle proprie aziende secondo il nuovo assetto giuridico a queste ultime conferito dalla legge, bisogna, da ultimo, segnalare come essi abbiano dovuto risolvere molteplici complesse questioni, prima di avviare il procedimento amministrativo per l’attuazione della trasformazione delle aziende municipalizzate in aziende speciali.
Quanto, invece, alla trasformazione delle aziende speciali in società per azioni, essa, come già detto, è stata regolamentata dall’art. 17, commi 51-57, della legge n. 127/97, che detta, a tal fine, una procedura semplificata.
Peculiarità dell’applicazione dello strumento societario della trasformazione alle aziende pubbliche
Con riguardo, ancora, alle modalità operative attraverso cui le aziende esercenti pubblici servizi, municipalizzate o provincializzate, si trasformano in aziende speciali e da queste in società per azioni, appare interessante tentare di analizzare in quale modo lo strumento societario della trasformazione sia stato applicato nei confronti di tali organizzazioni pubbliche, al fine di verificare se l’utilizzazione, consentita dal Legislatore in tale ambito, non abbia, eventualmente, presentato qualche peculiarità rispetto al settore privatistico.
La legge, anzitutto, fa consistere la deliberazione assembleare di trasformazione societaria in un verbale d’assemblea straordinaria, redatto per atto pubblico notarile, per mezzo del quale viene manifestata all’esterno la volontà dei soci di trasformare la loro società.
Il verbale di assemblea costituisce, dunque, un atto documentale con funzione di conferire alla predetta volontà un rivestimento giuridico-formale in grado di dare certezza delle dichiarazioni ivi contenute e della provenienza delle medesime da un soggetto, nella fattispecie, persona giuridica privata: la società.
Alquanto peculiare, invece, si presenta l’estrinsecazione della manifestazione di volontà dell’Ente locale con riguardo alle ipotesi di trasformazione di pubbliche organizzazioni, oggetto di questo lavoro.
E’ noto, anzitutto, come prevalga in dottrina la teoria della natura pubblicistica (teoria funzionale e procedimentale) e non negoziale del provvedimento amministrativo, per cui esso consiste pur sempre in una manifestazione di volontà, dal carattere imperativo, la cui emanazione può essere discrezionale o dovuta(45).
Il Legislatore, d’altra parte, volendo realizzare un cambiamento della veste giuridica delle aziende esercenti pubblici servizi al fine di razionalizzarne struttura e funzionamento, ha giustamente fatto ricorso, con le norme che qui sono state analizzate, all’introduzione dello strumento civilistico della trasformazione, non disponendo, peraltro, di analoghi istituti di diritto pubblico.
Di più: il Legislatore, sia del ‘90 che del’97, ha posto in capo all’Ente locale, Comune o Provincia, l’onere di procedere all’adozione di una delibera di trasformazione dei propri enti strumentali per l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Non vi è alcun dubbio, per altro, che la volontà dell’Ente locale di porre in essere la trasformazione di un’organizzazione di propria appartenenza, secondo una delle due tipologie prese in considerazione, possa e debba trovare formalizzazione attraverso una deliberazione, di competenza dell’organo consiliare, la quale, una volta adottata, analogamente a quanto avviene per le persone giuridiche private, ne costituisce documentazione in forma pubblica ed ufficiale, idonea ad essere depositata, unitamente ai relativi allegati, per l’iscrizione nel registro delle imprese.
Non è tanto, quindi, l’aspetto relativo al rivestimento giuridico-formale della manifestazione dell’Ente locale di volere trasformare un’azienda per l’erogazione di pubblici servizi a costituire la peculiarità dell’applicazione dell’istituto civilistico della trasformazione in ambito pubblico, pur se, a motivo della non piena coincidenza con le situazioni tipiche del settore privatistico, qualche adattamento si è dovuto verificare giocoforza.
Nell’ambito del diritto pubblico, per esempio, la volontà di un organo collegiale, quale è quella del Consiglio comunale o provinciale, viene espressa e raccolta pubblicamente senza quella specifica "funzione di adeguamento" che viene svolta dalla figura del notaio, in veste di pubblico ufficiale, per gli atti privati, pur se le funzioni di assistenza e di verbalizzazione delle relative sedute vengano per legge garantite dalla presenza della figura del segretario comunale e provinciale.
Si può dire, in altri termini, che, sebbene entrambe le situazioni - quella di un’assemblea di una società privata e quella della seduta di un organo consiliare - presentino il carattere della solennità nell’esternazione della volontà collegiale, le modalità con le quali le volontà di un soggetto giuridico privato vengono manifestate e raccolte rivelano, tuttavia, una certa sacralità delle forme, che risulta maggiormente idonea ad offrire garanzie ai fini della certezza del diritto.
Ancora, un’altra particolarità, dovuta all’utilizzazione di uno strumento privatistico come quello della trasformazione nell’ambito del diritto pubblico, riguarda l’aspetto relativo all’adempimento della valutazione di tutti i beni, mobili ed immobili, in possesso delle singole aziende esercenti pubblici servizi fino al momento della deliberazione del loro passaggio ad altro regime giuridico.
Si tratta di un’operazione contemplata, come si è visto, anche dalla disciplina civilistica relativa alla trasformazione di enti giuridici societari (art. 2498, comma 2, c.c.).
La realizzazione di siffatto adempimento, il quale culmina nella predisposizione di una relazione di stima dei beni costituenti l’asse patrimoniale dell’ente, presuppone, peraltro, una ricognizione preliminare dei medesimi, operazione che, se nel caso di una società per azioni, pur se complessa, risulta comunque fattibile in tempi ragionevolmente brevi, nella fattispecie che vede coinvolta, invece, un’organizzazione pubblica essa si rivela un compito oltremodo difficile e duraturo.
La diversità, nelle due fattispecie, relativa ai tempi di realizzazione dell’inventario dei beni mobiliari ed immobiliari viene a determinarsi in funzione della natura del soggetto agente: laddove, infatti, si tratti di una persona giuridica privata, risulta più agevole - anche alla luce delle considerazioni appena svolte a proposito degli strumenti di garanzia della certezza del diritto- andare a ricostruire i dati relativi a quantità, natura giuridica, modalità di godimento e titolo di provenienza di ciascun bene costituente l’intero patrimonio, per l’evidente ragione che alla base della cura di tutti questi aspetti vi è un interesse privato; le medesime considerazioni non è possibile, invece, ripetere per un soggetto giuridico pubblico, nel cui ambito non vi è, sovente, chiarezza con riguardo alla titolarità di molti beni di cui dispone, la quale risulta assai difficile da rilevare, in quanto beni acquisiti, ad esempio, moltissimo tempo addietro.
Ciò che costituisce, invece, un aspetto peculiare -forse meglio definibile come un’anomalia- del fenomeno giuridico della trasformazione di organizzazioni pubbliche, qui considerato in due diverse tipologie, è il fatto che, rispetto alla fattispecie della trasformazione societaria, dove la volontà di attuare tale cambiamento è quella degli stessi soci componenti il soggetto giuridico società, in tale situazione la dichiarazione volitiva di procedere alla modificazione giuridica dell’ente gestore di un servizio pubblico non proviene da quest’ultimo bensì dall’Ente locale di riferimento della titolarità del medesimo.
E’ fin troppo ovvio che il Legislatore non abbia potuto non congegnare in questi termini tale meccanismo di funzionamento della trasformazione delle aziende esercenti pubblici servizi, proprio in considerazione della natura pur sempre strumentale di questi enti rispetto al loro Ente locale di appartenenza.
Ciò non impedisce, tuttavia, di osservare la particolarità, in ambito pubblicistico, di tale singolare fattispecie giuridica, la quale viene a caratterizzarsi, pertanto, in entrambi i passaggi dalla legge previsti, come una trasformazione che procede piuttosto "dall’alto", ossia dall’Ente locale, anziché "dall’interno" della struttura organizzativa interessata, come avviene, invece, per tutte le società in ambito privatistico.
Questi, in definitiva, unitamente a quanto si dirà nel prossimo paragrafo, gli aspetti peculiari dell’applicazione dello strumento societario della trasformazione alle organizzazioni pubbliche, determinati fondamentalmente dal fatto che nel relativo procedimento viene ad essere coinvolto un soggetto giuridico pubblico e non privato.
Considerazioni conclusive
Il processo di riforma che, dal 1990 ad oggi, ha interessato il sistema dei servizi pubblici locali, al fine di attuarne, un po’ per volta, una globale riorganizzazione, non si è ancora concluso.
Si è cercato di delineare i tratti più significativi delle varie fasi del processo d’innovazione degli strumenti di gestione dei servizi pubblici, al fine di cogliere unitariamente la portata dei singoli interventi legislativi succedutisi nel tempo.
Si è visto come tra i modelli gestori dei servizi pubblici locali, previsti dalla legge, si sia prepotentemente imposta (già da prima, in verità, della sua introduzione) la figura della società per azioni a capitale misto e come, altresì, il Legislatore del ’97 ne abbia voluto ulteriormente favorire l’utilizzazione(46).
Con l’espressa previsione, contenuta nel comma 51 dell’art. 17 della legge n. 127/97, della facoltà per tutti gli Enti locali di procedere alla trasformazione delle proprie aziende speciali, erogatrici di servizi di pubblica utilità, in società per azioni o a responsabilità limitata a capitale misto, il Legislatore ha, infatti, inteso predisporre uno strumento per l’accelerazione del cammino intrapreso verso la privatizzazione di tali apparati pubblici.
Sembrerebbe questa la ratio giustificatrice delle norme contenute nella legge "Bassanini bis", se si considera che, al fine di raggiungere tale obiettivo, il Legislatore avrebbe potuto comunque scegliere di imporre direttamente la costituzione di società miste per la gestione dei servizi pubblici già affidati alle aziende speciali, estinguendo contestualmente queste ultime.
Posto, infatti, che l’utilizzo della struttura societaria, come del resto anche quello dell’azienda speciale, presuppone la necessità di ottenere una gestione imprenditoriale ed economica dei servizi da erogare, con il vantaggio però, rispetto all’azienda speciale, di consentire l’ingresso anche di capitali privati, si comprende bene cosa abbia spinto il Legislatore a preferire e favorire l’utilizzazione di una struttura organizzativa, più snella ed efficiente, di tipo privatistico rispetto a quella, meno efficace e spedita nei risultati, di tipo pubblicistico.
E’ in questo contesto, dunque, che va letta la portata dell’introduzione dell’istituto societario della trasformazione, scelto dal Legislatore quale strumento per facilitare il procedimento di conversione della struttura operativa dell’azienda speciale in quella della società mista, soprattutto in un momento, come quello attuale, in cui è tempo, ormai, di consuntivi sul percorso di riforma fino ad ora effettuato.
Tutti i più importanti Comuni d’Italia, da Roma a Milano, da Venezia a Brescia, da Genova a Prato, hanno già completato l’attuazione del passaggio, suggerito dal Legislatore del ’97, da aziende speciali a società per azioni dei propri enti di gestione dei servizi pubblici locali e, nel caso di alcuni di loro, si è addirittura proceduto alla relativa quotazione in borsa.
E’ ancora lungo, tuttavia, il cammino che spetta a tanti altri Comuni, grandi e medio-grandi, per la realizzazione di tale trasformazione, che essi sono ormai costretti, in un certo qual modo, a porre in essere se non vogliono danneggiare, in termini di competitività, le aziende erogatrici di servizi pubblici di propria emanazione.
Osservando, da un punto di vista contenutistico e funzionale, la figura della trasformazione e del relativo procedimento, così come delineato dalla legge n. 127/97, non si può fare a meno, d’altra parte, di notare un’ulteriore peculiarità dell’applicazione di tale strumento, pur sempre di natura civilistica, nell’ambito del diritto pubblico.
Si è già avuto modo di affermare che l’istituto societario della trasformazione, così come previsto dalla disciplina codicistica, consente ad una società di modificare la propria struttura organizzativa, assumendone un’altra, ma pur sempre all’interno della medesima categoria giuridica di società.
Il passaggio -contemplato dalla legge n. 142/90, seguita dalla legge n. 95/95- da azienda municipalizzata o provincializzata ad azienda speciale tende, invero, a realizzare, almeno nelle intenzioni del Legislatore, una modificazione del regime giuridico di tale ente strumentale, anche a livello organizzativo e funzionale, mantenendo il medesimo, però, all’interno dello stesso genere "azienda".
E’ questa un’altra ragione per la quale, infatti, è possibile inquadrare nell’istituto societario della trasformazione quello che il Legislatore del ’95 ha definito come "adeguamento dell’ordinamento delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, l. 8 giugno 1990, n. 142" (cfr. art. 4, comma 3, della legge n. 95/95).
La diversa possibilità, introdotta dalla legge n.127/97, di trasformare, invece, un’azienda speciale, già dotata del nuovo regime giuridico, in una società di capitali (S.p.a. ovvero S.r.l.), rispecchia, come poc’anzi anticipato, in modo ancora più incisivo e chiaro, l’intenzione del Legislatore di proseguire assai velocemente nel cammino intrapreso verso la privatizzazione degli apparati pubblici. Ne costituisce prova il fatto che il passaggio ad una struttura societaria venga prospettato, sia pure sotto forma di facoltà, a tutti gli Enti locali con la predisposizione di una procedura semplificata, al fine di consentire loro di poter agire speditamente.
La trasformazione da azienda speciale a società per azioni, così come delineata dal Legislatore del ’97, comporta, invero, il passaggio da una struttura che societaria non è ad un’altra di tipo societario, integrando, pertanto, piuttosto che una trasformazione in senso tecnico, una sorta di "trasformazione atipica", simile a quelle ipotesi, così definite da certa dottrina civilistica, quali, ad esempio, la trasformazione di un ente associativo in società.
E’ possibile affermare, quindi, che in quest’ultima fattispecie si realizzi un passaggio tra strutture organizzative diverse, non appartenenti al medesimo genere.
Le considerazioni che precedono consentono di concludere osservando come il Legislatore della riforma sui servizi pubblici abbia provveduto ad operare una riorganizzazione dei medesimi, mediante l’introduzione dello strumento societario della trasformazione, che si è dovuto, tuttavia, adattare a delle strutture di natura pubblica, quali sono gli organismi di erogazione degli Enti locali.
Appare interessante, infine, notare come il Legislatore, con la legge n. 142/90, abbia chiamato "adeguamento" ciò che in realtà integrava tecnicamente una vera e propria trasformazione nel senso civilistico del termine mentre, al contrario, con l’altro intervento normativo del ’97, abbia espressamente definito "trasformazione" un procedimento consistente, invece, in qualcosa che, seppure assimilabile a tale fenomeno giuridico, trasformazione "tipica" non potrebbe dirsi ed, invero, in senso tecnico non è.