GIOVANNI BORGESE E LA FONDAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALISTA A PALERMO di Maurizio Scaglione

La formazione di Giovanni Borgese nella Sicilia del primo Novecento.
Alcuni anni or sono, era il 1990, su richiesta di Giuseppe Tricoli, allora presidente dell’I.S.S.P.E., pubblicai un volumetto(1) in memoria di Giovanni Borgese, dimenticato fondatore della sezione palermitana dell’Associazione Nazionalista Italiana, primo nucleo, in ordine di tempo, della moderna Destra Nazionale nel capoluogo siciliano. Ultimamente ho riletto quel vecchio lavoro che mi è apparso, per alcuni versi, superato da miei più recenti studi sulla Sicilia e sulla Palermo dei primi decenni del Novecento. Così ho pensato di ritornare su quella ricerca, di rivisitarla profondamente e di riproporla all’attenzione degli studiosi e degli appassionati.
Giovanni Borgese nacque a Polizzi Generosa nel 1884, ultimo dei tre figli di Antonio e Rosa Di Martino(2). Il fratello maggiore, Giuseppe Antonio, sarebbe divenuto uno dei maggiori animatori del dibattito culturale italiano del ‘900, oltre che critico letterario di fama mondiale(3). La sorella Maria Pia fu fine scrittrice dai solidi valori religiosi(4). Maria Pia, diversi anni dopo, rievocando l’età della fanciullezza trascorsa a Polizzi scriveva: "S. Paolo si chiama il podere che conobbe l’infanzia e l’adolescenza di Giuseppe Antonio e del fratello e della sorella di lui. S. Paolo è il podere de Le gabbie e di parte di Giovinezza. S. Paolo per i tre fanciulli fu terra d’incantesimo, piena di meraviglia. Eravamo in tre allora, uniti da un intenso fraterno affetto (…). Giovanni, il più giovane, e che cadde da forte nella prima grande guerra, era piccolo ancora e seguiva con umile, amoroso ardore il fratello e la sorella"(5). Negli anni dell’adolescenza i tre fratelli, con l’ausilio della "piccola, ma religiosamente tenuta, biblioteca paterna"(6) compivano i loro studi. Anni gai, spensierati, mentre gli occhi dei tre si aprivano agli interessi culturali, letterari, politici del tempo.
Per comprendere il clima nel quale il giovane Giovanni si formò culturalmente e politicamente bisogna riflettere, innanzitutto, sulla Sicilia del primo Novecento e sui valori e sulle tensioni ideali della sua generazione. Ormai gli storici isolani(7) - superando "il mito dell’arretratezza come immobilità"(8) nonché la tesi gramsciana del "blocco agrario"(9)- hanno riconosciuto che l’isola, fra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, fu una terra attraversata da complesse dinamiche sociali, economiche, culturali e politiche connesse alla lenta, ma costante, dissoluzione del latifondo. In questa prospettiva emerge la centralità dello scontro, non tra proletariato e borghesia capitalista, secondo gli schemi del marxismo, bensì, considerando le reali condizioni del tessuto economico e sociale siciliano del tempo, fra la vecchia "aristocrazia" che, dal latifondo traeva, non solo i mezzi materiali della sua sopravvivenza, ma il motivo della sua forza sociale e politica, e la nuova classe media, del lavoro, delle professioni, della cultura, che cercava un suo ruolo autonomo e aspirava a divenire classe dirigente ed elemento di modernizzazione della società isolana. In questo quadro non di poco conto fu l’opera del Crispi ed il perpetuarsi del suo mito nei decenni successivi alla sua caduta. Per quelle generazioni di siciliani, infatti, Crispi non era soltanto l’uomo del Risorgimento e l’antesignano della Grande Italia, ma anche il tutore della nuova classe media che, sotto il suo ombrello protettivo, ambiva a sostituirsi al vecchio ceto latifondistico, sia nei gangli del potere locale, sia sui banchi del parlamento nazionale(10). Cioè, nei siciliani, e soprattutto nei siciliani del ceto medio, il nome di Crispi si associava agli aspetti riformistici e innovatori della politica dello statista riberese, aspetti che la storiografia successiva, in gran parte tesa alla glorificazione della politica giolittiana, ha sempre cercato di offuscare. E la caduta del Crispi, in questa Sicilia di industriali, commercianti, operatori dei settori avanzati dell’agricoltura intensiva, professori, professionisti, impiegati, venne avvertita e vissuta come la rivincita della vecchia Sicilia aristocratica e latifondista. Basterebbe, d’altronde, ricostruire i passaggi della revanche aristocratica nel potere locale e negli assetti di potere nazionali, da Di Rudinì a Giolitti(11), per comprendere le ragioni di tale persistente sentimento. Da un lato, quindi, questa vecchia aristocrazia, baldanzosamente tornata alla riscossa, che forniva al potere centrale il suo appoggio in termini politici e di sostegno parlamentare, in cambio del mantenimento dello status quo economico nell’isola e del rinvio alle calende di ogni ipotesi di riforma agraria e di sviluppo economico(12); dall’altro l’articolato mondo del ceto medio alla ricerca, nel "dopo-Crispi", di vie nuove ed idee originali per riaffermare la propria autonomia e, attraverso la demolizione del potere dei latifondisti, puntare alla riconquista della leadership. E se la vecchia aristocrazia trovava nel vecchio e trito sicilianismo la sua "ideologia", il vario nazionalismo di cui parla Giocchino Volpe(13) fornirà l’"ideologia" alternativa alla classe media siciliana.
In questo quadro va collocato, ad esempio, il ruolo svolto negli anni del primo Novecento da Ignazio Florio, che si trovò a giocare un ruolo importante nelle dinamiche politico-sociali della Sicilia del tempo. E, in quest’ottica va letta la chiara presa di posizione di Florio a favore di Sidney Sonnino, il Progetto Sicilia, fino alla creazione del quotidiano L’Ora(14). Il richiamo a L’Ora, per i siciliani della generazione di Giovanni Borgese, non è di poco conto, essendo stato proprio attraverso le pagine del quotidiano di Florio che, per la prima volta, attraversò lo Stretto e giunse nell’isola il pensiero nazionalista. Ci riferiamo, chiaramente, soprattutto al periodo in cui, dal 14 aprile 1904, la direzione fu affidata a Edoardo Scarfoglio, già direttore del Mattino di Napoli. Scarfoglio ripropose, sul giornale, tutti i temi della battaglia nazionalista, servendosi anche della collaborazione di Arcangelo Lauria, Andrea Cantalupi e, soprattutto, di quel Mario Morasso "autore poco studiato (…), ma significativo ed assai interessante perché il suo "egoarchismo", il suo inneggiare alla macchina, il suo imperialismo artistico sono quanto mai rappresentativi di certa temperie dell’epoca"(15).
In questo clima deve collocarsi, anche, l’attività di rilancio dell’idealismo hegeliano svolta a Palermo, in quegli anni, da Giovanni Gentile, attivo promotore delle attività della locale Biblioteca Filosofica della Società degli studi filosofici, istituzione fondata da Giuseppe Amato Pojero, attorno al quale "a partire dal 1882, con l’aiuto dell’impegno incessante di Giovanni Gentile, si radunò un cenacolo di intellettuali nel cui senso si svilupparono temi filosofici di grande respiro. Questo cenacolo trovò il suo nome ed una forma istituzionalizzata nel 1910, come espressione della Società per gli studi filosofici"(16). Intorno alla Biblioteca ed alla Società di studi filosofici si radunarono uomini come Ferdinando Albeggiani, Vito Fazio Almeyer, Adolfo Omodeo. Tra gli aderenti anche Croce, Prezzolini e Giuseppe Lombardo Radici(17). Tra i collaboratori dell’istituzione anche quel Gaetano Mario Columba, Ordinario di Storia antica all’Università di Palermo, poi preside della Facoltà di Lettere, che diverrà, nel dopoguerra, uno dei dirigenti della sezione nazionalista palermitana.
Ancora, nella Palermo del primo Novecento, un’importante funzione di propagazione del pensiero patriottico e nazionale, fu svolta, senza dubbio, dalla Società Siciliana di Storia Patria sotto la guida di Alfonso Sansone. "Agli inizi del presente secolo, la Società Siciliana per la Storia Patria è - scrive Giuseppe Tricoli -, sempre più saldamente, il centro egemonico della cultura palermitana, presso cui gli ultimi apporti dell’aristocrazia umanistica di un marchese di Torrearsa o di un marchese Ugo delle Favare si versano nel fiume di una borghesia intellettuale sempre più in crescita e ben rappresentata. (…) Basta meditare, con attento spirito critico, gli atti della Società Siciliana per la Storia Patria, come si snodano nella ricostruzione che ne fa il Sansone nel suo Mezzo secolo di vita intellettuale (1873-1924), per accorgersi subito come la tipica cultura siciliana di quella borghesia intellettuale palermitana si cali sempre più in un clima italiano e patriottico, di cui il crispismo e la convinta adesione al programma coloniale sono certamente gli esiti e le espressioni più significative"(18). Ed, accanto e insieme a Sansone, partecipano attivamente all’attività della Storia Patria, Salvatore Romano, G.B. Siragusa, ancora Gaetano Mario Columba, Domenico e Francesco Trigona, Giuseppe Pipitone Federico, Rodolfo Corselli, il prof. Cesareo, oltre al nostro Giovanni Borgese, allora studente universitario, ma già ben inserito nella vita culturale del capoluogo siciliano e a tanti altri nomi che ricorreranno, in un modo o nell’altro, nella storia del movimento nazionalista e, poi, del movimento fascista in Sicilia.
Giovanni Gentile(19), riflettendo sulle vicende, le passioni, le tensioni, che attraversarono il panorama culturale siciliano fra la fine dell’800 ed il primo decennio del nuovo secolo, ritiene che tale periodo abbia rappresentato, per la Sicilia, un momento epocale, quasi uno spartiacque, perché in quelle vicende, in quelle passioni, in quelle tensioni vissute e rappresentate dal mondo della cultura isolana, leggeva, in tutta la sua drammaticità, la fine della vecchia Sicilia "sequestrata" e la nascita di una nuova Sicilia, finalmente integrata nel tessuto nazionale italiano. Il tramonto della cultura siciliana, infatti, si deve intendere "non tanto come agonia (…) quanto come sbocco e confluenza in un partecipativo processo unitario che, da esterno e formalistico fatto istituzionale, diventa coscienza in atto"(20). Il valore attuale dell’analisi del Gentile sta nel porre una paratia, evidente e solida, tra i filoni culturali che, dal positivismo in filosofia al verismo nella letteratura, avevano caratterizzato la vecchia Sicilia del mondo aristocratico e sicilianista e "la tipica cultura siciliana di quella borghesia intellettuale" che fa proprio, come superamento del sicilianismo e della Sicilia dell’aristocrazia feudale e latifondistica, il "clima italiano e patriottico"(21). E Gentile, su questa strada, ha buoni compagni, dal Pirandello de I Vecchi e i giovani, al Giuseppe Antonio Borgese della Storia della critica romantica(22). E come sottovalutare l’importanza, non solo delle lezioni di letteratura romantica del docente di letteratura italiana all’università di Palermo, ma anche l’attiva propaganda per l’irredentismo ed il nazionalismo democratico e anticlericale di un Giovanni Alfredo Cesareo, maestro di tanti giovani, futuri nazionalisti palermitani, tra cui Giovanni Borgese? "Nascere (…) negli anni della Sinistra al potere - scrive Renda -, significava essere aperti alla vita intellettuale quando ormai si cominciava a essere stanchi di verismo e di naturalismo, il positivismo sfioriva, si dubitava della scienza, si negava il progresso, si temeva il socialismo"(23).
Ricorderà, qualche anno dopo il fratello di Giovanni Borgese, Anton Giuseppe, poi divenuto antidannunziano, anticrociano e, infine, antifascista: "Volevamo conquistare coscienza del compito e del valore di tutta una generazione, di quella ch’era succeduta ai liberatori e avevano potuto svolgersi in condizioni politiche e morali di gran lunga superiori a quelle dei secoli scorsi. E per noi giovani il passato prossimo d’Italia si chiamava Adua (…). L’Italia nuova voleva veramente cercare se stessa, rifare la sua cultura, ristaurare il suo mondo morale, rinfrescare le sue opinioni: in una parola ricollegare il suo presente e il suo futuro col Risorgimento, e alzarsi sopra il suo prossimo passato, in quanto questo era lassitudine e miseria. I primi anni del nuovo secolo sono contrassegnati da un vivo ardore di ricerca e di rinnovamento e di opposizione"(24). E, poi, anche l’Omodeo, quando, allo scoppio della guerra di Libia, annotava: "Mi riassale il sogno garibaldino (…). La patria nuova: è questo di cui abbiamo bisogno: non la patria vecchia, la patria dei retori, ma la patria vivo senso, aspirazione dell’anima rinnovata, ché la patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria (…). La nazione nostra, che è ora politicamente un aggregato non ben fuso delle antiche regioni, la vita nazionale che è disgregata nelle singole egoistiche attività individuali, la vita morale che s’impaluda negl’interessi vili, tutto bisognerebbe rifondere, tutto riunire in una profonda volontà che tutto abbracci, che tutto vincoli, in cui tutto convenga"(25).
Attraverso l’intensa attività delle più prestigiose istituzioni culturali, quindi, attraverso l’insegnamento universitario di una fitta schiera di professori "innovatori", modernamente non restii all’attiva partecipazione alla vita civile, anche alle manifestazioni di piazza, oltre che ad un dibattito culturale non solo isolano, ma ormai nazionale ed europeo, il mondo culturale borghese siciliano vive il suo impegno nella costruzione di una prospettiva nuova, patriottica e nazionale, dalla quale si escludono, ormai, solo i Verga, i Pitré, i Napoleone Colajanni, i Rapisardi il quale, positivista ed antireligioso, non perdeva occasione per esercitare la sua vena polemica per combattere le nuove tendenze culturali dal dannunzianesimo(26) al futurismo(27).
Giovanni Borgese e l’ambiente giovanile patriottico a Palermo
Pienamente inseriti, quindi, nelle istanze culturali e politiche del primo novecento siciliano ed italiano, una nuova generazione di giovani si andava formando ed iniziava ad affacciarsi alla vita pubblica, all’impegno politico, contribuendo a formare quel variegato ambiente patriottico e nazionale dal quale usciranno, da lì a pochi anni, i leader e i quadri della sezione palermitana dell’Associazione Nazionalista. Una generazione "nuova" non solo nell’età anagrafica ma anche nello spirito, pienamente inserita nel complesso ed agitato panorama intellettuale del tempo. Respirava quel clima Giovanni Borgese, allora studente in Giurisprudenza, e se ne nutriva, come tanti suoi coetanei. Sognava una Patria più grande, forte, ordinata, rispettata nel mondo. Rifiutava e condannava i miti del socialismo che a lui, come a tanti suoi coetanei, apparivano falsi e stantii. "Da qualche anno – scriverà diversi anni dopo Gioacchino Volpe - il mondo era come si ingrandisse e il suo orizzonte si allargasse (…). Accanto alla lotta di classe, altre lotte: anzi, quella quasi si scoloriva al confronto. Si era combattuta la guerra cino-giapponese (…) e subito dopo, serrata gara delle grandi potenze europee per accaparrarsi territori, basi navali, porti, concessioni ferroviarie e minerarie, mentre in Occidente correvano (…) discorsi e progetti di spartizione delle colonie portoghesi d’Africa e dell’Impero ottomano. (…) Si avvertiva (…) che certi miti della democrazia si facevano sempre più inoperosi nel campo della politica internazionale, che i rapporti fra i popoli si andavano mettendo sopra una ben visibile base di forza"(28). Se il socialismo appariva agli occhi di Giovanni Borgese una prospettiva falsa e incapace di rispondere alle esigenze e necessità delle stesse classi popolari, plumbea appariva l’atmosfera dell’Italia giolittiana e di quel sistema di potere dello statista piemontese, tutto fondato su equilibri ed equilibrismi parlamentari, trasformismo, conservazione ed abbandono di ogni idealità e slancio.
Sotto la spinta del dannunzianesimo e del nazionalismo del L’Ora di Scarfoglio, Morasso, Cantalupi, Lauria, il verbo nazionalista, abbiamo detto, aveva avuto una prima diffusione nell’isola. L’effetto più immediato sarebbe stato quello di generare, nell’isola, un nuovo irredentismo che andava ad affiancarsi e che cercava di sostituirsi a quello, più tradizionale, di parte repubblicana e radicale. Questo irredentismo di destra, secondo la definizione di Franco Catalano(29), rivendicava all’Italia il diritto di completare il processo risorgimentale ed auspicava una più forte Italia in grado di creare un argine contro l’arrogante pangermanesimo(30). Questa mutazione genetica dell’irredentismo passa, in città, attraverso la fondazione o rifondazione di attive sezioni della Trento e Trieste(31), della Corda Fratres(32), della Dante Alighieri.
A questo processo diede notevole impulso anche Giovanni Borgese che, nel 1908, ancora studente universitario, diveniva il maggiore esponente della sezione palermitana della Corda Fratres. L’irredentismo "di destra" fu la prima e la più grande passione politica del giovane Borgese. L’irredentismo sarebbe sempre rimasto tratto caratteristico e fondante del suo impegno politico ed ideale anche negli anni in cui divenne segretario della sezione palermitana dell’A.N.I., fino alla morte in Trentino nel corso della grande guerra. L’"esordio" di Giovanni Borgese avviene, quindi, in occasione delle manifestazioni irredentiste(33) di protesta contro la politica estera del ministro Tittoni in seguito all’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria ed alle mancate "compensazioni" all’Italia. E già in quelle prime apparizioni pubbliche, che hanno come cornice ancora necessariamente l’ambiente universitario, in Borgese l’aspirazione a veder completato il processo risorgimentale si sposava, con la diffusa insoddisfazione verso la realtà politica nazionale, con il disprezzo per l’Italietta giolittiana, della palude parlamentare, di una classe politica e dirigente che, ai suoi occhi, come in quelli di quei giovani vogliosi di nuovo appariva come un retaggio del vecchiume ottocentesco.
Il 19 novembre 1908, Giovanni Borgese teneva, presso l’Aula Magna dell’Università, nel corso di una riunione pubblica organizzata dalla Trento e Trieste, una conferenza sul tema Soldati poeti, dove protestava vivacemente per le "aggressioni di Vienna che hanno ridestato per un momento la coscienza italiana"(34). E il giorno successivo, nuova manifestazione degli studenti delle secondarie e, poi, insieme agli universitari, comizio indetto dalla Corda Fratres di Borgese, con l’adesione della Dante Alighieri e della Trento e Trieste(35). Quindi, nuovo comizio a Palermo, presso l’università, nel corso del quale parlò, fra gli altri, nuovamente Borgese criticando la politica inerte ed effeminata del governo(36).
Oltre che nelle associazioni irredentiste, i giovani di formazione patriottica e nazionale, per lo più gravitanti nell’orbita universitaria, avrebbero dato vita, in quegli anni, anche ad associazioni monarchiche, o di giovani monarchici, che ebbero a Palermo un certo sviluppo. Tali associazioni intendevano difendere l’istituzione monarchica dagli attacchi di socialisti e repubblicani. Di particolare interesse, ai fini del nostro studio, è la costituzione, il 14 ottobre del 1910, nel corso di una riunione tenutasi presso l’ateneo palermitano, alla presenza di "numerosissimi intervenuti quasi tutti studenti universitari"(37) dell’Associazione Giovanile Monarchica(38), presidente Tommaso Leone Marchesano. L’associazione si avvaleva dell’apporto e della collaborazione dell’allora capitano dell’esercito Rodolfo Corselli(39) che, in quel tempo, svolgeva, dal canto suo, un’attiva propaganda nazionalista, attraverso conferenze(40), pubblicazione di libri, e che aveva fondato, a Palermo, i Battaglioni Volontari Studenti(41). Questi Battaglioni, ricorda Volpe, erano sparsi un po’ per tutta l’Italia "alcuni isolati; altri, federati nella Sursum Corda, che proclamava di voler fare opera di educazione nazionale e apparecchiare una gioventù forte"(42). L’Associazione monarchica e i Battaglioni Volontari furono presentati congiuntamente all’opinione pubblica palermitana nel corso di una manifestazione al Teatro Massimo, durante la quale Corselli tenne un lungo discorso, poi riprodotto in un volumetto(43). Tra gli scopi dell’associazione di Leone Marchesano, spiegò Corselli, vi era anche quello di "diffondere il nazionalismo"(44). E, in questa prospettiva dev’essere considerata l’attiva partecipazione di Giovanni Borgese che, sotto l’egida dell’Associazione Monarchica di Leone Marchesano, avrebbe tenuto due comizi, uno nel dicembre del 1910, per protestare contro "le offese subite dai marinai del Sempre pronti a Gravosa"(45) ed un altro, nel settembre dell’anno successivo, a sostegno dell’intervento italiano in Tripolitania(46).
Verso la formazione della sezione palermitana dell’A.N.I.
Un fenomeno caratteristico ed interessante, che caratterizzò i frangenti della preparazione e della realizzazione dell’impresa tripolina, fu, anche in Sicilia ed anche a Palermo, quello del "nazionalismo cattolico"(47) che, lungi dal dover essere considerato come momento di esaltazione patriottica degli esponenti di un mondo finora ai margini dei processi politici dell’Italia unita o esser liquidato come portato degli interessi di gruppi finanziari cattolici in terra di Libia(48), rappresentò un momento importante nello sdoganamento delle forze cattolico-moderate in vista del loro rientro nella vita politica nazionale, in un tempo in cui ancora era lontana la prospettiva del partito unico dei cattolici.
Sebbene il nazionalismo cattolico avrà un notevole seguito nell’isola, gli anni fra il 1911 ed il 1912 rappresentarono il momento del suo impetuoso manifestarsi, soprattutto grazie al ruolo svolto da un giovane giornale cattolico regionale, il Corriere di Sicilia.
Nato come quotidiano pubblicato dalla S.E.R.(49), il Corriere si discostava spesso dalla linea dei giornali del trust grosoliano. Colorava, infatti, l’appoggio alla campagna per Tripoli italiana, peraltro condivisa da tutti i fogli cattolici che facevano capo a quel gruppo editoriale, con tratti di eccessivo patriottismo, almeno dal punto di vista degli editori romani e delle gerarchie religiose, tanto da provocare le reazioni risentite della Santa Sede, l’abbandono da parte della S.E.R. del ruolo di editore e l’acquisizione della totale autonomia gestionale da parte del quotidiano.
Fu proprio sul Corriere che Giovanni Borgese pubblicò un suo ampio ed interessante articolo che ci illustra l’animo e le aspettative dei giovani d’area nazionale e patriottica nella Palermo del tempo dell’impresa tripolina. L’articolo, intitolato Buon sangue latino, iniziava con una forte critica al sistema giolittiano, affermando che "mai come nell’ultimo decennio, l’Italia avrebbe potuto chiamarsi terra dei morti"(50). Nel clima dell’Italia di Giolitti – continuava Borgese - "la nuova generazione si sentì soffocare sotto questa sepolcrale aura asfissiante, e cominciò a demolire le sante memorie, e trasse la sua ira fino al furore. (…) Vi erano delle energie che cercavano di sollevarsi dai vecchi piagnistei, di rimettere a nuovo le armi, di svecchiare il passato, di costruire sulle rovine".
Borgese collocava, memore del suo impegno irredentista, la vicenda della guerra di Libia nel più ampio scenario del rilancio della coscienza nazionale, la quale avrebbe dovuto avere come naturale sbocco la redenzione delle terre italiane ancora sotto dominio asburgico. Ricordava i tempi del Risorgimento e l’entusiasmo che allora aveva scosso il paese, liberatosi dall’oppressione straniera e denunciava, poi, il successivo abbassamento della tensione ideale, fino a sprofondare nell’apatia del giolittismo. "Lo squillo delle fanfare, il rullo dei tamburi, lo sfilare solenne e grandioso di un reggimento altro non erano agli occhi nostri che delle vane parate, degli spagnuolismi oramai vecchi ed in disuso, delle cose infine che la prorompente civiltà doveva necessariamente condannare a morte. (…) Nella nostra piccola mente divenuta contro il volere della razza e della tradizione grettamente mercaiola, non vedevamo nell’esercito il sicuro presidio della grandezza e della ricchezza nazionale, ma un avanzo di miseranda barbarie, ma una vana pompa ed una spesa improduttiva". Ciò aveva determinato un senso di impotenza dinanzi ai soprusi degli stranieri, un rinchiudersi in se stessi, nella cura dei propri interessi individuali. "Questa era l’aria greve, palustre, che ammorbava gli spiriti nostri, che annichiliva ogni nostra energia, che ci rendeva oggetto di derisione dentro e fuori dalla patria nostra". L’entusiasmo generato dall’impresa tripolina, appariva a Borgese come una miracolosa rivelazione. "In un mese le energie italiche rideste raggiunsero il climax dell’entusiasmo. In un mese le vaghe aspirazioni latenti si formularono in precise categoriche richieste". Ma l’entusiasmo determinato dall’impresa di Tripoli non doveva andare disperso una volta completata la conquista, la normalità non doveva tornare ad obliare la coscienza nazionale: nuove battaglie dovevano essere combattute per ridare vitalità alla Nazione. L’impresa tripolina, voluta da pochi ma divenuta fatto di popolo, concludeva, aveva creato le basi la rinascita della compagine nazionale: "questa guerra, ancorché nulla di bene dovesse apportare alla nazione, sarebbe pur buona ad infondere fiducia nelle nostre forze, a dimostrare nel mondo e ancor più in noi stessi, che siamo pur sempre una razza forte, e che i nemici d’Italia debbono chinar la fronte dinanzi a noi"(51).
L’annunzio dell’avvenuta dichiarazione di guerra alla Turchia, il 29 settembre, levò in tutta l’isola un’ondata di entusiasmo. La conquista di Tripoli, per i siciliani di tutti gli orientamenti culturali e politici, anche per i socialisti, non solo sanava la beffa di Tunisi, ma offriva l’opportunità, in prospettiva, di trovare sbocchi occupazionali ai braccianti destinati ad alimentare i notevoli flussi emigratori transoceanici e nuovi mercati per le imprese siciliane che avevano conosciuto un rapido declino, sia per carenze proprie, sia per la politica economica giolittiana che aveva duramente colpito l’imprenditoria meridionale a vantaggio di quella settentrionale.
Borgese fu artefice e promotore di diverse iniziative, in quel tempo. Per l’Associazione Monarchica Universitaria di Palermo(52) tenne, ad esempio, un "solenne comizio nel vasto atrio dell’Università"(53) nel corso del quale sottolineò come "non a torto oggi giubila il nostro cuore. Mentre a Roma e a Torino celebrano con grandi e solenni feste il cinquantenario dell’unità italiana, una nuova era si inizia per l’Italia. Dopo anni di politica incerta e meschina, ecco ad un tratto un brivido correre per la Nazione"(54).
Sull’onda dell’entusiasmo prodotto dall’avvio dell’impresa di Tripoli, con il sostegno del Corriere e dei gruppi cattolico-nazionalisti locali, si costituiva, il 15 settembre 1911, "dopo un lungo assiduo lavoro preparatorio compiuto da un baldo manipolo di giovani palermitani energici ed animosi, lavoro reso in questi ultimi giorni febbrile dall’agitarsi della questione tripolina che è tanta parte del loro programma", un "gruppo" palermitano dell’Associazione Nazionalista "direttamente dipendente dal Comitato Centrale di Roma dell’Associazione Nazionalista Italiana. L’adunanza ebbe luogo nei locali della scuola Francesco Crispi (…) e vi parteciparono numerosissimi soci, una cinquantina"(55).
Nel gruppo confluivano varie anime degli ambienti che abbiamo visto muoversi negli anni e nei mesi precedente. Dai nazionalisti cattolici (la presidenza del gruppo fu assunta da Anton Giuseppe Battaglia, redattore del Corriere del quale sarebbe divenuto direttore nel 1913) ad esponenti delle associazioni monarchiche e di tradizione crispina (segretario fu eletto Ubaldo Cosentino). Nonostante un primo momento di grandi entusiasmi e ripetuti comunicati pubblici(56), il "gruppo" nazionalista di Battaglia e Cosentino ebbe vita grama e, già a metà febbraio 1912, il questore di Palermo poteva riferire al prefetto che " il detto sodalizio non ha finora proceduto alle nomine delle cariche sociali né ha stabilito un locale come sede delle sue riunioni né ha fatto posteriormente manifestazioni della sua attività. Per la qual cosa è da ritenersi che passato il primo entusiasmo di esso non sia rimasto che il solo nome"(57). Il questore indicava nello scarso entusiasmo la causa della mancata vitalità del nuovo gruppo. Ma probabilmente, altre e ben più forti motivazioni stavano alla base di quel fallimento.
L’attività del gruppo non sarebbe decollata, in verità, per le differenti prospettive politiche di cui erano portatrici le diverse anime che lo componevano. I cattolici, sarebbero ripiegati, pian piano, dal nazionalismo verso prospettive più "ortodosse" lungo quella strada che, nel dopoguerra, li avrebbe portati alla fondazione del PPI. I "crispini", gli esponenti del nazionalismo democratico ed anticlericale, poi, avrebbero in gran parte abbandonato l’A.N.I. in conseguenza delle polemiche precongressuali e della rottura congressuale del dicembre 1912.
Se a livello nazionale queste polemiche condussero, prima e durante il congresso di Roma all’abbandono del movimento da parte degli esponenti del "nazionalismo democratico", dei Rivalta, dei Sighele, dei Valli e degli Arcari, non meno lacerante fu il dibattito a livello palermitano. Sulla scia di un Cesareo, di un Gentile e di molti esponenti della cultura siciliana, anche molti giovani appartenenti agli ambienti patriottici, forti della loro radicata tradizione locale crispina, avrebbero preso posizione contro le nuove scelte politiche e strategiche dell’ANI.
Mentre, quindi, Battaglia si apprestava a vivere le successive vicende del movimento cattolico, ed il Corriere, intento a recuperare posizioni più "ortodosse" all’interno del mondo cattolico, pur rallegrandosi "che la maggioranza dei nazionalisti abbia respinto la proposta di voler assegnare al nazionalismo il ruolo di combattere sia il socialismo che i cattolici, ponendoli sullo stesso livello", ribadiva e sottolineava le differenze fra il "bellicismo" dei nazionalisti, difendendo i valori del pacifismo(58), Cosentino aderiva ad una nuova associazione nazionalista democratica d’ispirazione crispina fondata nel febbraio del 1913 e L’Ora, in un commento al congresso romano, si univa "al coro dei requiem aeternam dietro al funerale del nazionalismo italiano"(59).
Borgese ed i pochi che lo seguivano si era tenuti defilati dal "gruppo" nazionalista di Battaglia e Cosentino. Sulle prime, nonostante non si sottraesse, alla collaborazione, la scelta fu quella di trovare un autonomo punto di riferimento. Uno dei più fedeli amici di Borgese, Michelangelo Ugo Collotti, scriverà qualche anno dopo, che, dopo la guerra di Libia, "una scelta di uomini di retto sentire e di indiscusso valore politico si era riunita in casa dell’avv. Puglia ed aveva fondato l’Associazione Liberale, che si propose la rinnovazione della vita politica ed amministrativa della città. Ma il programma democratico e i metodi antichi ed invalsi non potevano soddisfare noi giovani - che pur dell’Associazione eravamo stati tra i soci fondatori - e, a poco a poco, ce ne allontanammo. (…) Attorno a Giovanni Borgese, segretario dell’Associazione liberale, si venne creando un nucleo di pochissimi giovani, credenti appassionati del nuovo verbo"(60) nazionalista.
"Nel 1913 - continua ancora Collotti - si fecero a Palermo i primi soci dell’Associazione nazionalista, ed io conservo ancora quella tessera, raffigurante un giovane ignudo che uccide il drago. Ma il numero dei nazionalisti era sparutissimo e non si poteva costituire un gruppo"(61): se l’allontanamento dai cattolici e da liberali, crispini, nazionalisti democratici, aveva offerto ai nazionalisti l’opportunità di chiarire le ragioni del proprio impegno politico, nel procedere lungo la via della differenziazione dal vario nazionalismo, tale processo li aveva, però, resi numericamente pochi.
Ma i semi erano stati gettati e di lì a poco il nuovo gruppo sarebbe definitivamente sorto l’11 maggio 1914. "Nel 1914 - scrive ancora il Collotti - si doveva riunire a Milano il Congresso Nazionalista. Pensammo che occorreva far ivi sentire la voce della Sicilia nazionalista. E Giovanni Borgese, con una lettera che conservo religiosamente (…) ci chiamò a raccolta"(62). Si formava così un gruppo di una decina di soci fondatori, fra cui Borgese e la moglie Stefania, Michelangelo Ugo e Edoardo Collotti, Carlo Cervello, l’avv. Giuseppe Gestivo-Puglia, Gaspare Franco e, forse, Alfredo Cucco.
I personaggi più interessanti, oltre a Cucco la cui presenza, comunque, non sembra certa, sono soprattutto Carlo Cervello, futuro docente universitario, consigliere comunale e dirigente prima nazionalista e poi fascista, Michelangelo Ugo Collotti, allora iscritto alla facoltà di giurisprudenza e che intraprenderà la carriera di magistrato, partecipando tuttavia all’attività politica come dirigente del PNF e, nel secondo dopoguerra, del MSI e Giuseppe Gestivo-Puglia, che sarà consigliere comunale e, nel dopoguerra, presidente dell’Associazione Industriali di Palermo(63) e della Lega Commerciale(64). Vicino, ma appartato, seguiva le vicende di questo gruppo Guido Jung. Amico di Florio, grande industriale e finanziere di religione ebraica, Jung fece parte della delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles e delle conferenze internazionali per le riparazioni. Deputato dal 1924 al 1938, fu Ministro delle Finanze del governo di Benito Mussolini dal 1932 al 1935, per poi allontanarsi dal fascismo dopo l’emanazione delle leggi razziali fino ad entrare, come sottosegretario e ministro nel governo Badoglio nel 1944.
L’approssimarsi del congresso milanese e, non ultimo, lo scoppio della Settimana rossa, costituirono le molle per rompere gli indugi e formare il gruppo palermitano: "gli aderenti di Palermo dell’Associazione Nazionalista - si legge nel comunicato diramato alla stampa - visti i deliberati dei congressi di Firenze e di Roma; considerata la necessità di porre argine all’opera dissolvente dei partiti demagogici, che muovono con ibride coalizioni lotte insensate a detrimento degli interessi della nazione; considerato l’attuale momento storico che richiede imperiosamente una politica energica e dignitosa per rendere più grande e più forte l’Italia, a tutela degli interessi morali ed economici degli italiani dentro e fuori i confini della Patria; deliberano di costituirsi in gruppo onde esercitare opera di propaganda e incaricano il segretario avv. Giovanni Borgese a mettersi in corrispondenza col Comitato centrale di Roma e di rappresentare il gruppo al Congresso di Milano"(65). Il grande passo era compiuto. Borgese, che nel frattempo si era laureato e s’era anche sposato, superava il palcoscenico universitario per lanciarsi sul più ampio panorama cittadino.
Le prime battaglie politiche: la Settimana rossa
Nel quadro politico generale, gli anni che vanno dall’impresa tripolina allo scoppio della guerra mondiale, evidenziano una sostanziale estremizzazione della lotta politica interna. Già all’indomani delle elezioni generali del 1913, Arturo Labriola, rivolto a Giolitti, aveva avvertito: "Ella, onorevole Giolitti, ha incarnato una situazione storica ma ha finito le sue funzioni e per tanto può prepararsi a fare le valigie. (…) Vi è da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista, e dall’altra un’Italia rivoluzionaria socialista, ma non vi è più un’Italia giolittiana"(66). Ed effettivamente quegli anni segnano l’inizio di quella crisi del regime liberale che esploderà durante il cosiddetto biennio rosso, per concludersi con la Marcia su Roma.
Il primo atto dell’avanzata di questa "Italia rivoluzionaria", è rappresentato dalla Settimana rossa, cioè da quel tentativo insurrezionale che interessò particolarmente l’Emilia Romagna e le Marche a partire dal 7 giugno 1914, quando, a seguito di scontri tra polizia e manifestanti, morirono tre manifestanti determinando la proclamazione dello sciopero generale indetto dalla C.G.L., sciopero generale che, nelle intenzioni dei capi della rivolta, doveva provocare l’estensione dell’ondata rivoluzionaria a tutto il paese. La proclamazione dello sciopero generale provocò non poche preoccupazioni anche in Sicilia, perché si riteneva che gli ambienti socialisti rivoluzionari e repubblicani locali potessero avere la forza di provocare disordini anche nell’isola. Palermo, peraltro, nei mesi e nelle settimane precedenti lo scoppio della Settimana rossa, era stata teatro di ripetuti scioperi e manifestazioni(67), promossi dalla socialista rivoluzionaria Borsa dei Lavoratori presieduta da Raffaele Raimondi, e dal circolo repubblicano Rosolino Pilo guidato da Giuseppe Chiostergi(68). La sera della proclamazione dello sciopero generale, poi, sindacalisti e repubblicani riuscirono a convincere i mal disposti dirigenti della locale Camera del Lavoro di Palermo ad aderire a quello sciopero, mentre questi ultimi pensavano di associarsi "soltanto con un comizio pubblico"(69). Immediatamente alcune squadre percorsero la città ottenendo la cessazione del servizio tramviario.
Ma ciò che allarmava la prefettura e la questura erano i possibili disordini durante i comizi e le manifestazioni previsti per il giorno successivo, anche perché il questore aveva ricevuto una informazione riservata in forza della quale "il gruppo repubblicano, tra cui Riina, Maggio Nicolò, ed i maggiorenti del partito socialista ufficiale, Sanso, avv. Purpura, Orcel, Giordana, avrebbero deliberato di provocare (…) gravi disordini pigliando a pretesto probabili interruzioni dei funzionari agli oratori, additandoli personalmente alla massa presente come assassini del popolo, onde eccitarla a atti di estrema violenza"(70) e inoltre riferiva di sapere "da fonte ineccepibile, che i repubblicani e i socialisti rivoluzionari (avevano fatto) circolare fra gli operai la parola d’ordine di non far tirare sassi contro la forza pubblica, ma fare uso delle rivoltelle"(71). V’era, quindi, il fondato timore che il moto rivoluzionario potesse estendersi anche a Palermo e alla Sicilia. Non sorprende, quindi, che la prefettura chiedesse alle autorità militari di mettere a disposizione 1.000 uomini(72) e che il questore chiedesse rinforzi anche ai commissariati di Carini, Villabate, Mezzojuso, Partinico, Bagheria e Monreale(73).
Le manifestazioni palermitane, tuttavia, non furono di tale imponenza da creare disordini significativi. In cinquecento, di mattina, assistettero ad un comizio in piazza Bologni, dove, effettivamente, vi furono tentativi da parte degli oratori di provocare incidenti con le forze dell’ordine. "Dopo il noto Raimondi, parlò Guarrasi per la Camera del Lavoro, criticando il contegno della forza pubblica in Ancona. Prese poscia la parola il repubblicano Chiostergi Giuseppe di Senigallia, Professore di questo istituto Tecnico, sovversivo schedato, il quale, dopo aver criticato la polizia, attaccò la Monarchia ed inneggiò alla rivoluzione. Prese pure la parola il repubblicano Sanzo, che finì anche egli per attaccare vibratamente la polizia"(74). Seicento, invece, i dimostranti presenti, nel pomeriggio, al comizio a piazza Politeama, quando già era pervenuta la circolare del segretario generale della C.G.L. che ordinava la cessazione dello sciopero generale(75), una decisione destinata a mettere fine al moto rivoluzionario.
Contro il tentativo rivoluzionario della Settimana rossa e contro i poco riusciti tentativi di provocare analoghi sussulti anche a Palermo, il neonato gruppo nazionalista si fece promotore di una manifestazione. Il comizio fu annunziato con l’affissione di un manifesto nel quale si leggeva: "folle ubriacate dalla menzogna socialista, dimentiche di avere nei soldati dei fratelli, per le Città d’Italia infieriscono ciecamente contro le istituzioni. Nelle Romagne hanno ucciso, hanno commesso atti di vandalismo, fidando sulla resupina indifferenza e nell’assenteismo vile della maggioranza della Nazione. E’ ora di mostrare a costoro, ed a coloro che, per tornaconto personale, aizzano la teppa, che la Nazione non è disposta a subire il dominio di una folle esigua minoranza"(76).
Il giorno del comizio, il 14 giugno, piazza Bellini, secondo il giornalista del L’Ora, era gremita. "L’aspetto di questa folla è singolare, perché tutti i cittadini più noti, professionisti, commercianti, rappresentanti della classe aristocratica, ne fanno parte, insieme a gente umile, che vive del lavoro e di stenti, e che pure, dolorosamente sorpresa dagli avvenimenti di cui la stampa ha diffuso in questi giorni le luttuose notizie, accorse al comizio"(77). Oratore ufficiale fu naturalmente Giovanni Borgese che non lesinò critiche a socialisti e radicali di sinistra per la loro propaganda che "cade sopra masse impreparate, che si abbandonano ciecamente alla violenza"(78). Insieme a Borgese parlò l’ingegnere Michele Albeggiani, da allora una dei più attivi dirigenti della sezione, che esaltò "le idealità cui si ispira il partito nazionalista". Un corteo si snodò per le vie del centro cittadino. Non priva di significati l’adesione alla manifestazione del sindaco di Palermo, senatore Di Martino.
Al di là della ricostruzione, per alcuni versi stucchevole, del quotidiano palermitano, quella prima pubblica manifestazione del partito nazionalista si dimostrò importante ed opportuna per molteplici motivi. Innanzitutto il partito nazionalista dimostrava di avere una sua capacità attivistica, riuscendo ad organizzare, in tempi ristretti, una manifestazione pubblica significativa. E lo riconosceva lo stesso questore di Palermo quando rilevava che, "se senza alcuna preparazione si è avuto questo slancio di superbo entusiasmo è da figurarsi di quanto sarebbe stato questo maggiore se (l’iniziativa) avesse presentato, sia pure, un modesto ordinamento"(79). In secondo luogo il nazionalismo apparve come un elemento vitale e dinamico, soprattutto se si tiene conto del silenzio e della mancata reazione delle altre forze moderate, elemento che avrebbe dato, di lì a breve, a Borgese e ai suoi compagni l’opportunità di ritagliarsi uno spazio nella coalizione moderata alle imminenti elezioni comunali. Infine, sotto il profilo propagandistico, il comizio ed il corteo riuscirono ad avvicinare alla sezione nazionalista un più ampio gruppo di sostenitori ed attivisti.
Vediamo così, in tempi brevi, formarsi un gruppo universitario ed un gruppo giovanile. Nel primo militavano Giovanni Romano, studente in legge che ne fu presidente, Gaspare Cascio della facoltà di medicina (vicepresidente), Gennaro Di Marco e Salvatore Musumeci, anch’essi di Medicina, Marcello Calcagno, iscritto a Chimica, Francesco Rizzo di Giurisprudenza e Remo Amenta(80). Il primo gruppo giovanile fu formato da Angelo De Giudici, Giacomo Agrigento, Giuseppe Santoro, Alfredo Monteverde, Aldo Boeri, Emanuele Bruno, Filippo Di Stefano, Vincenzo Valey e Alfonso Verdese, Ruggero Castagna, Rosario D’Anna e Paolo Piazza(81).
Le elezioni comunali del 1914
Nel commento all’iniziativa nazionalista, un’iniziativa che aveva "rotto l’alto sonno che grava e avvolge come una perenne bruna accidiosa, lo spirito della nostra cittadinanza", il quotidiano L’Ora fornisce, implicitamente, delle indicazioni rilevanti in ordine ai rapporti fra le forze politiche locali in vista dell’imminente appuntamento elettorale amministrativo.
Dopo aver ricordato che "il popolo di Sicilia, irreducibile ad ogni forma di tirannide, non ha avuto fremiti di rivolta che per la libertà: ma la libertà non ha mai concepito che nella illuminata disciplina degli ordini costituzionali", il giornale criticava con amarezza lo scollamento esistente fra le fazioni del partito liberale, sia a livello nazionale che locale. "Vi fu un tempo - si legge - in cui un gruppo di interessi, o d’ambizioni, o di clientele, strinse intorno ad alcuni uomini qualcosa che aveva almeno la parvenza di un partito, e gli uomini che vi appartennero - almeno i più eminenti - erano assertori di quelle idealità che avevano illuminato la formazione della Patria liberale ed una". La caduta della tensione ideale, la prevalenza degli interessi personalistici, dei quali Giolitti s’era servito per consolidare il proprio potere personale, avevano creato una reazione di cui profittavano i partiti dell’estrema sinistra che "raccoglievano intorno a sé non soltanto coloro che partecipavano il loro programma politico, ma anche - e forse in numero assai maggiore - tutti gli spiriti vagamente delusi e malcontenti, anelanti a un rinnovamento della vita politica ed amministrativa".
Di contro, "nessuna forza nuova, fresca, pura, viva, sorse dalla putredine delle vecchie consorterie disfatte: nessuno, riprendendo lo spirito e il genio onde l’Italia moderna era sorta, lo portò tra noi, a farne palpito ed anima della vita cittadina". Il partito liberale, pertanto, "non è popolare tra noi per la sola ragione che non ha cercato di esserlo". Di qui l’apprezzamento per l’opera dei nazionalisti, pattuglia avanzata delle forze costituzionali, che avrebbero potuto e dovuto rinvigorire gli ideali monarchici e costituzionali, ridare fiducia nei legittimi ordini dello Stato, costituendo la spina dorsale di un nuovo partito liberale rifondato "con nuove forze, con fresche energie, col proposito puro ed alto d’essere strumento di civile educazione e di rinnovamento ideale della vita cittadina"(82). Quella manifestazione, pertanto, aveva anche avuto il pregio, come si legge fra le righe del L’Ora, di far superare molte delle prevenzioni che intorno al nazionalismo s’erano formate dopo il congresso del 1912. Lo dimostrano, non solo i toni talvolta "lirici" del quotidiano nei confronti dell’iniziativa nazionalista, ma anche l’apertura complessiva di spazi per la realizzazione della strategia nazionalista circa la formazione di blocchi nei quali convergessero nazionalisti, liberal-nazionali e cattolici moderati.
In realtà questa prospettiva politica si concretizzò nella costituzione di una lista unitaria comprendente liberali di varia tendenza, cattolici e nazionalisti per le imminenti elezioni amministrative. La lista, denominata Unione dei partiti costituzionali, fu guidata dai due eterni antagonisti Camporeale e Tasca Lanza, "ritornati amici, contro i sovversivi nemici delle istituzioni", come scrive Cancila, e che riuniva "buona parte dei consiglieri uscenti e degli assessori delle giunte Di Martino"(83), cattolici e, per i nazionalisti Borgese, Carlo Cervello e il Marchese della Cerda. Alla lista moderata si opponeva una Unione dei partiti popolari, guidata dai socialisti riformisti Tasca e Drago, dal radicale on. Restivo e che comprendeva anche candidati repubblicani.
I popolari criticarono aspramente, per tutta la campagna elettorale, l’inserimento nella lista concorrente di esponenti nazionalisti. L’Ora, tuttavia, rispondeva ricordando "l’atteggiamento fiero e coraggioso" che i nazionalisti avevano assunto durante la Settimana rossa, dimostrando "più coraggio delle altre fazioni del partito costituzionale", e sottolineando la capacità del nuovo soggetto politico di mettersi "in contatto diretto col popolo". "I nazionalisti - ripeteva il quotidiano - sono la pattuglia avanzata del partito costituzionale. (…) Vanno un po’ oltre? Eccedono? Può darsi… ma non dovrebbero dirlo proprio coloro, pei quali nulla è sacro, se non l’odio e la rivolta"(84).
L’Ora offrì poi, sulle sue colonne, per tutto l’arco della campagna elettorale, ampi spazi ad esponenti nazionalisti. Numerosi furono gli articoli pubblicati da Flaminio Orfei, segretario della sezione napoletana dell’A.N.I., incentrati, soprattutto, sul tema dei rapporti fra nazionalisti e cattolici(85). Ed al fianco dei nazionalisti troviamo anche, in questo frangente, il figlio del senatore Tasca, Ottavio Tasca Bordonaro(86).
Il nuovo sistema elettorale, basato sul suffragio elettorale, quasi imponeva le nuove tecniche propagandistiche, come il ricorso al comizio. Ed ecco la lista dei partiti costituzionali aprire la propria campagna elettorale proprio con un comizio, il 28 giugno, a piazza Bellini, nel corso del quale, dopo i maggiorenti Tasca e Camporeale, parlò anche Borgese che sottolineò come il partito nazionalista aveva deciso di candidare propri esponenti nella lista dei costituzionali non per "asservimenti elettorali, come predicano i nostri avversari, ma per un unico nobilissimo sentimento che è quello di contrapporci alle masse dissolventi la nazione"(87).
Ma i nazionalisti fecero di più, presentandosi al comizio dei rivali con intenti provocatori. All’arrivo dei nazionalisti al comizio dell’on. Restivo gli animi si surriscaldarono, costringendo la forza pubblica ad intervenire con tre cariche per disperdere il gruppo dei nazionalisti. "I cosiddetti popolari - si legge in una lettera a firma di Borgese, Cervello, Collotti, Orfei e Tasca Bordonaro - vorrebbero evidentemente che gli uomini d’ordine conducessero la lotta standosene a casa e abbandonando alla loro retorica falsa e pervertitrice le piazze e le masse"(88). La conclusione della campagna elettorale fu segnata da un ultimo comizio(89), durante il quale parlò anche il cattolico on. Pecoraro e, "accolto con vivi applausi", Borgese.
I risultati elettorali furono in qualche modo sorprendenti. La lista dei partiti popolari non ottenne alcun seggio. L’Unione dei partiti costituzionali, invece, ottenne 39 degli 80 seggi del consiglio comunale e, fra questi, Giovanni Borgese, con 9066 voti e il marchese della Cerda con 9185 voti. Quaranta seggi furono conquistati da una terza lista, la cosiddetta lista Nasi-Barbera, che era stata forse sottovalutata, ma che poteva contare sulla forza clientelare dell’on. Renzo Barbera e di Nunzio Nasi. L’ottantesimo consigliere, infine, era il solito Raffaele Palizzolo, il presunto mandante dell’omicidio Notarbartolo. "A livello di schieramenti politici, i vincitori delle elezioni erano ancora i liberali, perché quasi tutti i consiglieri del gruppo Nasi-Barbera appartenevano all’area liberale. E difatti, il prefetto nel nuovo Consiglio comunale contava bel 69 liberali, 10 clericali e un repubblicano. (…) Tra i 69 liberali, il prefetto inseriva anche i nazionalisti"(90).
La stagione dell’interventismo
Il successo elettorale riportato con l’elezione di Borgese e della Cerda al consiglio comunale fu evidente determinato dalla collocazione della giovane pattuglia nazionalista palermitana nel più ampio quadro dell’alleanza delle forze liberali e moderate in funzione antisocialista. Questo quadro di riferimento, tuttavia, doveva in breve mutare sostanzialmente dinanzi alle scelte che i nazionalisti dovettero di lì a breve affrontare. L’assassinio di Sarajevo, non solo avrebbe dato la stura allo scoppio della guerra mondiale, ma, per l’Italia, voleva significare l’avvio della complessa e articolata contrapposizione fra interventismo e neutralismo. Questa nuova situazione avrebbe prodotto una evidente frattura fra i nazionalisti, filo-interventisti e la gran parte del fronte moderato che, a Palermo ed in Sicilia, sposava quasi unanimemente le ragioni del neutralismo. Per quanto concerne Palermo, scrive Cancila, "ancora nei primi mesi del 1915, la città era in grande maggioranza neutralista. Come i due maggiori quotidiani cittadini e la stampa cattolica, su posizioni neutraliste erano la classe politica, dal senatore Tasca Lanza all’onorevole Di Stefano; la borghesia degli affari, da Florio, amico personale dei Kaiser, a Pecoraino; l’aristocrazia latifondista capeggiata da Camporeale, che a Roma si teneva in stretto collegamento con Giolitti e con il cognato Von Bulow. Se la borghesia commerciale temeva la rottura dei rapporti con la Germania per le conseguenze sull’esportazione di alcuni prodotti siciliani, l’aristocrazia si sentiva maggiormente garantita dall’alleanza con paesi conservatori che non con Inghilterra e Francia più democratiche"(91).
In questo quadro Borgese si trovò, già poche settimane dopo le elezioni, dinanzi ad un bivio. Si trattava, infatti, o di annacquare la scelta interventista che il partito aveva elaborato dopo Sarajevo, mantenendo però solidi i rapporti con le forze liberali e cattoliche della città, o lanciarsi nella battaglia interventista, che rispondeva, peraltro, agli ideali irredentisti ch’erano larga parte nel pensiero e nell’azione del giovane avvocato, col rischio, non solo di una rottura con gli altri gruppi moderati locali, ma, addirittura, di schierarsi sullo stesso fronte nel quale militavano le forze dell’interventismo di sinistra, radicali, socialisti rivoluzionari, repubblicani, cioè degli avversari contro cui i nazionalisti si erano lanciati durante e dopo la Settimana rossa e contro cui s’erano presentati alle elezioni locali.
Molti elementi, tuttavia, dovevano condurre Borgese e gran parte del mondo nazionalista palermitano verso questa seconda ipotesi, dal mai placato irredentismo alla necessità di sostenere la linea adottata dal partito. Così troviamo Borgese, già nel corso della prima seduta del nuovo consiglio comunale, il 19 agosto del 1914, proporre di inviare al governo un telegramma a nome del Consiglio "per manifestare che Palermo non è l’ultima delle città italiane pronta ad accorrere qualora fosse necessario esporre la vita dei suoi figli". Borgese sosteneva che bisognava "aspettare sereni e fidenti l’opera del governo", ritenendo tuttavia opportuno sostenere che "il nostro cuore palpita per la patria e che per essa siamo pronti a dare il nostro sangue". La proposta di Borgese incontrò molte resistenze. Renzo Barbera dichiarò che "un augurio invece dovrebbe farsi, cioè che l’Italia, non per volontà dichiarata, ma per virtù di eventi possa mantenere la sua neutralità". Alla fine del dibattito, venne accolta la proposta di mediazione avanzata da Russo Perez che, dopo essersi detto "addolorato che la proposta del collega Borgese non abbia incontrato il favore di tutti, tanto più ch’essa, a differenza dei voti di altri consigli comunali e provinciali, incitanti alla guerra o alla neutralità assoluta, non ha altro contenuto che quello di dire che noi siamo pieni di patriottismo", propose il seguente ordine del giorno, approvato dal consiglio: "Palermo, per via dei suoi legittimi rappresentanti, manda al governo patrio l’espressione della sua concorde fiducia, riaffermando i sentimenti di patriottismo e disciplina morale"(92).
L’iniziativa di Borgese va inquadrata nel clima politico di quei giorni tumultuosi. Tra il 31 luglio ed il 2 agosto il governo Salandra aveva preso e resa pubblica la decisione di rimanere neutrali. L’Associazione Nazionalista, a livello centrale, dopo qualche incertezza, già il 6 agosto aveva annunciato la sua posizione definitiva: denunciare il trattato della Triplice; intervenire contro l’Austria per liberare le terre irredente, ma, ancor di più nella logica di espansione dell’influenza italiana nell’Adriatico e nei Balcani. Lo stesso giorno in cui Borgese prendeva la parola in Consiglio comunale per illustrare la sua proposta, a Milano i repubblicani dichiaravano il loro interventismo, seguiti presto dai radicali, dai socialisti riformisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Era quella l’ora in cui prendeva corpo il frammentato fronte interventista, allora, peraltro, minoritario nel paese e nel mondo politico.
Tra metà settembre e i primi di ottobre, poi, Milano conobbe le prime manifestazioni interventiste ad opera dei futuristi guidati da Marinetti e Boccioni e del Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista. Si ponevano così le condizioni, almeno teoricamente, di un "incontro", sulla base del comune interventismo, fra forze politicamente e culturalmente lontane e, talvolta, antagoniste, come erano, ad esempio, i repubblicani ed i sindacalisti rivoluzionari di Corridoni e di De Ambris, da un lato, ed i nazionalisti dall’altro. L’incontro ci fu (o almeno fu tentato) attraverso la costituzione di "comitati" locali. Ma fu sempre, prima, durante e dopo la guerra, un incontro difficile fra forze dalla natura e dalle prospettive divergenti, malamente tenute assieme solo dalla necessità di promuovere la battaglia interventista. A Roma, per esempio, le difficoltà di tale "connubio" erano subito apparse evidenti: durante un comizio di Cesare Battisti, nel momento in cui aveva tentato di prendere la parola, per i nazionalisti, l’on. Gallenga, si erano levate violente invettive da parte del pubblico socialista rivoluzionario, repubblicano ed anarchico, invettive cui era seguita una violenta colluttazione fra gli attivisti delle due parti(93). Questo non era, d’altronde, che un piccolo episodio di una sostanziale e forte divergenza sulla stessa concezione della guerra, ove, per i nazionalisti, essa doveva essere "imperialista", mentre per gli interventisti di sinistra doveva divenire "guerra rivoluzionaria", cioè l’evento, attraverso il quale le masse popolari, conquistata la coscienza della propria forza, avrebbero promosso la rivoluzione sociale. Ed è proprio su questa prospettiva che, qualche mese dopo, Benito Mussolini avrebbe consumato la sua rottura con il partito socialista e sarebbe passato, al fronte interventista.
Non è quindi di poco rilievo, rammentare, che, a Palermo, già a fine ottobre Borgese e i nazionalisti palermitani avevano costituito, insieme agli altri partiti interventisti, un Comitato per le rivendicazioni nazionali, che non conoscerà le tensioni riscontrate altrove. "A Palermo - si legge in un comunicato - dietro intese corse fra i vari partiti favorevoli all’intervento dell’Italia nel conflitto Europeo, si è riconosciuta l’opportunità di agire d’accordo per mantenere viva nell’opinione pubblica la chiara visione della necessità per l’Italia di procedere ora alle rivendicazioni nazionali di Trieste, Trento e la Dalmazia, e rafforzare lo spirito pubblico nella coscienza dello sforzo da compiere"(94). Al Comitato aderivano, oltre i nazionalisti, l’Unione radicale, i repubblicani, associazioni quali la Corda Fratres. Così il comitato poté svolgere, effettivamente, opera costante di propaganda. Il primo novembre del 1914, tenne, ad esempio, un comizio nell’atrio di S.Anna, dove parlarono l’avv. Giuseppe Scialabba dell’Unione radicale, Franz Cavallaro presidente del gruppo radicale universitario, il giovane repubblicano Nicolò Maggio, il comm. Edoardo Armò, lo studente Amedeo Gambino della Corda Fratres, ed, infine, Giovanni Borgese "che ebbe aspre parole contro i pacifisti ad ogni costo" e che si augurò "che l’Italia sappia compiere il suo dovere, affrancando dal giogo straniero i suoi figli, che dalle terre irredente guardano alla Grande Madre"(95). Il 26 dicembre, poi, all’Hotel Excelsior, venne a comiziare a Palermo, su invito del locale gruppo nazionalista, Enrico Corradini. La conferenza, svolta alla presenza di un "numerosissimo pubblico", fu "tutta un inno alla guerra"(96).
Si trattò, indubbiamente, di una scelta rilevante, ma tale da provocare nuove lacerazioni nell’ambiente nazionalista palermitano. Come prevedibile, non mancarono i contraccolpi, soprattutto con coloro che al nuovo partito riconoscevano soltanto il ruolo di "ala estrema" delle forze liberali, elemento di rigenerazione delle forze moderate. Il dissenso non si fece attendere. Si rimproverava all’Associazione Nazionalista di essersi alleata con i radicali, con i socialisti rivoluzionari, con i repubblicani, con gli anarchici, cioè con i nemici di sempre, rompendo l’alleanza con i gruppi moderati. Si temeva, poi, sul piano internazionale, la paventata entrata in guerra contro l’Austria e la Germania, argini nel mondo contro il dilagare delle idee sovversive e non si accettava l’ipotesi di un’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Francia democratica e repubblicana. A dar voce a queste posizioni fu Ottavio Tasca Bordonaro che pubblicò un articolo nel quale emerge tutto il suo disappunto per le scelte compiute dai suoi ex compagni di viaggio e nel quale sosteneva che l’Italia, quanto meno, avrebbe dovuto mantenersi neutrale, se non addirittura entrare in guerra, sì, ma a fianco delle sue alleate naturali e cioè l’Austria e la Germania(97). Ed anche Ubaldo Cosentino, l’ex segretario dell’associazione nazionalista nata ai tempi del Corriere di Sicilia e della guerra di Libia, nel corso di una conferenza a Girgenti, si disse "sostenitore della neutralità assoluta"(98). Il quotidiano L’Ora, poi, coerentemente e fortemente attestato sulle posizioni del governo Salandra, ritirò quel sostegno che aveva, nei mesi precedenti offerto al gruppo nazionalista, che perdette anche un’importante tribuna giornalistica dalla quale far sentire la propria voce.
Tuttavia sebbene la propaganda dei nazionalisti e degli altri gruppi interventisti si muovesse in un ambiente politicamente ostile, continuò instancabile per tutto il 1914 e la prima metà del 1915. I repubblicani organizzarono un gran numero di riunioni, manifestazioni, cortei e ricordavano le gesta di quegli italiani che già combattevano al fianco dei francesi(99) e diedero anche vita ad un fascio interventista rivoluzionario, con sede in via Albergheria 10, negli stessi locali del gruppo giovanile repubblicano. Anche associazioni storiche dell’irredentismo si diedero, in quel tempo, una migliore organizzazione. Il consolato palermitano della Corda fratres venne riorganizzato, dopo le polemiche scoppiate al suo interno ai tempi della guerra di Libia, e fu affidato alla direzione dell’avv. Camillo Orlando Castellano(100). Anche il comitato palermitano della Dante Alighieri rinnovò i suoi ranghi. La carica di presidente, lasciata libera dal prof. G.B. Siracusa, venne assunta da Giuseppe Scialabba, leader locale dell’Unione radicale. Nel consiglio direttivo di questa associazione, troviamo anche i nazionalisti Guido Jung e Carlo Cervello(101). La sezione palermitana della Trento e Trieste, invece, fu affidata all’avv. Salvatore Arista. Attivi erano un po’ ovunque associazioni e fasci interventisti. A Palermo, comizi di Federzoni, al Politeama Garibaldi, il 23 febbraio(102) e di Francesco Coppola, al Circolo di Cultura.
Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, il clima era destinato ad arroventarsi. I toni della polemica fra neutralisti ed interventisti divenivano sempre più infuocati, man mano che si avvicinava la sessione parlamentare che avrebbe dovuto prendere la decisione ultima. I lunghi mesi di propaganda interventista avevano mutato il clima che si respirava nel paese. Sembrava ora, a molti, che anche la neutralità non fosse priva di pericoli. Per interrompere una spirale che sembrava dover minacciare l’ordine pubblico, a quel punto il governo, che segretamente trattava con l’Austria per la neutralità e con gli alleati per l’intervento, ritenne di dover vietare tutte le pubbliche manifestazioni. Come scrive Vigezzi, Salandra rimaneva un vecchio tutore fedele della tradizione "liberale" della destra storica, che non si avvedeva del mutare dei tempi. Riteneva, ancora, che la scelta fra neutralità e guerra, una scelta destinata a ripercuotersi sulla vita di milioni di italiani, potesse essere decisa con i patti diplomatici segreti e con l’esercito. In quest’ottica l’agitazione neutralista o interventista lo turbavano e finivano per prevalere mere preoccupazioni per l’ordine pubblico. Di qui il divieto a manifestare(103).
Il comitato palermitano della Trento e Trieste protestò subito contro una "disposizione incostituzionale (…) lesiva del diritto dei cittadini nella libera manifestazione delle proprie idee"(104) ed organizzò un movimentato comizio irredentista, nel corso del quale parlarono il presidente della sezione, Salvatore Arista, il prof. Pipitone Federico, il repubblicano avv. Prato e Giovanni Borgese. Alla fine della riunione fu votato un ordine del giorno nel quale "la gioventù di Palermo riafferma con fede incrollabile la solidarietà coi fratelli d’oltre confine politico, aggiogati ancora alla tirannide dell’Austria ed è pronta all’estremo sacrificio per la realizzazione completa delle sacre aspirazioni nazionali che se non appagate oggi mai più lo saranno"(105)
Neanche gli attivisti dei fasci interventisti avevano intenzione di rispettare il decreto governativo ed anzi moltiplicarono gli sforzi propagandistici. E proprio mentre, nell’isola, i deputati belgi Destré e Lorand tenevano un ciclo di conferenze, illustrando il destino del loro paese conquistato dalle truppe tedesche, i fasci interventisti decisero di tenere, l’11 aprile, comizi e manifestazioni in tutta Italia in chiaro segno di sfida al governo. La giornata fu caratterizzata da convulse manifestazioni, da scontri con i neutralisti e con la polizia, arresti, fra i quali quelli di Mussolini e Marinetti. A Messina ci furono scontri tra interventisti e neutralisti(106). A Catania, dopo un comizio all’università popolare, oratori Giuseppe Lombardo Radice per i Fasci Rivoluzionari Interventisti e Giuseppe Di Stefano Bordonaro per i repubblicani, un corteo che intendeva confluire presso il locale consolato austriaco, fu disperso dalla polizia(107). L’Ora, sempre schierato su posizioni di sostegno a Salandra, parlò di triste spettacolo dato al mondo dall’Italia. "Noi attraversiamo un periodo di fervida e intensa preparazione militare per portare il nostro esercito a quel massimo grado di efficienza che deve garentire al Governo il successo di una azione diplomatica laboriosa che tende ad assicurare al Paese, col minimo sacrificio il massimo vantaggio", ma, mentre il governo "informa la sua azione ai supremi interessi della Nazione" viene "turbato, in questa ora suprema, dall’eco di frastuono che sale dalle piazze di tutte le città"(108). Ma, ormai, le condizioni politiche stavano per mutare. Il 26 aprile fu firmato, in segreto, il patto di Londra fra l’Italia e i paesi dell’Intesa ed il 4 maggio fu denunciato il trattato della Triplice.
Giorno 5 maggio. Anniversario della partenza dei Mille. Inaugurazione di un monumento a Quarto. D’Annunzio, invitato a parlare, pronunziò un discorso ch’era un invito alle armi. L’eco fu amplissima. Manifestazioni seguirono in tutta Italia. A Palermo un corteo, al quale partecipavano ufficialmente i nazionalisti(109), si snodò da piazza Bellini, dopo un discorso commemorativo del prof. Mulé. Alcuni goliardi si fermarono sotto i balconi del L’Ora, protestando contro il neutralismo del quotidiano. In piazza Politeama parlarono il sindaco e Giuseppe Antonio Cesareo. Poi i dimostranti cercarono di raggiungere il consolato austriaco, ma furono dispersi dalla polizia(110).
Nei giorni successivi Giolitti rientrava a Roma dal Piemonte dove s’era da tempo ritirato, per far pesare la propria influenza sul sovrano, sulla classe politica, sul governo. Appena giunto a Roma fu informato della firma del patto di Londra. Il suo tentativo estremo di riprendere in mano la situazione e la pubblicazione da parte della Stampa di Torino delle concessioni alle quali l’Austria si diceva fosse disponibile pur di mantenere l’Italia neutrale, determinarono le dimissioni di Salandra e lo scoppio di manifestazioni, ora violentissime, in tutta Italia. Il ritorno di Giolitti e la caduta di Salandra apparivano, ora, a tutte le frange dell’interventismo, come l’infrangersi di ogni loro possibilità di successo. La reazione fu l’esplodere di una miriade di manifestazioni, corte, comizi, manifestazioni d’ogni genere e non sempre pacifiche.
A Palermo, la scintilla delle proteste venne dagli studenti delle secondarie con un corteo che intendeva raggiungere piazza Politeama e, quindi, il consolato austriaco. A piazza Vigliena, prima carica della polizia. Poi nuove cariche alle quali gli studenti rispondono con una fitta sassaiola. I disordini continuarono per tutta la mattina e nel pomeriggio con decine di feriti. Sempre nel pomeriggio, un comizio organizzato dai radicali, durante il quale parlarono Franz Cavallaro e Biagio La Manna, mentre gli scontri fra dimostranti, gruppi di neutralisti, polizia, carabinieri si susseguivano in un clima sempre più infuocato. Giunti, infine, nei pressi del consolato austriaco, gli interventisti cercarono di rompere il cordone dei militi. Partirono colpi di pistola e i soldati, ormai sul punto di venire sopraffatti dalla folla inferocita risposero "con una carica alla baionetta durante la quale restarono parecchi feriti fra i più violenti", mentre altri scontri si verificavano nei pressi del consolato tedesco. Gli scontri si ripeterono fin quando, a calmare gli animi intervennero "rispettabili cittadini fra i quali il Marchese della Cerda, il cav. Maio Pagano, il cav. Paolo Migliore, i quali consigliarono con belle parole la calma"(111). A Palermo e in tutta la Sicilia, come nel resto d’Italia, gli scontri comunque continuarono per tutta la giornata seguente.
Intanto Giolitti rifiutava l’incarico di formare il nuovo governo e, dopo di lui, rifiutarono anche Carcano e Marcora, il presidente della Camera, poi Boselli, il decano dei deputati. A questo punto il re, che riteneva che l’onore della monarchia sarebbe stato leso se il parlamento non avesse approvato l’entrata in guerra, fu libero di respingere le dimissioni di Salandra. Giolitti lasciò Roma e il governo ottenne la maggioranza alla Camera il 20 e l’unanimità il 21 al Senato. Il 22 fu ordinata la mobilitazione ed il 24 l’Italia entrò in guerra. Non appena si diffuse la notizia del rigetto delle dimissioni di Salandra, gli interventisti diedero vita ad un’ondata di manifestazioni di esultanza che percorse tutta l’isola. Anche a Palermo, manifestazione di giubilo, indetta "dalle associazioni politiche ed operaie della città". Nel corso del successivo corteo, numerose volte la folla si lasciò andare ad attacchi alle forze dell’ordine. Alla fine ci scappò il morto, Filippo Sgarlata, un giovane studente dell’Istituto Tecnico. "Vediamo un guardia in borghese - riferisce il cronista del L’Ora - fermo all’angolo di via Wagner, che spara tranquillamente revolverate, e non in aria, contro un gruppo di dimostranti. Un giovane è colpito e muore prima di giungere all’ospedale"(112). Il fatto di sangue gettò la città nel lutto, ma contribuì a far scemare la tensione. Giorno 17 Palermo si fermò per uno sciopero generale di protesta. "L’aspetto della città è triste, quasi lugubre"(113). I funerali di tennero in forma solenne, il giorno 19(114).
La Grande Guerra
La dichiarazione di guerra mise termine alle polemiche. Tranne pochi casi isolati, i neutralisti accettarono il fatto compiuto e non si registrarono, per tutto il corso della guerra, significativi fatti di boicottaggio. La città si strinse, anche con nobili e generosi atti, al fianco dei combattenti e delle loro famiglie(115).
Al momento dell’entrata in guerra il movimento nazionalista a Palermo contava su una labilissima struttura organizzativa. La sezione del partito, ospitata inizialmente presso la stessa abitazione di Giovanni Borgese, in via Emerico Amari 78(116), fu presto trasferita in piazza Marmi(117). Il gruppo giovanile aveva sede propria in via Arco Resuttana 7, traversa di via Lungarini(118). Nell’aprile del 1915, mentre infuriava la polemica fra interventisti e neutralisti, venne costituita anche una Alleanza femminile italiana per la preparazione alla guerra, promossa da Stefania Borgese, moglie di Giovanni, e da Valentina Lanza di Scalea(119). Da questo nucleo originario, scaturirà, nel dopoguerra, il gruppo femminile all’interno della sezione palermitana dell’ANI. La guerra avrebbe decimato gran parte di quel primo gruppo di nazionalisti palermitani. Si trattava, infatti, per lo più, di giovani o giovanissimi, che vennero presto richiamati alle armi. La loro partecipazione alle operazioni belliche fu vissuta con estrema intensità e numerosi furono gli esponenti del movimento che lasciarono la vita sul campo di battaglia.
L’impegno di Borgese in quei mesi si era stato fortemente indirizzato nel solco della battaglia interventista. Ma il giovane avvocato si andava distinguendo anche per l’impegno profuso nell’attività di consigliere comunale. Gli atti consiliari testimoniano tale impegno che si concretizzava in interventi, interrogazioni, ordini del giorno per sollecitare "il sindaco Tagliavia ad intervenire più energicamente contro il rialzo dei prezzi alimentari e per la moralizzazione di alcuni settori dell’amministrazione"(120).
Ora, dopo l’entrata in guerra, Borgese non intendeva tirarsi indietro e quasi si precipitò al fronte. Nella seduta del 21 maggio 1915, "il cons. Genuardi manda un saluto augurale al collega Borgese, che trovasi alle frontiere a difesa delle giuste e sante aspirazioni della Patria"(121). Borgese sarebbe rientrato in città sul finire dell’anno. In Consiglio, rispondendo al saluto del sindaco, disse di essere "lieto di aver compiuto il suo dovere. Desidera che il Consiglio mandi un saluto ai soldati, e specialmente ai siciliani che si sono distinti e che ha visto combattere con coraggio e serenità da eroi: fatica, pericoli, sacrifici, tutto essi affrontano, egli dice, con sublime fermezza d’animo, e vanno incontro alla morte senza nessuna titubanza"(122). Rientrato in città Borgese riprese la sua attività politica, narrando la vita nelle trincee, sottolineando l’eroismo dei nostri soldati ed incitando alla solidarietà popolare con l’esercito, nel corso di alcune conferenze tenute ora al Circolo di Cultura(123), ora all’Università Popolare(124), ora al teatro Olympia(125), intervenendo con assiduità alle sedute del consiglio comunale(126).
Nel frattempo premeva sulle autorità per poter tornare sul teatro delle operazioni. Riuscito nel suo scopo, trovò la morte in Trentino il 13 giugno 1916(127). Aveva 32 anni. "Giovanni Borgese - scrisse L’Ora - allo scoppio della guerra, richiamato venne assegnato al Deposito di uno dei reggimenti della città. Ma egli, che era stato uno dei fautori più convinti della necessità del nostro intervento, volle essere mandato al fronte. E difatti nell’aprile dell’anno scorso fino alla metà dell’inverno egli fu nella Conca di Piezzo, tenente del 6° Fanteria. Mandato insieme a tanti altri in congedo col grado di capitano, avendo manifestato, in questo scorso maggio, alla formazione del nuovo battaglione, l’idea di essere richiamato in servizio, dietro sua domanda, fu incorporato nel Reggimento 69 e inviato in Trentino nei primi del mese corrente. Nel pomeriggio del 13, mentre egli era in una trincea di primissima linea, fu colpito al capo da una scheggia di granata che l’uccise"(128). Ad accorrere immediatamente per ricomporre la salma dell’amico, giungeva Guido Jung. La città partecipò al lutto in modo corale. "Una di quelle notizie che spezzano l’animo. (…) - scriveva F.P. Mulé - Tornò dalla guerra per la prima volta, e tutti a Palermo lo vedemmo fiero del suo grado di capitano di fanteria. Ed anche in questi giorni, che per lui dovevano essere di riposo, volle dare qualcosa di sé alla Patria; sui campi di battaglia, il suo ardimento e il suo sangue; qui in licenza, il suo ingegno e la sua parola"(129). Borgese fu commemorato al Tribunale militare(130) ed in consiglio comunale(131).
Moriva così, immolando la sua giovane vita ai suoi valori nazionalisti ed alla sua prima passione politica, l’irredentismo, la liberazione degli italiani rimasti sotto dominio asburgico, il completamento del processo unitario nazionale, il maggiore leader della Destra Nazionale dell’anteguerra in Sicilia. In pochi anni aveva vissuto intensamente una vita dedita ai valori patriottici, tentando di organizzare e dar voce alle aspirazioni di quella giovane generazione di palermitani che guardava all’impegno politico come passione e slancio, ma anche come intelligente elaborazione di un percorso in linea con le evoluzioni e le tendenze originali della cultura, della politica e della società della Sicilia e dell’Italia del primo Novecento.
La formazione di Giovanni Borgese nella Sicilia del primo Novecento.
Alcuni anni or sono, era il 1990, su richiesta di Giuseppe Tricoli, allora presidente dell’I.S.S.P.E., pubblicai un volumetto(1) in memoria di Giovanni Borgese, dimenticato fondatore della sezione palermitana dell’Associazione Nazionalista Italiana, primo nucleo, in ordine di tempo, della moderna Destra Nazionale nel capoluogo siciliano. Ultimamente ho riletto quel vecchio lavoro che mi è apparso, per alcuni versi, superato da miei più recenti studi sulla Sicilia e sulla Palermo dei primi decenni del Novecento. Così ho pensato di ritornare su quella ricerca, di rivisitarla profondamente e di riproporla all’attenzione degli studiosi e degli appassionati.
Giovanni Borgese nacque a Polizzi Generosa nel 1884, ultimo dei tre figli di Antonio e Rosa Di Martino(2). Il fratello maggiore, Giuseppe Antonio, sarebbe divenuto uno dei maggiori animatori del dibattito culturale italiano del ‘900, oltre che critico letterario di fama mondiale(3). La sorella Maria Pia fu fine scrittrice dai solidi valori religiosi(4). Maria Pia, diversi anni dopo, rievocando l’età della fanciullezza trascorsa a Polizzi scriveva: "S. Paolo si chiama il podere che conobbe l’infanzia e l’adolescenza di Giuseppe Antonio e del fratello e della sorella di lui. S. Paolo è il podere de Le gabbie e di parte di Giovinezza. S. Paolo per i tre fanciulli fu terra d’incantesimo, piena di meraviglia. Eravamo in tre allora, uniti da un intenso fraterno affetto (…). Giovanni, il più giovane, e che cadde da forte nella prima grande guerra, era piccolo ancora e seguiva con umile, amoroso ardore il fratello e la sorella"(5). Negli anni dell’adolescenza i tre fratelli, con l’ausilio della "piccola, ma religiosamente tenuta, biblioteca paterna"(6) compivano i loro studi. Anni gai, spensierati, mentre gli occhi dei tre si aprivano agli interessi culturali, letterari, politici del tempo.
Per comprendere il clima nel quale il giovane Giovanni si formò culturalmente e politicamente bisogna riflettere, innanzitutto, sulla Sicilia del primo Novecento e sui valori e sulle tensioni ideali della sua generazione. Ormai gli storici isolani(7) - superando "il mito dell’arretratezza come immobilità"(8) nonché la tesi gramsciana del "blocco agrario"(9)- hanno riconosciuto che l’isola, fra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, fu una terra attraversata da complesse dinamiche sociali, economiche, culturali e politiche connesse alla lenta, ma costante, dissoluzione del latifondo. In questa prospettiva emerge la centralità dello scontro, non tra proletariato e borghesia capitalista, secondo gli schemi del marxismo, bensì, considerando le reali condizioni del tessuto economico e sociale siciliano del tempo, fra la vecchia "aristocrazia" che, dal latifondo traeva, non solo i mezzi materiali della sua sopravvivenza, ma il motivo della sua forza sociale e politica, e la nuova classe media, del lavoro, delle professioni, della cultura, che cercava un suo ruolo autonomo e aspirava a divenire classe dirigente ed elemento di modernizzazione della società isolana. In questo quadro non di poco conto fu l’opera del Crispi ed il perpetuarsi del suo mito nei decenni successivi alla sua caduta. Per quelle generazioni di siciliani, infatti, Crispi non era soltanto l’uomo del Risorgimento e l’antesignano della Grande Italia, ma anche il tutore della nuova classe media che, sotto il suo ombrello protettivo, ambiva a sostituirsi al vecchio ceto latifondistico, sia nei gangli del potere locale, sia sui banchi del parlamento nazionale(10). Cioè, nei siciliani, e soprattutto nei siciliani del ceto medio, il nome di Crispi si associava agli aspetti riformistici e innovatori della politica dello statista riberese, aspetti che la storiografia successiva, in gran parte tesa alla glorificazione della politica giolittiana, ha sempre cercato di offuscare. E la caduta del Crispi, in questa Sicilia di industriali, commercianti, operatori dei settori avanzati dell’agricoltura intensiva, professori, professionisti, impiegati, venne avvertita e vissuta come la rivincita della vecchia Sicilia aristocratica e latifondista. Basterebbe, d’altronde, ricostruire i passaggi della revanche aristocratica nel potere locale e negli assetti di potere nazionali, da Di Rudinì a Giolitti(11), per comprendere le ragioni di tale persistente sentimento. Da un lato, quindi, questa vecchia aristocrazia, baldanzosamente tornata alla riscossa, che forniva al potere centrale il suo appoggio in termini politici e di sostegno parlamentare, in cambio del mantenimento dello status quo economico nell’isola e del rinvio alle calende di ogni ipotesi di riforma agraria e di sviluppo economico(12); dall’altro l’articolato mondo del ceto medio alla ricerca, nel "dopo-Crispi", di vie nuove ed idee originali per riaffermare la propria autonomia e, attraverso la demolizione del potere dei latifondisti, puntare alla riconquista della leadership. E se la vecchia aristocrazia trovava nel vecchio e trito sicilianismo la sua "ideologia", il vario nazionalismo di cui parla Giocchino Volpe(13) fornirà l’"ideologia" alternativa alla classe media siciliana.
In questo quadro va collocato, ad esempio, il ruolo svolto negli anni del primo Novecento da Ignazio Florio, che si trovò a giocare un ruolo importante nelle dinamiche politico-sociali della Sicilia del tempo. E, in quest’ottica va letta la chiara presa di posizione di Florio a favore di Sidney Sonnino, il Progetto Sicilia, fino alla creazione del quotidiano L’Ora(14). Il richiamo a L’Ora, per i siciliani della generazione di Giovanni Borgese, non è di poco conto, essendo stato proprio attraverso le pagine del quotidiano di Florio che, per la prima volta, attraversò lo Stretto e giunse nell’isola il pensiero nazionalista. Ci riferiamo, chiaramente, soprattutto al periodo in cui, dal 14 aprile 1904, la direzione fu affidata a Edoardo Scarfoglio, già direttore del Mattino di Napoli. Scarfoglio ripropose, sul giornale, tutti i temi della battaglia nazionalista, servendosi anche della collaborazione di Arcangelo Lauria, Andrea Cantalupi e, soprattutto, di quel Mario Morasso "autore poco studiato (…), ma significativo ed assai interessante perché il suo "egoarchismo", il suo inneggiare alla macchina, il suo imperialismo artistico sono quanto mai rappresentativi di certa temperie dell’epoca"(15).
In questo clima deve collocarsi, anche, l’attività di rilancio dell’idealismo hegeliano svolta a Palermo, in quegli anni, da Giovanni Gentile, attivo promotore delle attività della locale Biblioteca Filosofica della Società degli studi filosofici, istituzione fondata da Giuseppe Amato Pojero, attorno al quale "a partire dal 1882, con l’aiuto dell’impegno incessante di Giovanni Gentile, si radunò un cenacolo di intellettuali nel cui senso si svilupparono temi filosofici di grande respiro. Questo cenacolo trovò il suo nome ed una forma istituzionalizzata nel 1910, come espressione della Società per gli studi filosofici"(16). Intorno alla Biblioteca ed alla Società di studi filosofici si radunarono uomini come Ferdinando Albeggiani, Vito Fazio Almeyer, Adolfo Omodeo. Tra gli aderenti anche Croce, Prezzolini e Giuseppe Lombardo Radici(17). Tra i collaboratori dell’istituzione anche quel Gaetano Mario Columba, Ordinario di Storia antica all’Università di Palermo, poi preside della Facoltà di Lettere, che diverrà, nel dopoguerra, uno dei dirigenti della sezione nazionalista palermitana.
Ancora, nella Palermo del primo Novecento, un’importante funzione di propagazione del pensiero patriottico e nazionale, fu svolta, senza dubbio, dalla Società Siciliana di Storia Patria sotto la guida di Alfonso Sansone. "Agli inizi del presente secolo, la Società Siciliana per la Storia Patria è - scrive Giuseppe Tricoli -, sempre più saldamente, il centro egemonico della cultura palermitana, presso cui gli ultimi apporti dell’aristocrazia umanistica di un marchese di Torrearsa o di un marchese Ugo delle Favare si versano nel fiume di una borghesia intellettuale sempre più in crescita e ben rappresentata. (…) Basta meditare, con attento spirito critico, gli atti della Società Siciliana per la Storia Patria, come si snodano nella ricostruzione che ne fa il Sansone nel suo Mezzo secolo di vita intellettuale (1873-1924), per accorgersi subito come la tipica cultura siciliana di quella borghesia intellettuale palermitana si cali sempre più in un clima italiano e patriottico, di cui il crispismo e la convinta adesione al programma coloniale sono certamente gli esiti e le espressioni più significative"(18). Ed, accanto e insieme a Sansone, partecipano attivamente all’attività della Storia Patria, Salvatore Romano, G.B. Siragusa, ancora Gaetano Mario Columba, Domenico e Francesco Trigona, Giuseppe Pipitone Federico, Rodolfo Corselli, il prof. Cesareo, oltre al nostro Giovanni Borgese, allora studente universitario, ma già ben inserito nella vita culturale del capoluogo siciliano e a tanti altri nomi che ricorreranno, in un modo o nell’altro, nella storia del movimento nazionalista e, poi, del movimento fascista in Sicilia.
Giovanni Gentile(19), riflettendo sulle vicende, le passioni, le tensioni, che attraversarono il panorama culturale siciliano fra la fine dell’800 ed il primo decennio del nuovo secolo, ritiene che tale periodo abbia rappresentato, per la Sicilia, un momento epocale, quasi uno spartiacque, perché in quelle vicende, in quelle passioni, in quelle tensioni vissute e rappresentate dal mondo della cultura isolana, leggeva, in tutta la sua drammaticità, la fine della vecchia Sicilia "sequestrata" e la nascita di una nuova Sicilia, finalmente integrata nel tessuto nazionale italiano. Il tramonto della cultura siciliana, infatti, si deve intendere "non tanto come agonia (…) quanto come sbocco e confluenza in un partecipativo processo unitario che, da esterno e formalistico fatto istituzionale, diventa coscienza in atto"(20). Il valore attuale dell’analisi del Gentile sta nel porre una paratia, evidente e solida, tra i filoni culturali che, dal positivismo in filosofia al verismo nella letteratura, avevano caratterizzato la vecchia Sicilia del mondo aristocratico e sicilianista e "la tipica cultura siciliana di quella borghesia intellettuale" che fa proprio, come superamento del sicilianismo e della Sicilia dell’aristocrazia feudale e latifondistica, il "clima italiano e patriottico"(21). E Gentile, su questa strada, ha buoni compagni, dal Pirandello de I Vecchi e i giovani, al Giuseppe Antonio Borgese della Storia della critica romantica(22). E come sottovalutare l’importanza, non solo delle lezioni di letteratura romantica del docente di letteratura italiana all’università di Palermo, ma anche l’attiva propaganda per l’irredentismo ed il nazionalismo democratico e anticlericale di un Giovanni Alfredo Cesareo, maestro di tanti giovani, futuri nazionalisti palermitani, tra cui Giovanni Borgese? "Nascere (…) negli anni della Sinistra al potere - scrive Renda -, significava essere aperti alla vita intellettuale quando ormai si cominciava a essere stanchi di verismo e di naturalismo, il positivismo sfioriva, si dubitava della scienza, si negava il progresso, si temeva il socialismo"(23).
Ricorderà, qualche anno dopo il fratello di Giovanni Borgese, Anton Giuseppe, poi divenuto antidannunziano, anticrociano e, infine, antifascista: "Volevamo conquistare coscienza del compito e del valore di tutta una generazione, di quella ch’era succeduta ai liberatori e avevano potuto svolgersi in condizioni politiche e morali di gran lunga superiori a quelle dei secoli scorsi. E per noi giovani il passato prossimo d’Italia si chiamava Adua (…). L’Italia nuova voleva veramente cercare se stessa, rifare la sua cultura, ristaurare il suo mondo morale, rinfrescare le sue opinioni: in una parola ricollegare il suo presente e il suo futuro col Risorgimento, e alzarsi sopra il suo prossimo passato, in quanto questo era lassitudine e miseria. I primi anni del nuovo secolo sono contrassegnati da un vivo ardore di ricerca e di rinnovamento e di opposizione"(24). E, poi, anche l’Omodeo, quando, allo scoppio della guerra di Libia, annotava: "Mi riassale il sogno garibaldino (…). La patria nuova: è questo di cui abbiamo bisogno: non la patria vecchia, la patria dei retori, ma la patria vivo senso, aspirazione dell’anima rinnovata, ché la patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria (…). La nazione nostra, che è ora politicamente un aggregato non ben fuso delle antiche regioni, la vita nazionale che è disgregata nelle singole egoistiche attività individuali, la vita morale che s’impaluda negl’interessi vili, tutto bisognerebbe rifondere, tutto riunire in una profonda volontà che tutto abbracci, che tutto vincoli, in cui tutto convenga"(25).
Attraverso l’intensa attività delle più prestigiose istituzioni culturali, quindi, attraverso l’insegnamento universitario di una fitta schiera di professori "innovatori", modernamente non restii all’attiva partecipazione alla vita civile, anche alle manifestazioni di piazza, oltre che ad un dibattito culturale non solo isolano, ma ormai nazionale ed europeo, il mondo culturale borghese siciliano vive il suo impegno nella costruzione di una prospettiva nuova, patriottica e nazionale, dalla quale si escludono, ormai, solo i Verga, i Pitré, i Napoleone Colajanni, i Rapisardi il quale, positivista ed antireligioso, non perdeva occasione per esercitare la sua vena polemica per combattere le nuove tendenze culturali dal dannunzianesimo(26) al futurismo(27).

Giovanni Borgese e l’ambiente giovanile patriottico a Palermo

Pienamente inseriti, quindi, nelle istanze culturali e politiche del primo novecento siciliano ed italiano, una nuova generazione di giovani si andava formando ed iniziava ad affacciarsi alla vita pubblica, all’impegno politico, contribuendo a formare quel variegato ambiente patriottico e nazionale dal quale usciranno, da lì a pochi anni, i leader e i quadri della sezione palermitana dell’Associazione Nazionalista. Una generazione "nuova" non solo nell’età anagrafica ma anche nello spirito, pienamente inserita nel complesso ed agitato panorama intellettuale del tempo. Respirava quel clima Giovanni Borgese, allora studente in Giurisprudenza, e se ne nutriva, come tanti suoi coetanei. Sognava una Patria più grande, forte, ordinata, rispettata nel mondo. Rifiutava e condannava i miti del socialismo che a lui, come a tanti suoi coetanei, apparivano falsi e stantii. "Da qualche anno – scriverà diversi anni dopo Gioacchino Volpe - il mondo era come si ingrandisse e il suo orizzonte si allargasse (…). Accanto alla lotta di classe, altre lotte: anzi, quella quasi si scoloriva al confronto. Si era combattuta la guerra cino-giapponese (…) e subito dopo, serrata gara delle grandi potenze europee per accaparrarsi territori, basi navali, porti, concessioni ferroviarie e minerarie, mentre in Occidente correvano (…) discorsi e progetti di spartizione delle colonie portoghesi d’Africa e dell’Impero ottomano. (…) Si avvertiva (…) che certi miti della democrazia si facevano sempre più inoperosi nel campo della politica internazionale, che i rapporti fra i popoli si andavano mettendo sopra una ben visibile base di forza"(28). Se il socialismo appariva agli occhi di Giovanni Borgese una prospettiva falsa e incapace di rispondere alle esigenze e necessità delle stesse classi popolari, plumbea appariva l’atmosfera dell’Italia giolittiana e di quel sistema di potere dello statista piemontese, tutto fondato su equilibri ed equilibrismi parlamentari, trasformismo, conservazione ed abbandono di ogni idealità e slancio.
Sotto la spinta del dannunzianesimo e del nazionalismo del L’Ora di Scarfoglio, Morasso, Cantalupi, Lauria, il verbo nazionalista, abbiamo detto, aveva avuto una prima diffusione nell’isola. L’effetto più immediato sarebbe stato quello di generare, nell’isola, un nuovo irredentismo che andava ad affiancarsi e che cercava di sostituirsi a quello, più tradizionale, di parte repubblicana e radicale. Questo irredentismo di destra, secondo la definizione di Franco Catalano(29), rivendicava all’Italia il diritto di completare il processo risorgimentale ed auspicava una più forte Italia in grado di creare un argine contro l’arrogante pangermanesimo(30). Questa mutazione genetica dell’irredentismo passa, in città, attraverso la fondazione o rifondazione di attive sezioni della Trento e Trieste(31), della Corda Fratres(32), della Dante Alighieri.
A questo processo diede notevole impulso anche Giovanni Borgese che, nel 1908, ancora studente universitario, diveniva il maggiore esponente della sezione palermitana della Corda Fratres. L’irredentismo "di destra" fu la prima e la più grande passione politica del giovane Borgese. L’irredentismo sarebbe sempre rimasto tratto caratteristico e fondante del suo impegno politico ed ideale anche negli anni in cui divenne segretario della sezione palermitana dell’A.N.I., fino alla morte in Trentino nel corso della grande guerra. L’"esordio" di Giovanni Borgese avviene, quindi, in occasione delle manifestazioni irredentiste(33) di protesta contro la politica estera del ministro Tittoni in seguito all’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria ed alle mancate "compensazioni" all’Italia. E già in quelle prime apparizioni pubbliche, che hanno come cornice ancora necessariamente l’ambiente universitario, in Borgese l’aspirazione a veder completato il processo risorgimentale si sposava, con la diffusa insoddisfazione verso la realtà politica nazionale, con il disprezzo per l’Italietta giolittiana, della palude parlamentare, di una classe politica e dirigente che, ai suoi occhi, come in quelli di quei giovani vogliosi di nuovo appariva come un retaggio del vecchiume ottocentesco.
Il 19 novembre 1908, Giovanni Borgese teneva, presso l’Aula Magna dell’Università, nel corso di una riunione pubblica organizzata dalla Trento e Trieste, una conferenza sul tema Soldati poeti, dove protestava vivacemente per le "aggressioni di Vienna che hanno ridestato per un momento la coscienza italiana"(34). E il giorno successivo, nuova manifestazione degli studenti delle secondarie e, poi, insieme agli universitari, comizio indetto dalla Corda Fratres di Borgese, con l’adesione della Dante Alighieri e della Trento e Trieste(35). Quindi, nuovo comizio a Palermo, presso l’università, nel corso del quale parlò, fra gli altri, nuovamente Borgese criticando la politica inerte ed effeminata del governo(36).
Oltre che nelle associazioni irredentiste, i giovani di formazione patriottica e nazionale, per lo più gravitanti nell’orbita universitaria, avrebbero dato vita, in quegli anni, anche ad associazioni monarchiche, o di giovani monarchici, che ebbero a Palermo un certo sviluppo. Tali associazioni intendevano difendere l’istituzione monarchica dagli attacchi di socialisti e repubblicani. Di particolare interesse, ai fini del nostro studio, è la costituzione, il 14 ottobre del 1910, nel corso di una riunione tenutasi presso l’ateneo palermitano, alla presenza di "numerosissimi intervenuti quasi tutti studenti universitari"(37) dell’Associazione Giovanile Monarchica(38), presidente Tommaso Leone Marchesano. L’associazione si avvaleva dell’apporto e della collaborazione dell’allora capitano dell’esercito Rodolfo Corselli(39) che, in quel tempo, svolgeva, dal canto suo, un’attiva propaganda nazionalista, attraverso conferenze(40), pubblicazione di libri, e che aveva fondato, a Palermo, i Battaglioni Volontari Studenti(41). Questi Battaglioni, ricorda Volpe, erano sparsi un po’ per tutta l’Italia "alcuni isolati; altri, federati nella Sursum Corda, che proclamava di voler fare opera di educazione nazionale e apparecchiare una gioventù forte"(42). L’Associazione monarchica e i Battaglioni Volontari furono presentati congiuntamente all’opinione pubblica palermitana nel corso di una manifestazione al Teatro Massimo, durante la quale Corselli tenne un lungo discorso, poi riprodotto in un volumetto(43). Tra gli scopi dell’associazione di Leone Marchesano, spiegò Corselli, vi era anche quello di "diffondere il nazionalismo"(44). E, in questa prospettiva dev’essere considerata l’attiva partecipazione di Giovanni Borgese che, sotto l’egida dell’Associazione Monarchica di Leone Marchesano, avrebbe tenuto due comizi, uno nel dicembre del 1910, per protestare contro "le offese subite dai marinai del Sempre pronti a Gravosa"(45) ed un altro, nel settembre dell’anno successivo, a sostegno dell’intervento italiano in Tripolitania(46).

Verso la formazione della sezione palermitana dell’A.N.I.

Un fenomeno caratteristico ed interessante, che caratterizzò i frangenti della preparazione e della realizzazione dell’impresa tripolina, fu, anche in Sicilia ed anche a Palermo, quello del "nazionalismo cattolico"(47) che, lungi dal dover essere considerato come momento di esaltazione patriottica degli esponenti di un mondo finora ai margini dei processi politici dell’Italia unita o esser liquidato come portato degli interessi di gruppi finanziari cattolici in terra di Libia(48), rappresentò un momento importante nello sdoganamento delle forze cattolico-moderate in vista del loro rientro nella vita politica nazionale, in un tempo in cui ancora era lontana la prospettiva del partito unico dei cattolici.
Sebbene il nazionalismo cattolico avrà un notevole seguito nell’isola, gli anni fra il 1911 ed il 1912 rappresentarono il momento del suo impetuoso manifestarsi, soprattutto grazie al ruolo svolto da un giovane giornale cattolico regionale, il Corriere di Sicilia.
Nato come quotidiano pubblicato dalla S.E.R.(49), il Corriere si discostava spesso dalla linea dei giornali del trust grosoliano. Colorava, infatti, l’appoggio alla campagna per Tripoli italiana, peraltro condivisa da tutti i fogli cattolici che facevano capo a quel gruppo editoriale, con tratti di eccessivo patriottismo, almeno dal punto di vista degli editori romani e delle gerarchie religiose, tanto da provocare le reazioni risentite della Santa Sede, l’abbandono da parte della S.E.R. del ruolo di editore e l’acquisizione della totale autonomia gestionale da parte del quotidiano.
Fu proprio sul Corriere che Giovanni Borgese pubblicò un suo ampio ed interessante articolo che ci illustra l’animo e le aspettative dei giovani d’area nazionale e patriottica nella Palermo del tempo dell’impresa tripolina. L’articolo, intitolato Buon sangue latino, iniziava con una forte critica al sistema giolittiano, affermando che "mai come nell’ultimo decennio, l’Italia avrebbe potuto chiamarsi terra dei morti"(50). Nel clima dell’Italia di Giolitti – continuava Borgese - "la nuova generazione si sentì soffocare sotto questa sepolcrale aura asfissiante, e cominciò a demolire le sante memorie, e trasse la sua ira fino al furore. (…) Vi erano delle energie che cercavano di sollevarsi dai vecchi piagnistei, di rimettere a nuovo le armi, di svecchiare il passato, di costruire sulle rovine".
Borgese collocava, memore del suo impegno irredentista, la vicenda della guerra di Libia nel più ampio scenario del rilancio della coscienza nazionale, la quale avrebbe dovuto avere come naturale sbocco la redenzione delle terre italiane ancora sotto dominio asburgico. Ricordava i tempi del Risorgimento e l’entusiasmo che allora aveva scosso il paese, liberatosi dall’oppressione straniera e denunciava, poi, il successivo abbassamento della tensione ideale, fino a sprofondare nell’apatia del giolittismo. "Lo squillo delle fanfare, il rullo dei tamburi, lo sfilare solenne e grandioso di un reggimento altro non erano agli occhi nostri che delle vane parate, degli spagnuolismi oramai vecchi ed in disuso, delle cose infine che la prorompente civiltà doveva necessariamente condannare a morte. (…) Nella nostra piccola mente divenuta contro il volere della razza e della tradizione grettamente mercaiola, non vedevamo nell’esercito il sicuro presidio della grandezza e della ricchezza nazionale, ma un avanzo di miseranda barbarie, ma una vana pompa ed una spesa improduttiva". Ciò aveva determinato un senso di impotenza dinanzi ai soprusi degli stranieri, un rinchiudersi in se stessi, nella cura dei propri interessi individuali. "Questa era l’aria greve, palustre, che ammorbava gli spiriti nostri, che annichiliva ogni nostra energia, che ci rendeva oggetto di derisione dentro e fuori dalla patria nostra". L’entusiasmo generato dall’impresa tripolina, appariva a Borgese come una miracolosa rivelazione. "In un mese le energie italiche rideste raggiunsero il climax dell’entusiasmo. In un mese le vaghe aspirazioni latenti si formularono in precise categoriche richieste". Ma l’entusiasmo determinato dall’impresa di Tripoli non doveva andare disperso una volta completata la conquista, la normalità non doveva tornare ad obliare la coscienza nazionale: nuove battaglie dovevano essere combattute per ridare vitalità alla Nazione. L’impresa tripolina, voluta da pochi ma divenuta fatto di popolo, concludeva, aveva creato le basi la rinascita della compagine nazionale: "questa guerra, ancorché nulla di bene dovesse apportare alla nazione, sarebbe pur buona ad infondere fiducia nelle nostre forze, a dimostrare nel mondo e ancor più in noi stessi, che siamo pur sempre una razza forte, e che i nemici d’Italia debbono chinar la fronte dinanzi a noi"(51).
L’annunzio dell’avvenuta dichiarazione di guerra alla Turchia, il 29 settembre, levò in tutta l’isola un’ondata di entusiasmo. La conquista di Tripoli, per i siciliani di tutti gli orientamenti culturali e politici, anche per i socialisti, non solo sanava la beffa di Tunisi, ma offriva l’opportunità, in prospettiva, di trovare sbocchi occupazionali ai braccianti destinati ad alimentare i notevoli flussi emigratori transoceanici e nuovi mercati per le imprese siciliane che avevano conosciuto un rapido declino, sia per carenze proprie, sia per la politica economica giolittiana che aveva duramente colpito l’imprenditoria meridionale a vantaggio di quella settentrionale.
Borgese fu artefice e promotore di diverse iniziative, in quel tempo. Per l’Associazione Monarchica Universitaria di Palermo(52) tenne, ad esempio, un "solenne comizio nel vasto atrio dell’Università"(53) nel corso del quale sottolineò come "non a torto oggi giubila il nostro cuore. Mentre a Roma e a Torino celebrano con grandi e solenni feste il cinquantenario dell’unità italiana, una nuova era si inizia per l’Italia. Dopo anni di politica incerta e meschina, ecco ad un tratto un brivido correre per la Nazione"(54).
Sull’onda dell’entusiasmo prodotto dall’avvio dell’impresa di Tripoli, con il sostegno del Corriere e dei gruppi cattolico-nazionalisti locali, si costituiva, il 15 settembre 1911, "dopo un lungo assiduo lavoro preparatorio compiuto da un baldo manipolo di giovani palermitani energici ed animosi, lavoro reso in questi ultimi giorni febbrile dall’agitarsi della questione tripolina che è tanta parte del loro programma", un "gruppo" palermitano dell’Associazione Nazionalista "direttamente dipendente dal Comitato Centrale di Roma dell’Associazione Nazionalista Italiana. L’adunanza ebbe luogo nei locali della scuola Francesco Crispi (…) e vi parteciparono numerosissimi soci, una cinquantina"(55).
Nel gruppo confluivano varie anime degli ambienti che abbiamo visto muoversi negli anni e nei mesi precedente. Dai nazionalisti cattolici (la presidenza del gruppo fu assunta da Anton Giuseppe Battaglia, redattore del Corriere del quale sarebbe divenuto direttore nel 1913) ad esponenti delle associazioni monarchiche e di tradizione crispina (segretario fu eletto Ubaldo Cosentino). Nonostante un primo momento di grandi entusiasmi e ripetuti comunicati pubblici(56), il "gruppo" nazionalista di Battaglia e Cosentino ebbe vita grama e, già a metà febbraio 1912, il questore di Palermo poteva riferire al prefetto che " il detto sodalizio non ha finora proceduto alle nomine delle cariche sociali né ha stabilito un locale come sede delle sue riunioni né ha fatto posteriormente manifestazioni della sua attività. Per la qual cosa è da ritenersi che passato il primo entusiasmo di esso non sia rimasto che il solo nome"(57). Il questore indicava nello scarso entusiasmo la causa della mancata vitalità del nuovo gruppo. Ma probabilmente, altre e ben più forti motivazioni stavano alla base di quel fallimento.
L’attività del gruppo non sarebbe decollata, in verità, per le differenti prospettive politiche di cui erano portatrici le diverse anime che lo componevano. I cattolici, sarebbero ripiegati, pian piano, dal nazionalismo verso prospettive più "ortodosse" lungo quella strada che, nel dopoguerra, li avrebbe portati alla fondazione del PPI. I "crispini", gli esponenti del nazionalismo democratico ed anticlericale, poi, avrebbero in gran parte abbandonato l’A.N.I. in conseguenza delle polemiche precongressuali e della rottura congressuale del dicembre 1912.
Se a livello nazionale queste polemiche condussero, prima e durante il congresso di Roma all’abbandono del movimento da parte degli esponenti del "nazionalismo democratico", dei Rivalta, dei Sighele, dei Valli e degli Arcari, non meno lacerante fu il dibattito a livello palermitano. Sulla scia di un Cesareo, di un Gentile e di molti esponenti della cultura siciliana, anche molti giovani appartenenti agli ambienti patriottici, forti della loro radicata tradizione locale crispina, avrebbero preso posizione contro le nuove scelte politiche e strategiche dell’ANI.
Mentre, quindi, Battaglia si apprestava a vivere le successive vicende del movimento cattolico, ed il Corriere, intento a recuperare posizioni più "ortodosse" all’interno del mondo cattolico, pur rallegrandosi "che la maggioranza dei nazionalisti abbia respinto la proposta di voler assegnare al nazionalismo il ruolo di combattere sia il socialismo che i cattolici, ponendoli sullo stesso livello", ribadiva e sottolineava le differenze fra il "bellicismo" dei nazionalisti, difendendo i valori del pacifismo(58), Cosentino aderiva ad una nuova associazione nazionalista democratica d’ispirazione crispina fondata nel febbraio del 1913 e L’Ora, in un commento al congresso romano, si univa "al coro dei requiem aeternam dietro al funerale del nazionalismo italiano"(59).
Borgese ed i pochi che lo seguivano si era tenuti defilati dal "gruppo" nazionalista di Battaglia e Cosentino. Sulle prime, nonostante non si sottraesse, alla collaborazione, la scelta fu quella di trovare un autonomo punto di riferimento. Uno dei più fedeli amici di Borgese, Michelangelo Ugo Collotti, scriverà qualche anno dopo, che, dopo la guerra di Libia, "una scelta di uomini di retto sentire e di indiscusso valore politico si era riunita in casa dell’avv. Puglia ed aveva fondato l’Associazione Liberale, che si propose la rinnovazione della vita politica ed amministrativa della città. Ma il programma democratico e i metodi antichi ed invalsi non potevano soddisfare noi giovani - che pur dell’Associazione eravamo stati tra i soci fondatori - e, a poco a poco, ce ne allontanammo. (…) Attorno a Giovanni Borgese, segretario dell’Associazione liberale, si venne creando un nucleo di pochissimi giovani, credenti appassionati del nuovo verbo"(60) nazionalista.
"Nel 1913 - continua ancora Collotti - si fecero a Palermo i primi soci dell’Associazione nazionalista, ed io conservo ancora quella tessera, raffigurante un giovane ignudo che uccide il drago. Ma il numero dei nazionalisti era sparutissimo e non si poteva costituire un gruppo"(61): se l’allontanamento dai cattolici e da liberali, crispini, nazionalisti democratici, aveva offerto ai nazionalisti l’opportunità di chiarire le ragioni del proprio impegno politico, nel procedere lungo la via della differenziazione dal vario nazionalismo, tale processo li aveva, però, resi numericamente pochi.
Ma i semi erano stati gettati e di lì a poco il nuovo gruppo sarebbe definitivamente sorto l’11 maggio 1914. "Nel 1914 - scrive ancora il Collotti - si doveva riunire a Milano il Congresso Nazionalista. Pensammo che occorreva far ivi sentire la voce della Sicilia nazionalista. E Giovanni Borgese, con una lettera che conservo religiosamente (…) ci chiamò a raccolta"(62). Si formava così un gruppo di una decina di soci fondatori, fra cui Borgese e la moglie Stefania, Michelangelo Ugo e Edoardo Collotti, Carlo Cervello, l’avv. Giuseppe Gestivo-Puglia, Gaspare Franco e, forse, Alfredo Cucco.
I personaggi più interessanti, oltre a Cucco la cui presenza, comunque, non sembra certa, sono soprattutto Carlo Cervello, futuro docente universitario, consigliere comunale e dirigente prima nazionalista e poi fascista, Michelangelo Ugo Collotti, allora iscritto alla facoltà di giurisprudenza e che intraprenderà la carriera di magistrato, partecipando tuttavia all’attività politica come dirigente del PNF e, nel secondo dopoguerra, del MSI e Giuseppe Gestivo-Puglia, che sarà consigliere comunale e, nel dopoguerra, presidente dell’Associazione Industriali di Palermo(63) e della Lega Commerciale(64). Vicino, ma appartato, seguiva le vicende di questo gruppo Guido Jung. Amico di Florio, grande industriale e finanziere di religione ebraica, Jung fece parte della delegazione italiana alla conferenza di pace di Versailles e delle conferenze internazionali per le riparazioni. Deputato dal 1924 al 1938, fu Ministro delle Finanze del governo di Benito Mussolini dal 1932 al 1935, per poi allontanarsi dal fascismo dopo l’emanazione delle leggi razziali fino ad entrare, come sottosegretario e ministro nel governo Badoglio nel 1944.
L’approssimarsi del congresso milanese e, non ultimo, lo scoppio della Settimana rossa, costituirono le molle per rompere gli indugi e formare il gruppo palermitano: "gli aderenti di Palermo dell’Associazione Nazionalista - si legge nel comunicato diramato alla stampa - visti i deliberati dei congressi di Firenze e di Roma; considerata la necessità di porre argine all’opera dissolvente dei partiti demagogici, che muovono con ibride coalizioni lotte insensate a detrimento degli interessi della nazione; considerato l’attuale momento storico che richiede imperiosamente una politica energica e dignitosa per rendere più grande e più forte l’Italia, a tutela degli interessi morali ed economici degli italiani dentro e fuori i confini della Patria; deliberano di costituirsi in gruppo onde esercitare opera di propaganda e incaricano il segretario avv. Giovanni Borgese a mettersi in corrispondenza col Comitato centrale di Roma e di rappresentare il gruppo al Congresso di Milano"(65). Il grande passo era compiuto. Borgese, che nel frattempo si era laureato e s’era anche sposato, superava il palcoscenico universitario per lanciarsi sul più ampio panorama cittadino.
Le prime battaglie politiche: la Settimana rossa

Nel quadro politico generale, gli anni che vanno dall’impresa tripolina allo scoppio della guerra mondiale, evidenziano una sostanziale estremizzazione della lotta politica interna. Già all’indomani delle elezioni generali del 1913, Arturo Labriola, rivolto a Giolitti, aveva avvertito: "Ella, onorevole Giolitti, ha incarnato una situazione storica ma ha finito le sue funzioni e per tanto può prepararsi a fare le valigie. (…) Vi è da una parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista, e dall’altra un’Italia rivoluzionaria socialista, ma non vi è più un’Italia giolittiana"(66). Ed effettivamente quegli anni segnano l’inizio di quella crisi del regime liberale che esploderà durante il cosiddetto biennio rosso, per concludersi con la Marcia su Roma.
Il primo atto dell’avanzata di questa "Italia rivoluzionaria", è rappresentato dalla Settimana rossa, cioè da quel tentativo insurrezionale che interessò particolarmente l’Emilia Romagna e le Marche a partire dal 7 giugno 1914, quando, a seguito di scontri tra polizia e manifestanti, morirono tre manifestanti determinando la proclamazione dello sciopero generale indetto dalla C.G.L., sciopero generale che, nelle intenzioni dei capi della rivolta, doveva provocare l’estensione dell’ondata rivoluzionaria a tutto il paese. La proclamazione dello sciopero generale provocò non poche preoccupazioni anche in Sicilia, perché si riteneva che gli ambienti socialisti rivoluzionari e repubblicani locali potessero avere la forza di provocare disordini anche nell’isola. Palermo, peraltro, nei mesi e nelle settimane precedenti lo scoppio della Settimana rossa, era stata teatro di ripetuti scioperi e manifestazioni(67), promossi dalla socialista rivoluzionaria Borsa dei Lavoratori presieduta da Raffaele Raimondi, e dal circolo repubblicano Rosolino Pilo guidato da Giuseppe Chiostergi(68). La sera della proclamazione dello sciopero generale, poi, sindacalisti e repubblicani riuscirono a convincere i mal disposti dirigenti della locale Camera del Lavoro di Palermo ad aderire a quello sciopero, mentre questi ultimi pensavano di associarsi "soltanto con un comizio pubblico"(69). Immediatamente alcune squadre percorsero la città ottenendo la cessazione del servizio tramviario.
Ma ciò che allarmava la prefettura e la questura erano i possibili disordini durante i comizi e le manifestazioni previsti per il giorno successivo, anche perché il questore aveva ricevuto una informazione riservata in forza della quale "il gruppo repubblicano, tra cui Riina, Maggio Nicolò, ed i maggiorenti del partito socialista ufficiale, Sanso, avv. Purpura, Orcel, Giordana, avrebbero deliberato di provocare (…) gravi disordini pigliando a pretesto probabili interruzioni dei funzionari agli oratori, additandoli personalmente alla massa presente come assassini del popolo, onde eccitarla a atti di estrema violenza"(70) e inoltre riferiva di sapere "da fonte ineccepibile, che i repubblicani e i socialisti rivoluzionari (avevano fatto) circolare fra gli operai la parola d’ordine di non far tirare sassi contro la forza pubblica, ma fare uso delle rivoltelle"(71). V’era, quindi, il fondato timore che il moto rivoluzionario potesse estendersi anche a Palermo e alla Sicilia. Non sorprende, quindi, che la prefettura chiedesse alle autorità militari di mettere a disposizione 1.000 uomini(72) e che il questore chiedesse rinforzi anche ai commissariati di Carini, Villabate, Mezzojuso, Partinico, Bagheria e Monreale(73).
Le manifestazioni palermitane, tuttavia, non furono di tale imponenza da creare disordini significativi. In cinquecento, di mattina, assistettero ad un comizio in piazza Bologni, dove, effettivamente, vi furono tentativi da parte degli oratori di provocare incidenti con le forze dell’ordine. "Dopo il noto Raimondi, parlò Guarrasi per la Camera del Lavoro, criticando il contegno della forza pubblica in Ancona. Prese poscia la parola il repubblicano Chiostergi Giuseppe di Senigallia, Professore di questo istituto Tecnico, sovversivo schedato, il quale, dopo aver criticato la polizia, attaccò la Monarchia ed inneggiò alla rivoluzione. Prese pure la parola il repubblicano Sanzo, che finì anche egli per attaccare vibratamente la polizia"(74). Seicento, invece, i dimostranti presenti, nel pomeriggio, al comizio a piazza Politeama, quando già era pervenuta la circolare del segretario generale della C.G.L. che ordinava la cessazione dello sciopero generale(75), una decisione destinata a mettere fine al moto rivoluzionario.
Contro il tentativo rivoluzionario della Settimana rossa e contro i poco riusciti tentativi di provocare analoghi sussulti anche a Palermo, il neonato gruppo nazionalista si fece promotore di una manifestazione. Il comizio fu annunziato con l’affissione di un manifesto nel quale si leggeva: "folle ubriacate dalla menzogna socialista, dimentiche di avere nei soldati dei fratelli, per le Città d’Italia infieriscono ciecamente contro le istituzioni. Nelle Romagne hanno ucciso, hanno commesso atti di vandalismo, fidando sulla resupina indifferenza e nell’assenteismo vile della maggioranza della Nazione. E’ ora di mostrare a costoro, ed a coloro che, per tornaconto personale, aizzano la teppa, che la Nazione non è disposta a subire il dominio di una folle esigua minoranza"(76).
Il giorno del comizio, il 14 giugno, piazza Bellini, secondo il giornalista del L’Ora, era gremita. "L’aspetto di questa folla è singolare, perché tutti i cittadini più noti, professionisti, commercianti, rappresentanti della classe aristocratica, ne fanno parte, insieme a gente umile, che vive del lavoro e di stenti, e che pure, dolorosamente sorpresa dagli avvenimenti di cui la stampa ha diffuso in questi giorni le luttuose notizie, accorse al comizio"(77). Oratore ufficiale fu naturalmente Giovanni Borgese che non lesinò critiche a socialisti e radicali di sinistra per la loro propaganda che "cade sopra masse impreparate, che si abbandonano ciecamente alla violenza"(78). Insieme a Borgese parlò l’ingegnere Michele Albeggiani, da allora una dei più attivi dirigenti della sezione, che esaltò "le idealità cui si ispira il partito nazionalista". Un corteo si snodò per le vie del centro cittadino. Non priva di significati l’adesione alla manifestazione del sindaco di Palermo, senatore Di Martino.
Al di là della ricostruzione, per alcuni versi stucchevole, del quotidiano palermitano, quella prima pubblica manifestazione del partito nazionalista si dimostrò importante ed opportuna per molteplici motivi. Innanzitutto il partito nazionalista dimostrava di avere una sua capacità attivistica, riuscendo ad organizzare, in tempi ristretti, una manifestazione pubblica significativa. E lo riconosceva lo stesso questore di Palermo quando rilevava che, "se senza alcuna preparazione si è avuto questo slancio di superbo entusiasmo è da figurarsi di quanto sarebbe stato questo maggiore se (l’iniziativa) avesse presentato, sia pure, un modesto ordinamento"(79). In secondo luogo il nazionalismo apparve come un elemento vitale e dinamico, soprattutto se si tiene conto del silenzio e della mancata reazione delle altre forze moderate, elemento che avrebbe dato, di lì a breve, a Borgese e ai suoi compagni l’opportunità di ritagliarsi uno spazio nella coalizione moderata alle imminenti elezioni comunali. Infine, sotto il profilo propagandistico, il comizio ed il corteo riuscirono ad avvicinare alla sezione nazionalista un più ampio gruppo di sostenitori ed attivisti.
Vediamo così, in tempi brevi, formarsi un gruppo universitario ed un gruppo giovanile. Nel primo militavano Giovanni Romano, studente in legge che ne fu presidente, Gaspare Cascio della facoltà di medicina (vicepresidente), Gennaro Di Marco e Salvatore Musumeci, anch’essi di Medicina, Marcello Calcagno, iscritto a Chimica, Francesco Rizzo di Giurisprudenza e Remo Amenta(80). Il primo gruppo giovanile fu formato da Angelo De Giudici, Giacomo Agrigento, Giuseppe Santoro, Alfredo Monteverde, Aldo Boeri, Emanuele Bruno, Filippo Di Stefano, Vincenzo Valey e Alfonso Verdese, Ruggero Castagna, Rosario D’Anna e Paolo Piazza(81).

Le elezioni comunali del 1914

Nel commento all’iniziativa nazionalista, un’iniziativa che aveva "rotto l’alto sonno che grava e avvolge come una perenne bruna accidiosa, lo spirito della nostra cittadinanza", il quotidiano L’Ora fornisce, implicitamente, delle indicazioni rilevanti in ordine ai rapporti fra le forze politiche locali in vista dell’imminente appuntamento elettorale amministrativo.
Dopo aver ricordato che "il popolo di Sicilia, irreducibile ad ogni forma di tirannide, non ha avuto fremiti di rivolta che per la libertà: ma la libertà non ha mai concepito che nella illuminata disciplina degli ordini costituzionali", il giornale criticava con amarezza lo scollamento esistente fra le fazioni del partito liberale, sia a livello nazionale che locale. "Vi fu un tempo - si legge - in cui un gruppo di interessi, o d’ambizioni, o di clientele, strinse intorno ad alcuni uomini qualcosa che aveva almeno la parvenza di un partito, e gli uomini che vi appartennero - almeno i più eminenti - erano assertori di quelle idealità che avevano illuminato la formazione della Patria liberale ed una". La caduta della tensione ideale, la prevalenza degli interessi personalistici, dei quali Giolitti s’era servito per consolidare il proprio potere personale, avevano creato una reazione di cui profittavano i partiti dell’estrema sinistra che "raccoglievano intorno a sé non soltanto coloro che partecipavano il loro programma politico, ma anche - e forse in numero assai maggiore - tutti gli spiriti vagamente delusi e malcontenti, anelanti a un rinnovamento della vita politica ed amministrativa".
Di contro, "nessuna forza nuova, fresca, pura, viva, sorse dalla putredine delle vecchie consorterie disfatte: nessuno, riprendendo lo spirito e il genio onde l’Italia moderna era sorta, lo portò tra noi, a farne palpito ed anima della vita cittadina". Il partito liberale, pertanto, "non è popolare tra noi per la sola ragione che non ha cercato di esserlo". Di qui l’apprezzamento per l’opera dei nazionalisti, pattuglia avanzata delle forze costituzionali, che avrebbero potuto e dovuto rinvigorire gli ideali monarchici e costituzionali, ridare fiducia nei legittimi ordini dello Stato, costituendo la spina dorsale di un nuovo partito liberale rifondato "con nuove forze, con fresche energie, col proposito puro ed alto d’essere strumento di civile educazione e di rinnovamento ideale della vita cittadina"(82). Quella manifestazione, pertanto, aveva anche avuto il pregio, come si legge fra le righe del L’Ora, di far superare molte delle prevenzioni che intorno al nazionalismo s’erano formate dopo il congresso del 1912. Lo dimostrano, non solo i toni talvolta "lirici" del quotidiano nei confronti dell’iniziativa nazionalista, ma anche l’apertura complessiva di spazi per la realizzazione della strategia nazionalista circa la formazione di blocchi nei quali convergessero nazionalisti, liberal-nazionali e cattolici moderati.
In realtà questa prospettiva politica si concretizzò nella costituzione di una lista unitaria comprendente liberali di varia tendenza, cattolici e nazionalisti per le imminenti elezioni amministrative. La lista, denominata Unione dei partiti costituzionali, fu guidata dai due eterni antagonisti Camporeale e Tasca Lanza, "ritornati amici, contro i sovversivi nemici delle istituzioni", come scrive Cancila, e che riuniva "buona parte dei consiglieri uscenti e degli assessori delle giunte Di Martino"(83), cattolici e, per i nazionalisti Borgese, Carlo Cervello e il Marchese della Cerda. Alla lista moderata si opponeva una Unione dei partiti popolari, guidata dai socialisti riformisti Tasca e Drago, dal radicale on. Restivo e che comprendeva anche candidati repubblicani.
I popolari criticarono aspramente, per tutta la campagna elettorale, l’inserimento nella lista concorrente di esponenti nazionalisti. L’Ora, tuttavia, rispondeva ricordando "l’atteggiamento fiero e coraggioso" che i nazionalisti avevano assunto durante la Settimana rossa, dimostrando "più coraggio delle altre fazioni del partito costituzionale", e sottolineando la capacità del nuovo soggetto politico di mettersi "in contatto diretto col popolo". "I nazionalisti - ripeteva il quotidiano - sono la pattuglia avanzata del partito costituzionale. (…) Vanno un po’ oltre? Eccedono? Può darsi… ma non dovrebbero dirlo proprio coloro, pei quali nulla è sacro, se non l’odio e la rivolta"(84).
L’Ora offrì poi, sulle sue colonne, per tutto l’arco della campagna elettorale, ampi spazi ad esponenti nazionalisti. Numerosi furono gli articoli pubblicati da Flaminio Orfei, segretario della sezione napoletana dell’A.N.I., incentrati, soprattutto, sul tema dei rapporti fra nazionalisti e cattolici(85). Ed al fianco dei nazionalisti troviamo anche, in questo frangente, il figlio del senatore Tasca, Ottavio Tasca Bordonaro(86).
Il nuovo sistema elettorale, basato sul suffragio elettorale, quasi imponeva le nuove tecniche propagandistiche, come il ricorso al comizio. Ed ecco la lista dei partiti costituzionali aprire la propria campagna elettorale proprio con un comizio, il 28 giugno, a piazza Bellini, nel corso del quale, dopo i maggiorenti Tasca e Camporeale, parlò anche Borgese che sottolineò come il partito nazionalista aveva deciso di candidare propri esponenti nella lista dei costituzionali non per "asservimenti elettorali, come predicano i nostri avversari, ma per un unico nobilissimo sentimento che è quello di contrapporci alle masse dissolventi la nazione"(87).
Ma i nazionalisti fecero di più, presentandosi al comizio dei rivali con intenti provocatori. All’arrivo dei nazionalisti al comizio dell’on. Restivo gli animi si surriscaldarono, costringendo la forza pubblica ad intervenire con tre cariche per disperdere il gruppo dei nazionalisti. "I cosiddetti popolari - si legge in una lettera a firma di Borgese, Cervello, Collotti, Orfei e Tasca Bordonaro - vorrebbero evidentemente che gli uomini d’ordine conducessero la lotta standosene a casa e abbandonando alla loro retorica falsa e pervertitrice le piazze e le masse"(88). La conclusione della campagna elettorale fu segnata da un ultimo comizio(89), durante il quale parlò anche il cattolico on. Pecoraro e, "accolto con vivi applausi", Borgese.
I risultati elettorali furono in qualche modo sorprendenti. La lista dei partiti popolari non ottenne alcun seggio. L’Unione dei partiti costituzionali, invece, ottenne 39 degli 80 seggi del consiglio comunale e, fra questi, Giovanni Borgese, con 9066 voti e il marchese della Cerda con 9185 voti. Quaranta seggi furono conquistati da una terza lista, la cosiddetta lista Nasi-Barbera, che era stata forse sottovalutata, ma che poteva contare sulla forza clientelare dell’on. Renzo Barbera e di Nunzio Nasi. L’ottantesimo consigliere, infine, era il solito Raffaele Palizzolo, il presunto mandante dell’omicidio Notarbartolo. "A livello di schieramenti politici, i vincitori delle elezioni erano ancora i liberali, perché quasi tutti i consiglieri del gruppo Nasi-Barbera appartenevano all’area liberale. E difatti, il prefetto nel nuovo Consiglio comunale contava bel 69 liberali, 10 clericali e un repubblicano. (…) Tra i 69 liberali, il prefetto inseriva anche i nazionalisti"(90).

La stagione dell’interventismo

Il successo elettorale riportato con l’elezione di Borgese e della Cerda al consiglio comunale fu evidente determinato dalla collocazione della giovane pattuglia nazionalista palermitana nel più ampio quadro dell’alleanza delle forze liberali e moderate in funzione antisocialista. Questo quadro di riferimento, tuttavia, doveva in breve mutare sostanzialmente dinanzi alle scelte che i nazionalisti dovettero di lì a breve affrontare. L’assassinio di Sarajevo, non solo avrebbe dato la stura allo scoppio della guerra mondiale, ma, per l’Italia, voleva significare l’avvio della complessa e articolata contrapposizione fra interventismo e neutralismo. Questa nuova situazione avrebbe prodotto una evidente frattura fra i nazionalisti, filo-interventisti e la gran parte del fronte moderato che, a Palermo ed in Sicilia, sposava quasi unanimemente le ragioni del neutralismo. Per quanto concerne Palermo, scrive Cancila, "ancora nei primi mesi del 1915, la città era in grande maggioranza neutralista. Come i due maggiori quotidiani cittadini e la stampa cattolica, su posizioni neutraliste erano la classe politica, dal senatore Tasca Lanza all’onorevole Di Stefano; la borghesia degli affari, da Florio, amico personale dei Kaiser, a Pecoraino; l’aristocrazia latifondista capeggiata da Camporeale, che a Roma si teneva in stretto collegamento con Giolitti e con il cognato Von Bulow. Se la borghesia commerciale temeva la rottura dei rapporti con la Germania per le conseguenze sull’esportazione di alcuni prodotti siciliani, l’aristocrazia si sentiva maggiormente garantita dall’alleanza con paesi conservatori che non con Inghilterra e Francia più democratiche"(91).
In questo quadro Borgese si trovò, già poche settimane dopo le elezioni, dinanzi ad un bivio. Si trattava, infatti, o di annacquare la scelta interventista che il partito aveva elaborato dopo Sarajevo, mantenendo però solidi i rapporti con le forze liberali e cattoliche della città, o lanciarsi nella battaglia interventista, che rispondeva, peraltro, agli ideali irredentisti ch’erano larga parte nel pensiero e nell’azione del giovane avvocato, col rischio, non solo di una rottura con gli altri gruppi moderati locali, ma, addirittura, di schierarsi sullo stesso fronte nel quale militavano le forze dell’interventismo di sinistra, radicali, socialisti rivoluzionari, repubblicani, cioè degli avversari contro cui i nazionalisti si erano lanciati durante e dopo la Settimana rossa e contro cui s’erano presentati alle elezioni locali.
Molti elementi, tuttavia, dovevano condurre Borgese e gran parte del mondo nazionalista palermitano verso questa seconda ipotesi, dal mai placato irredentismo alla necessità di sostenere la linea adottata dal partito. Così troviamo Borgese, già nel corso della prima seduta del nuovo consiglio comunale, il 19 agosto del 1914, proporre di inviare al governo un telegramma a nome del Consiglio "per manifestare che Palermo non è l’ultima delle città italiane pronta ad accorrere qualora fosse necessario esporre la vita dei suoi figli". Borgese sosteneva che bisognava "aspettare sereni e fidenti l’opera del governo", ritenendo tuttavia opportuno sostenere che "il nostro cuore palpita per la patria e che per essa siamo pronti a dare il nostro sangue". La proposta di Borgese incontrò molte resistenze. Renzo Barbera dichiarò che "un augurio invece dovrebbe farsi, cioè che l’Italia, non per volontà dichiarata, ma per virtù di eventi possa mantenere la sua neutralità". Alla fine del dibattito, venne accolta la proposta di mediazione avanzata da Russo Perez che, dopo essersi detto "addolorato che la proposta del collega Borgese non abbia incontrato il favore di tutti, tanto più ch’essa, a differenza dei voti di altri consigli comunali e provinciali, incitanti alla guerra o alla neutralità assoluta, non ha altro contenuto che quello di dire che noi siamo pieni di patriottismo", propose il seguente ordine del giorno, approvato dal consiglio: "Palermo, per via dei suoi legittimi rappresentanti, manda al governo patrio l’espressione della sua concorde fiducia, riaffermando i sentimenti di patriottismo e disciplina morale"(92).
L’iniziativa di Borgese va inquadrata nel clima politico di quei giorni tumultuosi. Tra il 31 luglio ed il 2 agosto il governo Salandra aveva preso e resa pubblica la decisione di rimanere neutrali. L’Associazione Nazionalista, a livello centrale, dopo qualche incertezza, già il 6 agosto aveva annunciato la sua posizione definitiva: denunciare il trattato della Triplice; intervenire contro l’Austria per liberare le terre irredente, ma, ancor di più nella logica di espansione dell’influenza italiana nell’Adriatico e nei Balcani. Lo stesso giorno in cui Borgese prendeva la parola in Consiglio comunale per illustrare la sua proposta, a Milano i repubblicani dichiaravano il loro interventismo, seguiti presto dai radicali, dai socialisti riformisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Era quella l’ora in cui prendeva corpo il frammentato fronte interventista, allora, peraltro, minoritario nel paese e nel mondo politico.
Tra metà settembre e i primi di ottobre, poi, Milano conobbe le prime manifestazioni interventiste ad opera dei futuristi guidati da Marinetti e Boccioni e del Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista. Si ponevano così le condizioni, almeno teoricamente, di un "incontro", sulla base del comune interventismo, fra forze politicamente e culturalmente lontane e, talvolta, antagoniste, come erano, ad esempio, i repubblicani ed i sindacalisti rivoluzionari di Corridoni e di De Ambris, da un lato, ed i nazionalisti dall’altro. L’incontro ci fu (o almeno fu tentato) attraverso la costituzione di "comitati" locali. Ma fu sempre, prima, durante e dopo la guerra, un incontro difficile fra forze dalla natura e dalle prospettive divergenti, malamente tenute assieme solo dalla necessità di promuovere la battaglia interventista. A Roma, per esempio, le difficoltà di tale "connubio" erano subito apparse evidenti: durante un comizio di Cesare Battisti, nel momento in cui aveva tentato di prendere la parola, per i nazionalisti, l’on. Gallenga, si erano levate violente invettive da parte del pubblico socialista rivoluzionario, repubblicano ed anarchico, invettive cui era seguita una violenta colluttazione fra gli attivisti delle due parti(93). Questo non era, d’altronde, che un piccolo episodio di una sostanziale e forte divergenza sulla stessa concezione della guerra, ove, per i nazionalisti, essa doveva essere "imperialista", mentre per gli interventisti di sinistra doveva divenire "guerra rivoluzionaria", cioè l’evento, attraverso il quale le masse popolari, conquistata la coscienza della propria forza, avrebbero promosso la rivoluzione sociale. Ed è proprio su questa prospettiva che, qualche mese dopo, Benito Mussolini avrebbe consumato la sua rottura con il partito socialista e sarebbe passato, al fronte interventista.
Non è quindi di poco rilievo, rammentare, che, a Palermo, già a fine ottobre Borgese e i nazionalisti palermitani avevano costituito, insieme agli altri partiti interventisti, un Comitato per le rivendicazioni nazionali, che non conoscerà le tensioni riscontrate altrove. "A Palermo - si legge in un comunicato - dietro intese corse fra i vari partiti favorevoli all’intervento dell’Italia nel conflitto Europeo, si è riconosciuta l’opportunità di agire d’accordo per mantenere viva nell’opinione pubblica la chiara visione della necessità per l’Italia di procedere ora alle rivendicazioni nazionali di Trieste, Trento e la Dalmazia, e rafforzare lo spirito pubblico nella coscienza dello sforzo da compiere"(94). Al Comitato aderivano, oltre i nazionalisti, l’Unione radicale, i repubblicani, associazioni quali la Corda Fratres. Così il comitato poté svolgere, effettivamente, opera costante di propaganda. Il primo novembre del 1914, tenne, ad esempio, un comizio nell’atrio di S.Anna, dove parlarono l’avv. Giuseppe Scialabba dell’Unione radicale, Franz Cavallaro presidente del gruppo radicale universitario, il giovane repubblicano Nicolò Maggio, il comm. Edoardo Armò, lo studente Amedeo Gambino della Corda Fratres, ed, infine, Giovanni Borgese "che ebbe aspre parole contro i pacifisti ad ogni costo" e che si augurò "che l’Italia sappia compiere il suo dovere, affrancando dal giogo straniero i suoi figli, che dalle terre irredente guardano alla Grande Madre"(95). Il 26 dicembre, poi, all’Hotel Excelsior, venne a comiziare a Palermo, su invito del locale gruppo nazionalista, Enrico Corradini. La conferenza, svolta alla presenza di un "numerosissimo pubblico", fu "tutta un inno alla guerra"(96).
Si trattò, indubbiamente, di una scelta rilevante, ma tale da provocare nuove lacerazioni nell’ambiente nazionalista palermitano. Come prevedibile, non mancarono i contraccolpi, soprattutto con coloro che al nuovo partito riconoscevano soltanto il ruolo di "ala estrema" delle forze liberali, elemento di rigenerazione delle forze moderate. Il dissenso non si fece attendere. Si rimproverava all’Associazione Nazionalista di essersi alleata con i radicali, con i socialisti rivoluzionari, con i repubblicani, con gli anarchici, cioè con i nemici di sempre, rompendo l’alleanza con i gruppi moderati. Si temeva, poi, sul piano internazionale, la paventata entrata in guerra contro l’Austria e la Germania, argini nel mondo contro il dilagare delle idee sovversive e non si accettava l’ipotesi di un’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Francia democratica e repubblicana. A dar voce a queste posizioni fu Ottavio Tasca Bordonaro che pubblicò un articolo nel quale emerge tutto il suo disappunto per le scelte compiute dai suoi ex compagni di viaggio e nel quale sosteneva che l’Italia, quanto meno, avrebbe dovuto mantenersi neutrale, se non addirittura entrare in guerra, sì, ma a fianco delle sue alleate naturali e cioè l’Austria e la Germania(97). Ed anche Ubaldo Cosentino, l’ex segretario dell’associazione nazionalista nata ai tempi del Corriere di Sicilia e della guerra di Libia, nel corso di una conferenza a Girgenti, si disse "sostenitore della neutralità assoluta"(98). Il quotidiano L’Ora, poi, coerentemente e fortemente attestato sulle posizioni del governo Salandra, ritirò quel sostegno che aveva, nei mesi precedenti offerto al gruppo nazionalista, che perdette anche un’importante tribuna giornalistica dalla quale far sentire la propria voce.
Tuttavia sebbene la propaganda dei nazionalisti e degli altri gruppi interventisti si muovesse in un ambiente politicamente ostile, continuò instancabile per tutto il 1914 e la prima metà del 1915. I repubblicani organizzarono un gran numero di riunioni, manifestazioni, cortei e ricordavano le gesta di quegli italiani che già combattevano al fianco dei francesi(99) e diedero anche vita ad un fascio interventista rivoluzionario, con sede in via Albergheria 10, negli stessi locali del gruppo giovanile repubblicano. Anche associazioni storiche dell’irredentismo si diedero, in quel tempo, una migliore organizzazione. Il consolato palermitano della Corda fratres venne riorganizzato, dopo le polemiche scoppiate al suo interno ai tempi della guerra di Libia, e fu affidato alla direzione dell’avv. Camillo Orlando Castellano(100). Anche il comitato palermitano della Dante Alighieri rinnovò i suoi ranghi. La carica di presidente, lasciata libera dal prof. G.B. Siracusa, venne assunta da Giuseppe Scialabba, leader locale dell’Unione radicale. Nel consiglio direttivo di questa associazione, troviamo anche i nazionalisti Guido Jung e Carlo Cervello(101). La sezione palermitana della Trento e Trieste, invece, fu affidata all’avv. Salvatore Arista. Attivi erano un po’ ovunque associazioni e fasci interventisti. A Palermo, comizi di Federzoni, al Politeama Garibaldi, il 23 febbraio(102) e di Francesco Coppola, al Circolo di Cultura.
Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, il clima era destinato ad arroventarsi. I toni della polemica fra neutralisti ed interventisti divenivano sempre più infuocati, man mano che si avvicinava la sessione parlamentare che avrebbe dovuto prendere la decisione ultima. I lunghi mesi di propaganda interventista avevano mutato il clima che si respirava nel paese. Sembrava ora, a molti, che anche la neutralità non fosse priva di pericoli. Per interrompere una spirale che sembrava dover minacciare l’ordine pubblico, a quel punto il governo, che segretamente trattava con l’Austria per la neutralità e con gli alleati per l’intervento, ritenne di dover vietare tutte le pubbliche manifestazioni. Come scrive Vigezzi, Salandra rimaneva un vecchio tutore fedele della tradizione "liberale" della destra storica, che non si avvedeva del mutare dei tempi. Riteneva, ancora, che la scelta fra neutralità e guerra, una scelta destinata a ripercuotersi sulla vita di milioni di italiani, potesse essere decisa con i patti diplomatici segreti e con l’esercito. In quest’ottica l’agitazione neutralista o interventista lo turbavano e finivano per prevalere mere preoccupazioni per l’ordine pubblico. Di qui il divieto a manifestare(103).
Il comitato palermitano della Trento e Trieste protestò subito contro una "disposizione incostituzionale (…) lesiva del diritto dei cittadini nella libera manifestazione delle proprie idee"(104) ed organizzò un movimentato comizio irredentista, nel corso del quale parlarono il presidente della sezione, Salvatore Arista, il prof. Pipitone Federico, il repubblicano avv. Prato e Giovanni Borgese. Alla fine della riunione fu votato un ordine del giorno nel quale "la gioventù di Palermo riafferma con fede incrollabile la solidarietà coi fratelli d’oltre confine politico, aggiogati ancora alla tirannide dell’Austria ed è pronta all’estremo sacrificio per la realizzazione completa delle sacre aspirazioni nazionali che se non appagate oggi mai più lo saranno"(105)
Neanche gli attivisti dei fasci interventisti avevano intenzione di rispettare il decreto governativo ed anzi moltiplicarono gli sforzi propagandistici. E proprio mentre, nell’isola, i deputati belgi Destré e Lorand tenevano un ciclo di conferenze, illustrando il destino del loro paese conquistato dalle truppe tedesche, i fasci interventisti decisero di tenere, l’11 aprile, comizi e manifestazioni in tutta Italia in chiaro segno di sfida al governo. La giornata fu caratterizzata da convulse manifestazioni, da scontri con i neutralisti e con la polizia, arresti, fra i quali quelli di Mussolini e Marinetti. A Messina ci furono scontri tra interventisti e neutralisti(106). A Catania, dopo un comizio all’università popolare, oratori Giuseppe Lombardo Radice per i Fasci Rivoluzionari Interventisti e Giuseppe Di Stefano Bordonaro per i repubblicani, un corteo che intendeva confluire presso il locale consolato austriaco, fu disperso dalla polizia(107). L’Ora, sempre schierato su posizioni di sostegno a Salandra, parlò di triste spettacolo dato al mondo dall’Italia. "Noi attraversiamo un periodo di fervida e intensa preparazione militare per portare il nostro esercito a quel massimo grado di efficienza che deve garentire al Governo il successo di una azione diplomatica laboriosa che tende ad assicurare al Paese, col minimo sacrificio il massimo vantaggio", ma, mentre il governo "informa la sua azione ai supremi interessi della Nazione" viene "turbato, in questa ora suprema, dall’eco di frastuono che sale dalle piazze di tutte le città"(108). Ma, ormai, le condizioni politiche stavano per mutare. Il 26 aprile fu firmato, in segreto, il patto di Londra fra l’Italia e i paesi dell’Intesa ed il 4 maggio fu denunciato il trattato della Triplice.
Giorno 5 maggio. Anniversario della partenza dei Mille. Inaugurazione di un monumento a Quarto. D’Annunzio, invitato a parlare, pronunziò un discorso ch’era un invito alle armi. L’eco fu amplissima. Manifestazioni seguirono in tutta Italia. A Palermo un corteo, al quale partecipavano ufficialmente i nazionalisti(109), si snodò da piazza Bellini, dopo un discorso commemorativo del prof. Mulé. Alcuni goliardi si fermarono sotto i balconi del L’Ora, protestando contro il neutralismo del quotidiano. In piazza Politeama parlarono il sindaco e Giuseppe Antonio Cesareo. Poi i dimostranti cercarono di raggiungere il consolato austriaco, ma furono dispersi dalla polizia(110).
Nei giorni successivi Giolitti rientrava a Roma dal Piemonte dove s’era da tempo ritirato, per far pesare la propria influenza sul sovrano, sulla classe politica, sul governo. Appena giunto a Roma fu informato della firma del patto di Londra. Il suo tentativo estremo di riprendere in mano la situazione e la pubblicazione da parte della Stampa di Torino delle concessioni alle quali l’Austria si diceva fosse disponibile pur di mantenere l’Italia neutrale, determinarono le dimissioni di Salandra e lo scoppio di manifestazioni, ora violentissime, in tutta Italia. Il ritorno di Giolitti e la caduta di Salandra apparivano, ora, a tutte le frange dell’interventismo, come l’infrangersi di ogni loro possibilità di successo. La reazione fu l’esplodere di una miriade di manifestazioni, corte, comizi, manifestazioni d’ogni genere e non sempre pacifiche.
A Palermo, la scintilla delle proteste venne dagli studenti delle secondarie con un corteo che intendeva raggiungere piazza Politeama e, quindi, il consolato austriaco. A piazza Vigliena, prima carica della polizia. Poi nuove cariche alle quali gli studenti rispondono con una fitta sassaiola. I disordini continuarono per tutta la mattina e nel pomeriggio con decine di feriti. Sempre nel pomeriggio, un comizio organizzato dai radicali, durante il quale parlarono Franz Cavallaro e Biagio La Manna, mentre gli scontri fra dimostranti, gruppi di neutralisti, polizia, carabinieri si susseguivano in un clima sempre più infuocato. Giunti, infine, nei pressi del consolato austriaco, gli interventisti cercarono di rompere il cordone dei militi. Partirono colpi di pistola e i soldati, ormai sul punto di venire sopraffatti dalla folla inferocita risposero "con una carica alla baionetta durante la quale restarono parecchi feriti fra i più violenti", mentre altri scontri si verificavano nei pressi del consolato tedesco. Gli scontri si ripeterono fin quando, a calmare gli animi intervennero "rispettabili cittadini fra i quali il Marchese della Cerda, il cav. Maio Pagano, il cav. Paolo Migliore, i quali consigliarono con belle parole la calma"(111). A Palermo e in tutta la Sicilia, come nel resto d’Italia, gli scontri comunque continuarono per tutta la giornata seguente.
Intanto Giolitti rifiutava l’incarico di formare il nuovo governo e, dopo di lui, rifiutarono anche Carcano e Marcora, il presidente della Camera, poi Boselli, il decano dei deputati. A questo punto il re, che riteneva che l’onore della monarchia sarebbe stato leso se il parlamento non avesse approvato l’entrata in guerra, fu libero di respingere le dimissioni di Salandra. Giolitti lasciò Roma e il governo ottenne la maggioranza alla Camera il 20 e l’unanimità il 21 al Senato. Il 22 fu ordinata la mobilitazione ed il 24 l’Italia entrò in guerra. Non appena si diffuse la notizia del rigetto delle dimissioni di Salandra, gli interventisti diedero vita ad un’ondata di manifestazioni di esultanza che percorse tutta l’isola. Anche a Palermo, manifestazione di giubilo, indetta "dalle associazioni politiche ed operaie della città". Nel corso del successivo corteo, numerose volte la folla si lasciò andare ad attacchi alle forze dell’ordine. Alla fine ci scappò il morto, Filippo Sgarlata, un giovane studente dell’Istituto Tecnico. "Vediamo un guardia in borghese - riferisce il cronista del L’Ora - fermo all’angolo di via Wagner, che spara tranquillamente revolverate, e non in aria, contro un gruppo di dimostranti. Un giovane è colpito e muore prima di giungere all’ospedale"(112). Il fatto di sangue gettò la città nel lutto, ma contribuì a far scemare la tensione. Giorno 17 Palermo si fermò per uno sciopero generale di protesta. "L’aspetto della città è triste, quasi lugubre"(113). I funerali di tennero in forma solenne, il giorno 19(114).

La Grande Guerra

La dichiarazione di guerra mise termine alle polemiche. Tranne pochi casi isolati, i neutralisti accettarono il fatto compiuto e non si registrarono, per tutto il corso della guerra, significativi fatti di boicottaggio. La città si strinse, anche con nobili e generosi atti, al fianco dei combattenti e delle loro famiglie(115).
Al momento dell’entrata in guerra il movimento nazionalista a Palermo contava su una labilissima struttura organizzativa. La sezione del partito, ospitata inizialmente presso la stessa abitazione di Giovanni Borgese, in via Emerico Amari 78(116), fu presto trasferita in piazza Marmi(117). Il gruppo giovanile aveva sede propria in via Arco Resuttana 7, traversa di via Lungarini(118). Nell’aprile del 1915, mentre infuriava la polemica fra interventisti e neutralisti, venne costituita anche una Alleanza femminile italiana per la preparazione alla guerra, promossa da Stefania Borgese, moglie di Giovanni, e da Valentina Lanza di Scalea(119). Da questo nucleo originario, scaturirà, nel dopoguerra, il gruppo femminile all’interno della sezione palermitana dell’ANI. La guerra avrebbe decimato gran parte di quel primo gruppo di nazionalisti palermitani. Si trattava, infatti, per lo più, di giovani o giovanissimi, che vennero presto richiamati alle armi. La loro partecipazione alle operazioni belliche fu vissuta con estrema intensità e numerosi furono gli esponenti del movimento che lasciarono la vita sul campo di battaglia.
L’impegno di Borgese in quei mesi si era stato fortemente indirizzato nel solco della battaglia interventista. Ma il giovane avvocato si andava distinguendo anche per l’impegno profuso nell’attività di consigliere comunale. Gli atti consiliari testimoniano tale impegno che si concretizzava in interventi, interrogazioni, ordini del giorno per sollecitare "il sindaco Tagliavia ad intervenire più energicamente contro il rialzo dei prezzi alimentari e per la moralizzazione di alcuni settori dell’amministrazione"(120).
Ora, dopo l’entrata in guerra, Borgese non intendeva tirarsi indietro e quasi si precipitò al fronte. Nella seduta del 21 maggio 1915, "il cons. Genuardi manda un saluto augurale al collega Borgese, che trovasi alle frontiere a difesa delle giuste e sante aspirazioni della Patria"(121). Borgese sarebbe rientrato in città sul finire dell’anno. In Consiglio, rispondendo al saluto del sindaco, disse di essere "lieto di aver compiuto il suo dovere. Desidera che il Consiglio mandi un saluto ai soldati, e specialmente ai siciliani che si sono distinti e che ha visto combattere con coraggio e serenità da eroi: fatica, pericoli, sacrifici, tutto essi affrontano, egli dice, con sublime fermezza d’animo, e vanno incontro alla morte senza nessuna titubanza"(122). Rientrato in città Borgese riprese la sua attività politica, narrando la vita nelle trincee, sottolineando l’eroismo dei nostri soldati ed incitando alla solidarietà popolare con l’esercito, nel corso di alcune conferenze tenute ora al Circolo di Cultura(123), ora all’Università Popolare(124), ora al teatro Olympia(125), intervenendo con assiduità alle sedute del consiglio comunale(126).
Nel frattempo premeva sulle autorità per poter tornare sul teatro delle operazioni. Riuscito nel suo scopo, trovò la morte in Trentino il 13 giugno 1916(127). Aveva 32 anni. "Giovanni Borgese - scrisse L’Ora - allo scoppio della guerra, richiamato venne assegnato al Deposito di uno dei reggimenti della città. Ma egli, che era stato uno dei fautori più convinti della necessità del nostro intervento, volle essere mandato al fronte. E difatti nell’aprile dell’anno scorso fino alla metà dell’inverno egli fu nella Conca di Piezzo, tenente del 6° Fanteria. Mandato insieme a tanti altri in congedo col grado di capitano, avendo manifestato, in questo scorso maggio, alla formazione del nuovo battaglione, l’idea di essere richiamato in servizio, dietro sua domanda, fu incorporato nel Reggimento 69 e inviato in Trentino nei primi del mese corrente. Nel pomeriggio del 13, mentre egli era in una trincea di primissima linea, fu colpito al capo da una scheggia di granata che l’uccise"(128). Ad accorrere immediatamente per ricomporre la salma dell’amico, giungeva Guido Jung. La città partecipò al lutto in modo corale. "Una di quelle notizie che spezzano l’animo. (…) - scriveva F.P. Mulé - Tornò dalla guerra per la prima volta, e tutti a Palermo lo vedemmo fiero del suo grado di capitano di fanteria. Ed anche in questi giorni, che per lui dovevano essere di riposo, volle dare qualcosa di sé alla Patria; sui campi di battaglia, il suo ardimento e il suo sangue; qui in licenza, il suo ingegno e la sua parola"(129). Borgese fu commemorato al Tribunale militare(130) ed in consiglio comunale(131).
Moriva così, immolando la sua giovane vita ai suoi valori nazionalisti ed alla sua prima passione politica, l’irredentismo, la liberazione degli italiani rimasti sotto dominio asburgico, il completamento del processo unitario nazionale, il maggiore leader della Destra Nazionale dell’anteguerra in Sicilia. In pochi anni aveva vissuto intensamente una vita dedita ai valori patriottici, tentando di organizzare e dar voce alle aspirazioni di quella giovane generazione di palermitani che guardava all’impegno politico come passione e slancio, ma anche come intelligente elaborazione di un percorso in linea con le evoluzioni e le tendenze originali della cultura, della politica e della società della Sicilia e dell’Italia del primo Novecento.
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