"Aggiornamenti sociali", mensile:
G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira profeta di speranza, n. 1 , gennaio 2000, pp. 67-78;
A. LA SPINA, Credito, società moderna, sviluppo del Mezzogiorno, n. 4 , aprile 2000, pp. 332-345.
"ho theológos", rivista della Facoltà Teologica di Sicilia:
S. DI CRISTINA, L’uso dei Padri della Chiesa in Nunzio Russo, n. 2, 2000, pp. 209-228;
G. ROSSI, Le cappuccine in Sicilia (1717-1963), n. 2, 2000, pp. 229-254.
"Labor", rivista trimestrale di cultura e attualità:
F. RUSSO, Emanuele Sinagra laico della Chiesa palermitana, n. 3, luglio-settembre 2000, pp. 164-170;
F. RUSSO, Il monito dei laici cattolici siciliani del ‘900, n. 4, ottobre-dicembre 2000, pp. 210-216.
"La Civiltà Cattolica", quindicinale:
M. SIMONE, Il rapporto 2000 della SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno, q. 3606, vol. III, 16 settembre 2000, pp. 528-537.
"Micro Mega", rivista bimestrale:
G. C. CASELLI, Libertà o mafia? n. 1, 2000, pp. 27-38;
A. INGROIA, Corpus juris antimafia, n. 1, 2000, pp. 49-56.
"Notiziario", Rassegna a diffusione interna, Centro Studi sulla Cooperazione "A. Cammarata", San Cataldo (Caltanissetta):
F. BONINI, I cappuccini nella storia di Sicilia: una funzione di "mediazione", n. 43, dicembre 2000, pp. 28-33;
L. BONTÀ, Titolature dei luoghi di culto dell’area nissena nel Cinquecento,n. 37, gennaio 2000, pp. 5-20;
L. BONTÀ, Eremiti e santuari nel Nisseno, n. 38, marzo 2000, pp. 45-49;
C. CARGNONI, Una figura di santità nell’area agrigentino-nissena, n. 42, novembre 2000, pp. 43-56;
F. DELL’UTRI, Il Crocifisso a Caltanissetta, n. 37, gennaio 2000, pp. 21-26;
R. MANGIAMELI, Ruffini, la Sicilia e la democrazia, n. 42, novembre 2000, pp. 36-42;
S. MARTELLI, Un pellegrinaggio annuale nella Sicilia centrale, n. 38, marzo 2000, pp. 37-44;
V. PERI, Giorgio La Pira. Dalla Sicilia al mondo, n. 39, maggio 2000, pp. 6-29;
C. PERI, I cappuccini di Sicilia e il Vaticano II, n. 43, dicembre 2000, pp. 34-43;
M. PILATO, San Cataldo dalla fondazione alla prima metà del sec. XVIII, n. 39, maggio 2000, pp. 30-57;
D. VENERUSO, La "conversione" di Giorgio La Pira nel quadro culturale degli anni Venti, n. 38, marzo 2000, pp. 5-17.
"Notiziario", rassegna a diffusione interna del Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia della Facoltà teologica di Sicilia:
F. BURGARELLA, La Chiesa di Sicilia alla vigilia della conquista normanna, n. 1, maggio 2000, pp. 82-94;
F. CARDINI, La Sicilia e la sua storia: la formazione di una identità, n. 1, maggio 2000, pp. 23-33;
C. CAPIZZI, Presenza bizantina in Sicilia, n. 1, maggio 2000, pp. 56-81;
F. MALGERI, Chiesa e Stato in Sicilia 1848-49, n. 1, maggio 2000, pp. 42-55.
"Segno", mensile:
N. ANASTASI, Sud e Sicilia: luci e ombre nel voto del sedici aprile, n. 214/215, aprile-maggio 2000, pp. 7-10;
F. ARMAO, Perché la mafia funziona, n. 214/215, aprile-maggio 2000, 45-49;
M. BENFANTE, Lamento per la morte di Placido Rizzotto, n. 219, ottobre-novembre 2000, pp. 33-35;
F. P. CASTIGLIONE, L’usura in Sicilia nell’800 e ‘900, n. 212, febbraio 2000, pp. 79-94;
M. CENTORRINO, Riciclaggio: stime incerte e rischio Sicilia, n. 212 febbraio 2000, pp. 57-60;
M. e M. CENTORRINO, Vocabolario siciliano, n. 219, ottobre-novembre 2000, pp. 5-22;
M. CENTORRINO, Poveri e povertà in Sicilia, n. 220, dicembre 2000, pp. 39-43;
DINO, Invisibilità e presenza di Cosa nostra, n. 217/218, agosto-settembre 2000, pp. 5-28;
T. GULLO, Un inventario di poveri e povertà a Palermo, n. 212, febbraio 2000, pp. 51-56;
G. LO FORTE, La restaurazione di Cosa nostra, n. 214/215, aprile-maggio 2000, pp. 38-45;
E. MINGIONE, Povertà ed esclusione nel Mezzogiorno, n. 220, dicembre 2000, pp. 55-59.
"Stato e Mercato", mensile:
R. SCIARRONE, I sentieri dello sviluppo all’incrocio delle reti mafiose, n. 59, agosto 2000, pp. 271-301;
G. VIESTI, Perché le regioni crescono? Sviluppo locale e distretti industriali nel Mezzogiorno, n. 59, agosto 2000, pp. 239-270.
"Studi cattolici", mensile:
F. M. AGNOLI, La "clemenza" di Ferdinando IV, n. 470, aprile 2000, pp. 280-282.
AA. VV., La Legazia Apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, a cura di Salvatore Vacca, presentazione di Cataldo Naro, Caltanissetta - Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, pp. 302.
Il volume inaugura una nuova collana di studi dedicati alla storia e alla cultura siciliana e raccoglie le relazioni del Convegno organizzato dal Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia della Facoltà Teologica di Sicilia, tenuto il 30-31 ottobre 1998 a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo.
Argomento del seminario: la storia della Legazia Apostolica, istituto giuridico inaugurato dalla bolla Quia propter prudentiam tuam di Urbano II, con la quale, nel 1098, il conte Ruggero diventava "legato nato" della Chiesa romana come ricompensa per avere liberato la Sicilia dagli Arabi e averla restituita alla cristianità. Nel corso dei secoli quella prerogativa fu sottoposta a restrizioni, annullamenti, reintegrazioni offrendo spesso l’occasione a dispute più o meno violente come quella del 1711 nota come controversia liparitana diventata, nel nostro tempo, tema di un famoso libro di Leonardo Sciascia.
Il monarca siciliano, in quanto legato nato, aveva ampi poteri di governo espressi nella formula Regia monarchia sicula che comprendeva, oltre al diritto temporale, anche quello ecclesiastico.
Relatori degli otto contributi, di cui consta il volume, sono, secondo l’ordine degli interventi: Salvatore Fodale, Salvatore Vacca, Ferdinando Maurici, Leo De Simone, Gaetano Zito, Adolfo Longhitano, Rino La Delfa, Francesco Michele Stabile. Trattasi di docenti dell’Università di Palermo, della Facoltà Teologica di Sicilia e dello Studio teologico San Paolo di Catania, i cui lavori hanno il merito di aver segnalato una nuova e importante documentazione che permette di approfondire il tema della Legazia Apostolica e di affrontarlo in una prospettiva innovativa.
Salvatore Fodale sottolinea come lo storico che affronta lo studio della Legazia Apostolica in Sicilia si ritrova a percorrere l’intera storia della politica ecclesiastica isolana poiché gli istituti del giurisdizionalismo siciliano furono assorbiti dalla Regia Monarchia e presentati come corollari del potere di Legazia. Egli si esprime per un ridimensionamento del privilegio concesso nel 1098 sostenendo che "l’autorità del conte sulla Chiesa si giustificava per se stessa, a prescindere dal riconoscimento ottenuto dalla Sede apostolica".
Salvatore Vacca, nel suo intervento, offre una "visione d’insieme di un tema le cui indicazioni ed informazioni generali e particolari, su fatti e momenti, uomini ed eventi collegati tra di loro sono già molto noti" (p. 23), ma che, con l’analisi delle fonti – normanne, sveve, romane filonormanne, filosveve e filoromane - permette di rivisitare criticamente quelle stesse fonti spesso scarse, ambigue, parziali e discordanti. Vacca afferma che i normanni si rivelano vassalli del papato, ma la loro forma di vassallaggio "non prevede beneficio e, pur da posizioni inferiori, sono in condizione di imporsi sempre al loro dominus" (p. 63). I sovrani siciliani, cioè, da una parte hanno appoggiato il papato, dall’altra furono vassalli "indomabili, molto più potenti del loro signore, il papa, e poco scrupolosi nell’impiegare i mezzi di pressione politica e militare" (ibidem).
Ferdinando Maurici traccia la storia delle diocesi siciliane nei secoli XI e XII sottolineando come nel corso di poco meno di due secoli (dal 1061 al 1246) la Sicilia si fosse trasformata da provincia periferica del dar al-Islam in "terra cristiana e cattolica, neolatina, occidentale" (p. 85). Il vescovado di Troina viene fondato durante la conquista normanna; e fu da Troina, da San Marco, da Petralia che partì "l’avanzata normanna verso i valli profondamente islamizzati dell’isola".
Leo De Simone, nel suo contributo, si occupa dell’arte normanna in Sicilia come proiezione simbolica di modelli politico-teologici. Egli si serve di alcune significative "esemplificazioni che interagendo tra loro potranno costituire griglia ermeneutica utilizzabile per la corretta lettura […] di ogni reperto nella significazione linguistica del discorso fluente delle arti, in genere, e nella fattispecie durante il periodo normanno, e nel loro confluire simbolico verso l’unità significativa di senso impressa al discorso stesso nel progetto culturale e/o ideologico da cui esso è sfociato come simbolo" (p. 89).
Gaetano Zito analizza la storia della Legazia Apostolica nel Cinquecento partendo dai Capibrevi (1598) di Giovan Luca Barberi che costituirono fonte autorevole e imprescindibile per dirimere tutte le questioni inerenti al diritto ecclesiastico per la Sicilia. Zito ritiene che la Legazia apostolica e la Regia Monarchia assurgono a filo rosso "che annoda la storia dell’isola per tre secoli ne offre una interessante e feconda chiave di comprensione" (p. 166); il sovrano di Sicilia, di qualsiasi dinastia, afferma il relatore, non pensava di rinunziare ad una forma peculiare di giurisdizione in ambito ecclesiastico "che lo rendeva unico nella cristianità e che gli era stata servita, gli veniva chiesta e giustificata proprio dai fedeli sudditi siciliani" (ibidem).
Adolfo Longhitano studia il ruolo avuto dal Tribunale della Regia Monarchia nel governo delle Chiese siciliane e nelle controversie giurisdizionaliste del ‘700. Il monarca, in quanto legato nato poteva "presentare i vescovi al papa per la nomina, esercitare i diritto di regio patronato sulle diocesi e sui beni, subordinare la validità dei provvedimenti pontifici al regio exequatur, esercitare il diritto di spoglio alla mano morta dei vescovi" (p. 167). Il Tribunale della Regia Monarchia era costituito da una magistratura unica. Nel ‘700 il giudice esercitava una potestà giudiziaria ed esecutiva; giudicava gli ecclesiastici esenti (che erano direttamente soggetti alla giurisdizione della Santa Sede), i reati commessi dai religiosi fuori dal chiostro; poteva avocare a sé qualsiasi causa ecclesiastica di competenza degli ordinari e trattare in appello i giudizi svolti dinanzi ai tribunali ecclesiastici delle diocesi siciliane. In base alla potestà esecutiva il giudice, invece, poteva rendere inefficace qualsiasi provvedimento preso dalle autorità ecclesiastiche, vigilare sulla disciplina monastica, assolvere coloro che fossero incorsi in censure ecclesiastiche e dichiarare nulle le scomuniche.
Rino La Delfa coglie gli influssi francesi e, in particolare, la teologia francese di stampo giansenista e gallicana, nella riflessione ecclesiologica siciliana al termine dell’età moderna. L’autore sottolinea come tali influssi abbiano trovato spazio in alcuni autori siciliani che se ne servirono per dare "sostanza teologica alle loro istanze regaliste, senza assumere quelle accentuazioni politico-religiose riscontrabili in alcune e non in tutte le posizioni gallicane d’oltralpe" (p. 213). Egli si sofferma soprattutto sull’impostazione regalista del palermitano Stefano Di Chiara, canonico della Cattedrale e professore di diritto canonico e su quella gallicana di Paolo Filippone, professore di teologia dogmatica, vescovo e giudice di monarchia.
Chiude il volume Francesco Michele Stabile con una attenta analisi della Legazia apostolica nell’Ottocento cioè nel periodo in cui si assiste alla sua crisi e alla sua dissoluzione. Nel dicembre del 1860 Vittorio Emanuele, sotto l’influsso del ministro di grazia e giustizia Cassinis, di estrazione giurisdizionalista, promise a Palermo di mantenere "salve quelle antiche prerogative". Ma la rivoluzione del 1860 e la nuova situazione politica spinsero il papa a convocare una commissione prelatizia presieduta dal cardinale Caterini, prefetto della congregazione del Concilio, con il compito di studiare la documentazione sul Tribunale di Monarchia. La proposta della Congregazione fu l’abolizione definitiva del Tribunale di Monarchia mentre la Legazia scomparve con l’approvazione della legge delle Guarentigie del 1871 (art. 15) che segnò la fine del clero liberale giurisdizionalista. E fu così che "l’ultimo privilegio medievale, frutto di una concezione ecclesiologica che vedeva nel potere del re un ministero ecclesiale", alla vigilia del Concilio Vaticano I, tramontò per sempre.
Claudia Giurintano
M. T. FALZONE, Da questo vi riconosceranno. Chiesa e poveri in Sicilia in età contemporanea, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, pp. 283.
Il libro riprende le lezioni tenute a Palermo nell’Anno Accademico 1998/99 presso la Facoltà Teologica di Sicilia nell’ambito della Cattedra di Storia del Cristianesimo in Sicilia. Obiettivo del saggio è rilevare quanto la Chiesa di Sicilia abbia operato a servizio dei poveri nell’età contemporanea. Se, scrive l’autrice, la storia della carità della Chiesa siciliana non sembra discostarsi dal resto d’Italia, è pure vero che nell’Isola essa ha registrato alcuni ritardi che l’hanno diversificata anche per alcune vicende storiche come l’istituzione giuridica della Legazia Apostolica e il legame con Napoli durante il governo borbonico.
Il volume si apre con un excursus storico della carità della Chiesa di Sicilia dalle origini del cristianesimo al Settecento per continuare poi nello studio della normativa assistenziale nel periodo borbonico dal 1734, con Carlo III di Borbone, fino all’Unità d’Italia. Caduta la monarchia borbonica si assiste a un mutamento non solo in campo politico, ma anche in ambito ecclesiale, poiché nel quadro della "questione meridionale" che vide acuirsi il problema della povertà del Sud, la Chiesa "divenuta povera essa stessa […] ispirandosi alle motivazioni evangeliche, intraprese nuovi modi e nuovi canali di espressione" (p. 67).
Dopo il 1860, si registrano cambiamenti qualitativi e quantitativi "nelle strutture e negli agenti della pastorale, negli operatori e negli apostoli di carità" (p. 8). Nel secondo Ottocento molte sono le figure di "apostoli di carità" che non solo danno vita a istituti religiosi ma che avvertono l’esigenza di condividere le sorti della popolazione povera. E’ il caso del vescovo di Catania Giuseppe Benedetto Dusmet, di Giacomo Cusmano a Palermo, del cardinale Giuseppe Guarino e di Annibale Maria Di Francia a Messina.
Negli anni Novanta del XIX secolo, la Chiesa, dinanzi ai Fasci siciliani, tenta con i contadini un confronto diverso dai precedenti interventi paternalistici e tendenti a conciliare le tensioni tra ricchi e poveri. E’ in questi anni che si assiste al decollo del movimento cattolico sociale in Sicilia con i vescovi "leoniani" e i preti e laici "sociali". Il periodo fascista segna alcuni sviluppi legislativi nei confronti della assistenza anche se la situazione economica siciliana non subisce grandi miglioramenti come pure la carità della Chiesa che "non riesce a promuovere una cultura nuova nel campo dell’attenzione ai poveri" (p. 155).
Nell’immediato secondo dopoguerra l’attività caritativa della Chiesa vive un’epoca nuova, poiché essa si mette al passo con la modernità anche se permangono vecchie retroguardie. Solo con il post-Concilio la Chiesa si fa più attenta al tema del confronto con i poveri e con la povertà. La Chiesa ha progressivamente indicato le linee della sua riflessione sulla carità "con la proposta della prassi ecclesiale: la comunità cristiana vista come soggetto di carità, nelle sue tre dimensioni essenziali, Parola, liturgia, testimonianza; la collocazione della pastorale della carità dentro la pastorale organica; la testimonianza della carità quale via privilegiata della nuova evangelizzazione; il dovere di coniugare la carità con la giustizia e la mondialità come respiro della nuova evangelizzazione" (p. 203). E nell’isola, il clima della Chiesa post-conciliare - anche se connotato da una "sicilianità" che non appare "esente da fenomeni di violenza, da contrasti e da ritardi" - fa sempre più emergere una decisa ansia di riscatto e di benessere.
Claudia Giurintano
G. MARRONE, Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna, Palumbo, Palermo 2000, pp. 263.
Non è opera di primo impianto questa Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna, che Giovanni Marrone propone a servizio degli studi e ad arricchimento della storiografia patria, ma anche ad erudito diletto delle persone colte; è nuova edizione di un testo venuto alla luce cinque anni prima, al quale l’Autore, mantenendone sostanzialmente immutati struttura e contenuto, aggiunge oggi il frutto di ulteriori ricerche d’archivio che gli hanno consentito di ampliare il quadro, "per molti aspetti allucinante", della condizione carceraria lungo il corso del Cinque e Seicento e di arricchirlo anche di curiosi episodi.
Quasi inconcepibili, per via dello stato disastroso delle strutture carcerarie e per l’orrore dei sistemi detentivi del tempo, le condizioni di vita nelle prigioni della Sicilia, e perciò – per quel che il libro al riguardo rivela – illuminante quest’opera; ma non solo per questo, come non solo per i risultati del fecondo scavo condotto nei depositi della Sicilia e di Spagna, che hanno offerto all’Autore materia per la sua intensa descrizione della realtà carceraria, è parimenti sconvolgente il generale quadro sociale del tempo, ché l’intera prospettiva della storia criminale dell’isola in quei primi secoli dell’età moderna emerge dal libro densa di devastante consistenza.
Studioso attento e personalità umbràtile e schiva, Marrone convive con la sua produzione storiografica una sorta di comunanza strategica, in cui ritmi biologici e materiale esternazione letteraria hanno le medesime pulsioni, condividono una vicenda sobria e severa. Questa condizione di intellettuale appartato e temperante, poco propenso alla esposizione di se stesso oltre quel che gli è imposto dagli obblighi del suo insegnamento di Storia moderna nella Facoltà di lettere dell’Università di Palermo, si riflette nel suo mestiere di autore, professato con vigile continenza, ma anche con sorvegliata e proba passione, sì che ogni suo libro ha la misura di un traguardo conseguito al termine di un lungo e accarezzato sodalizio con la materia della propria trattazione: è così che l’indagine e lo studio si fanno riflessione, costruzione storica, narrazione, e il tempo della memoria ritorna vivido in limpide esposizioni che si offrono al lettore esemplari nella qualità raffinata della struttura e della trattazione; vi è, insomma, il gusto e la piacevolezza del discorrer di storia, dell’asservire il rigoroso impianto filologico e critico che regge la trattazione al piacere di narrare nella sua opera storiografica.
Una tale condizione, nella quale il Ranke addita l’essenza più vera, non solo stilistica, della migliore storiografia, emerge intera dalla sua pubblicistica, aristocraticamente rarefatta, come dicevamo, quasi che l’Autore volesse, con la rappresentazione della propria stessa temperanza, ammonire del lungo rapporto di sentimentale confidenza e del serio e meditato lavoro da cui ha gestazione ogni sua opera. E infatti l’intera produzione dell’ultimo trentennio – La schiavitù nella società siciliana dell’età moderna (1973), L’economia siciliana e le finanze spagnole nel Seicento (1976), Giuseppe La Farina storico e pubblicista (1981), qualche lavoro sul Villabianca (1988) e questo libro infine che oggi annotiamo -, ancorché talora di ostica e algida materia (si pensi alle finanze del Viceregno spagnolo), ha sempre, nei modi con cui è condotto il discorso storico, i ritmi e i colori di una valente misura letteraria conferita all’austero esercizio della scienza, o cioè della Storia. Può darsi che in questo sia da vedere il segno, in verità sempre orgogliosamente e amorosamente professato, di una magistrale scuola.
Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna dischiude, dunque, il sipario su una terra che, lasciatesi alle spalle già da vari decenni le dense caligini di un Medioevo colmo di tutte le contraddizioni politiche e sociali e le violenze e la barbarie dei tempi, si ritrova ancora a dover fare i conti con le corrotte scorie trasmessele in fosco retaggio da quel mondo morto, che in realtà o in molte delle realtà dei nuovi tempi, adattandosi ai mutati schemi politici e istituzionali, sopravvive con tutte le sue tensioni e le sue nequizie in costumanze e rapporti sociali rimasti pressoché immutati.
In effetti, proprio da quella società medievale in disgregazione, che dagli anni del Vespro all’età di Alfonso d’Aragona, per lo spazio d’oltre un secolo ha vissuto una lunga e cruenta fase di anarchia, attraversata dall’alterna arroganza e dalle belluine imprese di una feudalità potente e arrogante che per troppo tempo ha stremato l’isola e la ha avvinta in una condizione di autentica agonia civile e di immiserimento sociale, prende le mosse il libro. Del resto, non potrebbe intendersi il fenomeno criminoso – il dilagare della delinquenza urbana, la piaga del fuoruscitismo e del brigantaggio in ambiente rurale, la gestione organizzata della violenza privata – senza aver riguardo alle sue radici storiche, a quella lunga crisi del diritto e dello Stato che per l’intero corso del Trecento e parte del Quattrocento fu vicenda speculare a quel complesso impasto di strapotere delle classi egemoni, di arbìtri signorili, di accrescimento dei livelli di pauperismo, e per conseguenza a quei vasti episodi di disperata fuga dalle situazioni di bisogno e di ricerca dei mezzi di sussistenza, che si concretizzò appunto nel ricorso alle attività del crimine.
Non fu fenomeno sporadico, né – quel ch’è più – appartenne solo alle turbe di diseredati datisi al delitto e alle grassazioni per vivere, ché – rileva Marrone – il brigantaggio venne a costituire "l’attività più produttiva di molti signori, titolari di uffici in taluni delicati settori dell’amministrazione, come la capitania e la castellania".
Conclusasi col ristabilimento – talora poco più che apparente, in verità – dell’autorità dello Stato la lunga fase di anarchia baronale, l’eredità del passato sopravvisse nei comportamenti successivi, sì che, sia che fossero comitive autogestite di masnadieri a esercitare il crimine nelle campagne e persino spesso a tenere quasi in stato di assedio paesi e città, sia che nelle terre feudali fossero bande organizzate in funzione di milizia del signore ad operare violenze ed arbìtri privati, in una sorta di reità legalizzata e comunque impunita, la criminalità, rinsanguata da sempre nuovi reclutamenti, fu fenomeno endemico e pressoché connaturato alle condizioni sociali e alla struttura di potere nella Sicilia del Cinque e Seicento.
Non di rado le bande, soprattutto quando numerose e potenti, vissero una sorta di tolleranza pattizia nelle terre feudali, quando addirittura non stabilirono – come si è accennato – rapporti di complicità o di servizio con organi di istituzioni permeate dall’illegalità: il bandito veniva così a inserirsi in un contesto di cooperazione col ceto dominante o con gli organi dello Stato, che gli assicurava da un canto libertà di manovra e l’impunità dei suoi misfatti e dall’altro gli procacciava materiali benefici nella funzione di braccio armato al servizio di potentati locali.
Se anche, a volte, non mancò alle strutture dello Stato di concretizzare in reazione taluni provvedimenti coercitivi, questi non sortirono duraturo risultato, quando addirittura non ebbero a rivelarsi produttivi di negativi effetti: fu il caso delle "compagnie d’arme", istituite nel 1543, ai tempi di Carlo V, come polizia di campagna al comando di un "capitano d’arme", di cui già venti anni più tardi doveva il parlamento invocare la soppressione, tante furono le prepotenze e le malversazioni di cui queste squadracce si rendevano autrici. Furono un autentico flagello, rileva Marrone, che poi, venendo a dire di uno di questi masnadieri, tale Mario de Tomasi, e avvalendosi delle carte del processo celebrato nel 1583 contro di lui rintracciate nell’Archivio di Simancas e riprodotte in appendice al testo, ne ricostruisce l’"esemplare carriera", rilevandone l’alto livello di efferatezza nel criminoso esercizio di una giurisdizione costellata di delitti: e tuttavia un tale individuo non si ebbe alla fine che una clemente condanna alla inabilitazione perpetua.
A debellare la rigogliosa pianta del banditismo non valse nemmeno la spietata azione repressiva del viceré D’Ossuna, un governante di gran tempra, che, già all’arrivo in Sicilia, nel 1611, ebbe subito l’impatto con quella realtà a Messina, "dove trovò una popolazione in preda alla paura, praticamente sequestrata dalla criminalità dilagante, dove nessuno era più signore né del suo patrimonio né della sua casa, e la maggior parte dei mercanti fuggiti per le continue estorsioni e i furti subiti". Se andò bene per alcun tempo, quando più tardi lasciò il governo dell’isola per passare a Napoli, la Sicilia tornò tosto preda del banditismo, poiché – osserva acutamente l’Autore – se pur vigorosa era stata l’azione di questo governante, essa tuttavia recava in sé il germe della caducità, in quanto inalterato restava il contesto sociale da cui traeva origine il fenomeno della criminalità. Quel fenomeno presentava già, a inizio del Seicento (ma non solo da allora) una composizione dualistica: da un canto, forte e ben protetto nelle campagne, v’era il banditismo, articolato in numerose comitive armate, esercenti una strategia autonoma, ma in molti casi operanti quali braccio armato della criminalità organizzata; dall’altro appunto quest’ultima, "coi suoi vertici e il suo centro operativo nelle città demaniali, in quelle feudali, in molti luoghi religiosi", sorta di "mafia" ante litteram. Così l’espianto dell’idra funesta doveva rilevarsi irrealizzabile obiettivo.
Erano la stessa struttura della società siciliana, le carenze istituzionali, l’organizzazione economica della proprietà fondiaria a rendere impervia la strada della repressione: il brigantaggio sempre meno era esercizio di categorie marginali di disperati (non fanno storia i modesti ladroni di passo) e sempre più fu risorsa di gruppi "professionali", forti e ben diretti, costituiti da uomini decisi che nel fuoruscitismo trovavano il proprio tornaconto. Per queste bande gli sterminati latifondi dell’isola costituivano sicuro rifugio, allo stesso tempo in cui, per via del sempre più vasto ricorso da parte dei proprietari terrieri al regime del campierato per il controllo della sicurezza, un’altra categoria di malfattori veniva a prender posto nella patologia del crimine: e, infatti, i campieri, strumenti di un dominio illegale legalizzato, non mancarono all’occasione di porre in essere un’opera di autentica spoliazione nei confronti dei borgesi, protetti da una subdola rete di complicità e di amicizie.
Il fatto è, come si è detto, che in una Sicilia erede di un regime di anarchia fomentato dal ricatto feudale, alimentato dai ripetuti governi di fazioni, preda delle violenze e dell’arbitrio, educata allo spirito di sopraffazione (quello stesso che in varia maniera ancor oggi, purtroppo, continua ad allignare), povera e diseredata, il potere criminale aveva gettato profonde radici, innestandosi quale componente ineluttabile e tracotante nelle costumanze e nella struttura sociale di questa povera terra; ed ebbe manifestazioni atroci e di inaudita violenza. Mancò ogni rilievo di pietà nei fatti della criminalità siciliana, ogni aura di romanticismo nelle attività del brigantaggio siciliano del XVI e XVII secolo.
L’azione repressiva fu sempre incerta, ambigua, molte volte efferata non meno che il fenomeno che perseguiva o intendeva perseguire, scarsamente pedagogica e, come si è detto, di effimero esito. Appartiene a un tale contesto il quadro che l’Autore disegna della realtà carceraria del tempo: ed è analisi acre e impietosa di una condizione senza luce, documentata con acuta acribia, ma anche con commosso sentire, attraverso l’escussione di una fitta documentazione d’archivio e il racconto di molteplici episodi, dai quali i torti del sistema – farraginosa lunghezza ed arbitrio dei procedimenti, fatti di corruzione e di odioso sopruso, orrore delle segregazioni in spaventosi dammusi, disumano trattamento dei reclusi e così via – emergono a comporre lo scenario di una drammatica e miserevole realtà. Né a siffatte condizioni si sarebbe avuta prossima la soluzione, "ché anzi – è l’amara conclusione di questo bel libro – per molti aspetti e per ragioni di natura sociale ed economica, esse si sarebbero aggravate sempre di più".
Salvo Di Matteo
S. Di Matteo, Almanacco siciliano 2001, con un testo di Bruno Caruso, Kalós, Palermo 2000, pp. 177.
Remota è la tradizione degli almanacchi. Ne ebbero i Greci e i Romani, che li chiamavano Annales e Fasti ed erano, per la verità, qualcosa di non troppo dissimile dai successivi calendari e annuari; nel Medioevo recarono soprattutto notizie astronomiche; più tardi ancora, predizioni astrologiche, notizie su papi e re e principi, consigli di medicina, informazioni sui lavori dei campi, aneddoti e facezie; l’invenzione della stampa e la curiosità creatasi intorno a questo tipo di pubblicazioni ne favorì la diffusione. Il salto, tuttavia ancora incerto, verso l’almanacco letterario – che è tipico di questo genere – si fece nel Seicento, allorché vi si inserirono racconti, poesie, piccole illustrazioni, notizie sui santi: caratteristico l’Almanach de Liège, nato nel 1636.
Nel pieno Settecento i contenuti si perfezionarono, si affinarono, e col parigino Almanach des Muses (1765-1833), nel quale il calendario già veniva a costituire la parte meno rilevante a confronto della ricca antologia di racconti, di liriche, di notizie storiche e di Corte che vi era contenuta, la fortuna dell’almanacco esplose fulminea, dilagò per l’Europa; già cinque anni più tardi nella severa Germania lo imitò il Musen-Almanach, cui collaborarono con poesie nientemeno che Klopstock e Goethe; così in altri Stati, e fin nella Danimarca: fu un’autentica moda, una mania, che proseguì costante per tutta l’epoca romantica.
E in Sicilia? Qui tipico almanacco del tempo fu il Notiziario di Corte, che nel tardo Settecento, per vari anni, il dottissimo Rosario Gregorio compilò per incarico del Governo, e vi scrisse gustose e dotte divagazioni storiche e curiosità erudite; altri ve ne furono più tardi, di carattere popolare.
Il successo generò la specializzazione, e già nel primo Ottocento l’almanacco cominciò a proporsi quale repertorio di notizie utili in vari campi della cultura o della scienza o dell’arte o delle attività umane, o anche come zibaldone di conoscenze divulgative in tema di storia, di geografia, di costume o di testi narrativi di dilettevole lettura.
Tali contenuti, che ne facevano una autentica enciclopedia popolare, ebbe per l’appunto il fortunatissimo Almanacco italiano (1896), che per quasi l’intero primo quarantennio del Novecento pubblicò la Casa editrice Bemporad, affiancandogli nel 1920 l’Almanacco della donna italiana, folto di storie di donne illustri, di una pingue rassegna letteraria, di notizie mondane, di biografie esemplari di dame dell’alta società; per chi voleva più dotte divagazioni c’era l’Almanacco letterario Bompiani, ancor oggi reperibile nel mercato antiquario. Negli ultimi tempi, la rinata moda dell’almanacco tende a farne un’agenda con un repertorio di minute informazioni pratiche rigorosamente collegate ai giorni del calendario.
Questo è, in fondo, nelle ragioni dell’almanacco: accompagnare l’anno a venire con una congerie di letture a volta a volta amene, utili, istruttive, gravi o giocose, che valgano da rapido ammaestramento nelle minute incombenze della quotidianità o da arricchimento della cultura o da spensierata divagazione: letture, insomma, non moleste, dilettevoli. E in una tale ottica, appunto, si pone questo leggiadro e forbito Almanacco siciliano. La Sicilia, del resto, è miniera preziosa e inesauribile, mirifica e stimolante di materiali della cultura nei campi della storia, dell’arte, delle tradizioni, delle lettere, dell’archeologia, delle scienze naturali, sì da offrire abbondanti spunti a uno studioso come Salvo Di Matteo.
Ne è venuto fuori un divertissement erudito e arguto, forse senza precedenti. Qui dodici storie, una per ogni mese dell’anno, si svolgono lungo un ampio arco cronologico (dalla fine del V secolo a. C. alla costruzione del ponte di Messina, che l’Autore, con sottile finzione, attesta essere avvenuta proprio nell’anno 2001), narrate con levità e squisitezza di scrittura, a divulgare una serie di straordinarie "verità" storiche, alcune delle quali talmente strabilianti da apparire impossibili; ma il giuoco letterario è così sottile e sì abilmente condotto, e tale è il potere dell’adescamento, sì perfetto l’incastro fra elementi dell’invenzione e reale consistenza degli eventi e dei personaggi (o di alcuni di essi) collocati in precisi contesti storici, che il lettore ne resta intrigato, tanto più che l’Autore, aduso alle antiche carte degli Archivi e delle Biblioteche, dichiara le proprie fonti documentarie o storiografiche e assevera la propria verità con precisi riferimenti. Fra le narrazioni, la vicenda della bellissima Laide di Iccara, il segreto dell’arte idraulica degli Arabi, la fine di Cola Pesce, la "boccaccesca" avventura siciliana di Boccaccio, il ritrovamento di uno scheletro di gigantessa preistorica, il terremoto di Noto, la prima emersione dell’isola Ferdinandea, le malefatte del mandarino ospite nel palazzo reale di Palermo, la cronaca dello sbarco angloamericano in Sicilia, e appunto la poetica parabola intorno alla costruzione del ponte di Messina; una bella testimonianza di Bruno Caruso ("Il chiodo fisso") conclude l’opera.
A corredo delle narrazioni storiche, una serie di cronologie, queste rigorosamente esatte (un autentico perfido artificio diretto a meglio accreditare la frode storiografica dell’Autore), enuncia gli eventi che hanno caratterizzato i tempi nei quali si collocano gli avvenimenti descritti; e, messe insieme, costituiscono, per frammenti, una sorta di storia annalistica della Sicilia.
Terzo polo di interesse è, in questo almanacco, una fitta serie di biografie, criticamente commentate, degli insigni siciliani che hanno caratterizzato la temperie culturale e l’ambiente umano dei decenni nei quali si inquadrano le singole storie: eruditi, artisti, architetti, poeti, letterati, scienziati, santi, uomini politici (anche i greco-siculi e gli arabi di Sicilia, a non dire dei personaggi a noi più prossimi) emergono nitidi nella loro immagine e nelle loro opere in queste che possono considerarsi i frammenti di uno splendido dizionario dei siciliani illustri. Nell’almanacco danno la misura di un’altra ottica possibile nel considerare il passato: quella che guarda alla vita e alle opere di coloro che la storia la fecero.
Dalla Presentazione dell’Editore
C. Rosselli, Scritti scelti, a cura di G.B Furiozzi, Prefazione di V. Spini, Firenze, Alinea, 2000, pp. 152.
In coincidenza con il centenario della nascita, e a oltre sessant’anni dalla morte, la figura e l’opera di Carlo Rosselli hanno visto un grande risveglio d’interesse e un fiorire d’iniziative in ogni parte d’Italia e perfino all’estero. Vale dunque la pena di chiedersi il perché oggi, soprattutto nella sinistra democratica, si torni a vedere il fondatore di "Giustizia e Libertà" come un importante punto di riferimento politico, ma anche etico e culturale. La risposta non è molto difficile: con la crisi del comunismo e la caduta del muro di Berlino, è tornato necessariamente attuale il socialismo liberale, ovvero una forma di socialismo non strettamente dipendente dall’ideologia marxista e quindi non legato alle sue alterne fortune. Tra le ultime iniziative editoriali, si segnala questa utile antologia di scritti rosselliani, che vanno dal 1923 al 1937, anno del suo barbaro assassinio ad opera di terroristi francesi finanziati dai servizi segreti italiani. Norberto Bobbio ha osservato, tempo fa, che coloro che si sono dedicati alla causa del socialismo liberale hanno sempre vissuto una condizione di esilio: i fondatori, durante il ventennio fascista, un esilio politico; i suoi aderenti, nel secondo dopoguerra, un esilio "morale" nel proprio Paese. Oggi, finalmente, questo esilio è cessato e molti studiosi e uomini politici hanno dovuto ammettere, come ha osservato Nadia Urbinati, che il socialismo liberale "ha acquistato modernità con il passare del tempo". Sbaglia di grosso, dunque, secondo il Furiozzi, chi (come Giuseppe Bedeschi) ha definito il socialismo liberale "una utopia sterile e inattuale". Mentre dominava l’ideologia della classe operaia egemone, della dittatura del proletariato della collettivizzazione dei costumi e delle coscienze, il messaggio liberalsocialista di Carlo Rosselli sembrava certo anacronistico e ritardatario. Non è stato così. Ha vinto Rosselli e hanno perso i suoi avversari.
Sbaglia anche chi, come Asor Rosa, ha parlato a suo tempo di esso come di una "improvvisazione teorica", perché non tiene conto della lunga tradizione, italiana ed europea, alla quale il pensiero rosselliano si riallaccia, esplicitamente o idealmente. Se infatti l’espressione "socialismo liberale" fu coniata nel 1890 dal deputato radical - socialista Alfred Naquet, già da alcuni decenni, in Francia e in Inghilterra, vi erano stati pensatori (da Pierre Leroux e Stuart Mill) che avevano cercato di conciliare socialismo e libertà. Denominatore comune di tutti costoro è che il socialismo non coincide necessariamente con il marxismo, come stava a dimostrare il movimento laburista inglese, che per Rosselli restò sempre un modello, come il movimento tradunionista era stato per Mazzini. Non per nulla, Carlo Rosselli è stato anche definito "il Mazzini del XX secolo". Perché fosse stato costretto a diventare oppositore con ogni mezzo del governo del suo Paese, lo spiegò egli stesso in un passo della deposizione resa nel novembre 1930 dinanzi al Tribunale di Lugano in occasione del processo Bassanesi per il volo dimostrativo su Milano: "Avevo una casa: me l’anno devastata. Avevo un giornale: me l’hanno soppresso. Avevo una cattedra: l’ho dovuta abbandonare. Avevo dei maestri, degli amici - Amendola, Matteotti, Gobetti - me li hanno uccisi". Se per ripristinare la democrazia egli era pronto ad usare ogni mezzo, anche rivoluzionario, era però sostenitore del metodo gradualista nella realizzazione del socialismo. Era il concetto della cosiddetta "rivoluzione democratica", teorizzato allora anche da Giuseppe Saragat e da Piero Calamandrei. Rosselli è, in sostanza, un socialista che coglie il valore universale del principio di libertà, valido quindi anche per i socialisti, e il valore universale di quello che egli chiama "metodo liberale di governo": ovvero le regole della democrazia, che per lui non sono né di destra né di sinistra.
Gabriella Portalone
M. GUCCIONE, Amnesy International. Racconti da dimenticare, prefazione di Enrico Vaime, Roma, Pagine 2000, pp. 112.
Appare inconsueto, per la nostra Rivista, recensire un lavoro letterario che niente ha a che fare con la storia propriamente detta, ma che, tuttavia, finisce per raccontare, in chiave umoristica, scanzonata, spesso paradossale, la storia dell’uomo nel suo comportamento di ogni giorno. Si tratta dell’ultima fatica di un siciliano come noi, trapiantato da molti anni a Roma, desideroso di coinvolgere i suoi lettori verso una visione nuova della vita e dei problemi di ogni giorno, rispetto ai quali ci impone quasi l’oblio, partendo già dal titolo che è un capolavoro di arguzia: Amnesy International. È il tentativo da parte di un uomo di successo, - docente universitario, esperto internazionale dello sviluppo, poliglotta, autore di libri di poesie e di racconti umoristici - di osservare la vita con gli occhiali rosa dell’ironia, invitando i suoi lettori a mettere da parte, anche per pochi minuti ogni giorno, i temi seriosi, ma spesso troppo angosciosi del mondo di oggi, dove, grazie alla velocità delle comunicazioni, anche il lamento di un povero mendicante indiano, giunge e noi con tutto la sua drammaticità, destandoci sensi di colpa e imponendoci uno stile di vita severo e lontano da ogni occasione di gioia e di sorriso. Allora si va a cinema, non per divertirsi dopo una lunga giornata di lavoro, ma per abbeverarci, grazie a film impegnati e incomprensibili, dei mali esistenziali e delle brutture che ci circondano; si ascolta la musica, non per dare diletto allo spirito stanco, ma per partecipare, attraverso canzoni tristi, difficili e spesso disarmoniche, al dolore del mondo; si legge un libro o si segue un programma televisivo per essere meglio informati sulle angosce che tormentano il nostro prossimo più o meno lontano. Marcello Guccione, lungi dal presentarsi come il cinico ed insensibile epicureo, attento solo alla ricerca del piacere, all’elogio della risata, al disinteresse altrui, vorrebbe soltanto, basandosi sui giochi di parole, sugli aforismi, sui più gustosi calembours, spingerci a sdrammatizzare la vita e a vedere l’umorismo anche nella tragedia per poter sopravvivere al dolore universale che ci circonda. Anche per pochi minuti al giorno, dunque, amnesy, amnesia generale. Lo fa con 55 racconti, più o meno brevi, con protagonisti immaginari che possono essere, indifferentemente, uomini, animali o oggetti di uso quotidiano, producendo così, quello che Enrico Vaime definisce, nella Prefazione, un vaccino contro la banalità e la ripetitività del linguaggio, costituito da termini che prima vengono accettati per timidezza, passività, conformismo, e che poi, però, finiscono per condizionare ogni attimo della nostra vita. Il lavoro di Marcello Guccione ci invita a cercare nei vocaboli significativi diversi da quelli che siano abituati ad attribuire ad essi, significati più umani o anche più ridicoli, a volte anche paradossali, che riescono a farci rivivere in chiave comica, non solo le situazioni più serie e spesso non divertenti della vita, come per esempio il matrimonio, ma anche avvenimenti storici su cui si sono versati fiumi di inchiostro e da cui si sono tratte interpretazioni le più diverse e contrastanti, come per esempio, la scoperta dell’America: "(...) Purtroppo il viaggio andò male fin dallo sbarco e qualcuno vedendo il livello dell’albergo sul porto aveva esclamato "terra, terra". Alla reception non trovarono il fax delle prenotazioni e il personale non rispondeva alle domande, faceva l’indiano; c’era un gran caldo e ti pungevano le Vespucci; sulla spiaggia un continuo va e vieni di "quiere cumprà". Roba dell’altro mondo! (...)" (p.39). oppure a proposito delle disgrazie di tutti i giorni la cui eco avvelena anche i momenti di serenità: "Era stato un uomo brillante: quando abbracciava una causa, ottimo oratore, faceva discorsi a braccio. Deluso, ripeteva spesso ‘mi cascano le braccia’, finché in un incidente le perse davvero. Testimone ad un processo, si mortificò all’invito al giuramento ‘Alzi la mano destra’; passò un brutto momento quando un bandito gli intimò ‘ in lato le mani!’. Così si ridusse a giocare a carte con amici comprensivi (che sapevano che lui aveva sempre giocato...con i piedi) e, d’estate, andare al lago più adatto per lui, Braccia - no (...)" (p.22). Libri di questo genere, scelti di tanto in tanto per interrompere le faticose e spesso deprimenti incombenze quotidiane, ci aiutano a dare il dovuto valore ad un bene oggi sempre più raro: il semplice sorriso.
D. LODATO, La secolare Accademia del Parnaso Canicattinese. Canicattì, gli arcadi, il barone, Canicattì, 1998, pp. 316.
Veramente pregevole quest’ultima opera di Diego Lodato, consacratosi ormai storico ufficiale della città di Canicattì, per far conoscere ad un pubblico più vasto di quello dei suoi stessi concittadini, la bizzarra ed incredibile istituzione culturale che fu l’Accademia del Parnaso, fucina di appassionante umorismo, di intelligente satira politica e di vera, dilettevole poesia popolare.
Nata negli anni venti - anche se per decreto si era stabilito che le sue origini risalissero all’epoca di Carlo V, - dall’idea di alcuni bontemponi locali, di estrazione sociale e culturale quanto mai varia, tale Accademia, che assomigliava più ad un circolo goliardico, nonostante l’impegnativo nome, frutto anch’esso di sottile ironia, era conosciuta, nel ventennio fascista, dalla grande stampa nazionale, nonché dai più noti intellettuali del tempo, molti dei quali chiesero di esservi ammessi come arcadi. E’ il caso di Pirandello, che in ossequio a tale Accademia, fece rappresentare, in anteprima mondiale, nel 1927, la sua commedia Sei personaggi in cerca d’autore, proprio nel Teatro Sociale di Canicattì, pregevole opera attribuita al Basile, di Marco Praga, di Tommaso Marinetti, di Giovanni Gentile, di Ettore Romagnoli, di Massimo Bontempelli, di Héléne Tuzet, di Angelo Musco, di Marta Abba, di Trilussa, fino in tempi più recenti di Renato Guttuso e Leonardo Sciascia che la definì "un’accademia letteraria ‘sui generis’..secolare per decisione dell’assemblea" (p. 88) che risolveva "le questioni scabrose con l’emissione di decreti, che al pari dei dogmi non si discutono. Ed è infallibile al pari e più del Papa" (pp. 121-122)
Di tale originale istituzione, che Thilger definì "la più audace e geniale satira politica e del costume" a cui, secondo santi Correnti, sarebbe " difficile contendere la palma dell’umorismo istituzionalizzato in Sicilia", ideatori furono un gruppo di verseggiatori, che tuttavia possiamo consacrare con il lauro di poeti, particolarmente versati nell’umorismo e nella satira, che, riunendosi nell’osteria di don Ciccio Giordano, o nella farmacia del dott. Diego Cigna, si prodigarono "a creare un mondo fantastico in cui tutto si svolge alla rovescia, dove l’immaginazione si confonde con la realtà, dove la carriera si percorre a ritroso, dove i veri maggiori sono i minori, dove gli asini sono saggi e sapienti e dove i soci, detti arcadi, pur se nella vita discordi, si ritrovano poi, come le Muse sulle vette del Parnaso, tutti concordi, tutti amanti della poesia, tutti con i petti frementi di canti, o meglio come è detto nel sottotitolo della ‘ parnasiana’, ‘di canti, di code, meditazioni e ragli’ e tutto ciò con l’intento (…) ‘di mettere in ridicolo la vita in ciò che questa meriti; di scherzare sulle scemenze umane e sulle cose serie; di prendere a gabbo i presuntuosi, i manierosi, i pieni di fumo, le fame malcreate" (pp. 7-8)
Tale Accademia, provvista di ‘sede urbana con acqua corrente’ e di ‘sede rurale con annesso orto’, era fornita anche di un esilarante statuto il quale, peraltro, stabiliva nell’art. 9, che chi avesse osato denigrare Canicattì per il suo scoppiettante nome, oggetto troppo spesso di ridicole battute, sarebbe stato rieducato e indottrinato affinché si imprimesse indelebilmente nella sua testa che "la città è culla e sede del Parnaso della quale è lustro, vanto e decoro".
Per cui accadde al noto commediografo Marco Praga, che in una sua commedia. La suocera, raccontava che un cancelliere di pretura per punizione era stato trasferito, nientemeno… a Canicattì, di ricevere dall’Accademia del Parnaso una vibrante protesta in versi, tanto colma di umorismo, da spingerlo, non solo a scusarsi con la cittadinanza, ma a chiedere addirittura l’adesione all’Accademia, cosa, peraltro, già prevista dall’art. 9 dello Statuto che stabiliva che ai denigratori di Canicattì sarebbe stato concesso ad honorem il diploma di arcade maggiore. (Ricordiamo che gli Arcadi maggiori era le figure marginali, mentre i veri protagonisti erano gli Arcadi minori, sempre in ossequio al principio della carriera percorsa a ritroso).
Presidente dell’Accademia era l’oste don Ciccio Giordano che restò tale anche dopo la sua morte, visto che il decreto relativo alla sua immortalità era sancito dall’art. 5 dello Statuto che così recitava: "Presidente dell’Accademia è don Ciccio. Giordano. Egli è immortale ed infallibile. Se fra quello che gli scappa detto e la verità vi è discrepanza, è la verità che deve essere corretta e non lui" (p. 149). Chiara allusione ai consensi plebiscitari delle dittature del tempo, dove l’infallibilità del capo era un dogma. E non fu il solo caso di satira politica: al motto fascista noi tireremo dritto, i Parnasiani rispondevano:
Scusassimi, signuri, pi piaciri…
Pi u manicomiu è giusta chista via?
Si fila sempri drittu…va a finiri
Sicuramenti ddà …vossignuria.
Ad un povero soldato in licenza per il puerperio della moglie che un burlone aveva indirizzato all’Accademia per ottenere un prolungamento del congedo, imperturbabilmente era stato rilasciato il seguente attestato:
"Nulla osta da parte di questa Secolare Accademia del Parnaso che il soldato Sferrazza Vincenzo del V Rgt. Fanteria, fruisca di una proroga di quarantott’ore in continuazione del permesso concessogli, per delicati motivi di famiglia, diretti eziandio all’auspicato incremento della nostra razza ariana"
Segretario generale era il farmacista Cigna, uomo politicamente molto impegnato, fondatore di vari giornali locali, ma soprattutto uomo dotato di finissimo umorismo.
L’avv. Sammartino, divenuto nel dopoguerra senatore della Repubblica, cosa che lo aveva fatto sentire degradato rispetto al titolo d’Arcade minore, era il viaggiatore piazzista dell’Accademia, colui cioè che consegnava premi e diplomi e che intratteneva, come diremmo oggi, i rapporti di public relations. Per cui quando il giornalista del Corriere della Sera Arnaldo Fraccaroli scrisse su quel quotidiano che a Canicattì si vedevano per strada più polli, capre e porci che persone, toccò a Sammartino, nella sua veste di viaggiatore piazzista, andarlo a trovare a Milano, nella sede del giornale, con un adeguato dono. Entrato nella stanza del giornalista, l’avvocato aveva prontamente rovesciato sulla sua scrivania due bei polli ruspanti, dicendo: " Ecco due illustri cittadini canicattinesi venuti a conoscerla e a ringraziarla a nome di tutti gli altri polli" (pp. 261-262). Il giornalista, dapprima disorientato, era poi esploso in una sonora risata e scusandosi per quanto aveva scritto, aveva accettato di buon grado il diploma d’arcade maggiore consegnatogli da Sammartino che, sempre con due polli, si era presentato a Trilussa per portargli il diploma.
L’Accademia univa nell’umorismo personaggi d’estrazione estremamente diversa: un barone, Agostino La Lomia, noto alle cronache mondane degli anni sessanta, un venditore ambulante, Pietro Cretti, un farmacista, Diego Cigna, un oste, Ciccio Giordano, un avvocato di grido, poi senatore, Salvatore Sammartino, un professore universitario Calogero Sacheli, un sarto, Peppi Paci, un avvocato, malato di politica e poesia come Francesco Macaluso. Anche politicamente si trattava di personaggi diversi fra loro: all’ardente socialista Cigna, si contrapponeva lo sturziano Sammartino, al fedele fascista Giordano, l’antifascista Macaluso.
L’Accademia non faceva distinzioni di sesso, quindi era aperta anche alle donne purché, se erano sposate, ci fosse, come prescriveva l’art. 31 il "consenso del marito o di chi ne fa le veci"
Lo stemma dell’Accademia era la scecca di Padre Martines, sacerdote ed arcade minore, la quale un giorno, in occasione della visita del Club Alpino di Girgenti, si rifiutò di entrare nella sede urbana, suscitando così lo spiritoso commento dell’avv. Sammartino: "E’ la prima volta che un somaro si rifiuta di entrare in un’Accademia". In ossequio alla scecca e ad un certo professore di Girgenti che soleva salutare solo gli asini e mai le persone, si stabilì, con delibera assembleare, che dovessero, da quel momento, salutarsi tutti gli asini:
Ma si s’avi a livari lu cappeddu
A quanti scecchi veni di incuntrari,
è vita ca po’ fari un puvureddu
cu lu cappeddu mmanu sempri a stari?
Fondata, effettivamente il 21 gennaio del 1921, adottò, per i suoi diplomi un cliché che non si capiva bene se rappresentasse un cane o un leone, perciò, nell’incertezza, l’Accademia si riunì e stabilì con decreto "Questo cane è leone". Con i decreti poteva trasformarsi anche la realtà, infatti, l’articolo decimo dello statuto stabiliva: "L’apparenza inganna. I Parnasiani possono pubblicare qualsiasi fotografia, qualunque cosa rappresenti, purché la didascalia illustri ampiamente ciò che, in effetti, deve raffigurare" (p. 131)
L’ideale dell’uomo cui ispirarsi era Pinco Pallino, l’antieroe per eccellenza cui tutta l’umanità doveva mostrarsi riconoscente perché, "Essendo buono a nulla, nulla oh benedetto! Fece. Perenne esempio e monito per gli altri Grandi". A tale personaggio immaginario che si contrapponeva al mito del Superuomo, tanto di moda nel tempo, il Parnaso stabiliva di tributare un monumento, un mezzo busto a testa fissa, al contrario di quello che suggeriva di fare per tutti gli altri monumenti che, per evitare la distruzione ad ogni cambiamento di moda e di regime, avrebbero dovuto avere la testa svitabile. Per Pinco Pallino che non aveva mai fatto niente, che era il prototipo dell’uomo della strada che "osserva, ma non vede, che sente e non consente, che capisce e non capisce", l’espediente non era necessario, poiché a nessuno mai sarebbe venuto in mente di abbattere il suo mezzo busto. Diversamente era capitato ad un illustre canicattinese, Alfonso Arena, diplomatico e fascista, ucciso nel 1929 da avversari politici, al quale il regime aveva deciso di erigere un monumento nei pressi del Municipio cittadino. Caduto il regime, anche il monumento era caduto oggetto della rabbia degli antifascisti e della vendetta dei notabili di turno. Era rimasto solo il piedistallo su cui, nella attesa di erigere un monumento a qualche grande confacente al nuovo regime, si era deciso di collocare un vaso smaltato, pieno di fiori, di quel tipo che in Sicilia si suole chiamare lemmu e che si suole usare per altri bisogni. Tale vaso, posto su di un piedistallo, suscitava la curiosità dei forestieri cui argutamente rispose con una poesia uno degli arcadi minori, lo spiritosissimo Enrico Cacciato:
(…) E gli stranieri stanno a domandare
con interesse vero ed ansietà
se il "lemmu" fu poeta o militare.
Ma noi che già sappiam la verità:
" Fu un grande eroe" (teniamo a precisare)
che tenne sempre a mollo il baccalà.
Esilaranti erano le beffe che questa accolita di buontemponi, rimasti bambini nel cuore, e desiderosi di coprire le brutture del mondo con il velo dell’umorismo, perpetravano nei confronti delle istituzioni più serie.
Quando fu fondata l’Accademia d’Italia, per esempio, fu il Parnaso a mandarle le prime felicitazioni cui rispose lo stesso presidente Tittoni con un telegramma di ringraziamenti e di calorosi auguri all’antica ed illustre consorella" che costituiva, peraltro, il primo atto ufficiale della neonata Accademia.. (p.159).Quando ci si accorse della burla, come scrisse Il Tempo di Roma, si accusò l’accademia canicattinese d’antifascismo. I Parnasiani si difesero affermando che la loro Accademia meritava di essere chiamata consorella dell’Accademia d’Italia, perché fra i suoi molteplici meriti, c’era anche quello di aver contribuito a dirimere una controversia internazionale come quella che contrapponeva l’Italia e la Spagna in relazione alla vera nazionalità di Cristoforo Colombo. L’Accademia, riunitasi in seduta plenaria, con la partecipazione straordinaria della somara che, per l’occasione inforcò gli occhiali, dopo lunghi studi ed estenuanti ricerche, giocando sulla pronunzia spagnola delle due elle, così decretò:
Dichiara st’’Accademia Seculari
Ca avennu li ricerchi fatti beni
Daveru ca nun potti mai truvari
D’Italia in tutti quanti li tirreni
Paisi ca putissi arrigistrari
Lu nomu di Collon. Da cui ni veni
Ca, essennu li Collon tutti spagnoli,
cu è Collon l’Italia nun lu voli. (p.163)
Quando la poesia fu inviata alle principali accademie e giornali italiani, grande fu lo sconcerto di storici e letterati, finché, compreso il gioco di pronunzia, ci si congratulò universalmente, tra fragorose risate, con i Parnasiani per la loro incredibile arguzia.
Un’opera come questa, portata a termine con impegno e con amore da Diego Lodato, non solo è pregevole perché contribuisce a diffondere la storia della cultura popolare della provincia, ma soprattutto perché riesce a suscitarci momenti di profonda allegria, che ci fanno dimenticare, per un po’, quanto sia purtroppo diverso questo nostro mondo rispetto alle immagini con cui i Parnasiani lo hanno trasformato.
Abbiamo già parecchie volte recensito su questa nostra rivista gli scritti di Giovanni Tessitore, prolifico produttore di opere di notevole interesse scientifico - ricordo fra tutti Ruggero II e Il nome e la cosa - il quale, pur non abbandonando mai la visione tecnico giuridica dei problemi trattati, ci è sempre apparso come un giurista prestato alla storia. Le sue opere, infatti, sono tutte improntate sull’indagine e sulla curiosità proprie di chi ama la storia, pur dando il giusto rilievo all’influsso che la legislazione e la giurisprudenza hanno avuto nei secoli nella regolamentazione delle azioni umane.
Nell’ultima fatica letteraria, (Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione, Collana di Diritto e Società, Franco Angeli ed., Milano 2000, pp. 597) il mio buon amico, sembra voler tornare alla sua passione originaria, il diritto, appunto, concludendo quattro anni di minuziose e faticose ricerche sulla legislazione fascista, in tema penale, particolarmente sulla parte del codice Rocco, relativa al ripristino della pena di morte, dopo che la stessa era stata abolita in Italia con il codice Zanardelli nel 1890 e riportando, con pazienza certosina, tutte le sentenze di pena capitale emanate sia dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, in relazione ai delitti politici, sia dalla magistratura ordinaria per i delitti comuni .
Tuttavia l’antica passione per la storia fa continuamente capolino dalle pagine di questo libro che appare, tutto sommato, come una storia del fascismo ed un processo alla sua visione del diritto.
L’autore mette in rilievo la concordia dell’opinione pubblica sul ripristino della pena di morte, opinione pubblica esasperata dai disordini registratisi in Italia nell’immediato dopoguerra e vogliosa, dunque, di maggiore severità e di una dimostrazione di forza da parte dello Stato, conformandosi al parere dei proff. Tranchina e Fiandaca che hanno curato la prefazione in cui arrivano perfino a sostenere che " il ripristino della pena capitale non sconvolse né scandalizzò gli italiani, ma fu sorprendentemente quasi imposto ad un tentennante Mussolini non solo dagli atteggiamenti intransigenti dei duri del regime, ma anche dal coro quasi unanime degli addetti ai lavori, magistrati, docenti e persino avvocati, formatisi culturalmente in periodi in cui del fascismo non potevano avvertirsi nemmeno le più lontane avvisaglie" (p.14).
Tuttavia, nonostante la premessa iniziale, l’autore, poi, con ineccepibili argomentazioni dottrinarie e filosofiche, ricollega il ripristino della pena di morte al carattere autoritario del fascismo, giudicandola una scelta ideologica conforme alla visione hegeliana dello Stato, propria di Mussolini e del suo entourage politico.
Pur ribadendo che la scelta di ripristinare la pena di morte fu dettata "più dall’opportunità di risolvere problemi pratici e di affrontare necessità contingenti, che non da ragioni astratte e di principio" (p. 37), Tessitore, fra le righe, avanza anche l’ipotesi che alcuni degli attentati alla persona del Duce, verificatisi tra il novembre 1925 e l’ottobre 1926, che particolarmente sensibilizzarono l’opinione pubblica sull’argomento, potessero essere stati organizzati o ad arte provocati per ottenere un consenso generalizzato sul varo di una legislazione particolarmente severa e soprattutto sulla creazione di un tribunale speciale col compito di giudicare i soli delitti politici che sarebbero, dunque, stati sottratti alla competenza della magistratura ordinaria, violando uno dei diritti fondamentali e più antichi riconosciuti ai cittadini.
Era appunto il modello di Stato che accomunava nazionalisti e fascisti, destinati ad unificarsi nel 1921 nel PNF, che, al di là di tale concetto, apparivano ideologicamente molto lontani come radici politiche - conservatori i primi, giacobini e rivoluzionari i secondi - ma erano ambedue guidati dalla fede nella eticità dello Stato e nella sua superiorità rispetto alla società e ai singoli cittadini.
D’altra parte il concetto di Stato etico, guida dei cittadini dalla culla alla tomba, ente supremo in cui ciascuno di essi trovasse la sua piena realizzazione, al cui servizio ciascuno fosse posto per garantire il benessere generale, era un concetto comune sia alla destra che alla sinistra di fine Ottocento. Esso derivava dalla sfiducia che i pensatori politici cominciavano ad avere nelle capacità della massa, che ogni giorno di più veniva considerata da destra e da sinistra - vedi Lagardelle, Sorel, Le Bon, Pareto - come qualcosa di amorfo, cui era indispensabile la guida dei più capaci, le élites di Pareto o le avanguardie operaie di Lenin. Parallelamente a tale concetto prendeva sempre più vigore la sfiducia nel parlamento e dunque nelle democrazie parlamentari, ricordiamo il cretinismo parlamentare, frase coniata da Lagardelle e ripresa poi da Mussolini, preparando così il terreno al consolidarsi dei totalitarismi che, dagli anni venti alla seconda guerra mondiale, avrebbero caratterizzato la maggior parte degli stati europei. "La massa - avrebbe confidato Mussolini a Ludwig - ama gli uomini forti. La massa è donna (..) è un gregge di pecore finché non è organizzata (..) Nego che possa governarsi da sé (...) Non deve sapere, ma credere." ( p.165)
Alfredo Rocco, ardente nazionalista che sarebbe poi diventato l’architetto della legislazione penale del regime fascista, ancor prima della formazione dei Fasci di Combattimento, nella rivista Politica, aveva enunciato la sua visione dello Stato come ente onnipotente lontano mille miglia dal concetto di democrazia, dispensatore di quella libertà che non era più considerata diritto originario e inalienabile del cittadino, ma beneficio concesso dallo Stato che avrebbe potuto limitarla o abolirla secondo le circostanze. "Lo Stato fascista - avrebbe dichiarato in Parlamento nel ’26 - è lo Stato veramente sovrano, quello cioè che domina tutto e tutte le forze esistenti nel paese e tutte le sottopone alla sua disciplina. Se, infatti, i fini dello Stato sono superiori, anche i mezzi che esso adopera per realizzarli debbono essere più potenti di ogni altro, la forza di cui esso dispone soverchiante sopra ogni altra forza (...). La sovranità non è del popolo, ma dello Stato." ( p. 132)
All’avvento del fascismo due erano, in campo penalistico, le scuole che s’imponevano per autorità e competenza dottrinaria.
La prima era la scuola classica che appariva come una continuazione delle dottrine illuministiche per il ribaltamento dell’impostazione utilitaristica e per la sostituzione del concetto di utile sociale con una visione metafisica del diritto, era caratterizzata dall’uso del metodo deduttivo e dalla priorità data all’analisi del reato e della pena, rispetto alla studio della personalità del reo.
La seconda, detta scuola positiva o antropologica, si fondava, invece, sul metodo induttivo ponendo al centro dell’analisi criminologica l’uomo delinquente. Un tale tipo di impostazione sembrerebbe privilegiare la pena di morte che avrebbe eliminato il delinquente, inteso come cancro sociale e per il quale non si credeva alla possibilità di redenzione mediante pene a carattere rieducativo. In verità non tutti i positivisti si trovarono d’accordo sulla pena di morte.
Nel primo decennio del ‘900, grazie ad un professore di diritto penale dell’Università di Sassari, Arturo Rocco, fratello del più famoso Alfredo, padre di quel codice penale che, nato in epoca fascista è sopravvissuto fin quasi ai nostri giorni, si delineò una nuova tendenza in campo penalistico che diede luogo ad una nuova scuola che si contrapponeva sia alla classica sia alla positiva: la scuola tecnico-giuridica. Essa sosteneva la crisi della scienza penalistica per il sovrapporsi al diritto della sociologia, dell’antropologia, della psicologia, della statistica e della politica, trascurando, di fatto, la legislazione positiva.
La concomitanza verificatasi tra il sorgere di una nuova scuola penalistica, l’affermarsi del concetto di Stato etico proprio dei nazionalisti e fascisti, i quattro attentati al Duce in un breve lasso di tempo, il desiderio della popolazione di ordine e sicurezza, l’anarchia registratasi nel periodo postbellico e da molti attribuita alla debolezza dello stato liberale, la necessità del regime di consolidarsi dopo la crisi successiva al delitto Matteotti, costituì senz’altro terreno fertile quanto mai per il ripristino della pena di morte che già, all’indomani del penultimo attentato al Duce, era prevista e auspicata, sia negli ambienti giornalistici sia in quelli forensi.
Così il 2 ottobre Rocco, ministro della Giustizia, presentava al Consiglio dei Ministri un disegno di legge che prevedeva il ripristino della pena di morte per gli attentati al re, alla regina, al reggente, al principe ereditario, al capo del Governo e per alcuni gravi reati contro la sicurezza dello Stato. Inaspettatamente Mussolini chiese il rinvio dell’esame del disegno di legge.
Ma il 31 ottobre il Duce subiva, durante una sua visita a Bologna, l’ennesimo attentato da parte di un sedicenne, Anteo Zamboni, che gli sparò un colpo di pistola sfiorandolo solamente. Del corpo del giovanetto fu fatto immediato scempio dalla folla inferocita e ciò infittì il mistero sui veri mandanti dell’attentato. Si pensò ad un gesto isolato del giovane, ma s’ipotizzò anche che il giovane fosse stato indotto al delitto dal padre e dalla zia, ambedue anarchici. L’autore non dimentica la terza più fantasiosa ipotesi secondo la quale il delitto avrebbe avuto origine proprio in ambienti fascisti e i mandanti stessi, per non lasciare prove, avrebbero sommariamente giustiziato il giovane esecutore, prima che qualsiasi indagine potesse essere avviata.
Certo l’attentato di Zamboni riaprì la querelle sulla pena di morte e si sarebbe potuto insinuare che l’attentato fosse servito ai più facinorosi per vincere le ultime esitazioni del duce a riguardo. Di fatto, c’è da dire che il padre e la zia dell’attentatore, ritenuti responsabili per il comportamento del minorenne e per averlo educato secondo principi sovversivi, processati, per i loro reati politici, dal Tribunale Speciale, subito dopo il ripristino della pena di morte, furono condannati a trent’anni di reclusione e, dopo soli sei anni, nel 1932, per intercessione di uno dei più potenti gerarchi fascisti, Arpinati, furono graziati e rimessi in libertà.
Il 5 novembre del 1926, a pochi giorni dell’attentato, il disegno di legge presentato dal ministro Rocco circa un mese prima e accantonato per volere di Mussolini, venne ripreso, esaminato ed approvato dal Consiglio dei ministri col nome di Provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato. La nuova legge, per la durata di cinque anni introduceva la pena di morte per attentato ai sovrani, al reggente, al principe ereditario e al capo del governo e la reclusione da tre a dieci anni per chi ricostituisse i partiti o le associazioni disciolte. La novità maggiore e, insieme il più grave attentato alle garanzie dei cittadini era dato dalla creazione ex novo di un organo giudicante il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, cui veniva devoluta la competenza per i reati politici. Esso sarebbe stato composto da un presidente scelto tra i generali delle Forze armate o della Milizia Volontaria e da cinque giudici scelti tra i consoli della stessa Milizia e da un relatore preso dalla magistratura militare. Il TSDS avrebbe applicato le norme del codice di procedura penale militare e le sue sentenze non sarebbero state soggette ad alcun’impugnativa, salvo la revisione del processo. Esso avrebbe avuto competenza anche per i reati commessi prima della sua costituzione, come, ad esempio gli attentati verificatisi contro il Duce negli ultimi mesi.
Se il provvedimento governativo passò alla Camera senza incidenti di forza, con l’opposizione di soli 12 deputati, al Senato, organo certo meno fascistizzato, la discussione fu più libera e appassionata e si concluse con un numero di voti sfavorevoli al decreto di molto maggiore rispetto all’altro ramo del Parlamento, ben 49. Tuttavia gli interventi di quei senatori che da sempre si erano dimostrati contrari al supplizio supremo, o per motivi ideologici, come il sen. Pais, o per motivi religiosi, come il sen. Crispolti, furono molto prudenti; uno dei pochi che non ebbe paura di esprimere ciò che veramente sentiva fu il sen. Tanassia, il quale si disse scandalizzato, più che per la pena di morte, per la reclusione prevista nei confronti di chi avesse osato ricostituire partiti o associazioni disciolte, chiaro inequivocabile attentato al sacro diritto della libertà di pensiero e di associazione: "Onorevole Capo del Governo io appartengo a quei trentasei milioni d’italiani che non hanno la tessera del partito nazionale, ma però non sono né irosi spodestati, né rassegnati al potere perduto, non ex amici dei sovversivi. Ecc., ecc." (p. 141). Tra l’imbarazzo generale gli fece eco il sen. Stoppato, tra i principali artefici del codice di procedura penale del 1913, dichiarandosi scandalizzato per il fatto che si potessero punire i cittadini con la reclusione per il semplice fatto di professare idee contrarie al governo e per l’assenza di strumenti di impugnativa delle sentenze emanate dal TSDS. Tuttavia, dopo il passaggio in giudicato d’una condanna a morte era sempre ammesso il ricorso straordinario per revisione.
Rocco ribadì che il provvedimento aveva lo scopo di insinuare nel popolo la certezza della forza dello Stato nella prevenzione e nella repressione dei crimini, mentre il relatore sen. Garofalo anticipava che presto la pena capitale sarebbe stata ripristinata anche per i delitti comuni.
Così, come la maggior parte dei senatori avevano accettato il provvedimento, imbarazzati tra una scelta libera e una servile, così pure i giuristi si mostrarono quasi all’unanimità entusiasti del ripristino della pena di morte, anche coloro che da sempre avevano sostenuto nettamente le tesi abolizioniste come, per esempio il grande maestro Enrico Ferri che "compì autentiche acrobazie dialettiche per giustificare il proprio mutato atteggiamento" (p.156). Una delle poche voci dissenzienti fu quella del prof. De Marsico, futuro membro del Gran Consiglio che, nella prolusione letta all’Università di Bari, coraggiosamente si schierò contro il ripristino della pena di morte per i delitti comuni. De Marsico, pur dicendosi d’accordo con i provvedimenti speciali e provvisori varati per la difesa dello Stato, in una fase storica in cui il regime non si era pienamente consolidato, attribuiva l’entusiasmo con cui l’opinione pubblica aveva accolto il ripristino della pena di morte per i reati politici e pareva anche per l’estensione ai reati comuni, alla "assuefazione alla violenza legalizzata e all’omicidio di Stato" (p.162) che le migliaia di condanne a morte comminate dai tribunali militari durante la guerra - 4.098, di cui 750 eseguite, 311 commutate e 2967 pronunciate in contumacia - avevano determinato; "la svalutazione del valore della vita umana è fenomeno che accompagna eventi bellici o situazioni ad essi equiparabili" (p.162).
La pena di morte per i reati comuni di particolare gravità venne introdotta con il varo del nuovo codice penale, appunto il codice Rocco, entrato in vigore il 27 ottobre 1930.
Essa era comminata per i reati la cui pena prevista dal vecchio codice fosse l’ergastolo quando si era in presenza di una o più circostanze aggravanti, per concorso di reati o per cumulo di pene.
Si dichiararono favorevoli al provvedimento la Corte di Cassazione, per bocca del relatore Antonio Marongiu, la maggior parte delle Corti d’Appello e delle facoltà giuridiche del Paese costituite da uomini la cui formazione culturale e politica non aveva niente a che fare col fascismo essendo di molto precedente ad esso.
Sulla introduzione della pena di morte per i reati più efferati, non c’era da meravigliarsi o da collegare il provvedimento al carattere totalitario o violento del regime, visto che stati sulla cui democraticità non c’era da discutere, come l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, contemplavano nei loro codici la pena capitale. Essa, peraltro, secondo il nuovo codice, avrebbe dovuto comminarsi solo in presenza di prove evidenti e rigorosamente accertate e comunque sarebbe intervenuta la clemenza del Re ad evitare qualsiasi errore giudiziario.
Piuttosto ciò che poteva apparire conforme al carattere illiberale e totalitario del regime era il provvedimento con cui si avocava la competenza a giudicare sui reati politici ad un tribunale speciale, togliendola al giudice naturale e non prevedendo impugnative per le sentenze da esso emesse. Peraltro tale tribunale, che per la sua composizione si sarebbe potuto configurare come tribunale militare, se al suo interno non fosse stata prevista anche la presenza degli ufficiali della milizia fascista, cosa che lo rendeva ancora più politicamente dipendente dal regime, non dava, prima facie, alcuna garanzia di obiettività.
A questo validissimo argomento se ne può, tuttavia, contrapporre un altro. Il fascismo con la creazione di un tribunale militare - politico per giudicare i delitti politici, volle evitare di compromettere politicamente la magistratura ordinaria, assicurandone l’assoluta indipendenza a garanzia dei diritti dei cittadini comuni.
Sull’effettivo ricorso alla pena di morte nel periodo fascista Tessitore, con estrema fatica e puntiglioso scrupolo, è riuscito a raccogliere dati sicuramente precisi., almeno fino al 1940. Nel decennio 1867-1876 furono pronunciate ben 614 condanne a morte, ma in seguito all’annullamento da parte della Corte di Cassazione e la conversione nella pena dei lavori forzati a vita, le sentenze di morte irrevocabili si ridussero a 392, delle quali, per l’intervento della grazia sovrana, ne furono eseguite 34. Nel decennio 1931-1940 le condanne a morte per delitti comuni furono 118 di cui 65 eseguite. Dunque se in periodo fascista la pena di morte veniva comminata con maggior circospezione, era tuttavia di molto inferiore al decennio precedentemente esaminato l’incidenza dei provvedimenti di grazia.
Il codice Rocco era ispirato alla prontezza dell’esecuzione della sentenza, sia per rendere meno angosciosa l’attesa del condannato, sia per impedire che nelle more dell’esecuzione, scemasse nell’opinione pubblica il ribrezzo che il delitto, per cui la pena capitale era stata inflitta, aveva suscitato.
Dopo l’introduzione della pena di morte per reati comuni, poté effettivamente registrarsi una vistosa contrazione degli omicidi volontari tentati o consumati, per cui dai 1274 reati di tale tipo registrati in tutta Italia nel 1929, si arrivò nel 1939 a soli 625. Ciò probabilmente anche per il diffuso convincimento che le condanne comminate venivano effettivamente eseguite
L’autore osserva che ai giornali del tempo, ormai non più liberi ma sottoposti alle direttive del regime, veniva vietato di dare troppo spazio la cronaca nera, appunto per dimostrare la bonifica morale che era stata fatta dal fascismo, tant’è che, di contro, veniva dato spazio alla cronaca nera estera. E’ indubbio che il regime cercasse di sorvolare sulla cronaca nera per dimostrare la propria efficienza in tema di sicurezza e la sua capacità educativa sulle giovani generazioni, ma è anche vero che censurare le notizie riguardanti delitti di particolare efferatezza aveva uno scopo pedagogico. Proprio in questi giorni possiamo costatare quanto male facciano ai più giovani, oltre che agli adulti, le notizie fin troppo circostanziate di delitti di particolare gravità come la strage familiare di Novi Ligure, il parricidio di Padova, l’omicidio perpetrato a scuola da un sedicenne nei confronti della fidanzata coetanea e compagna di scuola.
Non sappiamo ancora quale effetto possano avere nella psiche dei più giovani, portati spesso all’emulazione anche delle azioni più sconcertanti, o all’esasperazione di comportamenti anticonformisti, le dettagliate informazioni su delitti che dimostrano la fragilità dell’istituto familiare e l’assoluta assenza di valori in gran parte dei loro coetanei.
Le sentenze emanate dal TSDS per reati contro lo Stato, comportanti pene detentive, furono, dal 1927 al 1943, 2496 con una media di 209 condanne all’anno, media che salì drasticamente nel triennio ‘40 -’43, soprattutto per i frequenti processi contro attività spionistiche. Le condanne a morte comminate furono 65, di cui 53 eseguite. Delle 53 fucilazioni avvenute nel dodicennio, ben 26 furono eseguite tra il ’40 e il ’42, cioè in pieno periodo bellico, dopo l’entrata in vigore della legge del giugno 1940 che aggravava le pene per delitti non politici commessi approfittando delle circostanze di guerra e che divenivano, dunque, competenza del TSDS.
Premesso che anche il sacrificio di una sola vita umana o la limitazione dei suoi diritti per motivi ideologici, è segno d’estrema barbarie, non si può definire particolarmente feroce un regime che in vent’anni comminò 53 pene di morte per motivi politici, di cui la metà in periodo di guerra, in cui il Tribunale Speciale era chiamato a giudicare anche per delitti comuni, come per esempio lo spionaggio, particolarmente pericolosi durante la guerra per la sicurezza dello Stato. E’ da sottolineare inoltre, che la prima condanna a morte per motivi politici fu emanata oltre due anni dopo il ripristino di detta pena e l’istituzione del Tribunale Speciale.
Non possiamo non fare questa considerazione, anche se può apparire cinica, soprattutto se paragoniamo il rigore del regime fascista a quello ben più incisivo dei totalitarismi comunisti e nazisti. In Germania tra il ‘34 e il’44 furono irrogate più di 7000 pene capitali, per non parlare dei milioni di condanne a morte inflitte in URSS nel periodo staliniano o delle fucilazioni in serie, ancor oggi, eseguite nella Cina comunista e di cui, per " correttezza politica" si parla ben poco.
L’autore, a dimostrazione di come il volere del duce condizionasse molti processi, trasformando delitti comuni in delitti politici e dunque di competenza del TSDS, porta come esempio il processo Della Maggiora. Questi era un trentenne bracciante toscano notoriamente comunista che venne accusato di aver ucciso il 12 dicembre 1926 due fascisti e aver tentato di ucciderne un terzo senza riuscirvi per fatti indipendenti dalla sua volontà. Per questo, nell’ottobre del 1928, gli fu comminata la pena di morte. Tessitore afferma che si volle trasformare un episodio di cronaca nera in un delitto politico, sol perché le vittime erano fasciste e il reo comunista, quindi di competenza del Tribunale Speciale che avrebbe potuto irrogare la pena di morte, al contrario dei tribunali ordinari che avrebbero, al massimo, potuto infliggere l’ergastolo, visto che il codice Rocco che estendeva la pena capitale anche ai delitti comuni, non era ancora entrato in vigore.
Certo una forzatura giuridica ci fu, ma nei confronti, comunque, di un pluriomicida che durante il processo confessò che aveva ucciso le due vittime soltanto perché fasciste e che aveva continuato a sparare contro i presenti nel laboratorio di sartoria di una delle vittime e poi all’aperto, colpendo ed uccidendo la seconda vittima.
L’autore sostiene che fu Mussolini a volere un processo politico per poter dare una risposta esemplare all’attentato alla Fiera Campionaria di Milano del 12 aprile 1928, dove alla presenza del Sovrano era esplosa una bomba che aveva provocato ben 20 morti e un’ottantina di feriti. Nonostante le affannose ricerche e indagini, di quella strage non erano stati trovati i colpevoli. Nei primi giorni erano stati arrestati 560 anarchici e comunisti, di cui 300 erano stati immediatamente rilasciati. 32 erano stati deferiti al TSDS che tuttavia li aveva assolti per il reato di strage, comminando pene detentive per attività contro il regime.
L’autore sottolinea quanto Mussolini tenesse a trovare un capro espiatorio per dare all’opinione pubblica il giusto esempio di rigore e per questo si era anche pensato di scegliere a caso tra i comunisti già detenuti come Gramsci o Terracini, ma per la mancanza di prove ci si era astenuti dal proposito per evitare di macchiare l’immagine del regime.
Il mio amico Tessitore tralascia di osservare che un regime dittatoriale che ha paura del giudizio della gente o che si astiene dall’accusare gli avversari politici in mancanza di prove, fa un po’ ridere, soprattutto se pensiamo ai processi farsa, imbastiti in quello stesso periodo a Mosca da Stalin nei confronti dei suoi stessi compagni di partito, come Bucharin, rei di credere in strategie diverse da quelle del capo per il trionfo del comunismo.
Di contro, c’è da sottolineare che nel caso, per esempio, di Innocente Peviani, ventiseienne, camicia nera scelta, condannato a morte per omicidio volontario, fu proprio Mussolini a negare la grazia e la commutazione della condanna in ergastolo, cosa che era stata perorata dal Procuratore generale di Milano Ranelletti.
Non si esitò, peraltro, a comminare la pena di morte ad uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese, Francesco Mandalari, fino ad allora ritenuto intoccabile, per violenza carnale e concorso in duplice omicidio, di cui era stato identificato come mandante.
Un particolare rilievo è dato al caso Ferrigno da cui Leonardo Sciascia trasse il romanzo Porte Aperte, in cui si ipotizza che all’imputato fosse stata inflitta la pena di morte poiché una della vittime, Giuseppe Bruno, era presidente del Direttorio e Segretario del Sindacato Fascista Avvocati e Procuratori legali di Palermo.
Sciascia da buon romanziere forzò artatamente la realtà processuale, adombrando la possibilità che si trattasse di un delitto passionale e presentandoci la figura del "piccolo giudice", naturalmente antifascista, tormentato tra la volontà di non giudicare il reo passibile di morte, considerando i tre omicidi di cui si era macchiato, come un unico reato continuato, e le pressioni da parte dei superiori e delle autorità fasciste.
Invero, lo stesso autore lo riconosce, si trattò di un efferato triplice omicidio consumato per motivi di vendetta contro l’avv. Bruno, reo di aver licenziato il Ferrigno, impiegato presso l’ordine forense, perché colpevole di malversazioni contabili, vista la necessità di quest’ultimo di arrotondare lo stipendio per il mantenimento di una seconda famiglia, contro Antonino Speciale, reo di aver preso il posto dell’omicida e contro la moglie Concetta Conigliaro per motivi di disaccordo familiare. Come si vede il motivo politico era inesistente.
D’altra parte nello stesso modo ci si comportò nei confronti di un agente di PS di Padova, un certo Magagna Girolamo, accusato di aver ucciso un uomo a scopo di rapina gettandone poi il cadavere nel fiume Adige. Malgrado si trattasse di un reato meno raccapricciante di quello commesso dal Ferrigno, non si concesse al poliziotto la grazia e la possibilità di commutare la sua condanna a morte in ergastolo.
Neanche nei confronti di due membri della Milizia Volontaria, Tosi e Malagoli, condannati a morte, il primo per omicidio aggravato a scopo di rapina e il secondo per concorso in omicidio e rapina, il duce dimostrò clemenza, anche se il Malagoli non aveva commesso personalmente il delitto, ma aveva spinto l’altro a commetterlo. Fu respinta la domanda di grazia e ambedue furono giustiziati senza che prendesse in considerazione, nemmeno per un secondo, la commutazione della condanna a morte in ergastolo.
In verità non meraviglia il sospetto dell’Autore sulla presunta ingerenza del potere politico nell’ordine giudiziario. Nulla di nuovo egli aggiunge ai sospetti che sempre si sono avuti e si hanno sulle ingerenze in ogni tempo dei poteri politici sugli ordini giudiziari. La storia dei nostri giorni è ricca di tali sospetti non sempre legittimi, ma non sempre infondati. Ciò forse deriva anche dal controllo dell’Esecutivo sul potere giudiziario attraverso l’Organo di autogoverno dei Magistrati, il Consiglio Superiore della Magistratura per la cui composizione la lottizzazione di una parte dei suoi rappresentanti è spesso la proiezione della lottizzazione politica, almeno per i cosiddetti "componenti non togati".
Ma spesso i sospetti sono alimentati anche da iniziative giudiziarie che, per il tempo ed i luoghi in cui sono promosse, appaiono inficiate da una strategia politica che mal si concilia con l’amministrazione della Giustizia.
Tale tesi, tuttavia, come già detto troverebbe scarsa applicazione nel regime fascista che, per sottrarre al proprio giudice naturale cittadini responsabili di specifici reati, avvertì la necessita di istituire un tribunale politico-militare di rigorosa osservanza dell’orientamento politico ben distinto, però, dai Tribunali ordinari che, viceversa, mostravano un’autonomia probabilmente ben più marcata rispetto alle autonomie di Uffici Giudiziari di molte moderne democrazie.
Considerazioni queste, condivise da molti opinionisti, come ad esempio Indro Montanelli, che le rievoca ogni qualvolta avanza sospetti su parte della Magistratura italiana di politicizzazione e di asservimento al potere costituito.
Pregevole il tentativo di Giovanni Tessitore di reperire statistiche attendibili sull’attività degli organi giurisdizionali italiani nei territori coloniali, tentativo non completamente portato a termine per la difficoltà di raccogliere dati sicuri, dovuta alla molteplicità delle Corti d’Assise, operanti nei territori d’oltremare, nonché per lo smarrimento cui i documenti andarono soggetti dopo il crollo dell’Impero coloniale.
Quest’ultima parte dell’opera risulta particolarmente meritoria, poiché nessuno prima d’ora si era interessato a questo campo di ricerca concernente l’amministrazione della giustizia nelle colonie italiane. In esse, nel maggior numero di casi, non si estese la legislazione penale italiana, bensì si fece ricorso, prendendo a pretesto il rispetto degli usi e costumi locali, a una sorta di giustizia differenziale amministrata da una molteplicità di organi fra cui è quasi impossibile orientarsi.
L’autore è riuscito, tuttavia, a rinvenire la documentazione relativa a sei processi, celebrati davanti le Corti d’Assise di Tripoli, Bengasi, Derna e Asmara, che comportarono la condanna a morte per quattro italiani e 10 indigeni. E’ da sottolineare che dei dieci indigeni giustiziati, quattro lo furono in seguito all’accertata colpevolezza in relazione ad omicidi, generalmente a scopo di rapina, nei confronti di loro compatrioti. Sei, invece, appartenenti ad un plotone di soldati coloniali, furono giustiziati per correità nell’omicidio del tenente Ottorino Biondo, perpetrato durante il sonno della vittima a scopo di rapina e per averne occultato il cadavere.
I quattro italiani condannati a morte dalla Corte di Assise di Asmara, erano accusati di aver ucciso, a scopo di rapina, cinque indigeni e di averne ferito altri due.
Appare singolare che, sia per la prima volta che per l’ultima, la pena di morte fu eseguita su condannati siciliani; nel 1931 Mignemi Diego, di Canicattì in provincia di Agrigento, veniva giustiziato perché giudicato colpevole di violenza carnale continuata e aggravata, anche dalla morte della vittima; il 5 marzo 1947 la pena di morte veniva applicata per l’ultima volta nei confronti di Giovanni D’Ignoti, Giovanni Puleio e Francesco La Barbera, tutti e tre siciliani, condannati per omicidio continuato, sequestro di persona e rapina aggravata.
Vita e opere
Francesco Orestano, Accademico d’Italia e fondatore del Realismo critico, nacque ad Alia (Palermo) nel 1873, e morì a Roma nel 1945. Si laureò in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo nel 1896. Successivamente si recò in Germania, presso l’Università di Lipsia, dove conseguì la laurea in filosofia. Ritornato in Italia, conseguì la libera docenza in Filosofia Morale; si trasferì quindi all’Università di Roma, ove tenne corsi fino al 1907, anno in cui ritornò a Palermo. Nel 1924, abbandonata la cattedra, si ritirò a Roma per dedicarsi alla redazione della sua opera fondamentale Nuovi Principi. Numerosi furono i Congressi cui partecipò in Italia, banditore d’idee nuove, e all’estero, buon difensore della nazione italiana.
Orestano fu un uomo dalla profonda umanità, sempre spinto alla ricerca del bene, profondamente religioso e nobile nei sentimenti. Fu abile organizzatore in campi diversi e non gli mancarono ampi riconoscimenti. Fu uomo di vastissima cultura, grande studioso dell’intero ambito della storia della filosofia, brillante conoscitore delle principali lingue straniere, fondatore del Realismo critico, in altre parole di quel realismo oggettivistico e spiritualistico, che costituisce una delle più importanti correnti del pensiero contemporaneo.
Tutti i suoi scritti, editi ed inediti, sono stati raccolti in un’Opera Omnia, che è divisa in cinque gruppi. Il primo gruppo contiene le Opere Teoretiche; il secondo le Opere Morali; il terzo gruppo le Opere Giuridico- politiche; il quarto si intitola Opere Varie; il quinto, infine, riunisce le Opere Inedite.
Il rapporto tra Stato e Chiesa
Orestano, attento osservatore della realtà e della società, non poteva non soffermarsi su un problema che dai contemporanei era visto come urgente e scottante: il rapporto tra Stato e Chiesa. La soluzione del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa era un obiettivo sempre tenuto presente dai grandi politici della storia d’Italia. La situazione particolarissima che si era venuta a creare nella nostra penisola a seguito dell’Unità, aveva spaccato in due il Paese, diviso tra coloro che erano favorevoli al Papato, e quelli che, invece, volevano a tutti i costi tutelare la ragion di Stato. Particolarmente imbarazzante era in questo contesto la situazione dei cattolici, i quali subivano il cosiddetto "squarcio della coscienza", ogni qual volta dovevano decidere se prendere parte alla vita politica dello Stato italiano, e così subire le scomuniche papali, in altre parole astenersi da qualsiasi forma di partecipazione, ed essere sostanzialmente stranieri nel proprio Paese.
Orestano interviene più volte su questo tema, e lo fa con il solito acume e l’originalità che caratterizza il suo pensiero e le sue considerazioni. In questo lavoro sono analizzati, da un punto di vista cronologico, gli articoli e le monografie che egli dedica a tale tema. A cominciare dal 1905, appare un articolo che commenta, in maniera un po’ polemica, un intervento sul rapporto tra Stato e Chiesa dell’onorevole Luigi Luzzatti, di cui Orestano non è, sicuramente, un estimatore.
Nel 1915, il filosofo aliese scrive un articolo, intitolato La Questione Romana, pubblicato su L’Ora di Palermo. Qui egli critica la politica ecclesiastica italiana, e propone di affidare la soluzione del dissidio tra Stato e Chiesa ad un trattato o ad un concordato. Il suo pensiero precorreva i tempi, ed egli si rende conto che il suo articolo è troppo prematuro.
Il filosofo ritorna alla questione nel 1924 con una monografia, in cui ribadisce la necessità di un accordo, per chiudere la "questione romana". Egli attacca la Legge delle Guarentigie e la superficialità con cui lo Stato italiano ha legiferato nei confronti del Papato. Ne mette in evidenza tutti gli errori, analizzando la legge del 1871 nei minimi particolari. Orestano resta convinto che l’unica soluzione possibile sia la trattativa diretta tra Santa Sede e Stato, considerate due potenze, che possono, attraverso un concordato, esprimere la propria sovranità e dirimere la questione.
Nel 1927, è pubblicato un altro articolo su "Nuova Antologia", dal titolo La Chiesa cattolica nello Stato italiano e nel mondo. In esso sono ribaditi gli errori della Legge delle Guarentigie, e si guarda con particolare favore al periodo storico che, forse, si presta ad un mutamento radicale. Il 16 febbraio del 1929 appare su Nuova Antologia l’articolo che viene scritto in base agli elementi forniti dal comunicato ufficiale del 12 febbraio intorno ai Patti Lateranensi. Orestano illustra il Trattato e il Concordato, firmati da Chiesa e Stato, e si compiace di tale accordo, che chiude definitivamente la "questione romana", e che rappresenta un evento grandioso per l’Italia e per il mondo.
Ma andiamo con ordine.
Il rapporto tra Stato e Chiesa nel pensiero del filosofo prende le mosse, come ho accennato, già nel 1905 in un articolo apparso sulla Rivista di Roma dal titolo Rapporti tra Stato e Chiesa nella mente di Luigi Luzzatti. L’On. Luzzatti, titolare della cattedra di diritto costituzionale a Roma, si era proposto di trattare un corso di lezioni dal titolo Fatti nuovi e dottrine rettificate nelle relazioni costituzionali degli Stati colle Chiese. Egli, nel tracciare il programma del corso, aveva dato dei cenni sul suo pensiero e sulla possibile soluzione dei problemi di diritto pubblico ecclesiastico. Orestano, nel volere commentare tali "insegnamenti", confessa innanzi tutto di aver dovuto leggere due volte lo "smagliante discorso" di Luzzatti per riuscire a comprenderlo. Non nasconde inoltre la propria antipatia nei confronti dell’onorevole che appare già dalle prime battute una persona presuntuosa e saccente e dal pensiero a volte sconnesso. Luzzatti parte dalla considerazione che la libertà religiosa proclamata negli Stati Uniti d’America è realizzata in modo perfetto, perché lo Stato non interviene nei rapporti delle Chiese tra loro e i fedeli e realizza la libertà in senso più alto.
Orestano ribatte che la libertà di religione, secondo quanto era stato interpretato da alcune sentenze delle Alte Corti di Giustizia americane, significa libertà di adorare qualunque Dio, ma non quella di essere ateo. Così stando le cose, afferma Orestano, la situazione prospettata dall’onorevole sull’America, non è così florida come ce la mostra e che anzi possiamo fare molte riserve sull’umanità del cittadino americano, che è anche "il più spietato affarista al cospetto del sole"(1). A dispetto di ciò Orestano, per fare un po’ di chiarezza nel discorso, accetta come principio che le istituzioni americane rappresentano la perfezione costituzionale. Luzzatti, proseguendo nel discorso, mostra la situazione in Francia, dove era stata in vigore una legge con la quale lo Stato soccorreva tutte le Chiese e tutti i culti, di contro ad un’altra più recente che interrompeva ogni rapporto tra Stato e Chiesa e cancella dai bilanci dello Stato tutte le spese che prima si erogavano per il mantenimento dei culti. Probabilmente l’onorevole vede lontano nella pratica applicazione della legge e avvisandone i pericoli, suggerisce di adottare il sistema più prudente della Legge delle Guarentigie, per la quale lo Stato italiano, pur separandosi dalla Chiesa e sciogliendo ogni vincolo nei confronti dell’autorità politica, si riserva l’investitura dei prelati nei benefici maggiori e minori. Dopo aver affermato ciò, l’onorevole ritorna al suo primo amore cioè l’America, e augura alla Francia di essere il primo stato europeo a sperimentare le istituzioni degli Stati Uniti.
Orestano allora cerca di mettere un po’ d’ordine nel complicato pensiero di Luzzatti, chiarendo che la Francia cerca di separare lo Stato dalla Chiesa, non avendo sicuramente come punto di riferimento la Legge italiana delle Guarentigie, che, secondo Luzzatti avrebbe creato uno stato di cose transitorio, tenendo conto della relatività storica, ed evitando conflitti in materia di beni economici. Pur tuttavia, a suo giudizio, le istituzioni americane apparivano mirabili perché rappresentano la perfezione ideale per dare un assetto definitivo ai rapporti tra Stato e Chiesa. Egli, fra l’altro, prendeva a modello la Chiesa di Scozia all’interno della quale vi era stata una lite clamorosa che aveva preteso l’intervento della Camera dei Lord, come suprema Corte di Giustizia.
La lite nasceva dall’intenzione della Libera Chiesa di Scozia di fondersi con la Chiesa Presbiteriana Unita nel 1900. Tale idea non piacque ad una minoranza che chiese alla Libera Chiesa di Scozia di lasciare intatti statuti e beni, pur accordandogli l’unione. La proposta fu respinta dalla Corte di giustizia, così la minoranza si rivolse alla Camera dei Lord, che invece accolsero la proposta. Tuttavia, poiché "il summum jus della Camera dei Lord sarebbe stato summa injuria per quei bravi fedeli della maggioranza"(2), si insediò una Commissione che risolse in modo equo la questione.
Luzzatti, alla fine, considera che è necessario separare le Chiese dal Governo, ma non si possono separare interamente dallo Stato e dalle sue leggi: "La Chiesa invisibile delle anime è libera come il pensiero, ma la visibile pei suoi rapporti materiali è dominata dalle leggi civili dello Stato che il diritto pubblico deve concordare colla inviolabilità delle coscienze"(3).
Secondo Luzzatti, quindi, si devono separare le Chiese dal governo ma non si possono separare interamente dallo Stato e dalle sue leggi. E allora, si chiede Orestano, dove vanno a finire le precedenti teorie dell’onorevole, sconvolte dalla nuova affermazione che il diritto pubblico debba intervenire nelle questioni ecclesiastiche? Con tale teoria cade l’istituzione americana come prototipo in materia di politica ecclesiastica; cade il sistema della Legge delle Guarentigie, che dichiara l’incompetenza dello Stato in qualsiasi argomento religioso; e infine perde valore il consiglio dato alla Francia di provvedere ad un altro regime di diritto pubblico ecclesiastico(4).
Questo articolo, che alla fine si risolve in una critica spietata e sottile al pensiero di Luzzatti, all’Orestano rimasto peraltro oscuro, è un primo accenno ad un tema che occuperà ben ventiquattro anni di attività del filosofo. Egli segue nel suo pensiero un iter logico che matura con gli anni e con le esperienze vissute, sostenuto da profonda considerazione dello Stato ma soprattutto della Chiesa, e che alla fine approda a conclusioni sagge e ponderate.
La Questione Romana
Intorno ai rapporti tra Stato e Chiesa, il filosofo ritorna nel 1915 con un articolo apparso su L’Ora di Palermo il 12 febbraio e intitolato La Questione Romana. Vi ritorna di nuovo nel 1924, nel 1927 e nel 1929 con un articolo datato il 16 febbraio, dopo appena cinque giorni dagli Patti Lateranensi tra S. Sede e Stato Italiano che segnano la chiusura della tanto dibattuta "questione romana".
Nell’articolo pubblicato ne L’Ora il 12 febbraio1915, Orestano analizza la situazione con intelligenza e profondo spirito critico, partendo dalla "questione romana". Il 3 settembre del 1914 era stato eletto Benedetto XV, definito il Papa politico, che aveva messo in moto intorno al Vaticano tutto un lavorio diplomatico, per questo molti Stati come Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Germania, Russia, Francia, e persino Turchia, fecero in modo di nominare un ambasciatore presso la Santa Sede e di catturare la benevolenza del Pontefice. Nonostante ciò, era necessario, secondo Orestano, che l’Italia vigilasse perché, il giorno in cui fosse entrata in guerra, la Legge delle Guarentigie, secondo l’articolo 11, avrebbe protetto tutti gli inviati dei governi esteri presso la S. Sede secondo il diritto internazionale(5).
Come potrà l’Italia gestire gli inviati presso il Vaticano delle potenze con le quali sarà in guerra? Violerà le prerogative del Sommo Pontefice? Si fornirà la prova che il Pontefice è ospite in casa sua? A queste domande Orestano trovava difficile dare una risposta poiché tali difetti erano il frutto di una politica ecclesiastica italiana equivoca, incerta, tortuosa, confusa, oscura, nata dalla Legge delle Guarentigie che, sebbene dichiarata monumento nazionale, di sapienza politica e giuridica, in realtà riduceva la sovranità del Pontefice a figura retorica(6).
A tal propostito scrive Orestano: "L’errore fondamentale da cui tutta la nostra politica ecclesiastica è inficiata, è quello di avere voluto risolvere con principi generali, alla francese, una soluzione contingentissima, che non si riproduce in termini analoghi in nessun Paese del mondo e in nessuna altra epoca della storia; e di aver voluto trattare alla stregua del diritto comune un istituto non soltanto religioso, ma eminentemente politico, non pure italiano, mondiale"(7).
Secondo il filosofo aliese, l’Italia possiede un privilegio fra tutti i paesi del mondo: quello di essere sede del Papato, cioè il prodotto più alto della storia civile di venti secoli, l’unica autorità che comanda alle coscienze dei popoli indipendentemente da distinzioni di razza, nazionalità, contingenze storiche, economiche(8). E tale autorità, che è "l’espressione titanica dell’imperialismo romano"(9), è diventata tale anche per il merito e l’abilità di eroi italiani, anche se non sono mancati i sacrifici politici di tutto il Paese.
Questa grande potenza spirituale ha avuto il torto di essere trattata come una qualunque associazione privata avente sede nel territorio nazionale, senza che lo Stato italiano si preoccupi di considerarla appartenente al mondo intero fuori e al di sopra di ogni singolo Stato. In realtà Orestano non condanna né accusa la politica liberale italiana. Essa è stata una necessità storica dovuta alla rigida posizione assunta dal Papato che si è rifiutato di comprendere il cambiamento causato dalla perdita del potere temporale, e che, quindi, ha indirettamente obbligato l’Italia a prendere provvedimenti unilaterali. Sicuramente, pur sforzandosi di operare il meglio, il Parlamento italiano è stato incapace di trovare una soluzione soddisfacente al difficile rapporto con la Chiesa. Scrive Orestano: "La Storia non si muta con un articolo di legge, e, se violentata, si vendica"(10).
Avendo Orestano grande considerazione del Papato, afferma prima di tutto che è necessario che nessuna delle due autorità chieda aiuto ad un Congresso di Potenze, e che il Papato, un po’ come ha fatto l’Italia, trovi in sé una possibile soluzione. E’ necessario che la "questione romana" sia risolta direttamente e liberamente dal Papato e dallo Stato, all’infuori di qualsiasi ingerenza straniera, perché, essendo due enti sovrani e liberi, si intendano, trattando da potenza a potenza(11).
I tempi sono maturi perché le relazioni fra Stato e Chiesa vengano regolate con un trattato o un concordato; è urgente che la "questione romana" sia cancellata tra le questioni internazionali ancora da risolvere. Solo così essa smetterebbe di essere un incubo per gli Italiani.
Orestano per concludere pone un’obiezione proponibile alla sua soluzione: "Perché è auspicabile un Trattato con la Santa Sede e non con i rappresentanti di tutte le altre confessioni religiose?"(12). La risposta è data dal fatto che "nessuna Chiesa al mondo ha la storia della Cattolica romana; nessun’altra confessione è un organismo, oltre che religioso, politico internazionale, e ha una così assoluta preminenza su tutte le altre chiese nella vita religiosa del popolo italiano"(13).
Sicuramente il pensiero di Orestano precorreva un po’ i tempi (egli stesso definisce l’articolo prematuro), ma fu definito da un’altissima personalità vaticana "un binario sul quale si poteva andare molto lontano"(14).
La monografia del 1924
Finita la guerra e con l’avvento del Fascismo, il filosofo ritorna sull’argomento con una monografia dal titolo Lo Stato e la Chiesa in Italia, del 1924. Orestano ribadisce ancora una volta la necessità di risolvere le relazioni tra Stato e Chiesa non solo riguardo a tutto il sistema, ma soprattutto riguardo alla "questione romana". Da troppi anni la politica ecclesiastica italiana è imprecisa e contraddittoria, a tal punto da far apparire risolta la questione romana, dando l’impressione che lo stato di cose presente sia ideale per ragioni di convenienza internazionale.
Egli si rende conto che l’avvento del Fascismo ha portato con sé delle innovazioni, tra cui ricorda la reintroduzione del crocifisso e l’insegnamento religioso cattolico nelle scuole elementari, per cercare di venire incontro alle esigenze spirituali del popolo italiano. Inoltre il governo fascista, riaffermando che la religione cattolica, apostolica, romana è la sola religione dello Stato, secondo quanto era stato stabilito dallo Albertino Statuto, rimette in circolo grandi questioni e sollecita così quella revisione tanto agognata che non può più essere rimandata(15).
Le relazioni tra Stato e Chiesa vengono esaminate dal filosofo sotto l’aspetto dei principi. Tale scelta, che è preferita all’aspetto dell’opportunità o della convenienza, viene spiegata con le considerazioni profonde di un uomo che va cauto nel proporre soluzioni e che resta meravigliato dalla facilità con cui molta gente "in fatto di coltura spirituale si precipita franca e spedita alle soluzioni; che sa tutto, sa prevedere tutto e ha una ricetta pronta e sicura per tutto"(16).
Per Orestano, il terreno dei principi resta il più saldo ed è attraverso tale campo che cercherà di dare un contributo in un momento storico in cui non si può andare avanti, cercando continui ripieghi, ma è necessario trovare una soluzione concreta. La prima domanda che egli si pone è se sia ancora in vigore l’articolo 1 dello Statuto Albertino, poiché esso non fu abrogato, né implicitamente, né esplicitamente, da alcuna legge successiva. Soltanto la Legge delle Guarentigie del 1871 regolò in modo nuovo il titolo II sulle relazioni dello Stato con la Chiesa affermando che "cessa di avere effetto qualunque disposizione ora vigente, poiché sia contraria alla legge medesima" (17).
L’analisi di Orestano si concentra su tre punti. Il primo riguarda il significato e il valore dell’articolo 1 al tempo in cui lo Statuto Albertino venne promulgato; il secondo sullo spirito informatore della legislazione ecclesiastica consecutiva; il terzo ed ultimo riguardo al significato e valore che possa avere ancora oggi l’articolo 1. L’articolo 1 dello Statuto Albertino afferma che: "La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato" (…) "gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi".
Il filosofo aliese, con un’analisi acuta, mette in evidenza la novità dell’articolo, che consacra un principio di tolleranza, ristretto sicuramente ma proporzionato ai tempi; esso da una parte accorda una situazione di privilegio alla religione cattolica, dall’altra accorda tolleranza agli altri culti da parte dello Stato. L’affermazione "religione dello Stato" non può essere intesa né come appartenenza della religione allo Stato, né come appartenenza dello Stato alla religione. "Ma chi vi leggesse l’affermazione di un compito essenziale dello Stato in materia religiosa, cioè il suo dovere e diritto di coltura competente, ex auctoritate propria, di quella data religione, dovrebbe fare i compiti con la Chiesa stessa, la quale vedrebbe in ogni pretesa di tutela diretta, laica e statale, risorgere con fondato sospetto il tanto deprecato giuseppinismo, leopoldismo, tanuccianismo, ancorché travestito da… nazionalismo. E chi volesse interpretare l’articolo 1 come dichiarazione di sottomissione incondizionata dello Stato all’autorità che presiede alla religione cattolica, apostolica e romana, direbbe l’unica cosa accettabile dalla Chiesa, ma risalirebbe non al Patto albertino, bensì a concezioni politiche assai più arcaiche, del più remoto Medioevo. Aggiungiamo che l’articolo 1 dello Statuto ha avuto sempre questa pacifica e costante attuazione: il rito cattolico è il solo di cui si faccia uso nelle solennità civili e ufficiali; e il culto cattolico è il solo che gravi sul bilancio dello Stato, ch’è quanto dire sulla totalità dei contribuenti, anche non cattolici. Così inteso e applicato l’articolo 1 non solo non è stato abrogato mai, ma riceve una conferma annuale con l’annua Legge del Bilancio"(18).
Secondo Orestano ogni legge assume un determinato significato e valore se posta in relazione con altre leggi, e l’interpretazione del diritto deve essere sempre attuale e complessa. Nel caso specifico l’art. 1, ancorato al sistema politico del 1848, quando lo Stato e la Chiesa operavano in stretta collaborazione, non ha più senso nel periodo in cui egli scrive, e cioè da quando lo Stato italiano ha adottato il principio della separazione. Tale separazione comporta: incompetenze dello Stato in materia religiosa; autonomia totale e reciproca delle gerarchie rispettive dello Stato e della Chiesa; affermazione indipendente delle ragioni dello Stato nella materia mista quante volte interferiscono esigenze della vita civile con interessi della vita religiosa(19).
Questi tre punti rappresentano l’evoluzione dello Stato moderno, che ha accresciuto le sue funzioni sociali oltre che quelle giuridiche e militari, e che ha revocato nel campo spirituale le sue antiche pretese d’interventi d’autorità, bloccato il proprio potere davanti alla libertà di coscienza, per tutelare il patrimonio spirituale nazionale e i diritti universali(20).
Intorno al valore dell’art. 1, Orestano mostra che, se il principio della separazione è stato a capo del profondo mutamento di spiriti che pose in essere tutto il nuovo sentimento nazionale, tale articolo non può non avere risentito della trasformazione avvenuta tra il 1848 e il 1871. La formula "religione dello Stato" ha perduto il significato di compenetrazione tra i due sistemi, quando soprattutto lo Stato professò la propria incompetenza in materia religiosa.
Proprio per questo esso assume un valore restrittivo in quel contesto compatibile anche in regime di separazione tra Stato e Chiesa, poiché il culto cattolico è l’unico culto che gravi sul bilancio dello Stato; esso è inoltre l’unico di cui si serve lo Stato nelle proprie manifestazioni di vita religiosa. Tali privilegi in realtà gli derivano dal fatto che il popolo italiano è per tradizione un popolo cattolico, e la Chiesa, istituzione mondiale, non può essere paragonata "alla più piccola conventicola di non-conformisti"(21).
Volendo ancora di più entrare nel particolare, Orestano suggerisce di lasciare che la confessione religiosa mantenga il privilegio di cui gode, e di accordarsi sulla base del principio di separazione, in modo che lo Stato mantenga la propria incompetenza in materia e lasci che l’autorità religiosa agisca secondo la propria autorità e responsabilità. Egli accusa lo Stato italiano di avere svolto la propria politica ecclesiastica in modo incerto e contraddittorio, senza avere applicato perfettamente il principio della separazione. Il filosofo chiarisce che l’errore maggiore è stato quello di avere subordinato la Chiesa allo Stato là dove andava liberata, e di averla liberata dove doveva essere subordinata. Lo Stato ha con la Legge delle Guarentigie legiferato sul Papato come se fosse un istituto particolare o un ente morale qualsiasi sottoposto al potere legislativo, avendo per converso liberato il sistema episcopale da ogni rapporto di subordinazione verso lo Stato(22).
In realtà, afferma Orestano, la "questione romana" è rimasta insoluta, e ha condotto la Santa Sede ad accettare una convivenza imposta dalla legge, senza che per questo rinunci alle sue proteste. Non è possibile illudersi di giungere ad una soluzione giusto per conciliare Re e Papa, perché sarebbe una conciliazione provvisoria. La verità è che la Santa Sede non può accettare né alcuna legge dello Stato italiano né la Legge delle Guarentigie, che rappresenta un atto sovrano unilaterale al quale Essa non ha che da uniformarsi.
Tale Legge delle Guarentigie, di cui si è voluto sostenere il carattere contrattuale, internazionale ed addirittura statutario, è esposta alle vicende della politica interna dello Stato italiano e rimane una legge come tutte le altre. La Santa Sede allora è nella ragione, secondo Orestano, quando non riconosce né come legittimo né come definitivo il modo italiano di risolvere la "questione romana".
Non come legittimo, perché il Papato, che ha ricevuto la sua sovranità da Dio, non può tollerare che il sistema dei rapporti con lo Stato arrivi fino al trono pontificio e lo subordini. La potestà del Papato per tradizione supera qualsiasi subordinazione territoriale e politica, regolando le sue relazioni mediante concordati, che sono speciali trattati nel quale i due poteri possono intervenire per pattuire con uguale autorità e reciproca indipendenza.
Non come definitivo, perché la Legge delle Guarentigie è una legge fondamentale del Regno ed è stata dichiarata fondamentale dal consiglio di Stato in un parere del 1878. Scrive allora Orestano: "Or questi errori fondamentali costituiscono per la Santa Sede una pregiudiziale assoluta contro il nostro vigente diritto ecclesiastico; pregiudiziale che non può essere, come tutte le questioni di principio, abbandonata. Si può rinunciare, senza menomarsi, a un territorio; ad un principio non mai!"(23).
Tra gli errori che egli mette in luce molti riguardano particolarmente la Legge delle Guarentigie; essa infatti "manca di sistema"(24). Con tale affermazione Orestano apre un lungo paragrafo dove vengono spiegati tali errori che riguardano il Papato, il sistema episcopale, e singoli Istituti ecclesiastici, e dove vengono stabiliti nuovi principi direttivi, riproponendo la soluzione del concordato.
Per quanto riguarda il Papato, la legge del 1871 lo sottopone agli ordini e ai precetti del potere legislativo, avendo essa, come suo principio ispiratore, il diritto di conquista dello Stato italiano su Roma. Pur volendo concedere separazione e indipendenza allo Stato Pontificio, in realtà alla fine essa dispone come meglio crede. Si consente al Pontefice di tenere un corpo di guardie, ma se ne stabilisce il numero e i compiti; si assegna una dotazione annua alla Santa Sede, ma se ne stabilisce il bilancio di erogazione a cui il Pontefice deve attenersi; si concede al Pontefice di godere dei Sacri Palazzi Apostolici, ma gli si nega la proprietà degli stessi. A tale proposito Orestano nota che è stato accordato un diritto di godimento, cioè d’usufrutto, che secondo la legge italiana non può eccedere i trenta anni, e si è esplicitamente negata la proprietà, e quindi l’alienabilità.
Dallo studio delle altre disposizioni, Orestano considera la situazione sempre più complessa. La manutenzione ordinaria e straordinaria dei Sacri Palazzi, ad esempio, viene riservata al Pontefice, mentre gli si affida la sola manutenzione ordinaria della Biblioteca e dei musei. Ci si domanda allora chi dovrà provvedere alla manutenzione straordinaria; per il filosofo non vi sono dubbi: lo Stato italiano, che da sempre li ha considerati sua proprietà. "Tirata la somma, - scrive l’autore - si deve ritenere che di taluni beni il Pontefice ha l’usufrutto, di altri l’uso, di altri la custodia, di altri il deposito…, e tutto ciò in forza della medesima dizione ‹continua a godere…". Miracoli di ermeneutica legale!"(25).
Egli è categorico: "la situazione da noi creata con la legge del 1871 non avrebbe potuto essere né più subordinata né più precaria! La legge delle guarentigie non merita di sopravvivere ad una critica onesta e leale. E il Pontefice non poteva, non può , non potrà mai accettarla"(26). [...] "Confessiamo pure che non una sola delle disposizioni positive della legge è stata mai potuta applicare"(27).
Si era sostenuto che la Legge delle Guarentigie aveva superato la prova della guerra in modo brillante; in realtà, secondo il filosofo, con la guerra era crollato "l’unico elemento di realizzazione sin allora consolidato: la libertà delle rappresentanze diplomatiche presso la Santa Sede!"(28). E tutto ciò è frutto di una politica di "sovrapposizione" tra Stato e Papato, e non di tanto auspicata "separazione".
Per quanto riguarda il sistema episcopale, la nostra legislazione ha separato dove era necessario congiungere; da un lato ha esentato da ogni obbligazione verso lo Stato il sistema episcopale; dall’altro ha ignorato il diritto canonico quando era necessario un suo intervento per dare riconoscimento civile agli istituti ecclesiastici. La Legge delle Guarentigie con tutte le sue innovazioni rompe ogni legame fra lo Stato e i nodi delicati e vitali della organizzazione territoriale della Chiesa. Pur tuttavia, in aperta contraddizione con tutte queste disposizioni, lo Stato attraverso regi decreti o il codice penale riconosce notevoli attribuzioni all’autorità diocesana, pone in alto grado Arcivescovi e Vescovi, punisce i reati contro di essi. Il Vescovo ha assunto una posizione talmente privilegiata, che solo l’indifferenza verso i poteri religiosi ha indotto a spogliare lo Stato da qualsiasi rapporto con l’Istituto Diocesano(29).
Riguardo ai singoli istituti ecclesiastici, i principali errori derivano dalla ignoranza del diritto canonico da parte della nostra legge civile. Questo perché sotto la denominazione generica di "istituti ecclesiastici" si comprendono sia istituti che sono organi costitutivi e permanenti della Chiesa, che non hanno bisogno di uno speciale atto di riconoscimento, sia fondazioni di carattere occasionale, il cui riconoscimento è invece di competenza del potere esecutivo. E’ inadeguato, afferma Orestano, trattare enti ecclesiastici di diversa natura alla stessa stregua, perché gli inconvenienti che possono sorgere sono innumerevoli e danno luogo a questioni controverse.
Dopo avere messo in evidenza tutti gli errori che rendono quanto mai instabile la legge del 1871, egli propone soluzioni dirette, facilmente attuabili in un momento storico che forse gli preannunciava la possibilità di un’intesa. La strada che il filosofo percorre è quella della ricerca di nuovi principi direttivi per regolare su basi più salde il sistema delle relazioni fra Stato e Chiesa: "Formule intrinsecamente giuste pacificherebbero automaticamente, meglio di un qualsiasi trattato espresso di alleanza, i loro rapporti necessari e continui, poiché il diritto è pace. Solo un giusto regime giuridico può infatti assicurare allo Stato e alla Chiesa la piena libertà , cui hanno entrambi diritto; così opererebbe davvero il principio separatista delle due distinte sovranità"(30).
Orestano è convinto che la "questione romana" non può risolversi attraverso l’intervento di altre potenze, né con impegni assunti dall’Italia verso altri Stati, e poi da questi ratificati. Lo Stato italiano non può ammettere alcun intervento straniero per regolare i suoi problemi, soprattutto quando la questione riguarda un istituto supernazionale come il Papato. La soluzione proposta dal filosofo è la trattativa diretta tra la Santa Sede e lo Stato italiano, attraverso la pratica del concordato, che, come accordo da potenza a potenza, sia conforme tanto al diritto pubblico tanto al diritto della Chiesa(31).
Da un punto di vista formale, tale accordo poteva soddisfare le due parti in quanto espressione di sovranità. Quanto al contenuto, sarebbe stato necessario, invece, salvaguardare le prerogative e gli interessi dello Stato e della Chiesa, perché in caso contrario un accordo non sarebbe stato mai raggiunto. La Santa Sede riconosceva, in quel contesto, il fatto compiuto, a condizione che si salvaguardasse la sua indipendenza, compiendo un gesto che Orestano definiva di "inestimabile pregio spirituale e storico"(32). Ma sarebbe stato necessario valutare i diritti dell’Italia su Roma dal giorno del Plebiscito del 2 ottobre, coerentemente con il processo di formazione dell’unità nazionale: "Due potestà erano invero riunite nella persona del Sommo Pontefice, diverse per origine e per natura: la spirituale e la temporale, l’una procedente da Dio, l’altra, se non direttamente dal popolo, dai suoi sovrani temporali"(33). Orestano è convinto che la crescita di una grande nuova potenza, e cattolica per giunta, intorno alla sovranità spirituale della Chiesa, ha portato alla conseguenza che un vero e proprio Stato Pontificio non è più necessario. Ciò non può attenuare la potestà del Pontefice come Capo Supremo della Chiesa Universale, né può privarlo dei diritti, che gli spettano in rappresentanza del mondo cattolico. Il Papato avrebbe bisogno di essere libero di agire secondo la sua missione per realizzare la propria sovranità spirituale. Egli auspica che il Sommo Pontefice vorrà riconoscere l’integrità nazionale del Regno d’Italia, e che lo Stato italiano rispetti l’indipendenza della Santa Sede.
Per chiarire meglio il suo pensiero Orestano fa la distinzione fra potere temporale e temporalità e afferma che in realtà il concetto di sovranità pontificia ha subìto un’evoluzione dal 1870 in poi nella mente degli stessi cattolici. Il potere temporale della Chiesa si legava ad una particolare realtà politica che, agli occhi di Orestano, appariva superata(34).
L’insistenza dei Papi a risolvere la "questione romana", attraverso la quale reclamavano la sovranità territoriale come sostegno per giungere a quella spirituale, si poteva intendere attraverso le due accezioni di temporalità. In senso largo la Chiesa sentiva ancora il bisogno di avere un popolo da governare, ma ciò l’avrebbe riportata indietro verso lo Stato Pontificio. In un’accezione ridotta la sovranità temporale significava indipendenza territoriale, cioè esistenza al di fuori di qualsiasi territorio appartenente ad altro Stato(35).
La Santa Sede, a giudizio di Orestano, non poteva incorporarsi in un altro ente statale, e non poteva legare la propria esistenza a quella di nessuno Stato politico particolare. La sua supremazia spirituale a carattere mondiale l’obbligava a mantenersi in un isolamento politico e territoriale in cui emergeva la sua essenza supernazionale; tale isolamento era stato mantenuto nel Plebiscito che stabiliva la linea di confine fra i diritti del Regno d’Italia e quelli della Santa Sede considerati inalienabili, imprescrittibili e fondamentali per la sua missione di sovranità spirituale nel mondo(36).
Una cosa sola forse avrebbe potuto fare lo Stato, non volendo né potendo tollerare alcun’altra sovranità entro il proprio territorio: lasciare alla Santa Sede la sovranità in una porzione di territorio piccola quanto si voglia, ma sufficiente per proclamare un primato assoluto ed effettivo(37).
Tale soluzione appare già agli occhi dell’autore complicatissima se si considerano i rapporti di sudditanza verso le due sovranità, verso i due Stati: "Qui è necessario che i due Enti diano prova del più squisito senso di opportunità e di misura"(38) ed egli propone una soluzione intermedia: "Tutte le persone di nazionalità italiana domiciliate per ragioni di ufficio o di servizio, effettivamente, e non mai elettivamente, e permanentemente, e non mai a titolo precario, in territorio pontificio, mantengono un duplice rapporto di sudditanza: verso il Sommo Pontefice, quante volte dichiarino espressamente di accettarne la sovranità; e verso lo Stato italiano, in quanto operino nel Regno"(39).
Tale soluzione, si afferma nel testo, offrirebbe il duplice vantaggio di alleggerire la costituzione pontificia di un compito eterogeneo dal quale il diritto canonico è estraneo, e di conservare ai cittadini pontifici quei diritti acquisiti per la legislazione italiana. Di tali proposte i vantaggi sarebbero numerosi, perché la Chiesa manterrebbe intatta la sua figura storica di istituto universale, sovrano e supernazionale; il Sommo Pontefice sarebbe libero in ogni suo atto, e di questa libertà ne potrebbero godere la Curia Romana, i Concili, i Conclavi; libere sarebbero le relazioni diplomatiche della Santa Sede con qualsiasi potenza estera; libera l’entrata della Chiesa nella Società delle Nazioni, qualora lo richiedesse; libera, infine, la convocazione dei Concili ecumenici a Roma e in qualunque altra città del Regno.
Tutto ciò, secondo Orestano, offrirebbe al Sommo Pontefice l’opportunità di compiere dovunque tutte le funzioni del suo sacro ministero, godendo di tutte le prerogative spettanti ai sovrani esteri. Con tali proposte, si potrebbe anche procedere alla revisione di tante altre questioni minori, che riguardano sia diritti storici dello Stato - diritto di Legazia apostolica in Sicilia, il diritto di proposta o di nomina dei Vescovi - sia di vere e proprie rinunzie, all’amministrazione civile delle R. basiliche delle Puglie, al diritto sovrano sul terzo pensionabile dei benefici di r. nomina, all’amministrazione e alla sorveglianza dell’Opera di Terrasanta di Sicilia e i suoi ospizi. Del tutto, invece, dovrebbe essere regolata la materia beneficiaria. Il filosofo propone diverse soluzioni per diversi problemi.
Riguardo al conferimento di benefici maggiori e minori, lo Stato e la Chiesa potrebbero mettersi d’accordo prima della nomina, attraverso la constatazione dell’assenza di reciproche obbiezioni. Si potrebbe altresì ripristinare il giuramento di fedeltà dei Vescovi al Re, che la legge del 1871 aveva abolito.
Per quanto riguarda le disposizioni concernenti la personalità giuridica degli enti diocesani, capitolari, parrocchiali e assimilati, che, tuttavia, non possono formare oggetto di Concordato, essendo di esclusiva competenza dello Stato, Orestano auspica una soluzione. Gli inconvenienti della precedente disciplina derivano dalla mancata correlazione tra la legge italiana e il diritto canonico riguardo agli istituti ecclesiastici. Si potrebbe riordinare il riconoscimento della personalità giuridica degli enti istituzionali della Chiesa sulla base delle loro naturali gerarchie.
Ancora, riguardo all’amministrazione dei benefici vacanti, la proposta di Orestano è di lasciare la proprietà ecclesiastica nelle mani delle autorità ecclesiastiche, competenti e responsabili, che avrebbero l’interesse e anche il dovere di custodirla e adoperarla bene. Tale proposta avrebbe il fine di superare la legislazione che si basa su economati generali e subeconomati. Essi, infatti, ricevono in consegna, per inventariarli, ogni bene appartenente ad un beneficio vacante per riconsegnarlo al nuovo beneficiario eletto. Ma nel frattempo, con le rendite e gli affitti su tali beni, gli economati provvedono ai loro bisogni e alle loro spese, ed affidano al Ministero di Grazia e Giustizia ciò che rimane a disposizione, come fondo di sussidi. Con tale proposta si potrebbe porre fine alle attribuzioni degli economati generali, e fare in modo che l’Ente diocesano abbia l’amministrazione dei benefici minori che, all’interno della diocesi, restano privi di titolare(40).
Orestano esamina il riordinamento delle circoscrizioni diocesane e parrocchiali, che rientrerebbero in una materia mista in cui né la Santa Sede, né lo Stato potrebbero statuire da soli. Ogni altra materia mista dovrebbe essere disciplinata di comune accordo fra le due Potenze. Resta sempre vero e necessario il principio di separazione tra Stato e Chiesa, ma esso risulta inutile quando porterebbe ad una rottura in campi dove entrambe le Potenze di fatto si incontrano(41).
La soluzione resta il Concordato, che permetterebbe ad entrambi i poteri di agire secondo la propria competenza, stabilendo un limite necessario al proprio sviluppo.
Orestano, per concludere, si sofferma su altri due punti importanti. Il primo riguarda l’inalienabilità dei beni della Santa Sede. Il problema era già stato posto dal legislatore del 1871, che si preoccupava del rischio che i beni mobili ed immobili appartenenti alla Santa Sede fossero trasferiti, per circostanze politiche, a terzi anche stranieri, cessando di far parte del patrimonio storico ed artistico dell’Italia. La soluzione, secondo Orestano, potrebbe essere trovata, dichiarando su tali beni un diritto di prelazione a titolo oneroso per lo Stato italiano, o, in modo definitivo, dichiarandoli per sempre inalienabili.
Il secondo punto analizzato da Orestano riguarda la dotazione della Santa Sede in sostituzione del soppresso Bilancio romano. Secondo personali considerazioni di Orestano, lo Stato non può non riconoscere di essere debitore nei confronti del Papa della rendita attribuita con la Legge delle Guarentigie. Al contrario l’Italia dovrebbe stabilire in favore di essa un canone annuo maggiore di quello stabilito dalla predetta legge. Tale aumento potrebbe rappresentare un indennizzo per i danni ricevuti in tanti anni e per il maggior valore del denaro e dell’economia.
La previsione di Orestano è che la Santa Sede non accetterà denaro dallo Stato che, a sua volta, potrebbe impiegare tale somma in opere pubbliche che soddisfino, in forza del Concordato, entrambe le parti(42).
Tutto il nuovo sistema proposto da Orestano si ispira alla situazione privilegiata che la Chiesa e il Papa hanno nel mondo cattolico, ma soprattutto in Italia. Tutti i tentativi di subordinare la Chiesa sono andati falliti, ed agire secondo idee generali è un grave errore in politica, in quanto si perde il contatto con la realtà.
"L’equivoco sta nel trattare tutte le idee generali come principi sol perché tutti i principi sono idee generali; ma non è vero la reciproca. (…) La vera uguaglianza non consiste nel trattare egualmente enti diseguali, ma come insegnò già Platone, nel trattarli inegualmente"(43).
La situazione della Santa Sede interessa l’Italia in primo luogo, ma riguarda anche i Paesi stranieri, che avrebbero torto ad ostacolare il regolamento proposto. Ad essi gioverebbe una situazione giuridica netta, contrapposta a quella contingente confusa ed anormale. In questo modo il sistema papale uscirebbe dalla convenzione che trionfa solo riguardo all’Italia e al mondo, e l’Italia, dal suo canto, assumerebbe il merito e la responsabilità di fronte al mondo e alla storia. L’Italia, per Orestano, ha tutte le carte per attuare tale progetto, sviluppando la concezione politica progressista che pone lo Stato al di sopra di qualsiasi alternativa spirituale(44).
In fondo l’Italia attuerebbe nella sua politica ecclesiastica il famoso principio di separazione, poiché "separare occorreva ciò ch’era separabile, ma congiungere anche, contemplando e armonizzando ciò che, per contingenze storiche, ma ragguardevolissime, inseparabile era e rimaneva"(45).
Orestano chiude la monografia con una formula che vuole esprime il principio ispiratore della nuova legislazione ecclesiastica italiana e che modifica la famosa formula di Cavour: "Libera Chiesa e libero Stato"(46).
L’articolo su "Nuova Antologia" del 1927
Il 16 luglio 1927, a continuazione dei precedenti scritti sullo stesso tema, Orestano pubblica un articolo in " Nuova Antologia" dal titolo La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo. Proprio in quel periodo le trattative tra Santa Sede e Italia si erano un po’ arenate, ma secondo l’opinione di uomini che operarono la Conciliazione, tale articolo fece in modo di rimettere in gioco tutto, incoraggiando così a proseguire in esse.
Il suo esame stavolta si limita a questioni fondamentali di diritto pubblico, prescindendo da considerazioni di ordine spirituale o di convenienza politica. L’analisi della situazione è caratterizzata non solo da considerazioni giuridiche, ma anche da un alto concetto della missione universale della Chiesa e dalla preoccupazione di togliere al suo sviluppo ostacoli estrinseci(47).
Sicuramente una situazione più chiara gioverebbe anche allo Stato italiano, dal momento che il regime di confusione tra Stato e Chiesa aggrava il malessere, l’incertezza e le incompatibilità che da sempre contraddistinguono le due Potenze: "Non vi è cerimoniale, né buona volontà, non vi sono compromessi, né concessioni particolari, per importantissime che siano, che bastino a neutralizzare un errore di principio. La Chiesa mostra su questo punto una intransigenza, la quale sorprende soltanto gl’ignari. Essa, che misura a secoli le proprie lotte col potere politico, sa aspettare. Può rinunziare, senza scapitarne, a un territorio; a un principio non mai"(48).
Egli mette in evidenza che, quando l’art. 1 dello Statuto proclama la religione cattolica la sola religione dello Stato, quando il titolo II della Legge della Guarentigie regola le relazioni dello Stato con la Chiesa, abrogando qualunque disposizione contraria, e infine quando lo Stato fascista rimette in vigore l’art.1, si tratta di provvedimenti che riguardano soltanto lo Stato italiano e la sua politica interna. La Chiesa rimane, a dispetto di tutto, una società cattolica, perfetta, suprema e indipendente, e mai l’Italia potrà declassarla a soggetto di diritto internazionale, perché essa non è meno sensibile di ogni altro ente sovrano al principio della sovranità, che riceve direttamente da Dio(49).
Riesaminata la situazione in cui è venuta a trovarsi la Chiesa cattolica con la Legge delle Guarentigie, che determinò le prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, Orestano sostiene che il Fascismo possiede le capacità e l’autorità necessarie per risolvere la più grande questione storica che sovrasta la Chiesa e lo Stato, e che si espande sull’intero mondo cattolico.
La Chiesa non poteva accettare una soluzione emanata soltanto da una legge italiana, che, per quanto perfetta, rimane un atto sovrano unilaterale, al quale l’altra parte non ha che da uniformarsi. La verità è che la Legge delle Guarentigie è una legge come tutte le altre e, pertanto, esposta alle vicende della politica interna dello Stato italiano(50). Per tali considerazioni, egli, mettendo di nuovo da parte l’idea dell’intervento di un Congresso di Potenze, ripropone la pratica dei Trattati e dei Concordati. Tale pratica più di ogni altra si adatta al diritto pubblico e dà la possibilità ad entrambe le parti di regolare tutta la materia attraverso un atto che risulta concluso da potenza a potenza(51).
L’attenzione e il giudizio di Orestano si concentrano sulla Legge delle Guarentigie, mostrandone i difetti sia nel riguardo dei principi politici, che in quello della tecnica legislativa. Da un punto di vista politico, il filosofo ribadisce che l’errore è stato quello di avere applicato al contrario il principio della separazione tra Stato e Chiesa, subordinando la Chiesa dove andava liberata, e liberandola dove andava subordinata. Si è legiferato sul Papato e sovrapposto lo Stato alla Chiesa, e dall’altro lato si è liberato il sistema episcopale da qualsiasi rapporto di subordinazione verso lo Stato, ignorando però il diritto canonico, dove andava raccordato con la legge civile(52).
Orestano, come aveva già fatto nella monografia del 1924, mette in luce tutti gli errori riscontrabili nella Legge delle Guarentigie. Si riesaminano le prerogative accordate al Pontefice e le disposizioni alle quali Egli deve sottostare, riguardanti il corpo di guardia, la dotazione annua, i Sacri Palazzi Apostolici. Viene riproposta la questione dei Sacri Palazzi e dei luoghi riservati al Papa, nonché quella riguardante la Biblioteca e i Musei, e la loro manutenzione ordinaria e straordinaria. In conclusione Orestano scrive: "La legge del 1871, giuridicamente parlando, manca di sistema, mentre innegabilmente ha collocato il Sommo Pontefice e la Santa Sede, malgrado le asserite prerogative, in una situazione quanto mai dipendente e precaria"(53).
Una semplice critica però non soddisfa Orestano che si chiede se esistano soluzioni concrete al contrasto tra Stato e Chiesa. Esaminando a fondo la situazione, comprende che la Chiesa, libera dal potere temporale, non vuole più essere uno Stato politico, militare, giudiziario, ma tende sempre più ad imporsi come potenza suprema spirituale. Secondo Orestano è opportuno volgere lo sguardo un poco indietro e precisamente al Plebiscito del 2 ottobre, che per lo Stato è il culmine di formazione dell’unità nazionale, per la Chiesa non è motivo di menomazione. Egli insiste sulla separazione ideale e territoriale tra Stato e Chiesa, quale quella segnata appunto dal Plebiscito, e sulla quale l’Italia non avrebbe più dovuto disquisire: "Certo l’Italia, dominata dalla convinzione della propria conquista bellica, e attraversata da correnti fortemente giurisdizionalistiche e anticlericali, aveva un argomento formidabile nelle proprie mani: essere assurdo e impossibile ammettere l’esistenza di due sovranità nell’ambito di un medesimo territorio e Stato".
Ma il problema è mal posto, ed è stata proprio "questa confusione di beni" che ha impedito di risolvere il dissidio: "La S. Sede Apostolica non può esistere entro il territorio di uno Stato qualsiasi, entro un territorio sottoposto a giurisdizione, a sovranità che non sia la propria. La S. Sede Apostolica non può accettare alcuna solidarietà politica necessaria con nessuno Stato particolare (…). Essa deve vivere in un rigoroso isolamento politico, e quindi anche territoriale, donde esprimere in modo inequivocabile la propria essenza preternazionale e supernazionale (…). Nulla, infatti, nuoce più alla Chiesa Cattolica nella considerazione del mondo, che di apparire, anche se non è, troppo commista, troppo connessa con le sorti e vicende storiche e politiche, interne ed esterne d’Italia"(54).Se si raggiungesse un simile accordo, il problema, secondo Orestano, resterebbe quello di chiarire la condizione dei cittadini italiani residenti nei luoghi della Santa Sede(55).
Per quanto riguarda le rappresentanze diplomatiche presso il Vaticano, il problema troverebbe una soluzione attraverso la "libertà geografica", che assicurerebbe neutralità assoluta alla Santa Sede in caso di conflitto dell’Italia con altri Paesi. La soluzione di Orestano potrebbe mettere d’accordo sia la Chiesa, che avrebbe modo di essere indipendente e di uscire trionfante dalle lotte con lo Stato; sia l’Italia, che, applicando il principio di separazione, libererebbe se stessa e la Chiesa sulla base della nuova formula inaugurata da Orestano "Libera Chiesa e libero Stato". Da tale soluzione ne trarrebbe giovamento anche il mondo cattolico, che vedrebbe finalmente il Papato rivestito di una nuova sovranità popolare e il mondo non cattolico, che non avrebbe più da diffidare di Stato e Chiesa insieme(56). Orestano auspica che Stato e Chiesa riguardino le rispettive posizioni, in un momento storico che, forse, si presta ad un mutamento radicale.
1929: La S. Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio
Il 1929 sembrò al filosofo aliese un anno di grazia, che avvalorava sicuramente le sue precedenti teorie e i suoi sforzi di trovare una soluzione al difficile problema. Il 16 febbraio, in base agli elementi forniti dal comunicato ufficiale del 12 febbraio intorno ai Patti Lateranensi, pubblica un articolo su "Nuova Antologia" dal titolo La Santa Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio. Orestano comprende la portata storica di tale accordo che "dichiara definitivamente ed irrevocabilmente eliminata la questione romana", e che "dà una soluzione definitiva di un problema esistenziale che ha investito in pieno e travagliato l’Istituto Pontificio fin dal suo primo sorgere, ma in special modo dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente ad oggi, e dunque per circa un millennio e mezzo"(57).
Il Papato ha dovuto sempre risolvere il problema della propria esistenza ed indipendenza dal potere civile, dove esistenza voleva dire temporalità, indipendenza, sovranità territoriale. Esso ha dovuto sostenere numerose vicende politiche per affermare e salvaguardare la propria indipendenza, e costruire una storia unica al mondo, all’interno della quale "scorre il filo aureo d’una spiritualità sublime, inconfondibile con qualsiasi altro processo storico terreno"(58).
L’11 febbraio, come si è detto, vengono sottoscritti tra Santa Sede e Stato italiano un Trattato, un Concordato e una convenzione finanziaria.
E’ proprio il Trattato che risolve la "questione romana", aperta il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma, che diveniva capitale d’Italia. Tale evento, che faceva perdere alla Santa Sede il potere temporale, giunge nel momento in cui essa in campo spirituale raggiungeva l’apogeo attraverso il Concilio Vaticano dell’8 dicembre 1869. In esso si proclamava il dogma dell’infallibilità del Papa e si definiva nuovamente il Primato del Vescovo di Roma. Quel dogma aveva segnato il trionfo del sistema papale sul sistema episcopale, ma la conquista di Roma sottoponeva la Santa Sede "oggetto di diritto internazionale alla legislazione italiana"(59).
Il Trattato è un accordo tra due potenze, che si trovano in situazione di parità, in materia di politica generale, e può interessare anche altre potenze. In esso, atto necessario, la Santa Sede e l’Italia si separano politicamente e territorialmente e si negano a vicenda. Il Concordato è un trattato speciale che concerne la Santa Sede e regola la materia ecclesiastica. In esso il Sommo Pontefice si trova in una posizione superiore rispetto al Trattato, e fa delle concessioni. In quanto atto volontario, fa sì che le due parti si riuniscano nelle cure della religione e nel governo delle coscienze(60).
Il problema del Trattato è quello di riconoscere al Papato una sovranità particolare, che ha bisogno di un elemento fondamentale, quale è il territorio, per potere, all’interno di esso, negare qualsiasi sovranità altrui ed affermare la propria assoluta libertà ed indipendenza. Orestano chiama tale territorio "porziuncola", affermando che: "E non a caso diciamo porziuncola, perché ci sembra che uno spirito francescano, italianissimo perciò, in cui il giure e la santità si fanno perfetto equilibrio, ha presieduto al Trattato, con la più sottile valutazione di fattori ideali e pratici, spirituali e fisici, con una sintesi portentosa di principi formali rigorosi e di possibilità di azione illimitate, di contingenza e di storia eterna"(61).
Il Trattato riesce in tale intento, tanto da far dire al Sommo Pontefice in un discorso dell’11 febbraio: "Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che ci siamo riservati e che ci fu riconosciuto, è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo". Orestano è convinto che tali Patti creino una situazione nuova e un diritto nuovo. La Chiesa, liberata dal passato, ristabilisce "l’asse spirituale del proprio sistema sovrano", trovando nella separazione dallo Stato il "fulcro su cui poggiare la propria leva di braccio infinito, onde sarà dato al Sommo Pontefice di muovere il cielo e la terra"(62).
Una volta riconosciuta la giurisdizione sovrana della Santa Sede sul Vaticano, spettava solo al Sommo Pontefice di definire se stesso e il proprio Stato senza chiedere ad alcuno né assenso, né consenso, né garanzia. Qui il Sommo Pontefice ha agito non solo in conformità all’interesse italiano, riconoscendo allo Stato la capacità legale e la superiorità politica, ma ha riconosciuto anche l’autorità del Fascismo e del Duce, quale Capo del governo, a risolvere un problema che tutti i governi nel passato avevano trascurato.
E ancora il Papa, inserendo nel Trattato una dichiarazione che forma un capitolo nuovo al diritto della Chiesa, afferma che "la Santa Sede dichiara che vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali tra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le Parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace e riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale. In conseguenza di ciò il territorio della Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerato territorio neutrale ed inviolabile"(63). Essa, definitivamente, si colloca al di sopra di tutte le competizioni territoriali, avendo come unico e vero alleato Dio(64).
Il Trattato crea lo "Stato della Città del Vaticano", attribuisce al Papa il titolo di Vescovo di Roma, stabilisce franchigie per i dignitari della Chiesa e le persone appartenenti alla Corte pontificia, immunità territoriali per le Basiliche Patriarcali e per alcuni edifici situati fuori della Città. Viene stabilito anche che i tesori d’arte e di scienza, esistenti nella Città del Vaticano e nel Palazzo Lateranense, continueranno a rimanere visibili agli studiosi e ai visitatori.
Nel momento in cui scrive Orestano non si conoscono ancora i termini di alcune clausole, riguardanti, per esempio, i sudditi del nuovo Stato. Riguardo alla materia penale si stabilisce che "a richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data nei singoli casi od in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano."(65).
Per quanto riguarda il Concordato, esso fa veramente dello Stato italiano uno Stato cattolico e si occupa anche direttamente della vita e della educazione religiosa del popolo italiano. Nella dichiarazione introduttiva si stabilisce che il Governo, in considerazione del carattere sacro di Roma, farà in modo di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto con detto carattere. Si ribadisce l’articolo 1 dello Statuto e, particolarmente, il principio di tolleranza che è condizione necessaria per una pacifica convivenza. D’altra parte, in relazione alla dichiarazione preliminare del Concordato, esso è sinonimo di misura e di buon senso(66).
Viene stabilita una nuova procedura per la nomina degli Arcivescovi e dei Vescovi, secondo la quale la Santa Sede dovrà richiedere al Governo italiano se esistono obiezioni di ordine politico relativamente alla persona da scegliere. Se tali obiezioni non esistono, si provvederà subito alla nomina.
Viene ripristinato il giuramento di fedeltà dei Vescovi nelle mani del Re e si riattribuisce loro carattere di pubblico ufficiale oltre che di dignitario dello Stato italiano. Il Vescovo, secondo Orestano, ha una posizione così importante all’interno della Chiesa e della legislazione italiana, che sarebbe un controsenso escluderlo dalla disciplina statale italiana. Egli, infatti, ha facoltà di emanare atti, ai quali è riconosciuta libera circolazione nel Regno e gli viene riconosciuto il diritto di affissione nelle chiese e nelle basiliche, senza bisogno di preventivo assenso della autorità laica. Ha, inoltre, la potestà di conferire i benefici minori, senza alcun intervento dello Stato italiano, e acquista col Concordato nuovi poteri amministrativi sul patrimonio ecclesiastico della diocesi e sui benefici vacanti(67).
Assai rilevanti sono le clausole che riguardano la riforma della legislazione ecclesiastica italiana in armonia col Trattato. Quattro sono le materie che rientrano in tale riforma, analizzate singolarmente da Orestano in relazione ai vecchi ordinamenti. La riforma ha, innanzitutto, riguardato il riordinamento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici e delle circoscrizioni diocesane e parrocchiali. Si è, inoltre, regolamentata l’amministrazione dei benefici vacanti; la personalità giuridica e il regolamento patrimoniale delle congregazioni religiose; la revisione e l’eventuale rinunzia di una serie di diritti storici e tradizionali. Secondo Orestano, assume una particolare importanza l’articolo del Concordato con il quale lo Stato riconosce al sacramento del matrimonio gli effetti civili. Tale disposizione interesserà i cattolici, a cui verranno letti, al momento della stipulazione dell’atto di matrimonio, gli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi. In tal modo il sacramento avrà validità per la Chiesa e per lo Stato.
La questione matrimoniale, tuttavia, avrebbe bisogno di una profonda analisi, sia da parte dell’autorità civile, sia di quella religiosa. Vi sono da tenere in conto numerose componenti per fare in modo che i due diritti, civile e religioso, si accordino in modo perfetto(68). Orestano, colpito dalla notizia degli accordi che avvaloravano le sue precedenti teorie sulla necessità di una riforma, non resistette alla tentazione di scrivere l’articolo menzionato, sulla base del breve comunicato ufficiale che in modo sommario delineava i tre documenti. Tuttavia, non conoscendo perfettamente tutti i termini dell’accordo, non esitò ad affermare che essi "si imprimono con caratteri di una grandiosità incomparabile nel gran libro della storia non pure d’Italia, dell’umanità"(69).
Egli elogiò Benito Mussolini che seppe preparare il terreno a questo evento storico che rialzò il prestigio dell’Italia e lo ringraziò con viva commozione in nome di tutto il mondo cattolico, per avere inaugurato per l’Italia e per il mondo un nuovo diritto e una nuova storia(70): "E noi - scrive l’autore - rimaniamo attoniti di fronte al minimo di mezzi con cui è stato operato il prodigio che conchiude energicamente una storia e ne schiude un’altra, con quella squisita misura di precisione nelle idee, della quale solo i geni politici detengono il segreto"(71).
A conclusione di questa ricerca, si può sicuramente affermare che Orestano era un pensatore acuto e sapeva guardare lontano. Le sue idee, intorno al rapporto tra Chiesa e Stato, hanno di molto anticipato l’epilogo del 1929, che chiude, in modo definitivo, la "questione romana". Egli aveva visto giusto su un possibile accordo che, lasciando le due Potenze nella propria sovranità, dava loro la possibilità di regolarsi. Chiesa e Stato avrebbero mantenuto, in questo modo, l’indipendenza all’interno del territorio italiano. Le teorie di Orestano, che seguono gli avvenimenti storici, sono intrise di personali considerazioni politiche e religiose. Esse delineano un quadro, abbastanza chiaro, di quella che era la situazione dello Stato e della Chiesa e di ciò che sarebbe stato necessario fare per evitare ulteriori conflitti.
L’idea di Orestano, secondo cui il conflitto doveva essere risolto con un accordo tra le due Potenze, fu avvalorata con la firma dei Patti del 1929, e furono ribaditi nella carta costituzionale, ed ulteriormente con il nuovo Concordato del 1984. A questo punto si comprende in pieno l’attualità del suo pensiero. Ciò che egli scrive per la prima volta nel 1915, nell’articolo su L’Ora di Palermo, successivamente nel 1924, con la monografia, ed infine nel 1927, con un altro articolo su Nuova Antologia, sembra essere la strada battuta dal legislatore italiano del 1984 con riferimento alle cosiddette "intese concordatarie". All’art. 13.2 dell’Accordo, infatti, si stabilisce che "ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana".
Le intese concordatarie, per tanto, non sono che la naturale evoluzione di un pensiero, di un’idea, che ha avuto in Orestano uno dei primi sostenitori. Sembra proprio che ad esse il filosofo abbia pensato per una soluzione dei conflitti il più possibile pacifica e moderna.
NOTE:
(1) Cfr. F. ORESTANO, Rapporti fra Stato e Chiesa nella mente di Luigi Luzzatti, in Rivista di Roma, anno IX, fascicolo XXIV, 25 dicembre 1905, p.752.
(2) Ivi, p. 753.
(3) Ivi, pp.753-754.
(4) Ivi, p. 754.
(5) Cfr. F. ORESTANO, Verso la Nuova Europa, Roma, Optima, 1915, pp. 117 e ss
(6) Ivi, p. 121.
(7) Ivi, p. 122.
(8) Ivi, p. 123.
(9) Ibidem
(10) Ivi, p. 125.
(11) Ivi, p. 127.
(12) Ivi, p. 129.
(13) Ibidem.
(14) Cfr. F. ORESTANO, Dalla legge delle guarentigie alla conciliazione, in Opera Omnia, vol. III, tomo I, Padova, CEDAM, 1961, p. 230.
(15) F. ORESTANO, Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Optima, 1924, pp. 6-7.
(16) Ivi, p. 9.
(17) Ivi, pp. 10-12.
(18) Ivi, pp. 13-14.
(19) Ivi, p. 17.
(20) Ibidem.
(21) Ivi, pp. 20-21.
(22) Ivi, p. 22
(23) Ivi, p. 26.
(24) Ivi, p. 27.
(25) Ivi, p. 31.
(26) Ivi, p. 32
(27) Ibidem.
(28) Ibidem
(29) Ivi, pp. 35-36.
(30) Ivi, pp. 39-40.
(31) Ivi, p. 41.
(32) Ivi, p. 42.
(33) Ivi, p. 43.
(34) Ivi, p. 46.
(35) Ivi, p. 47.
(36) Ivi, pp. 48-49.
(37) Ivi, p. 50.
(38) Ivi, p. 51
(39) Ivi, pp. 51-52.
(40) Ivi, pp. 64-67.
(41) Ivi, p. 69.
(42) Ivi, pp. 75-77.
(43) Ivi, pp. 78-79.
(44) Ivi, p. 80.
(45) Ibidem.
(46) Ivi, p. 81.
(47) Cfr. F. ORESTANO, La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo, in Opera Omnia, cit., p. 231.
(48) Ivi, p. 232.
(49) Ibidem.
(50) Ivi, p. 233.
(51) Ivi, p. 234.
(52) Ibidem.
(53) Ivi, p. 236.
(54) Ivi, p. 239.
(55) Per la soluzione del problema si rimanda alla monografia Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Optima, 1924, p. 52.
(56) Cfr. F. ORESTANO, La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo, cit., pp. 240-241.
(57) F. ORESTANO, La Santa Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio, in Opera Omnia, cit., p. 242.
(58) Ivi, p. 243
(59) Ivi, p. 244.
(60) Ivi, p. 245.
(61) Ivi, p. 246.
(62) Ivi, pp. 246-247.
(63) Ivi, p. 248.
(64) Ibidem.
(65) Ivi, p. 250.
(66) Ivi, p. 252.
(67) Ivi, p. 253.
(68) Ivi, p. 256.
(69) Ivi, p. 257.
(70) Ibidem.
(71) Ivi, p. 245.
Il Parlamento europeo, la Commissione, il Consiglio…- così lontani eppur così presenti nella vita di tutti i giorni dei cittadini europei. Gran parte di questi ultimi conoscono le tre Istituzioni non per le loro attività, ma per lo "scandalo" che ha coinvolto l’Unione Europea un anno fa. Ma chi sono e cosa fanno gli "eurocrati"? Quale verità profonda e quali giochi sottili si nascondono dietro gli avvenimenti dell’anno scorso?
1. Il Parlamento, la Commissione, il Consiglio dell’Unione.
Oggi, il Parlamento europeo viene descritto come l’unica istituzione internazionale eletta a suffragio universale diretto, con poteri di controllo, che partecipa al procedimento legislativo dell’UE, tutela i diritti umani, collabora con i parlamenti nazionali. A differenza di questi ultimi, il Parlamento europeo, nato come semplice assemblea consultiva, si è guadagnato ogni sua prerogativa nel corso di una lunga battaglia, condotta contro una visione internazionalistica del processo comunitario e contro la paura degli Stati dell’Unione di perdere la propria sovranità. Durante questo lungo percorso, esso si è più volte scontrato ed incontrato con le altre Istituzioni europee, che, legate in misura maggiore agli Stati nazionali, ne hanno a volte ostacolato ed a volte stimolato la transizione verso una sua sempre maggiore democratizzazione.
Il Consiglio, dal canto suo, rappresenta la faccia intergovernativa dell’Unione, anche se l’influenza del Parlamento su di esso si è ampliata grazie all’aumento dei poteri di quest’ultimo in materia finanziaria e legislativa. Negli anni si è stabilita tra i due organi una sorta d’interazione(1) ed una significativa evoluzione in questo senso è avvenuta grazie all’applicazione della procedura di codecisione, implicante l’instaurazione di un dialogo tra le due "autorità legislative"(2). Il Consiglio non solo "legifera", ma fissa gli obiettivi politici dell’Unione e coordina le diverse politiche nazionali(3); tutti compiti che, in generale, sono più propri di un parlamento. È evidente, quindi, che, ad un livello più profondo, lo scontro tra il Parlamento, eletto direttamente, ed il Consiglio, rappresentante i governi, corrisponde allo scontro tra le due facce dell’UE, quella democratica e quella intergovernativa.
Anche la Commissione ha subito negli anni un processo di "democratizzazione", dovuto, in primo luogo, all’instaurazione di un rapporto di fiducia tra essa ed il Parlamento e, in secondo luogo, agli accresciuti poteri di controllo(4) che quest’ultimo detiene nei suoi confronti. Il rapporto che gradualmente si è instaurato tra le due istituzioni si avvicina sempre più a quello che, in tutti i sistemi democratici moderni, esiste tra l’organo esecutivo e l’organo legislativo, espressione della volontà popolare. Grazie alla sua indipendenza dagli Stati membri ed al ruolo affidatole dai trattati, la Commissione rappresenta da sempre il pivot del processo d’integrazione europea(5) e l’elemento di mediazione tra il Parlamento ed il Consiglio.
Nell’espletamento del suo ruolo, tuttavia, la Commissione trova delle limitazioni, che hanno contribuito in maniera più o meno determinante al suo indebolimento degli ultimi anni(6). D’altro canto, il recente trattato di Amsterdam ha rafforzato il ruolo del Presidente, che sceglie i membri della sua équipe e definisce gli orientamenti politici del collegio, il quale, godendo della fiducia tanto del Parlamento quanto di quella dei governi nazionali, vanta una "doppia legittimità". Questo ruolo rafforzato aumenta l’indipendenza dell’Istituzione e ne rafforza il ruolo di propulsore del processo d’integrazione. In tale ottica, una serie di riforme sono state intraprese già dalla Commissione Santer (1995-1999) e continuano ad evolvere sotto gli auspici dell’attuale Commissione Prodi.
2. Il Parlamento e la Commissione europea: un rapporto controverso
Gli scontri degli ultimi anni tra il Parlamento europeo e la Commissione si sono concentrati, soprattutto ma non in maniera esclusiva, su questioni budgetarie, campo in cui il Parlamento detiene ampi poteri(7). Mi sembra interessante sottolineare che solo un 5% del bilancio comunitario è destinato alle spese amministrative globali di tutte le Istituzioni europee(8). Contrariamente a quanto si crede comunemente(9), quindi, la Commissione, che deve svolgere innumerevoli compiti, tra i quali la gestione di un bilancio di 85,5 miliardi di euro e di un mercato unico di più di 450 milioni di abitanti, non dispone di un finanziamento amministrativo adeguato e, conseguentemente, di un personale abbastanza numeroso (un funzionario ogni 100.000 abitanti) per potere far fronte in maniera adeguata alle incombenze affidatele in primo luogo dai trattati e, in misura sempre maggiore, dal Consiglio.
Il controllo della corretta applicazione delle disposizioni del bilancio e la prevenzione delle frodi sono tra i compiti principali della Commissione di controllo del bilancio (COCOBU) del Parlamento, la quale procede ogni anno alla valutazione della gestione del bilancio UE da parte della Commissione, prima di approvarne i conti e di accordarle il discarico di responsabilità sulla base del rapporto annuale della Corte dei Conti(10). Nel marzo 1998, il rifiuto del Parlamento di concedere il discarico per l’esercizio del bilancio i media europei, che "la censura da mezzo virtuale era diventata realtà"(12). Evidentemente, oggi, il Parlamento svolge un ruolo più forte nell’ambito delle vicende comunitarie a scapito della Commissione, fenomeno al quale corrisponde, in campo nazionale, una tendenza opposta: il rafforzamento del ruolo degli esecutivi nazionali, cui corrisponde un indebolimento delle assemblee legislative. Più in generale, i parlamenti nazionali lasciano più spazio ai governi; questi ultimi creano un campo d’azione e di concertazione ad un livello superiore, quello europeo; in quest’ambito, essi, inizialmente forti, tendono a lasciare (volontariamente o spinti da processi ormai semi-autonomi) sempre più spazio all’Assemblea, che non può essere definita correttamente "legislativa", ma che sicuramente è rappresentativa di quella parte della struttura europea che sta emergendo con prepotenza: i cittadini.
Ad un’analisi più profonda, risulta evidente che la "voce" del "popolo" europeo è quella che "cresce" più velocemente di tutte le altre e che maggiormente ha diritto ad essere ascoltata. L’attuale assetto delle Istituzioni comunitarie e, più in generale, dell’UE non è al passo con tale tendenza e la sua struttura attuale scricchiola, per evolversi verso qualcos’altro. Ma, in definitiva, cosa s’intende per "qualcos’altro"? Un’unione federale? La creazione di una "Costituzione" europea che getti le basi di tale Federazione? La crisi istituzionale del marzo scorso ha aperto la strada ad un’evoluzione che potrebbe diventare involuzione se non si seguirà la strada indicata dal contesto socio-politico attuale: creare un’Unione forte, fondata su un sostegno della "base" altrettanto forte.
3. Il "fatto"
È interessante ripercorrere sotto l’aspetto del loro significato politico gli avvenimenti che hanno spinto la "crisi della décharge" ai suoi estremi.
Dopo l’affare ESB del 1997, altri episodi hanno contrapposto il Parlamento alla Commissione(13), ma, in occasione di ognuna di queste "mini-crisi", le due Istituzioni hanno saputo trovare un modus vivendi e farsi delle reciproche concessioni. La situazione cambia, però, nel marzo 1998, quando il Parlamento, in seguito ai rapporti del COCOBU e della Corte dei Conti(14), decide di non concedere la discarica per l’esercizio 1996(15) e di aggiornare la decisione al successivo mese di dicembre. Nel Rapporto Elles(16), il Parlamento critica la gestione del bilancio da parte della Commissione e le impone una data limite per adeguarsi alle richieste formulate nella relativa risoluzione. A questo stadio della vicenda, si è ancora di fronte ad un rapporto tecnico fortemente critico, elaborato nel quadro del regolare controllo dei criteri d’applicazione del bilancio.
Col successivo Rapporto Bösch(17), il Parlamento assume un tono più aggressivo, più "anti-Commissione"(18); in virtù dei poteri conferitigli dai trattati in materia di bilancio, esso richiede il rispetto da parte della Commissione "[…] del principio secondo cui il Parlamento deve essere in grado di controllare ogni singolo caso di frode del bilancio comunitario"(19). Evidentemente non siamo più di fronte ad una timida assemblea, ma ad un Parlamento nel pieno esercizio del suo potere di controllo(20). La Commissione, in un dossier elaborato dalla Direzione Generale Bilancio, risponde ribadendo quanto già sostenuto durante i lavori preparatori del trattato di Amsterdam: "[…] è paradossale addossare l’intera responsabilità dell’esecuzione del bilancio comunitario alla sola Commissione(21), considerato il fatto che i crediti (PAC, Fondi Strutturali, ecc.) sono gestiti anche dagli Stati Membri"(22).
Durante la sessione del COCOBU, il 10 dicembre 1998, la decisione favorevole al discarico relativo al 1996 viene votata(23). In seguito a tale "burrascosa" sessione e in previsione della plenaria per il voto sulla concessione del discarico, durante la riunione di Strasburgo, la Commissione adotta una dichiarazione, nella quale dichiara che se il discarico non è accordato, il "Parlamento deve procedere al voto sulla mozione di censura […] al fine di chiarire la situazione"(24). Il punto centrale della dichiarazione è, quindi, la richiesta di "fiducia", tale istituto, però, non è previsto dal trattato, che menziona, all’art. 144, solo il caso della mozione di censura(25). Nella dichiarazione della Commissione, un passaggio è particolarmente significativo riguardo al tipo di rapporto instauratosi tra questa ed il Parlamento, laddove la essa insiste "[…] sull’importanza cruciale di avere una Commissione sostenuta dal Parlamento [pertanto] credibile in vista delle negoziazioni sull’Agenda 2000"(26), "ritenendo essenziale, come ogni esecutivo nazionale, avere la fiducia del Parlamento"(27).
La portata di un’affermazione del genere è chiara: è un riconoscimento pieno del ruolo di controllo del Parlamento. Quest’ultimo, da parte sua, percepisce però la richiesta della Commissione come un "ricatto inammissibile all’esercizio del suo potere di controllo ". Da questo momento, si ha un’escalation, che troverà il suo culmine nel mese di marzo.
Il 17 dicembre 1998, il discarico è rifiutato dalla plenaria di Strasburgo(28) e l’iniziativa della Commissione di associare il voto sulla décharge alla mozione di censura è fortemente criticata(29). Il presidente del PSE, l’On. britannica Pauline Green(30), decide allora di depositare una mozione di censura (che il Gruppo Socialista non voterà), allo scopo di confermare la fiducia del Parlamento alla Commissione Santer(31). In occasione del voto del 17 dicembre, all’interno dell’assemblea emergono delle forti spaccature, sia al livello nazionale che all’interno dei gruppi parlamentari. Nella stessa seduta, il Parlamento adotta una risoluzione molto severa, proposta dal PSE, fissante un preciso calendario di riforme e istituente un Comitato di Esperti Indipendenti (ciò evita l’istituzione di una commissione d’inchiesta), incaricato di presentare entro il 15 marzo successivo un rapporto sui casi già in esame a proposito del discarico 1996. Conseguentemente, il presidente Santer s’impegna a seguire le direttive del Parlamento.
Il 15 marzo 1999, il c.d. "Comitato di Saggi" consegna al Parlamento un rapporto definito "devastatore", che spinge il Collegio dei commissari alle dimissioni, nella consapevolezza(32) che, in caso contrario, queste sarebbero state rese inevitabili da una mozione di censura (annunciata dallo stesso PSE, che, questa volta, non avrebbe appoggiato l’équipe Santer).
Secondo quanto sostenuto da fonti autorevoli, negli ambienti comunitari si è avuto la percezione che, nel corso di questi mesi, sia stato rimesso in gioco l’equilibrio di potere tra le Istituzioni e che il Parlamento eletto nel ’94 voleva usare il suo potere di censura già da tempo (crisi dei test nucleari francesi e dell’ESB). Secondo le stesse fonti, di per sé tale crisi è il segno della maggiore maturità e democraticità del Parlamento europeo, che s’impone sempre più come il reale "contro-potere" della Commissione europea.
4. Le "opinioni"
Le reazioni dei Commissari: Le reazioni dei Commissari sono state riportate sotto mille forme diverse (interviste, interventi televisivi, ecc.). Qui di seguito ho voluto riproporre una selezione delle dichiarazioni che ho ritenuto utili al fine di capire lo stato d’animo ed il pensiero di coloro che hanno creato "l’Europa della moneta unica", ma che saranno ricordati per "l’Europa degli affari".
Cominciando dal presidente dimissionario Santer, il tono delle dichiarazioni è molto amaro:
" È ingiusto che un bilancio di 4 anni di lavoro sia ridotto a 6 casi d’irregolarità, di cui 4 risalgono al periodo precedente il 1995"(33) E ancora: "Mi rammarico della poca attenzione rivolta alle riforme che abbiamo già avviato. Ma forse è una legge della storia il fatto che le crisi si manifestino, non quando le cose peggiorano, ma quando iniziano a migliorare"(34).
Anche l’ex commissario Karel Van Miert si domanda se sia giusto "giudicare sulla base di soli cinque casi quattro anni e mezzo di lavoro della Commissione"(35). Secondo de Silguy, il "problema maggiore è un problema di filosofia dell’Istituzione"(36), in quanto delle "difficoltà di gestione e di controllo sono emerse agli inizi degli anni ’90, quando il Consiglio ed il Parlamento hanno affidato alla Commissione una serie di competenze nuove, senza dotarla dei mezzi necessari per affrontarle. A meno di non limitare le sue funzioni a quelle d’origine (diritto d’iniziativa, protezione dei trattati, negoziazioni e rappresentazione esterna dell’Unione), essa avrà bisogno di 7/8 mila funzionari in più, per potere svolgere in maniera adeguata tutte le missioni affidatele"(37).
In ogni caso, a suo parere, "la democrazia europea ha segnato un punto"(38).
Emma Bonino, dal canto suo, precisa che "è giusto chiedere alle istituzioni europee di essere al di sopra di qualsiasi sospetto. Ma sarebbe giusto che tanto rigore fosse applicato sempre [facendo chiaro riferimento alle polemiche sulle spese degli eurodeputati](39)". L’altro commissario italiano, Mario Monti, critica il paradosso creato dal principio di collegialità, che ha "finito per mettere in crisi l’intero collegio", a causa di "fatti speci personale corrispondente alla metà di quello impiegato dalla BBC"(41).
… Le reazioni dei Parlamentari: In generale, il Parlamento ritiene, così come affermato nella Risoluzione indirizzata al Consiglio, che questa crisi istituzionale offra l’opportunità per sviluppare la dimensione politica e democratica dell’Unione, rafforzando la responsabilità della Commissione nei confronti del Parlamento e fornendo una nuova occasione per creare una Commissione forte, politicamente responsabile ed efficiente(42). Inoltre, afferma che la relazione "dei Saggi" costituisce un forte argomento a favore della responsabilità esecutiva individuale e critica l’atteggiamento del Consiglio, che, raccomandando il discarico per i bilanci 1996 e 1997 lo stesso giorno della pubblicazione del rapporto, non ha assunto le proprie responsabilità.
Passando all’esame delle singole dichiarazione rilasciate, il presidente dell’Istituzione, lo spagnolo José Maria Gil-Robles, in un’intervista rilasciata al quotidiano belga "Le Soir", insiste sul ruolo di controllo del Parlamento e sul fatto che "le relazioni tra Parlamento e Commissione devono basarsi sulla fiducia reciproca […], una volta che questa viene meno, bisogna tirarne le conclusioni e dimettersi"(43).
Secondo Fernand Herman, esponente del PPE(44), coloro che trarranno profitto dalla severità del Rapporto sono "coloro che vogliono uccidere l’Europa e il Consiglio, che si rinforza a detrimento delle altre Istituzioni europee"(45), anche se le dimissioni della Commissione provano che "i sistemi di controllo democratico hanno funzionato"(46). Anche il presidente del gruppo del PPE, Wilfried Martens, nell’evidenziare il ruolo svolto dal Parlamento nel controllo finanziario e nella lotta contro la frode, critica il "Consiglio, rimasto silenzioso"(47).
Olivier Dupuis, il deputato belga eletto in Italia nelle liste del partito radicale, sostiene che le dimissioni della Commissione segnano "una sconfitta delle istituzioni federaliste a favore del Consiglio". Non bisogna gioire della vittoria del Parlamento, in quanto esso
"esce rafforzato da questo braccio di ferro con la Commissione, ma si tratta di un braccio di ferro tra le due istituzioni più deboli, i motori delle riforme per una maggiore integrazione europea ed una maggiore democrazia"48. E ancora: "il Consiglio ha giocato con Santer come il gatto col topo, senza concedergli i mezzi per realizzare le sue politiche, e poi lasciandolo da solo. ciò non è corretto"(49).
Secondo Magda Alvoet, esponente del gruppo dei Verdi, "il Rapporto dei Saggi rafforza i rapporti [Bösch e Elles] del Parlamento, che aveva ben svolto il suo lavoro di controllo del bilancio, […] la crisi può essere salutare se le dovute riforme saranno adottate"(50).
Jo Leinen, presidente internazionale dell’Unione dei Federalisti Europei (UEF), ha affermato che "dopo l’euro, l’UE ha più che mai bisogno di un autentico governo europeo, dotato di mezzi sufficienti per assolvere alle proprie funzioni. Solo un processo costituzionale permetterà di superare definitivamente la crisi e spetta al Parlamento prendere quest’iniziativa"(51).
Il gruppo del PSE, che nel gennaio aveva "salvato" l’équipe Santer dalla mozione di censura, si dichiara soddisfatto del lavoro del Comitato e della reazione della Commissione:
"Il nostro gruppo aveva preferito non votare la mozione dello scorso gennaio, in quanto non disponeva ancora di un simile rapporto […]. Inoltre, allora il dibattito era soprattutto uno scontro tra paesi e partiti politici. […] Adesso è necessaria una presa di posizione chiara del Consiglio, il quale aveva rifiutato di fornire ala Commissione i mezzi che le erano necessari [e il Parlamento allora?]. La caduta della Commissione proviene dalla volontà del Parlamento. È il PSE che ha messo fine all’esistenza della Commissione, lunedì sera, quando ha annunciato che avrebbe votato la mozione di censura"(52).
Per concludere, vorrei citare il commento, fatto subito dopo l’annuncio delle dimissioni della Commissione, dal suo attuale presidente, Romano Prodi: "La crisi di Santer è un’occasione di crescita per la Commissione, un passaggio drammatico ma necessario verso un "governo europeo", dotato di poteri effettivi e non succube delle cancellerie"(53).
… Le reazioni dei Governi: In linea generale, le dimissioni della Commissione sono state bene accolte dalla maggioranza dei governi europei. Tra coloro che hanno espresso "viva preoccupazione", c’è il Presidente del Consiglio italiano Massimo d’Alema, seguito dal ministro finlandese Ole Norrback, preoccupato, soprattutto, in vista della Presidenza finlandese dell’Unione (giugno-dicembre 1999). Tra le reazioni dei Capi di Stato e di Governo più significative dal punto di vista del peso politico dei rispettivi paesi, vi sono quelle del Regno Unito, della Francia e della Germania. All’annuncio delle dimissioni della Commissione europea, il Primo Ministro britannico Tony Blair ha reagito rilanciando il tema delle riforme: "si tratta di un’opportunità per aprire il dibattito per delle riforme radicali dell’Unione e della Commissione"(54).
Anche il suo omologo francese, Lionel Jospin, considera che "le dimissioni della Commissione devono servire da punto di partenza per una maggiore trasparenza e democrazia"(55). Dichiarazione completata dal Presidente francese, Jacques Chirac: "I Capi di Stato e di Governo dell’UE devono trarre una lezione da questa crisi senza precedenti"(56).
Anche secondo il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, "ogni crisi costituisce una chance"(57), posizione condivisa dalla classe politica tedesca.
Dichiaratamente positivo è il Ministro degli Affari Esteri belga, Erick Derycke: "È una vittoria per la democrazia e le Istituzioni europee. Il Parlamento europeo esce rafforzato da questa crisi e in futuro ci sarà una concertazione maggiore tra le due Istituzioni"(58).
L’impressione generale è che ognuno tenti di portare l’acqua al proprio mulino: il Parlamento snocciola inni alla democrazia e lodi per il suo operato (fatta eccezione per le posizioni che abbiamo visto); la Commissione sfodera argomenti di difesa e di giustificazione; i Capi di Stato e di Governo dimostrano di avere sempre "la buona parola al buon momento", ma non hanno ancora dimostrato di intraprendere "l’azione giusta al momento giusto"!
5. La prima "crisi istituzionale" dell’UE e la stampa
Il primo criterio usato per la scelta delle testate giornalistiche è di natura geografica: sono stati presi in considerazione i paesi dell’Unione sedi delle Istituzioni europee; il caso del Regno Unito è un po’ a parte, in quanto rappresenta (insieme alla stampa danese ed a quella svedese) quanto di più "euroscettico" esista all’interno dell’Europa stessa. Il secondo è un criterio di tipo ideologico: all’interno di ogni paese-campione, sono state selezionate delle testate con tendenze politiche diverse.
6. La stampa nazionale
In campo nazionale, i quotidiani presi in considerazione sono il Corriere della Sera on line, La Repubblica on line, Il Giornale ed il Secolo d’Italia.
Il "Corriere della sera" tratta della crisi europea nella rubrica "In primo piano" o, a volte, in quella degli "Esteri" (!). Parlando di "governo" comunitario e di "ministri"(59), mette spesso in evidenza il fatto che il Comitato d’Esperti Indipendenti sia stato nominato dal Parlamento europeo(60), dimenticando di menzionare il fatto che la sua costituzione è stata anche volontà della Commissione, che ne ha sostenuto i costi al 50%. L’attenzione maggiore viene concentrata sul dopo-crisi, cioè sui dibattiti e sulle vicende relative alla nomina del nuovo presidente ed al "gioco delle alleanze" tra gli Stati Membri. Dalla lettura dei vari articoli, emergono qua e là delle frasi significative, come:
"La crisi di Bruxelles ha fatto riesplodere un’antica rivalità tra le due principali Istituzioni europee, quella esecutiva e quella legislativa […], si ripropone il vecchio dualismo tra il "governo" dell’UE, non eletto e da molti criticato perché poco rappresentativo, e l’assemblea parlamentare, che per definizione simboleggia la voce dell’elettorato e la base popolare"(61).
Ivo Caizzi, dal canto suo, parla della "più grande crisi d i, resta una "partita da giocare al livello dei governi". Nel successivo articolo "La spinta di Blair"(65), l’autore annuncia la nomina di Romano Prodi alla presidenza della Commissione e mette bene in evidenza cosa ciò comporti, in termini di "vantaggi", per gli altri governi:
"[…] Schröder incassa un successo internazionale di cui aveva disperatamente bisogno. […] Blair, il grande elettore di Prodi, riconquista una centralità che aveva perso con l’autoesclusione dalla moneta unica. D’Alema porta […] l’Italia al tavolo dei grandi Paesi europei"(66), Aggiungendo che: "La designazione di Prodi […]è il risultato di un cambiamento profondo degli equilibri europei maturato con l’unificazione monetaria. […] Il presidente designato si vedrà affidare […] il compito d’impostare e gestire quelle riforme istituzionali, di cui l’Unione ha disperatamente bisogno per adeguare i propri meccanismi alla sua nuova dimensione politica"(67).
Credo che tale paragrafo concentri in poche linee l’idea più importante da trasmettere agli "Europei": questa crisi ha portato l’Unione ad una svolta fondamentale, che avvicina ancora di più l’Europa delle Istituzioni all’Europa dei cittadini.
Concludendo, vorrei mettere in evidenza il fatto che spesso gli articoli del Corriere della Sera contengono delle spiegazioni di carattere giuridico-istituzionale, che permettono al grande pubblico non specializzato di avere una visione d’insieme meno superficiale. Penso che ciò sia uno dei modi migliori di presentare "la crisi" ai lettori, non riducendola unicamente alla descrizione dei suoi "dettagli piccanti".
Già in un articolo del 3 gennaio 1999(68) La Repubblica non aveva risparmiato dure critiche all’équipe Santer; gli avvenimenti le hanno dato ragione. Rampini, che parla di "prima crisi del governo federale dell’Europa della moneta unica"(69), a differenza di altri suoi colleghi italiani e non, menziona argomenti pro e contro la Commissione. In maniera molto pragmatica, egli vede la crisi, anzitutto, come il risultato di uno "scontro di culture nazionali", in quanto"a sollevare lo scandalo sono stati europarlamentari e mass-media di paesi come la Gran Bretagna, la Germania e gli scandinavi, abituati a pretendere regole di trasparenza e di etica politica molto elevate. I singoli episodi possono apparire, invece, come peccati veniali rispetto alla Tangentopoli italiana o a casi di corruzione politica emersi in Francia o in Spagna"(70).
Ammiro la franchezza dell’autore, ma non posso impedirmi di appuntarlo negativamente per la sua osservazione. Il fatto che ciò che è successo alla Commissione non sia "all’altezza" degli scandali nazionali dei paesi del Sud Europa, non deve farci tirare un sospiro di sollievo, ma aprire gli occhi in tempo, perché sia la cultura della trasparenza e della correttezza, tipica delle democrazie nordeuropee, a prevalere all’interno delle Istituzioni europee, create per unire soprattutto ciò che di positivo esiste in ogni Paese Membro(71).
In secondo luogo, Rampini menziona una componente anti-europea:"Vi è poi nell’offensiva moralizzatrice una componente anti-europea, soprattutto da parte degli inglesi e – questa è stata la novità politica del 1998 – dei tedeschi […]. Non a caso lo scandalo dei fondi UE ha preso ampiezza […] in una fase in cui tutte le forze politiche tedesche gareggiavano nel pretendere una riduzione dei contributi della Germania all’Unione"(72).
Ancora una volta, non sono d’accordo con l’autore, nella misura in cui la sua affermazione sul "tempismo" dello scandalo non corrisponde ai fatti, così come confermato anche dall’intervista fatta a François Genisson, alto funzionario della Commissione. Gli "scandali" sono emersi poco a poco, parallelamente all’esame da parte del Parlamento degli esercizi di bilancio 1996 e 1997 ed alle inchieste condotte autonomamente da alcune testate giornalistiche. Una serie di avvenimenti, che si sono incrociati(73) e che, in parte, sono stati accelerati dall’imminenza delle elezioni europee, ha portato la crisi al suo culmine nel marzo 1999. Inoltre, non bisogna dimenticare che le dimissioni della Commissione hanno messo in difficoltà lo stesso governo tedesco, che, occupando la presidenza di turno del Consiglio, si è ritrovato nella necessità di dovere trovare una soluzione alla crisi, in un momento reso già delicato dai malumori interni e dalla negoziazione dell’Agenda 2000(74).
Il punto sul quale sono assolutamente d’accordo col Rampini è il seguente:
"La messa sotto accusa della Commissione è anche il frutto di un’evoluzione istituzionale di grande portata: con il trattato di Amsterdam sono aumentati i poteri dell’Europarlamento, e i rappresentanti eletti intendono appropriarsi pienamente del nuovo ruolo […]. Lo scontro con Santer è diventato il banco di prova per la crescita di un potere legislativo su scala continentale, guardiano e controllore dell’esecutivo di Bruxelles"(75).
Anche La Repubblica dedica, a ragione, un articolo al "Grande mercato sul governo UE"(76), mettendo in evidenza, ancora una volta, i delicati equilibri cui deve sottostare l’evoluzione del sistema europeo. Nell’articolo di Antonio Polito "Il patto Blair-Schröder per riformare l’Unione"(77), riportando il pensiero del premier inglese Tony Blair, si parla addirittura di "contratto": "Il futuro presidente deve firmare un nuovo contratto con i governi […]. Questo è il momento di decidere se vogliamo lasciare l’Europa com’è o avviare la riforma che può assicurarle il rispetto dei popoli"(78). Considerando l’attuale tendenza generalizzata di sfiducia verso il politico, non credo che una "Europa" che firmi un "contratto" con i governi nazionali, possa trovare, vedi meritare, il "rispetto dei popoli"!
Ancora un articolo che parla della "irruzione della democrazia dentro la burocrazia dell’Unione" è quello di Ezio Mauro, "Sinistra ultima occasione"(79): "Ciò che sta accadendo può [consegnare] finalmente un’anima ad una costruzione monetaria con confini geografici, ma senza guida politica […]. Si afferma finalmente il controllo del Parlamento. Entra in gioco la moralità politica dei commissari e non soltanto il loro virtuosismo "tecnico". Attraverso questa strada ci si affaccia sul problema del "consenso", che può trasformare gli eurocratici della Commissione in veri e propri ministri di un governo dell’Europa"(80).
A differenza del Corriere della sera, quindi, Repubblica non parla ancora di "ministri", ma vede nella crisi la possibilità di una svolta, perché si possa veramente parlare di "governo europeo".
Per concludere con la stampa nazionale, mi sembra doveroso esporre anche le reazioni di alcuni quotidiani vicini alla destra italiana.
Su Il Giornale, Federico Fubini scrive: "Frodi alla UE, colpevole la Commissione"; segue un articolo durissimo sul "governo" europeo, nel quale il giornalista non perde l’occasione di mettere in rilievo le colpe "del socialista spagnolo [Marin] e dell’ex premier della sinistra mitterandiana francese [Cresson]"(81). Il Rapporto dei Saggi viene presentato come una "requisitoria [mettente] in causa molte parti della catena di comando dell’esecutivo UE" e l’istituzione del Comitato d’Esperti Indipendenti come "la contropartita ad un risicato voto di fiducia alla Commissione", "una pezza, messa dal presidente del "governo" UE, ai danni creati dalle accuse contro i commissari Marin e Cressson"(82).
Di contro, Fubini sottolinea a più riprese "l’assoluzione" dei commissari italiani, sostenendo che:
"Questo giudizio metterà a tacere la stampa svedese e danese, che ha tambureggiato sulle "colpe" della triade mediterranea Cresson-Bonino-Marin […]. Crollano tutti i teoremi sul Nord calvinista e rigoroso e sul Sud arruffone […]. Dal Rapporto esce male la commissaria svedese Gradin […] e "al limite della correttezza" […] la commissaria tedesca Wulf-Mathies"(83).
Ancora più duro è Marcello Foa, quando definisce l’incarico dei "Saggi" "una manovra dilatoria per soffocare dolcemente uno scandalo imbarazzante"(84), aggiungendo che:
"L’Unione Europea era abituata a impartire lezioni a tutti: ai governi nazionali sulle politiche di bilancio, alle grandi aziende in tema di antitrust e di concorrenza sleale, agli agricoltori sulle quote latte. Può continuare a farlo? La risposta è, ovviamente, no"(85).
Ho come l’impressione di percepire una certa nota di nostalgia nazionalista in queste parole!?
Per concludere questa "escursione" nel mondo de Il Giornale, vorrei citare l’articolo di Gianni Pennacchi, "Quello che Bruxelles bolla come scandalo in Italia è un vizio"(86), in quanto, leggendo quest’articolo, si potrebbe pensare che il suo autore non abbia letto il numero di appena due giorni prima, contenente gli articoli di Fubini e Foa, di cui abbiamo appena parlato. Nell’articolo di Pennacchi leggiamo:
"Avevate mai visto cadere un governo perché una ministra […] aveva dato una consulenza pur ricca al suo dentista? […] Tutti a casa per queste colpe. Ma nell’Europa virtuale di Bruxelles, mica a Roma. Dove il tasso di moralismo è decisamente al di sotto degli standard europei […]. Guarda tu se pensa a dimettersi [un governo] per la sfilza di nomine e prebende distribuite a piene mani a Palazzo Chigi, da ogni ministro con por cere" all’immagine degli "avversari". In conclusione, mi chiedo se, nel caso del quotidiano in questione, quella sulla crisi europea sia un’analisi del fenomeno "europeo", o semplicemente un’analisi indiretta della propria situazione politica interna.
Stessa reazione, anche se ad un livello più marcatamente ideologico, è quella del Secolo d’Italia, che, sul numero del 16 marzo 1999, titola: "L’Europa rossa nella bufera degli scandali. La Commissaria Cresson, socialista e amica di Mitterand, si è resa responsabile di gravi abusi"(88).
E tutto l’articolo si limita ad una cronistoria denigrante dell’ex commissario francese. Sulla stessa lunghezza d’onda (polemica interna col governo di centrosinsitra e con la Sinistra, in generale) sono anche gli altri articoli dedicati alla soit-disant, "crisi europea".
7. La stampa estera ed "europea"
In campo internazionale, i paesi-campioni scelti sono la Francia ed il Belgio, sedi delle Istituzioni europee, oltre ad alcune "capatine" giornalistiche in altri Stai membri e, vivendo in una dimensione che va al di là degli Stati nazionali, in "Europa", per una visione sovranazionale, slegata da qualsiasi influenza campanilistica o strettamente politica.
A differenza dei quotidiani italiani, Le Monde (F) si è occupato delle diatribe tra il Parlamento e la Commissione ancor prima che la crisi arrivasse al suo culmine. Già la denuncia degli "affari" da parte di alcuni quotidiani belgi, come La Lanterne, riguardanti, soprattutto, il commissario francese Edith Cresson, aveva attirato l’attenzione della stampa francese sull’argomento.
Un particolare, che subito colpisce l’attenzione del lettore è la ripetuta contrapposizione, sia nei titoli che nei testi, tra "la Commissione di Bruxelles" ed "il Parlamento di Strasburgo"; una contrapposizione, in primo luogo, geografica e, solo secondariamente, istituzionale, che si riscontra unicamente nella stampa francese. Credo che, volontariamente o meno, questo sia il modo per sottolineare il sentimento di "distanza" e diffidenza che i francesi nutrono verso una Commissione lontana, sia perché localizzata all’esterno del territorio nazionale sia perché considerata "oscura". Non a caso, Alain Frachon scrive:"Longtemps, ces mystérieux hybrides, à la fois gouvernant et légiférant, que sont les membres de la Commission, échappèrent à tout contrôle autre que ceux […] que leur impose l’institution elle-même. C’est fini. Le Parlement européen veut y regarder de plus près"(89).
Il bimensile L’Expansion aggiunge che "La Commission a pris de très haut les récriminations du Parlement, comme si elle pouvait travailler en toute impunité […]. Arrogance est le terme le plus souvent retenu par les observateurs à propos des commissaires"(90).
Di contro, il Parlamento, la cui sede principale si trova a Strasburgo, è sentito più vicino, più "reale" dall’opinione pubblica francese.
A proposito delle dimissioni della Commissione, secondo Henri de Bresson, Jacques Santer, che "presentava fin dall’inizio tutti gli handicap", era un "candidato di seconda scelta"(91):"Santer cumulait dès le départ tous les handicaps. Il succédait à Delors au sommet de sa popularité, qui avait su faire de la Commission un véritable moteur d’intégration… dans une Europe […] qui, en janvier 1995, lorsque Santer prend ses fonctions, vient d’intégrer trois nouveaux candidats, ce qui compliquent singulièrement le fonctionnement des institutions […]. Dès le départ, ce candidat de deuxième choix s’est heurté à la volonté du Parlement de faire valoir face au Conseil et à la Commission [ses] nouveaux pouvoirs. [Il avait] à se prononcer pour la première fois par un vote de confiance sur le choix présenté par les gouvernements. […] Une grande partie de la gauche refusant de donner un blanc-seing à un candidat qui […] ne possédait pas le charisme de son prédécesseur et surtout devait son choix…au premier ministre conservateur britannique"(92).
Lontano al volere giustificare la caduta della squadra di Santer, de Bresson cerca le cause profonde dei problemi che hanno condotto non tanto alla "crisi", quanto al fatto che sia stata proprio "questa" Commissione e non quella di Delors, sotto la quale i problemi di cattiva gestione e frode sono cominciati, ad essere "silurata" dall’Europarlamento. Penso che la sua analisi sia corretta, ma vorrei aggiungervi un altro elemento non trascurabile: la maggiore consapevolezza del proprio ruolo e l’accresciuta sicurezza di sé del Parlamento europeo.
Ci sono, infine, quattro articoli che vorrei citare. I primi due riguardano il ruolo del Parlamento europeo dopo la crisi; il secondo la creazione di un’opinione pubblica europea ed il terzo manifesta le paure che il dopo-crisi suscita nell’opinione pubblica francese e, credo, in quella europea in generale.
Marcel Scotto dà una nuova immagine del Parlamento europeo, descrivendolo come il "vincitore incontestabile [della crisi], che ha saputo dare di sé l’immagine della sola Istituzione dell’Unione capace di mettersi al servizio dei cittadini"(93). A suo parere:"Non c’è nessun dubbio che si sia verificato un riequilibrio istituzionale a svantaggio della Commissione ed a beneficio del Parlamento. […] Il Parlamento ha sensibilmente migliorato la sua immagine nell’opinione pubblica europea. Giustificato o no, il suo aumento di popolarità è reale e nessuno lo può ignorare"(94).
A tale conclusione, avrei solo una domanda da opporre: se il Parlamento ha talmente guadagnato nei "cuori" dell’opinione pubblica europea, come si spiega la scarsissima affluenza alle urne durante le ultime elezioni europee?
Yves Mamou, dal canto suo, vede nella caduta della Commissione la "fine di un’era della costruzione europea: quella dell’Europa tecnocratica"(95). Egli riconosce ai tecnocrati il merito di avere compiuto, nel corso degli ultimi trent’anni, un lavoro considerevole(96), ma considera l’era di "questo motore a due tempi – Commissione e governi nazionali – arrivata al capolinea"(97), in quanto vi è "all’interno delle Istituzioni comunitarie, un aumento in potenza del politico". Così il Parlamento assume un nuovo ruolo e "l’Europa non si costruirà più a due, ma a tre: Commissione, Consiglio e Parlamento"(98). Infine, conclude richiamando l’attenzione dei governanti sul fatto che, questa volta, le necessarie riforme dovranno essere fatte tenendo in conto anche il Parlamento europeo.
L’emersione di uno spazio pubblico europeo è quanto vede Daniel Vernet nelle dimissioni di Oskar Lafontaine, da ministro delle finanze in Germania, ed in quelle della Commissione europea a Bruxelles. A suo parere, le dimissioni della Commissione, pur non essendo questa un vero esecutivo, simbolicamente"hanno una forte somiglianza con una crisi di governo provocata dagli eletti dei popoli europei. Questa prima crisi nella storia dell’integrazione europea, non significa che l’Unione sia diventata, da un giorno all’altro, un’Istituzione democratica, essa è solamente all’inizio di un lungo cammino"(99).
In conclusione, egli vede nelle dimissioni della Commissione Santer "un invito pressante a superare il solito "bricolage" per aprire un vero cantiere costituzionale"(100).
Nell’ultimo articolo di Patrick Jarreau, ritroviamo quella che è "la paura" del dopo-crisi:"L’intrecciarsi degli interessi nazionali difesi dai governi, la volontà di questi ultimi di conservare il controllo del processo comunitario possono condurre a rendere nuovamente incomprensibile il macchinario "bruxello-strasbourgeoise", diventato momentaneamente "leggibile". L’ipotesi di una democrazia europea, che sta nascendo, si rivelerebbe allora solamente un miraggio"(101).
Già in una serie di articoli di giugno 1996, giugno e dicembre 1997, luglio e ottobre 1998, Le Monde Diplomatique (F) era stato molto duro nei confronti della Commissione europea.
Anne-Cécile Robert nel suo articolo "Démission de la Commission", mette in rilievo due punti fondamentali: in primo luogo, "l’inadeguatezza di un sistema concepito 50’anni fa per un’Europa a Sei" ad adattarsi ad un’Europa a Quindici, e, secondariamente, "l’esistenza, all’interno dell’Unione, di un meccanismo di controllo e di responsabilità"(102). Secondo la Robert, il sistema is direttamente eletta dai cittadini", non propone né adotta "le leggi europee". Un meritato rimprovero viene diretto anche agli "autori" del trattato di Amsterdam. Quest’ultimo avrebbe dovuto trovare una soluzione a questa situazione paradossale e, invece, nessuna riforma significativa, che risolva il problema del gap democratico dell’Unione, è stata prevista: "per una vera riforma, sarebbe stato necessario riconoscere che qualsiasi democratizzazione dell’UE necessita la restituzione del potere ai cittadini"(104).
Altre reazioni della stampa francese - Nell’editoriale di Alain Peyrefitte, apparso sul quotidiano Le Figaro, notoriamente più vicino alle posizioni del mondo politico di destra(105), si legge: "L’Europa aveva bisogno di questa lezione di morale pubblica […]. Alcuni troveranno in questa crisi la prova che l’edificio di Bruxelles è marcio all’interno […]"(106).
Anche France-Soir auspica una "profonda riforma della Commissione"(107) e critica aspramente Edith Cresson.
Sul quotidiano comunista L’Humanité, secondo il quale "questa crisi apre un periodo di incertezze", vengono riportate le "soluzioni" auspicate dal segretario nazionale del PC francese, Robert Hue: "Non c’è altra soluzione se non la democratizzazione di un’Europa resa ai cittadini"(108).
Sempre dal punto di vista della sinistra francese, Libération:"Tutti i partigiani della costruzione democratica dell’Europa dovrebbero festeggiare il 13 marzo 1999 come una data storica […]. Nel 1999, l’Europa ha partorito una moneta federale ed è entrata nell’era parlamentare. […] In Francia, nessuno deve dimenticare che l’Eliseo e Matignon hanno sostenuto Edith Cresson. Per una volta la saggezza democratica arriva da Bruxelles e da Strasburgo, che lezione!"(109).
In campo belga, ho scelto uno dei quotidiani più venduti sul territorio nazionale, Le Soir. Ecco come Guy Duplat annuncia la notizia delle dimissioni dell’équipe Santer:"Le rapport des "Sages" rendait impérieux une réaction très forte de la Commission […]. La forme qu’a prise cette "juste" réaction était la seule imaginable dès hier soir: la démission de la Commission toute entière, accusée globalement d’avoir perdu le contrôle de son administration et d’être ainsi politiquement responsable des erreurs commises"(110).
Secondo Duplat, la Commissione soffre di un deficit democratico, e, quindi, di una mancanza di legittimità, che può essere controbilanciato solo da una condotta irreprensibile dell’Istituzione. Egli rimprovera, inoltre, alla Commissione di non avere accettato il dialogo col Parlamento.
Dal canto suo, l’inviato europeo André Riche ritiene responsabili della crisi gli stessi governi nazionali, che, sei anni fa, hanno nominato un collegio debole, perché fosse facilmente controllabile. Dietro a questa grave crisi, egli individua una duplice evoluzione: da un alto, il degrado interno dell’Istituzione, già in atto sotto la presidenza Delors, e, dall’altro, l’aumento del potere del Parlamento europeo, che, durante il corso dell’ultima legislatura (1994-1999), ha, a suo parere, guadagnato autorità e maturità. In conclusione, egli ritiene che la democratizzazione delle Istituzioni europee avanza e che la critica costruttiva della Corte dei Conti e della stampa ne ha favorito l’evoluzione. Nel parlare di "première crise gouvernamentale"(111), Riche sostiene che: "Nel rapporto di forza con il Parlamento europeo, una soglia è stata superata. A partire dagli anni ’80, i poteri del Parlamento si sono accresciuti in seguito ad ogni revisione dei trattati, mentre quelli della Commissione tendono a stagnare, o addirittura a regredire […]. I deputati possono difficilmente guadagnare poteri supplementari sui governi, con i quali si dividono la procedura di codecisione in molte materie. Di contro, essi accrescono sempre di più la loro influenza sulla Commissione, soprattutto se essa è debole"(112).
Nella stampa britannica si possono distinguere due aree: una maggioritaria, raggruppante gli "euroscettici"(113), ed una filoblairiana(114), a favore di una "riforma forte" delle Istituzioni europee. È il quotidiano eurofobo del gruppo Murdoch, The Sun, a criticare più duramente i commissari dimissionari, sostenendo che"I poteri dei commissari europei sono più importanti di quelli di un ministro di Sua Maestà ed i loro vantaggi più impressionanti di quelli di un dittatore africano […]. È necessaria una riforma che porti delle teste nuove e delle nuove idee".
The Times, oltre a definire i "commissari nominati dai governi" dei "servili arroganti, di secondo ordine", mette in guardia contro "una purga che lascerebbe le cose come prima".
Il Daily Express, testata di destra, conosciuta anche per avere condotto le proprie inchieste sugli interessi finanziari non dichiarati di alcuni MEP britannici, coglie l’occasione per attaccare anche il Parlamento europeo, accusato di sperperare il denaro dei contribuenti. Sulla stessa lunghezza d’onda è il Daily-Mail, che definisce le Istituzioni europee "un’oasi di tangenti e corruzioni", ricordando che "i parlamentari europei sono tristemente famosi per le loro note spese".
Ancora un euroscettico, che attacca le Istituzioni UE, è il Daily Telegraph, il quale insorge contro qualsiasi riforma che possa aumentare i poteri dell’esecutivo europeo, aggiungendo che questa crisi "dovrebbe far capire che sarebbe una follia sacrificare la sterlina all’euro".
Infine, The Independent sostiene che è arrivata l’ora di "ripulire le scuderie europee. Lasciare che la Commissione dimissionaria resti in carica per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione significherebbe il sicuro fallimento della prossima tappa del processo d’integrazione".
In campo "europeo" esistono numerose pubblicazioni(115), tra le quali Europolitique e Agence Europe, alle quali farò riferimento.
Il bisettimanale Europolitique si concentra, soprattutto, su questioni di carattere istituzionale e politico, evitando di riportare "scandali" e "polemiche". Qui di seguito sono riportati alcuni estratti, che mettono in luce dei punti chiave della vicenda. A proposito della "tradizionale alleanza" tra il Parlamento e la Commissione si legge:"Lasciare "giudicare" le proprie pratiche amministrative da un gruppo d’esperti indipendenti [è] una procedura inusuale, denotante una certa esitazione del Parlamento ad attaccare direttamente la Commissione e mettere in difficoltà l‘alleanza, che, da anni, li unisce nell’opposizione al Consiglio"(116).
Interessante quanto si afferma a proposito del ruolo giocato dagli Stati Membri:"Gli Stati Membri si sono bruciati le dita al loro stesso gioco. Essi avevano voluto una Commissione e un Presidente deboli, senza troppo peso politico, per evitare eventuali iniziative "inopportune". Il gioco è andato male ed è su di essi che adesso incombe il compito di ricomporre una nuova Commissione, i cui membri abbiano il peso politico necessario per fare funzionare gli ingranaggi"(117).
Il quotidiano Agence Europe, nel n°7425 del 16/03/1999, si limita a dare l’annuncio della consegna ai presidenti della Commissione e del Parlamento del Rapporto dei Saggi. Sul numero del giorno successivo, pubblica per intero i diversi comunicati del collegio, senza aggiungere alcun commento. È solo sul n°7428 del 19/03/1999 che la redazione dedica ampio spazio alla crisi, prendendo posizione in merito:"Le dimissioni della Commissione non hanno occupato la totalità del nostro bollettino […]. La crisi istituzionale rappresenta un avvenimento rilevante nella storia dell’Unione; ma vari altri avvenimenti europei meritano un posto. Agence Europe non parteciperà mai all’azione di disinformazione che ha portato una parte dell’opinione pubblica a considerare che la costruzione europea è solo un’operazione sordida di frodi, sprechi e irresponsabilità"(118).
Anche Agence Europe, senza giri di parole, sostiene che "diversi capi di governo hanno "mollato" la Commissione Santer, ritenendo che, dal punto di vista politico, fosse "defunta" e che occorresse sbarazzarsene rapidamente"(119).
In conclusione, i quotidiani italiani, con tendenze più di sinistra e più europeiste, si sono concentrati, soprattutto, sulle vicende relative alla nomina del successore di Santer, dando meno risalto a ciò che ha preceduto, accompagnato e seguito lo "scontro culminante" tra il Parlamento e la Commissione. Al contrario, la stampa francofona, più sensibile alle vicende del "Parlamento di Strasburgo" e più "interessata" ai fatti, a causa delle polemiche di cui è stato oggetto il commissario francese, si è largamente occupata dei retroscena della vicenda, dei rapporti tra le due Istituzioni e delle reazioni delle varie correnti d’opinione europee.
Sia in Italia che all’estero, comunque, la gravità della crisi è stata percepita da tutti gli esponenti della stampa, a prescindere dalle loro tendenze personali. Alcuni hanno voluto vedere nelle dimissioni della Commissione il segno supremo della decadenza del progetto europeo; altri, invece, vi hanno visto la svolta fondamentale verso la democratizzazione e la costruzione dell’Europa politica. Ciò che è sicuro, come qualche giornalista ha già notato, è che si è creata un’opinione pubblica di livello "europeo", che si sente coinvolta nelle "vicende" europee, che considera e critica nello stesso momento un fatto accaduto in un paese dell’Unione, ma che, nello stesso tempo, è "comune" a tutti gli altri(120).
Le Istituzioni di Bruxelles, benché spesso ancora confuse tra loro dai cittadini, cominciano ad avere un posto sulla stampa nazionale e ad entrare nel "vero" quotidiano della gente, che almeno adesso saprà sicuramente che i "cattivi commissari" si trovano a Bruxelles e non sono eletti, mentre il Parlamento, "Robin Hood del 2000", ha la sua sede a Strasburgo!
9. Conclusioni
Secondo il vocabolario della lingua italiana Zingarelli, "crisi istituzionale" è un "profondo turbamento relativo a ciò che risulta fondato sulle leggi, le norme o gli usi e che comporta scelte e decisioni spesso definitive", in altre parole, essa è indice di un cambiamento delle fondamenta stesse. Questo cambiamento l’UE lo sta affrontando per molteplici motivi e sotto diversi aspetti; gli "scandali" e gli "affari" sono solo il motivo "apparente" di una reazione che ha origini più profonde.
Come affermato dallo stesso rapporto Besoins d’Union, "l’integrazione europea è per sua essenza un movimento rivolto verso l’avvenire. Non ci deve sorprendere il fatto che essa sia nata proprio negli anni […] in cui il continente europeo si è reso conto della sua debolezza ed ha posto in essere delle soluzioni veramente nuove"(121).
Oggi l’Europa si trova nuovamente confrontata a delle sfide che superano la dimensione nazionale e la capacità di reazione dei singoli Stati: la mondializzazione, l’evoluzione degli equilibri internazionali in materia di sicurezza, la sfida demografica ed un sistema di protezione sociale obsoleto, inadatto ai nuovi bisogni degli Europei(122).
A ciò si accompagna la nascita di un’opinione pubblica europea, che, grazie ai media ed alle stesse campagne d’informazione delle Istituzioni europee, è sempre più al corrente di cosa succede "nel paese vicino" e di come ciò possa influire sulla vita del "proprio". È la pressione di tale opinione pubblica, dei cittadini europei sempre più attenti ed esigenti, che spinge l’Unione nella direzione dell’evoluzione. Tentare di bloccare tale processo equivale all’autodistruzione dell’Europa unita, da un lato e, dall’altro, degli Stati stessi, ormai incapaci di potere evolvere singolarmente in certi campi o di far fronte da soli a certe sfide. La crisi che ha portato alle dimissioni di quell’organo particolare, a metà tra un esecutivo ed un legislativo (a causa del suo potere, quasi esclusivo, d’iniziativa legislativa), non è altro che il sintomo di quest’evoluzione, che i governi, ancora gelosi di certe loro prerogative, cercano di rallentare o, addirittura, di deviare.
In questa vicenda, non ci sono né vincitori né vinti, ma delle Istituzioni in cerca del loro assetto; un assetto che deve corrispondere alle esigenze attuali dell’Unione e dei suoi cittadini, e non ad una struttura concepita cinquant’anni fa per rispondere a delle necessità differenti. Le vicende degli ultimi due anni hanno messo in evidenza quali sono le deficienze dell’Unione e le polemiche, che hanno accompagnato le vicende dell’anno scorso, non hanno fatto che "girare" intorno al problema. Una crisi "[…] comporta spesso scelte e decisioni definitive", nel nostro caso, essa deve portare a trovare delle soluzioni concrete e radicali al "problema europeo", quello del deficit democratico. La mancanza di democraticità del processo d’integrazione europea e di alcune delle sue Istituzioni costituisce, ormai, lo scoglio che non può più essere aggirato e che deve essere eliminato, prima di potere pensare a qualsiasi altro tipo di sviluppo dell’Unione.
Come molti hanno fatto notare, l’UE è una realtà che non ha precedenti nella storia, essa è a metà strada tra il nazionale e l’internazionale: può influire direttamente sulla vita quotidiana dei cittadini europei, ma non ha voce in capitolo su settori che rimangono d’esclusiva competenza degli Stati membri. Nata per supplire a delle esigenze economiche, dietro le quali, comunque, si celavano delle esigenze politiche(123), l’UE ha, ormai, integrato tutto ciò che i governi nazionali hanno considerato "integrabile": il settore del carbone e dell’acciaio, il mercato del lavoro e quello dei capitali, arrivando persino alla creazione di una moneta unica. Ma il processo è andato ben al di là dell’economico ed è sfociato nel politico, malgrado tutte le obiezioni e le recriminazioni di coloro che nell’Europa unita non vedono altro che una minaccia alla loro "prosperità nazionale". Questa realtà ha bisogno di una sistemazione organica, di una ristrutturazione delle sue Istituzioni, che non si sono evolute di pari passo.
Ovviamente, nessuno pensa di negare che egoismi nazionali e cattive coordinazioni delle azioni sul piano internazionale siano un ricordo del passato (d’altro canto se ne è avuta una prova durante la guerra iugoslava e quella cecena), però, è pur vero che chiudere gli occhi non servirà a cambiare la realtà. Per superare tale "handicap", delle proposte concrete sono state elaborate da più parti, in particolare dal Movimento Federalista Europeo e dal gruppo ad hoc incaricato dalla Commissione di elaborare un rapporto sulle implicazioni istituzionali dell’allargamento dell’Unione. Le conclusioni del rapporto, le richieste del MFE e di alcuni eurodeputati vanno tutte nella stessa direzione: la creazione di un testo di portata costituzionale, che raccolga tutto ciò che di "politico" esiste nei trattati, separandolo dal "tecnico". Gli autori del rapporto auspicano che "la Commissione eserciti il suo potere d’iniziativa legislativa alla Conferenza Intergovernativa […] e presenti delle proposte concrete e dettagliate, sotto forma di un progetto di trattato"(124).
Eminenti esponenti del mondo giuridico si oppongono tenacemente all’idea di una "Costituzione" europea; è il caso del giudice del Tribunale Costituzionale Tedesco, Kirchof, il quale afferma che "la nozione di Costituzione suggerirebbe che viene creato uno Stato laddove non deve esserlo"(125). Uno "Stato" nel senso tradizionale del termine, cioè così come lo s’intende dal 1500 in poi, non può esistere al livello europeo: si tratta di due realtà diverse. Lo Stato-nazione possiede una struttura limitata, in grado di agire a dei livelli relativamente "locali", che si rivelano inadeguati ad affrontare le nuove "sfide globali"; lo Stato-sovranazionale (se mi si concede la libertà di esprimermi in tal modo) ha fondamenti e strutture che vanno, e devono andare, al di là di quelle del primo. L’Unione è in sviluppo, la creazione di una costituzione europea diventa possibile nella misura in cui non ci si ostini a paragonare la realtà europea con quella statale: diverse epoche, diverse strutture, diverse esigenze e maturità politiche.
Che il cambiamento è in atto all’interno dell’UE e che il promotore della "democratizzazione" europea non è solo il "nuovo" Parlamento, ma anche il "motore" di sempre, cioè la Commissione, è evidente: la ghigliottina non è caduta sul suo collo al momento in cui i fatti incriminati si svolgevano (tranne per una eccezione), ma quando la Commissione stessa ha denunciato le irregolarità e stava apprestandosi alla riforma interna. Riaffiorano alla memoria dei souvenir universitari: in L’Ancien Régime et la Révolution, Alexis de Tocqueville non aveva già osservato che la ribellione agli abusi non interviene nei momenti in cui la repressione è più forte, bensì quando le riforme sono in corso e sussistono le condizioni per il cambiamento?
Il presidente designato, Romano Prodi, nell’aprile 1999, ha affermato che il suo "vero obiettivo è trarre le conseguenze della moneta unica e creare un’Europa politica"(126). A suo parere, infatti, "nel campo economico, il mercato unico dei beni, dei fattori produttivi è stato il tema degli anni ‘80; la moneta unica, quello degli anni ‘90. Ora dobbiamo […] muoverci verso un’unica economia e verso un’unica politica"(127).
Questo suo "progetto d’Europa" sembra trovare sostegno anche fra i cittadini europei, i quali, secondo un sondaggio realizzato nel periodo di crisi della Commissione(128), hanno più fiducia che in passato nella democrazia dell’UE(129). Essi s’interessano sempre di più all’Unione, chiedono un maggiore grado di trasparenza delle Istituzioni e un’associazione maggiore nell’elaborazione del processo d’integrazione. Questo è il "segreto" per superare l’impasse e costruire l’Europa federale: nutrire il sostegno dal basso, creare un’Europa "dei cittadini", così come essi, e non i capi di Stato e di Governo, la vogliono. Il compito non è facile, perché, come lo stesso Presidente della Commissione ha ricordato, malgrado la consapevolezza di nti governi nazionali sempre più sulla strada dell’integrazione politica. La volontà esiste, le buone intenzioni anche, ma si tratta solo di teorie, i fatti sono veramente pochi: un vero progetto di costituzione europea non s’intravede all’orizzonte.
Secondo l’ex presidente di turno del Consiglio, Joshka Fischer,"La crisi che ha vissuto l’Unione avrà per effetto che le discussioni sugli aspetti della riforma delle Istituzioni, lasciate incomplete ad Amsterdam, riguarderanno più del previsto le relazioni Parlamento-Commissione-Consiglio. La questione dello sviluppo dei diritti del PE diventa più attuale che mai dopo questa crisi, che è stata un conflitto ‘classico’ con un Parlamento che ‘lotta per i suoi diritti’"(131).
Jean-Louis Bourlanges(132), MEP e presidente del Movimento Europeo francese, aggiunge:"Siamo, credo, d’accordo per non vedere entro un breve termine storico la creazione degli Stati Uniti d’Europa sul modello americano […]. Siamo fede-realisti! Per avanzare dobbiamo appoggiarci su ciò che funziona. Ma l’Europa federale funziona, mentre l’Europa delle nazioni, l’Europa intergovernativa, che arranca da dieci anni nei Balcani, non funziona"(133).
Ancora una volta, le "parole" sono incoraggianti, ma mancano i fatti. Il Presidente Prodi "predica" nel senso di un avanzamento federalista dell’Unione, accantonando la linea funzionalista, ma la realtà è che ben pochi, all’interno delle Istituzioni europee, ci credono. I cittadini europei si dichiarano interessati alle vicende dell’Europa, ma le elezioni europee del giugno 1999 hanno registrato un vero record negativo di astensioni in molti Stati membri. In ogni caso, il processo va avanti: la crisi ha messo in luce l’instaurazione di un nuovo senso di democraticità all’interno dell’Unione, la quale dimostra di avere raggiunto una certa maturità politica. Spetta a noi saperla canalizzare nella giusta direzione, riprendere la via del cantiere della costruzione europea, che "…eppur si muove"!
NOTE:
(1) All’inizio d’ogni semestre, il presidente in carica del Consiglio espone il suo programma dinanzi al Parlamento e, alla scadenza del suo mandato, rende conto dei risultati conseguiti. I vari "ministri" possono assistere alle sedute plenarie del Parlamento e prendere parte alle discussioni importanti nonché al "question time". D’altro canto i deputati possono rivolgere loro interrogazioni scritte ed orali (Cfr. AAVV, Il Parlamento europeo, Lussemburgo, OPOCE, 1997, p. 15).
(2) Cfr. AAVV, Impatto del Parlamento attraverso la procedura di codecisione, Bruxelles, 1997, p. 2.
(3) Cfr. AAVV, Comment fonctionne l’Union européenne?, Lussemburgo, OPOCE, 1996, p. 6.
(4) Potere di censura e poteri in materia di bilancio.
(5) La Commissione elabora proposte legislative, ne controlla l’applicazione e coordina l’attuazione delle politiche comuni, dando impulso al processo d’integrazione.
(6) In primo luogo, esiste un limite rappresentato dalla prassi, instauratasi negli ultimi anni in seno ai Consigli europei, di "indicare alla Commissione i principi direttivi delle proposte" (Cfr. AAVV, Il Parlamento europeo, cit., p. 15) da indirizzare al Consiglio dei Ministri. In secondo luogo, "prima di presentare delle proposte di atti comuni, la Commissione deve assicurare che esse possano essere finanziate nei limiti delle risorse proprie disponibili nel bilancio comunitario" (DRAETTA, Elementi di diritto comunitario, cit., p. 107). Parimenti di natura budgetaria è il terzo limite posto all’attività della Commissione: l’aumento delle competenze affidatele in questi ultimi anni è avvenuto senza la corrispettiva assegnazione dei mezzi finanziari ed umani necessari, causando uno stato d’indebolimento amministrativo dell’Istituzione, che ha portato ad un discredito politico agli occhi dei cittadini europei, ma, soprattutto, ad un suo indebolimento nei rapporti di forza con le altre Istituzioni.
(7) Il presidente del Parlamento constata formalmente che il bilancio sia definitivamente adottato. Ciò significa che la firma da questi apposta lo rende esecutivo, dotando l’Unione delle risorse finanziarie per l’anno seguente (Cfr. AAVV, Il Parlamento Europeo, cit., p. 11). Per importanti motivi, il Parlamento può rifiutare tale constatazione e rigettare il bilancio nel suo complesso, richiedendo nel contempo che gli venga presentato un nuovo progetto. Il potere di rigetto del bilancio in toto (che esclude, quindi, il rigetto delle singole voci) può rilevarsi un eccellente mezzo d’ostruzionismo. Inoltre, nell’espletamento della sua funzione di controllo il Parlamento dà atto alla Commissione, su raccomandazione del Consiglio, dell’esatta esecuzione del bilancio dell’anno precedente (décharge o discarico della responsabilità), sentita la relazione della Corte dei Conti. Quest’atto equivale al riconoscimento che la Commissione si è attenuta al principio della buona gestione finanziaria. In quest’ottica, al Parlamento è concesso d’interpellare la Commissione sull’esecuzione delle spese, o sul funzionamento dei sistemi di controllo finanziario, e questa è tenuta a fornire tutti i chiarimenti del caso (Cfr. DRAETTA, Elementi di diritto comunitario, cit., p. 158).
(8) Commissione, Parlamento, Consiglio, Corte di Giustizia, Corte dei Conti, Comitato Economico e Sociale, Comitato delle Regioni.
(9) Così come denunciato dal MEP Alvoet in un’intervista rilasciata al quotidiano belga Le Soir (B.L., Alvoet: La crise peut être salutaire, in Le Soir, del 17 marzo 1999), da Le Monde diplomatique (A.C. ROBERT, Les institutions européennes à l’épreuve, in Le Monde diplomatique del 16/3/99) e dal quotidiano La Repubblica (F. RAMPINI, La prima crisi, in La Repubblica del 16 marzo 1999).
(10) Cfr. AAVV, Comment fonctionne l’Union européenne?, cit., p. 21.
(11) Encefalopatia Spongiforme Bovina, o malattia di Creuzfeld-Jacob, ribattezzata dalla stampa "crisi della mucca pazza".
(12) Intervista realizzata nell’aprile 1999 al Dott. François Genisson, assistente del Segretario Generale dell’Unione Europea.
(13) Le polemiche sull’utilizzo da parte della Commissione dei "mini-budgets" (la procedura dei "mini-budgets" consiste nell’utilizzazione dei crediti operazionali per il finanziamento delle spese del personale e di quelle amministrative), ritenuta illegale dal Parlamento; l’ostruzionismo fatto da quest’ultimo in merito alla procedura sulla Comitologia o, più in generale, la pratica di bloccare i crediti, grazie ai suoi poteri in materia di bilancio, per esercitare maggiore pressione sul Consiglio e sulla Commissione ed essere associato in maniera più stretta già nella fase d’elaborazione del bilancio.
(14) Nel marzo 1998, la Corte dei Conti, per il terzo anno consecutivo, ha presentato un rapporto negativo in merito alla legalità ed alla regolarità delle transazioni effettuate nel corso degli esercizi in esame (Vol. II del Rapporto annuale, p.8).
(15) Risoluzione del 31 marzo 1998.
(16) Rapporto sulla concessione alla Commissione del discarico relativo all’esecuzione del bilancio 1996.
(17) Rapporto sull’indipendenza, il ruolo e lo statuto dell’UCLAF (ottobre 1998).
(18) Espressione usata negli stessi ambienti comunitari. Tale rapporto, elaborato dal MEP Herbert Bösch, giudica quantitativamente e qualitativamente insufficienti gli effettivi e la struttura dell’Antifrode Comunitaria, proponendo la creazione di un Ufficio Antifrode (OLAF, creato in seguito nel giugno 1999), con una struttura indipendente al seno della Commissione, ma fortemente sotto tutela del Parlamento.
(19) Cfr. Procédure de décharge 1997 sur les travaux de l’UCLAF et du contrôle financier ainsi que sur la gestion par la Commission des cas de fraude et de corruption, Parlamento europeo, DOC368/368763, p. 3.
(20) In seguito all’esame del verbale relativo alla seduta di votazione del Rapporto Bösch, vorrei fare notare che il Gruppo Socialista, cui appartiene il relatore del rapporto, aveva proposto una serie significativa di emendamenti, tutti respinti grazie ad una coalizione PPE-relatore stesso! A mio avviso, ciò denota una certa discordanza di opinioni all’interno del gruppo PSE, che poi sarà determinante in occasione del voto della mozione di censura, nel gennaio 1999.
(21) In virtù dell’art. 205 del trattato.
(22) Cfr. Rapport de la Commission pour le Groupe de réflection de la CIG 1996, p. 35.
(23) Dopo un iniziale blocco di 14 voci contro (PSE) e 14 voci a favore (PPE), grazie ad un voto di differenza, dovuto tra l’altro all’assenza di un componente del "gruppo del no" (On. Feret, del Fronte Nazionale Belga).
(24) Dichiarazione della Commissione europea del 16/12/1998.
(25) Una mozione di censura, per essere ritenuta ricevibile, deve essere presentata al Presidente del Parlamento da almeno un decimo dei deputati (ossia almeno 63). Tale deposito non è soggetto a condizioni particolari, ma deve essere accompagnato da una "motivazione". Il voto si svolge non prima di tre giorni dopo l’apertura del dibattito e deve avvenire con scrutinio pubblico. Perché la mozione sia approvata è richiesta una doppia maggioranza: la maggioranza dei membri che compongono il Parlamento (314) e la maggioranza di due terzi dei voti espressi. Se la mozione è approvata, la Commissione deve dimettersi collettivamente, in quanto un commissario non può essere sanzionato individualmente, essendo il suo operato, nell’esercizio delle sue funzioni, imputabile all’intero collegio. La Commissione dimissionaria gestisce l’ordinaria amministrazione fino all’insediamento dei nuovi commissari.
(26) Dichiarazione della Commissione europea del 16/12/1998.
(27) Documento informale interno al Gabinetto Santer (fuori bibliografia per ragioni di confidenzialità).
(28) 270 eurodeputati hanno votato contro il quitus (il discarico), 225 a favore e 23 si sono astenuti. Le rivelazioni sulle frodi e le irregolarità sui programmi gestiti dalla Commissione hanno spinto il Parlamento a "mostrare" la sua vigilanza di fronte all’opinione pubblica.
(29) Cfr. Session du Parlement européen à Strasbourg, flash (n°3) du 17/12/1998 sur la décharge 1996, Direzione Generale XIX della CE, 1/12/1998.
(30) Pauline Grenn, di nazionalità britannica. Ex poliziotto, ha lavorato per il movimento cooperativo. Membro del Parlamento europeo dal 1989, è stata capogruppo del PSE durante la precedente legislatura, oltre che vicepresidente dell’Internazionale Socialista.
(31) Anche Wilfried Martens, presidente dei democratici-cristiani,(gruppo del PPE) aveva dichiarato che il suo gruppo nutriva una "fiducia piena" (ad esclusione dei 47 esponenti e dei 9 olandesi) in Santer. PSE et PPE raggruppavano 415 seggi su un totale di 626, ciò che rendeva impossibile l’approvazione della mozione di censura.
(32) Come risulta dai verbali della riunione del Collegio del 15 marzo 1999 e dall’intervista rilasciata dal Commissario Mario Monti al quotidiano La Repubblica (Costretti a dimetterci per le colpe degli altri, in La Repubblica del 17 marzo 1999, p.4).
(33) Traduzione libera dell’articolo di Agence France Presse, Crise à Bruxelles, del 16/03/1999.
(34) UE/Commissione: il presidente Santer si è congedato dal Parlamento europeo, "Agence Europe" n°7430 del 23/02/1999, p.5.
(35) Traduzione libera di P. LEMAÎTRE, Des commissaires s’estiment tout bonnement victimes d’un lynchage, in Le Monde del 18/03/1999.
(36) Cfr. P. LEMAÎTRE, cit.
(37) Cfr. P. LEMAÎTRE, cit.
(38) Cfr. Les commissaires s’en vont, amers, in Le Soir del 17/03/1999.
(39) R. ORIZIO, La rabbia di Santer: la storia mi riscatterà, in Corriere della Sera del 17/03/1999.
(40) F. PAPITTO, "Costretti a dimetterci per le colpe degli altri", in La Repubblica del 17/03/1999, p.4.
(41) Intervista rilasciata da Sir Leon Brittan alla BBC.
(42) Cfr. Risoluzione del 23/03/1999 del Parlamento europeo.
(43) Cfr. José-Maria Gil-Robles, in Le Soir del 17/03/1999.
(44) Il Partito Popolare Europeo è anche il partito di Jacques Santer.
(45) B.L., Herman: "Cela fait le jeu du Conseil des ministres", in Le Soir del 17/03/1999.
(46) Ibidem.
(47) Cfr. Giornata Politica, in Agence Europe, n°7431 del 24/03/1999, p.4.
(48) B.L., Dupuis: "La défaite des institutions européennes fédéralistes", "Le Soir" del 17/03/1999.
(49) Ibidem.
(50) B.L., La crise peut être salutaire, in Le Soir del 17/03/1999.
(51) L’Europa non si limita alla relazione dei Saggi né alle dimissioni della Commissione europea, in Agence Europe, n°7428 del 19/03/1999, p.9.
(52) B.L., Il faut renforcer la Commission, in Le Soir del 17/03/1999.
(53) S. FOLLI, Tra l’Asinello e l’Unione: il riserbo del Professore non è indifferenza, "Corriere della Sera" del 17/03/1999.
(54) Cfr. Les partenaires attendent, soucieux, in Le Soir del 17/03/1999.
(55) Ibidem.
(56) AFP, Crise à Bruxelles, 16/03/1999.
(57) M. LEO, Schröder, d’une démission à l’autre, in Le Soir del 17/03/1999.
(58) Ibidem.
(59) Cfr. Commissione europea: dimissioni, in Corriere della Sera del 16/03/1999, p.1.
(60) Ibidem.
(61) R. Orizio, Il Parlamento di Strasburgo incalza per avere più poteri, in Corriere della Sera del 17/03/1999.
(62) I. CAIZZI, "Mi manda Edith": storia del dentista che ha sconvolto l’Unione, in Corriere della Sera del 17/03/1999.
(63) A. BONANNI, Scricchiola l’asse Parigi-Bonn, in Corriere della Sera del 18/03/1999.
(64) A. BONANNI, Valzer di poltrone, in Corriere della Sera del 21/03/1999.
(65) A. BONANNI, La spinta di Blair, in Corriere della Sera del 25/03/1999.
(66) Ibidem.
(67) Ibidem.
(68) PETRINI R., Sarà senza rimpianto l’addio ai venti cavalieri di Bruxelles, in La Repubblica del 3 gennaio 1999, p.10.
(69) F. RAMPINI, La prima crisi, in La Repubblica del 16/03/1999, p.1.
(70) Ibidem.
(71) Come del resto afferma lo stesso Rampini alla fine dell’articolo in questione.
(72) Ibidem.
(73) Come la dichiarazione della Commissione del 16/12/1998, richiedente il voto di una mozione di censura in caso di rifiuto del discarico 1996.
(74) L’Agenda 2000 racchiude il progetto di riforma sui finanziamenti dell’UE ed una revisione della PAC, che ha provocato le proteste di alcuni stati come la Francia.
(75) F. RAMPINI, La prima crisi, cit.
(76) F. RAMPINI, Grande mercato sul governo UE, in La Repubblica del 17/03/1999, p.1.
(77) A. POLITO, Il patto Blair-Schröder per riformare l’Unione, in La Repubblica del 17/03/1999, p.2.
(78) Ibidem.
(79) E. MAURO, Sinistra, ultima occasione, in La Repubblica del 17/03/1999, p.1.
(80) Ibidem.
(81) F. FUBINI, Frodi alla UE, colpevole la Commissione, in Il Giornale del 16/03/1999, p.17.
(82) Ibidem.
(83) Ibidem.
(84) M. FOA, Scacco matto agli intoccabili, in Il Giornale del 16/03/1999, p.17.
(85) Ibidem.
(86) G. PENNACCHI, Quello che Bruxelles bolla come scandalo in Italia è un vizio, in Il Giornale del 18/03/1999, p.2.
(87) Ibidem.
(88) L’Europa rossa nella bufera degli scandali, il Secolo d’Italia del 16/03/1999.
(89) A. FRACHON, La Commission de Bruxelles jugée par la presse, in Le Monde del 13/03/1999, p.37.
(90) Le premier palmarès des commissaires européens, in L’Expansion del 3-17 marzo 1999.
(91) De Bresson fa allusione all’esclusione-sorpresa, durante il vertice di Corfù del 1994, del candidato belga alla presidenza Jean-Luc Dehaene.
(92) H. DE BRESSON, Un tournant politique pour l’Union, in Le Monde del 17/03/1999.
(93) Traduzione libera di M. SCOTTO, Le Parlement européen grand vainqueur de la crise entend pousser son avantage, in Le Monde del 18/03/1999.
(94) Ibidem.
(95) Traduzione libera di Y. MAMOU, Les prérogatives de l’Assemblée de Strasbourg ont beaucoup augmenté, in Le Monde del 23/03/1999.
(96) Il Mercato Comune, l’AUE, l’euro e la Banca Centrale Europea
(97) Ibidem.
(98) Ibidem.
(99) Traduzione libera di D. VERNET, Les prémices d’un espace public européen, in Le Monde del 18/03/1999.
(100) Ibidem.
(101) Traduzione libera di P. JARREAU, La crise de l’Union fait irruption dans la campagne électorale, in Le Monde del 18/03/1999, p.5.
(102) Traduzione libera di A.C. ROBERT, Démission de la Commission, in Le Monde Diplomatique del 16/03/1999.
(103) Ibidem.
(104) Ibidem.
(105) La destra francese d’ispirazione gollista, rappresentata dal RPR e dal suo presidente Philippe Seguin, non è filoeuropeista!
(106) Editoriale di A. PEYREFITTE, pubblicato su Le Figaro del 16/03/1999.
(107) Editoriale di Y. THREARD, pubblicato su France-Soir del 16/03/1999.
(108) Cfr. Crise à Bruxelles, Le Monde del 17/03/1999.
(109) Traduzione libera di S. JULY, Les 24 heures qui ont changé l’Europe, in Libération del 16/03/1999.
(110) G. DUPLAT, Le choc nécessaire, in Le Soir del 16/03/1999.
(111) A. RICHE, Quelle vie après la Commision Santer?, in Le Soir del 17/03/1999.
(112) Ibidem.
(113) The Sun, The Times, Daily Express, Daily Mail, Daily Telegraph.
(114) Il primo ministro Tony Blair, nel suo discorso del 16 marzo, davanti ai Comuni, non ha esitato a ricordare che l’errore di avere nominato Santer alla presidenza della Commissione, nel 1994, incombe sul suo predecessore tory, John Major, che si era opposto alla nomina dell’allora primo ministro belga Dehaene, per accontentare l’ala nazionalista del suo partito, in quell’epoca in aperta ribellione.
(115) Europa oggi e Tribune pour l’Europe, pubblicate dal Parlamento europeo; Commission en direct e European Voice, che sono più vicini agli ambienti della Commissione; Europolitique e Agence Europe, che sono più indipendenti.
(116) Traduzione libera di Crise institutionnelle à risque, in Europolitique, n°2391 del 17/03/1999.
(117) Ibidem.
(118) L’Europa non si limita alla relazione dei Saggi né alle dimissioni della Commissione europea, "Agence Europe" n°7428 del 19/03/1999, p.3.
(119) Ivi p.4.
(120) Un esempio è il recente caso delle dimissioni del ministro tedesco Oskar Lafontaine. Un fatto di "politica interna" tedesca, che ha avuto conseguenze e suscitato "interesse interessato" in tutta l’Unione.
(121) Cfr. Besoins d’Union, Cellula di Prospettiva della Commissione europea, Bruxelles, 1998, p.9.
(122) Ivi p.11.
(123) La ricostruzione di un rapporto di pacifica collaborazione tra la Francia e la Germania.
(124) WEIZSÄCKER-DEHAENE-SIMON, Rapporto sulle implicazioni istituzionali dell’allargamento, Bruxelles, ottobre 1999, p.9.
(125) Intervista rilasciata al Rheinischer Merkur, nel maggio 1999.
(126) Cfr. UE/Commissione, in Agence Europe, n°7439 del 7/04/1999, p.4.
(127) R. PRODI, Discorso del 13/04/1999, di fronte al Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria a Strasburgo.
(128) Rapporto n°51 dell’Eurobaromètre, realizzato per la Commissione europea tra il 12 marzo ed il 4 maggio 1999.
(129) In media il 42% degli intervistati si dice soddisfatto della democrazia nell’Unione, ma la percentuale varia dal 9% in Svezia, il 30% in Danimarca, il 32% nel Regno Unito al 61% in Spagna e al 61% sia in Irlanda che in Portogallo. Gli unici paesi in cui la fiducia è calata sono Lussemburgo, Danimarca e Austria.
(130) La moneta unica, maggiore associazione del Parlamento europeo al processo legislativo, estensione del voto a maggioranza in seno al Consiglio, ecc.
(131) Cfr. PE/Riforma istituzionale, in Agence Europe, n°7449 del 21/04/1999, p.3.
(132) Nato il 13.07.1946 a Neuilly (F). Diploma di studi politici e formazione presso la Scuola Nazionale di Amministrazione. Docente universitario. Presidente del Movimento Europeo Francese e deputato dal 1989.
(133) Intervista rilasciata al quotidiano Le Figaro, il 17/05/1999.
Il 14 marzo 1851, Emerico Amari(1) interruppe la propria collaborazione come redattore de La Croce di Savoia ed allo stesso tempo sospese la paziente compilazione del registro nel quale annotava tutti i numeri del quotidiano con i singoli articoli pubblicati.
A centocinquant’anni da quel giorno viene alla luce un incartamento che riapre la discussione sull’identificazione degli autori dei pezzi anonimi pubblicati su La Croce di Savoia e che consentirà di ampliare le nostre conoscenze su questo giornale.
La scoperta è il risultato di una ricerca che ho condotto di recente sul ricco fondo di manoscritti di Amari conservato presso la Biblioteca Comunale di Palermo e in gran parte ancora inedito.
Il documento consiste in un piccolo registro autografo che indica accanto al titolo di tutti gli articoli, apparsi fino al 14 marzo, le iniziali degli autori.
Grazie a queste carte oltre a conoscere l’autore di ogni articolo potremo valutare l’importanza del contributo dei singoli redattori e soprattutto di Amari.
L’attività politica e l’opera scientifica di Emerico Amari infatti risultano ancora ad oggi in gran parte prive di quegli adeguati studi ed approfondimenti che meriterebbero. Particolarmente trascurati sono soprattutto gli anni dell’esilio che l’illustre filosofo e giureconsulto palermitano trascorse a Genova dal 1849 fino al compimento dell’unità nazionale e che appaiono caratterizzati da un notevole impegno negli studi e nella divulgazione del proprio pensiero. È certo che Amari svolse in tale periodo un’intensa attività giornalistica di cui sappiamo purtroppo ben poco. Di notevole interesse potrebbe risultare proprio l’indagine sulla collaborazione di Emerico Amari al giornale La Croce di Savoia. Infatti anche gli studi su questo quotidiano non sono molti e, come già accennato, sconosciuto resta il contributo dei singoli redattori.
Nel periodo compreso tra il 22 giugno 1850 ed il 30 aprile 1852 a Torino viene pubblicato, ad opera di esuli siciliani, il quotidiano La Croce di Savoia con un programma editoriale che si ispira ai principi liberali, federalisti e del liberismo economico.
L’iniziativa nasceva dalla vulcanica personalità di Francesco Ferrara(2) che, già molto in vista nel panorama culturale torinese grazie alla cattedra di economia politica da lui tenuta presso la locale università, in Piemonte si era distinto nel campo del giornalismo con la collaborazione al giornale Il Risorgimento di Cavour, dalla cui redazione si era allontanato polemicamente nel marzo del 1850.
Per il Ferrara l’attività giornalistica era irrinunciabile(3) e dopo la rottura con Il Risorgimento, a distanza di neanche un mese, si impegnò nel tentativo di creare un proprio periodico che, grazie alla collaborazione di altri siciliani, desse voce agli esuli sulle vicende politiche del Regno di Sardegna e sul processo risorgimentale in Italia.
Dopo vari tentennamenti nel giugno del 1850 andò in stampa La Croce di Savoia, quotidiano liberale vicino alla sinistra di Rattazzi, il quale diede un contributo finanziario necessario per l’avvio dell’impresa.
Il giornale avrebbe dovuto essere nelle intenzioni del Ferrara "costituzionale - progressista; ove il bisogno lo vuole antirepubblicano; ma soprattutto non leggiero né sguajato ma, pieno di alta critica e di franchezza"(4). Il titolo rivela l’intento di volere stimolare l’impegno nazionale che, con la I Guerra di Indipendenza, la dinastia dei Savoia prese con gli italiani, in particolar modo gli esuli, di portare a compimento l’unificazione nazionale. Inoltre, nell’idea del Ferrara: "…ha tutti i vantaggi; anche quello di divenire un giornale protezionato dal Re, il quale quando occorre si mostra assai generoso verso la buona stampa"(5).
Gli altri siciliani che collaborarono come redattori de La Croce di Savoia furono Emerico Amari, il cui contributo era considerato dal Ferrara necessario ed insostituibile, e Vito D’Ondes Reggio.
Gli articoli spaziavano dalla cronaca politica sabauda a quella nazionale ed anche europea, dalla polemica con la stampa piemontese alla divulgazione del pensiero liberale e liberista dei suoi autori. Il leitmotiv principale era il federalismo e l’opposizione al centralismo amministrativo, insieme alla libertà di commercio che è oggetto dei numerosi articoli dedicati ai trattati doganali stipulati dal Regno di Sardegna.
Gli scritti de La Croce di Savoia rappresentano degli esempi rilevanti del pensiero politico ed economico del Risorgimento e soprattutto del contributo che ad esso diedero i più importanti rappresentanti dell’intellighenzia siciliana, quali Amari e Ferrara.
Tuttavia, nonostante l’indiscutibile valore di questa esperienza editoriale, come già accennato, oggi il livello di conoscenza su di essa è notevolmente scarso e inadeguato.
La Croce di Savoia può essere ancora definita inedita visto che non solo non esistono studi ad essa interamente dedicati e manca una pubblicazione dell’intera sua raccolta, ma soprattutto perché la stragrande maggioranza degli articoli risultano ancora anonimi, in quanto Ferrara nei giornali che dirigeva aveva l’abitudine, tra l’altro molto diffusa nel XIX secolo, di non fare firmare ai redattori i loro contributi.
Le uniche scarne notizie che possediamo sono riportate in La stampa italiana del Risorgimento a cura di F. Della Peruta (Laterza, 1979) che indica La Croce di Savoia come : "… portavoce diretta di Rattazzi e del centro - sinistro …", un quotidiano che: "… finché fu diretto da Ferrara, fu un giornale di buona fattura e redatto con intelligenza, ma con l’uscita dell’economista siciliano la sua fisionomia divenne via via più scialba"(6).
Il solo studio che ha dato un certo spazio al giornale rimane La Stampa delle Opere Complete di Francesco Ferrara che nei volumi VII ed VIII riporta una sessantina di articoli che si presumevano attribuibili al Ferrara. La maggior parte degli articoli pubblicati ed inseriti è contenuta nel volume VII a cura di Federico Caffè e Francesco Sirugo edito nel 1970 a Roma dove sono riportati quei pezzi che il grande economista Caffè (noto oltre che per il proprio valore anche per la sua misteriosa scomparsa nel nulla che ricorda quella di Ettore Majorana) ha ritenuto con valido, anche se non sempre fortunato, criterio filologico fossero opera del Ferrara. Il volume VIII, del 1976, a cura di Riccardo Faucci pubblica un’altra decina di articoli che in base ad analoghi criteri di attribuzione vengono fatti risalire sempre al Ferrara. Occorre precisare che i volumi si limitano a riportare i testi degli articoli, con alcune indicazioni sui criteri di attribuzione nelle note, non corredati però da un’adeguata analisi de La Croce di Savoia nel suo insieme.
Tuttavia, l’esiguità degli articoli rintracciati, presumibilmente attribuiti all’economista siciliano, unita al fatto che questi presentano un’eccessiva omogeneità nei temi rispetto ai vasti argomenti trattati sul quotidiano, probabile conseguenza dei criteri di attribuzione e del maggiore interesse di economisti e storici del pensiero economico verso il tema del liberismo, ci offre un quadro piuttosto ridotto dell’attività de La Croce di Savoia e del pensiero dei suoi autori.
Ostacolo allo studio del quotidiano torinese è anche la difficile reperibilità delle copie. Ne esistono alcune raccolte incomplete a Torino ed un’unica collezione completa a Roma presso la Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea. In Sicilia, invece, non esiste nessuna copia, cosa singolare se si considera che gli autori erano siciliani.
Di recente, comunque, il saggio di Riccardo Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara(7) contiene informazioni più dettagliate e precise sulla nascita e sull’attività de La Croce di Savoia grazie ai preziosissimi carteggi del Ferrara(8) che Pier Francesco Asso, docente di storia del pensiero economico dell’Università di Palermo, ha pazientemente rintracciato e raccolto. Questi carteggi, oltre a fare maggiore chiarezza sulla genesi e sulla vita del giornale, fanno emergere l’importanza del contributo degli altri redattori e soprattutto dell’Amari, fino a quel momento trascurato ed ignorato negli spazi dedicati sia nelle Opere Complete che nel saggio di Della Peruta. Inoltre dal carteggio comincia ad emergere la possibilità che alcuni degli stessi articoli attribuiti al Ferrara possano essere opera degli altri redattori.
In realtà tra i pochi studiosi palermitani di Emerico Amari la collaborazione di questi a La Croce di Savoia era nota e veniva considerata pari a quella del Ferrara.
Già le biografie di Amari, postume alla sua morte, prima tra tutte per completezza quella di Francesco Maggiore Perni(9), lo indicano come uno degli autori del giornale. Eugenio Di Carlo, docente di filosofia del diritto dell’Università di Palermo, in un suo saggio del 1948 intitolato E. Amari(10) riporta che: "… collaborò al quotidiano Croce di Savoia, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1850 sotto la direzione del D’Ondes, del Ferrara e dell’Amari stesso, con programma federalista"(11). Di Carlo riporta ancora qualche altra informazione sul giornale che, nelle note, indica di avere tratto da una lettera del D’Ondes Reggio al Mittermaier(12) e probabilmente le notizie in possesso dello studioso palermitano scaturiscono esclusivamente dalle biografie e dai carteggi dell’Amari e del D’Ondes Reggio che ebbe l’occasione di curare. Ciò spiegherebbe come mai in questo caso la partecipazione del Ferrara, ideatore e direttore de "La Croce di Savoia", resti appena accennata e scarsamente considerata e del resto lo studio del Di Carlo è precedente alla stampa delle Opere Complete di Francesco Ferrara.
Il contributo di Amari a La Croce di Savoia è preso in considerazione qualche anno dopo da Giuseppe Lumia nello scritto Economia e politica nella vita e nelle opere di Emerico Amari(13) che tuttavia non aggiunge nulla di più a quanto già detto da Di Carlo. L’autore indica nelle note(14) di avere cercato copie dei numeri del giornale ed attesta la loro assenza presso tutte le biblioteche palermitane, cosa che considera singolare supponendo che Amari di ritorno dall’esilio a Palermo ne abbia portato una raccolta.
Uno studio sul contributo di Amari a La Croce di Savoia, come anche degli altri redattori, è ad oggi ancora mancante e necessariamente dovrà essere condotto sulla raccolta esistente a Roma, che pare sia l’unica completa, e tenendo conto del ricco carteggio del Ferrara(15) curato da Asso.
Resta, comunque, il difficile problema dell’attribuzione della paternità degli articoli che neanche il carteggio ed i possibili scrupolosi criteri filologici da adottare riuscirebbe a risolvere.
Un aiuto decisivo ed insostituibile a questo punto potrebbe venire proprio dall’incartamento inedito che da pochi giorni ho trovato tra i manoscritti di Amari. Il documento è conservato con la segnatura 5 Qq .C.21 nella Miscellanea di varie scritture dal 1850 al 1852 durante la dimora a Genova e gli è stato erroneamente attribuito, al momento della conservazione, la denominazione di Notande tratte dalla lettura di giornali dal 1850 al 1851.
L’inconfondibile grafia, per altro di non agevole lettura, che risulta identica in altri manoscritti già noti, ci lascia certi che si tratti di un autografo di Emerico Amari.
L’incartamento consiste di trentatré fogli di cui trentuno costituiscono il vero e proprio registro, un foglio appare come un conteggio dei contributi dei singoli redattori ed un altro è pieno di appunti sempre inerenti ma di difficile interpretazione.
Il registro annota sul margine sinistro dei fogli una progressione numerica, al centro i titoli degli articoli e le iniziali degli autori, sulla destra il numero del giornale e la data. Il periodo preso in considerazione si apre con il primo numero del 22 giugno 1850 e si chiude con quello del 14 marzo 1851, giorno in cui cessa la collaborazione di Amari come risulta anche dai carteggi di questi con Ferrara(16).
Il titolo dell’incartamento è Registro degli articoli originali dei redattori. Indicazione degli atti ufficiali, leggi o progetti contenuti nella Croce di Savoia. Probabilmente il registro veniva tenuto per sopperire all’anonimato imposto dal Ferrara sugli articoli, cosa che pare infastidisse molto Amari, e per ragioni legate alla retribuzione per la collaborazione e la divisione degli utili.
Da un primo esame emerge che: gli articoli sono spesso abbreviati o non coincidono perfettamente nel titolo con quelli stampati(17), probabilmente per modifiche e correzioni sopravvenute negli ultimi momenti; che l’autore appone simboli e percentuali accanto alle varie voci, soprattutto del Ferrara; che in alcune pagine cambia di poco il criterio di incolonnare.
In un prossimo impiego del registro occorrerà tenere presente che nell’ottobre 1850 avvenne qualche errore di trascrizione, poi corretto, che crea difficoltà nella lettura. Appare presente il frequente uso di parentesi che sembra vogliano rimarcare l’attribuzione degli articoli.
Il foglio contenente il conteggio dei contributi dei redattori si ferma in data 28 febbraio e presenta oltre ad una tabella abbastanza chiara anche dei calcoli che in realtà appaiono parecchio confusi. Tuttavia è immediato alla lettura riscontrare che il numero degli articoli scritti da Amari fosse il più consistente, seguito a distanza da Ferrara e da D’Ondes Reggio.
Da un primo raffronto con gli articoli inseriti nelle Opere Complete risulta errata l’attribuzione al Ferrara di alcuni di essi che nel registro vengono indicati come opera di Amari ed in due casi del D’Ondes Reggio.
Tale scoperta è naturale che nei prossimi giorni consentirà di correggere puntualmente le attribuzioni degli articoli già operate e soprattutto di completarle per tutti i numeri fino al 14 marzo 1851. Inoltre offrirà l’occasione di portare a termine uno studio completo su La Croce di Savoia che ancora oggi manca.
Sarà così possibile conoscere meglio gli apporti dei singoli autori ed approfondire ulteriormente lo studio del pensiero politico ed economico di Emerico Amari, di Francesco Ferrara e di Vito D’Ondes Reggio insieme al contributo da essi dato al dibattito culturale e politico del Risorgimento nazionale.
NOTE:
(1) Nacque a Palermo nel 1810 e morì ivi nel 1870. Si distinse come giurista e uomo politico anche per essere stato uno dei principali protagonisti nel 1848 durante le vicende siciliane e per essersi schierato contro i Borboni. Fu deputato al Parlamento palermitano e, successivamente, esule in Piemonte. Tra i suoi numerosi scritti la Critica di una scienza della legislazione comparata (1857).
(2) Per un’esauriente biografia si veda R. Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di Francesco Ferrara, Palermo, Sellerio, 1995.
(3) "…se io fossi calzolajo, trovandomi in esilio procurerei di ajutare me e i miei aprendo una bottega da scarpe. Io nacqui giornalista, non posso ajutarmi che a furia di tentativi giornalistici". Lettera di Francesco Ferrara ad Emerico Amari, 3 giugno 1850, in Epistolario Opere Complete di Francesco Ferrara, vol. XIII, a cura di P. F.Asso, Roma, Bancaria Editrice, 2001.
(4) Lettera di Francesco Ferrara ad Emerico Amari, 18 maggio 1850 in Epistolario Opere Complete di Francesco Ferrara, cit.
(5) Lettera di Francesco Ferrara ad Emerico Amari, 3 giugno 1850 in Epistolario Opere Complete di Francesco Ferrara, cit.
(6) La Stampa Italiana del Risorgimento, a cura di F. Della Peruta, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 482
(7) cfr. R. Faucci, op. cit.
(8) Si veda Epistolario…cit.
(9) f. Maggiore perni, Di Emerico Amari e delle sue opere, saggio letto all’Accademia di Scienze Lettere ed Arti il 18 dicembre 1870, Palermo tipografia Morvillo 1871 pp. 39-40.
(10) E. Di Carlo, E. Amari, Brescia , La Scuola Editrice, 1948.
(11) Ivi, pp. 34 - 35
(12) Ivi, p 35 nota. 27
(13) G. Lumia, Economia e Politica nella vita e nelle opere di Emerico Amari, in Il Circolo Giuridico L. Sanpolo, rivista di dottrina e giurisprudenza, Palermo, tipografia Michele Montaina, 1957.
(14) Ivi, p. 70 nota a.
(15) Si veda Epistolario…cit.
(16) Lettera di Francesco Ferrara ad Emerico Amari del 15 marzo 1851, in Epistolario Opere Complete di Francesco Ferrara, cit.
(17) Opere Complete di Francesco Ferrara, vol. VII, a cura di F. Caffè e F. Sirugo, Bancaria Editrice, Roma, 1970 e vol. VIII a cura di Riccardo Faucci, Roma, Bancaria Editrice, 1976.
Dopo la proclamazione del regno d’Italia, si chiarì meglio la posizione dei cattolici e per riflesso della stampa cattolica circa le due tendenze esistenti da qualche anno: il movimento cattolico liberale e l’atteggiamento d’intransigenza. La rivista che più di ogni altra rappresenta il pensiero cattolico di quel periodo è La Civiltà Cattolica(1) alla quale collaborarono uomini come Luigi Taparelli D’Azeglio, Matteo Liberatore, Antonio Bresciani. Fin dai primi numeri la rivista si prefissa il compito di sganciare la causa cattolica da quella dei sovrani spodestati e di distinguere le proprie tesi da quelle del regime assolutista, al fine di aprire al cattolicesimo italiano quelle possibilità di sbocco che i regionalismi pregiudicavano seriamente. L’intuizione di questa esigenza – distacco progressivo della causa religiosa da quella del vecchio regime – evitò poi ai cattolici italiani della frazione più avanzata ipoteche e appesantimenti che sarebbe stato più difficile superare nei decenni seguenti. Non per questo la rivista si pose in atteggiamento di attesa nei riguardi dei nuovi eventi, anzi fu più aspramente polemica verso il governo, prima piemontese poi italiano. E’ innegabile la preferenza della rivista per forme di monarchia temperata più che costituzionale. La stampa intransigente era senz’altro più forte, mentre i giornali cattolico-liberali(2), pur se numerosi, erano sminuiti dal discredito che i cattolici intransigenti, ed a volte la stessa gerarchia, diffondevano sul loro conto. A tal proposito non bisogna dimenticare la condanna del movimento cattolico liberale da parte di Pio IX il quale il 10 ottobre 1863 con l’allocuzione Quanto conficiamur moerare e l’8 dicembre 1864 nel IV paragrafo del Sillabo degli errori del nostro tempo (pubblicato insieme all’enciclica Quanta cura), elimina qualsiasi dubbio in merito al cattolicesimo liberale(3). Ben presto appare fra la stampa cattolica intransigente L’Osservatore cattolico che, fondato a Milano nel 1864, diviene, grazie all’ingresso nella redazione di Don Davide Albertario(4) nel 1868, un quotidiano di punta del giornalismo cattolico.
La presa di Roma provocò necessariamente una riorganizzazione del mondo cattolico italiano. Dopo il 1870 gli intransigenti hanno il sopravvento; i cattolici si estraniano dalla vita pubblica. All’inizio, in mancanza di precise istruzioni, questo estraniarsi è istintivo; e prima ancora che fosse varata la formula del non expedit(5) i cattolici, difronte ad una situazione particolarmente confusa, avevano scelto l’atteggiamento dell’astensione(6). Tuttavia il divieto di Pio IX si riferiva alle sole elezioni politiche, mentre a quelle amministrative, i cattolici avrebbero potuto partecipare; anzi si verificò in qualche centro la necessità di dover incitare i cattolici, anche con la stampa, a partecipare alle elezioni amministrative; e la stampa cattolica dovette dimostrare che la partecipazione di cattolici (candidati ed elettori) alle elezioni comunali e provinciali non significava necessariamente adesione all’ordine nuovo portato dai liberali.In questo periodo (1870 –1875) i contrasti tra la stampa liberale(7) e quella cattolica intransigente sono particolarmente aspri. I cattolici intransigenti erano accusati di "attentare alla sicurezza della patria, di attizzare la guerra civile e di invocare l’intervento straniero". Al fine di attenuare tale contrasto, intervenne lo stesso Leone XIII(8) riproponendo una formula "preparazione nell’astensione" che era stata lanciata dal giornale "Il cittadino di Brescia", in occasione delle elezioni del maggio 1880. Intanto, in seguito a due congressi nazionali dei cattolici italiani, il primo a Venezia nel 1874, il secondo a Firenze nel 1875 si pongono le basi dell’Opera dei Congressi(9), organismo permanente impiantato secondo lo schema dell’organizzazione ecclesiastica, con comitati parrocchiali e diocesani.
I fermenti che agitano il mondo cattolico italiano si riflettono inevitabilmente sulla stampa. E non furono poche le polemiche giornalistiche che in questo periodo videro come protagonista il giornale intransigente per eccellenza "L’Osservatore cattolico" e il conseguente intervento moderatore dello stesso pontefice Leone XIII.
Ben presto i giornali cattolici sposteranno i loro interessi sul terreno sociale(10). Tra il 1890 e il 1898 la frattura tra paese legale e paese reale si accentua e si va allargando in tutte le direzioni, ne sono conferma i moti dei fasci siciliani del 1893-94(11) e le sommosse di Milano. "L’Osservatore cattolico", il 7 gennaio 1894 così scrive: "il moto siciliano è esclusivamente il frutto del canaglismo e dell’ignoranza, dell’ingordigia della setta liberale che o moderata o progressista o radicale o savoiarda governa da trent’anni l’Italia". In altre parole si condanna la miopia del governo liberale italiano, unico responsabile delle condizioni esasperate e drammatiche in cui versa il popolo oppresso. A dar coscienza ai cattolici contribuì molto l’opera di Leone XIII e, in particolare l’enciclica Rerum novarum pubblicata nel 1891.
Dal 1° gennaio esce a Roma "Cultura sociale" rivista fondata e diretta dal giovane sacerdote Romolo Murri. Questa rivista doveva assumere grande importanza negli anni a venire, divenendo il principale organo del movimento democratico cristiano. Nella dichiarazione programmatica i redattori si dicevano "cattolici integralmente, cattolici col Papa e con la grande maggioranza dei cattolici italiani".Tra i collaboratori anche Filippo Meda.
Alla vigilia dei moti del 1898(12) i cattolici si ritrovano con una buona organizzazione, chiarezza d’idee e una coscienza sociale moderna. A questi risultati aveva condotto l’Opera dei Congressi, sebbene, come abbiamo detto, la stessa organizzazione potesse considerarsi, per certi versi, superata. La seconda sezione dell’Opera, presieduta prima dal Conte Medolago Albano e dal 1890 da Giuseppe Toniolo(13) è organismo vivo.
I moti del 1898 furono la causa per una repressione governativa che si abbattè su due grossi filoni popolari: cattolici e socialisti. Per quanto riguarda i cattolici, il governo tentò di screditarli additandoli come sobillatori ed antitaliani, ma non solo, molti giornali cattolici(14) che avevano scritto articoli roventi contro lo stato delle cose sono soppressi, tra questi "L’Osservatore cattolico"(15), si arrestano giornalisti(16) e si deportano da una città all’altra, si devastano con perquisizioni e poi si sopprimono centinaia di associazioni cattoliche in tutta Italia. Difronte a tali avvenimenti intervenne Leone XIII che volle esprimere tutta la sua solidarietà inviando una pubblica lode ai due giornalisti più importanti: Sacchetti, direttore dell’"Unità cattolica" e Don Albertario direttore de L’Osservatore cattolico.
Nonostante l’atmosfera di ostilità da parte del governo non si fosse del tutto diradata, nell’autunno del 1898 la maggiorparte dei periodici cattolici riprese le pubblicazioni; riprende la polemica tra conciliatoristi e intransigenti; i primi rivolgono una petizione a Leone XIII affinché fosse ritirato il non expedit, coniando anche un motto: "Star col Papa in materia di fede, non in politica". Concluso il momento della repressione, inizia un nuovo processo che condurrà i cattolici all’ingresso nella vita politica. Si intravede ormai la possibilità che le organizzazioni cattoliche cooperino con i liberali più illuminati per imprimere un nuovo corso alla vita pubblica. Insomma all’indomani della repressione si scoprono i cattolici. Essi sono ancora visti come "clericali", ma si comincia a guardarli con rispetto. A determinare questo mutamento valse il consolidarsi, sia tra i cattolici intransigenti che conciliatoristi, delle preoccupazioni di carattere sociale. L’occasione di rottura fu data dall’atteggiamento dei cattolici durante i fasci siciliani(17) e le sommosse che culminarono nel 1898; ma bisogna riconoscere che ad imprimere la spinta vitale era stato Leone XIII(18) ed uomini come Giuseppe Toniolo, alla cui attività si deve la propagazione capillare dell’insegnamento sociale, soprattutto attraverso i periodici(19) che cominciano ad apparire proprio dalla fine del 1898 ai primi del ‘900.
A proposito delle questioni sociali dibattute dalla stampa cattolica, va tenuto presente un dato molto importante: già nel 1899 si delineavano le polemiche dei cattolici nei confronti dei socialisti. I cattolici intransigenti, in effetti, non avevano mai tralasciato di combattere il socialismo, ma i contrasti si riducevano spesso a rivalità locali sul piano organizzativo; e questo non perché si sconoscessero i problemi di fondo e le incompatibilità della dottrina cattolica con l’ideologia socialista, ma perché il nemico più temuto e più forte era in quel momento il borghese massone, il governo liberale che perseguitava le organizzazioni cattoliche. Adesso allentatasi la tensione sul fronte governativo, e anzi giunti alla vigilia di una conciliazione, si sente l’esigenza di chiarire la posizione cattolica nei riguardi del socialismo. Dalle colonne de L’Osservatore cattolico, prima Don Albertario e poi Filippo Meda (divenuto direttore del giornale nel 1902, alla morte di don Davide Albertario) muovono all’assalto delle posizioni socialiste che giammai possono confondersi con il movimento democratico cristiano. Intanto Romolo Murri entra nel vivo della polemica sull’azione politica dei cattolici dando vita a quello che sarà definito "modernismo murriano"(20).
Nel 1904 viene soppressa l’Opera dei Congressi (fu conservato soltanto il secondo gruppo, con funzioni economico-sociali, presieduto da Medolago Albani) ritenuta ormai inadeguata ai nuovi tempi.
L’avvenimento più importante per il giornalismo cattolico è, nel 1907, la riuscita fusione di due giornali milanesi, un tempo avversari: L’Osservatore cattolico e La lega lombarda (quotidiano transigente diretto dal marchese Cornaggia). I due quotidiani danno vita a L’Unione(21) alla cui direzione sarà Filippo Meda, che era stato uno dei fautori dell’iniziativa(22).
Alla fine del 1914, Padre Agostino Gemelli, insieme con Necchi e Olgiati, fonderà la rivista Vita e pensiero, alla quale darà un’assidua collaborazione anche Filippo Meda.
Nel corso degli anni il peso dei cattolici nella vita nazionale era gradualmente ma costantemente cresciuto. Si è già accennato che il non expedit era stato sempre limitato alle elezioni politiche, mentre si era incoraggiata la partecipazione dei cattolici alle elezioni amministrative. Ed è proprio nelle elezioni amministrative che si erano sperimentati i primi accordi fra cattolici e moderati culminanti poi, nel 1913, nel Patto Gentiloni(23) che sancì l’inizio ufficiale della partecipazione dei cattolici alla vita politica dello stato. Secondo Filippo Meda i cattolici avrebbero dovuto salvare lo stato, essendo organo necessario alla vita sociale(24). Compito dei cattolici immessi nella vita pubblica era di infondere uno spirito nuovo. Quasi tutta la stampa cattolica si avvia verso le posizioni di Meda e si fa portavoce delle nuove linee politiche del mondo cattolico italiano(25).
Alla vigilia della prima guerra mondiale la stampa cattolica, su quello che fu il problema di fondo – intervento o neutralità - si trova schierata, almeno in un primo tempo, quasi tutta a favore della neutralità, ma con estrema cautela, al fine di evitare accuse di antipatriottismo. Il più delle volte la difesa della neutralità era ispirata da motivi umanitari e da un logico antimilitarismo. Soltanto poche testate (e tra queste L’Unità cattolica) erano mosse al neutralismo da un sentimento filoaustriaco mai abbandonato da mezzo secolo.Tuttavia col trascorrere dei mesi si profilò qualche simpatia per l’intervento(26), anche perché il Vaticano - per ovviare al disorientamento dei cattolici di tutto il mondo - aveva distinto la posizione della chiesa e quella dei cattolici dei singoli paesi difronte alla guerra. Si distinse fra la neutralità della chiesa, necessariamente assoluta, e la neutralità dei cattolici italiani che poteva essere condizionata dall’inviolabilità del patrimonio morale della nazione; era come affermare che i cattolici potevano sentire il dovere di intervenire per difendere i diritti, le aspirazioni e gli interessi dello stato italiano. Sicchè quei cattolici che - vuoi per contagio dell’infatuazione nazionalista dilagante nel ceto medio, vuoi per sereno ripensamento sugli interessi della patria – cominciavano ad essere su posizioni interventiste, ora potevano farlo senza scrupoli di coscienza. Questa sorta di autorizzazione aprì la strada alla collaborazione da parte dei cattolici e dello stesso clero; questa partecipazione fu sancita ufficialmente nel giugno del 1916, quando si formò un ministero di "unione nazionale", e per la prima volta un cattolico, Filippo Meda, fu chiamato a far parte del governo come ministro delle finanze(27).
Verso la fine della guerra si realizzò un’aspirazione di molti cattolici italiani: la fondazione di un partito politico di ispirazione cattolica, per iniziativa del sacerdote siciliano Luigi Sturzo(28). Già, in precedenza, altri tentativi erano stati fatti in tal senso, ma ormai i tempi erano maturi per la creazione di un partito politico di ispirazione cattolica, popolare e soprattutto aconfessionale. Al nuovo partito aderirono quasi tutte le testate del giornalismo cattolico, eccetto "L’Unità cattolica" che però mostrò una prudente simpatia per la nuova organizzazione politica. Organo di stampa del partito fu il settimanale Popolo nuovo diretto da Giulio Seganti. Il partito di Don Sturzo suscitò simpatie in alcuni liberali ed in genere nel ceto medio per una serie di ragioni: la rinascita del cattolicesimo avvenuta alla fine della guerra, la ricerca di una forza alleata sulla quale poter contare per arginare la pressione socialista, la constatazione di trovarsi difronte ad una forza in espansione. La sopravvenuta vocazione politica, a lungo sopita, nella maggior parte dei giornali cattolici porta, qualche volta, a disorientamenti di metodo. Nel dicembre del 1919 esce a Milano una nuova rivista quindicinale di politica e questioni sociali: Civitas(29), diretta da Filippo Meda, volta alla formazione di quanti intendevano seguire l’indirizzo "popolare". Quando uscì questa rivista i popolari erano presenti a Montecitorio con ben cento deputati.
In prossimità dell’avvento del fascismo iniziano serie difficoltà per gran parte del giornalismo cattolico. Nel 1922, in occasione delle elezioni amministrative, il partito popolare aveva deciso che i popolari si presentassero ovunque con liste proprie. Sicchè il giornalismo cattolico adottò, in quell’occasione, la tattica intransigente per accendere l’atmosfera di euforia e dare sicurezza ai cattolici. Ma i moderati - influenzati dalla tensione nazionalista e preoccupati per i continui scioperi che stavano paralizzando la vita della nazione - premevano affinché i cattolici facessero blocco con la destra, allo scopo di frenare l’avanzata dei sovversivi. Il partito popolare italiano fu costretto ad autorizzare l’entrata dei cattolici in blocchi di destra in comuni spiccatamente rossi come Ferrara, Modena, Torino. Tuttavia essi tenevano a precisare che non si trattava di alleanza con i fascisti. Il fascismo era considerato al pari del bolscevismo e il giornalismo cattolico aveva deplorato col medesimo tono gli assassini, gli eccidi, sia che a compierli fossero i socialisti e i comunisti sia che fossero i fascisti.
Dunque la vocazione del giornalismo cattolico, in linea generale, era chiaramente antifascista; ma non mancarono le eccezioni. Ad esempio, a Milano, sempre in occasione delle elezioni amministrative del 1922, vi fu un serio contrasto tra il Partito Popolare e i cattolici moderati che erano entrati nel blocco di destra di cui facevano parte anche i fascisti; il quotidiano L’Italia, alla cui direzione era stato anche Filippo Meda, oltre che preparare il terreno per questa alleanza, appoggiò la campagna elettorale del blocco che però fu battuto dai socialisti. Ben presto, però, sopravvennero una serie di avvenimenti (le persecuzioni, il sentirsi sganciati dall’opinione pubblica che era sempre più montata dalla propaganda fascista e soprattutto da quella borghese) che condussero al disorientamento di molti cattolici e al loro progressivo avvicinamento su posizioni filofasciste. A questo punto, poiché gran parte delle testate giornalistiche si stavano sganciando dal Partito Popolare Italiano, Don Sturzo decise di fondare un proprio quotidiano: "Il Popolo" le cui pubblicazioni ebbero inizio nel 1923 e si conclusero nel 1925. Nel corso del 4° congresso del partito, tenutosi a Torino il 12 aprile 1923, si era affermata la linea di quei cattolici che volevano condurre il Partito Popolare Italiano sulla strada della "leale collaborazione" col governo fascista. Dopo il congresso si ebbe la rottura tra fascismo e popolarismo. E’ la fine per i popolari come per tutti i partiti politici, ma è anche la fine per una qualsiasi partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese. La gerarchia ecclesiastica si era sempre tenuta in posizione neutrale nei confronti del Partito Popolare Italiano e le testate ufficiose del Vaticano, L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica tenevano a ribadire che le organizzazioni cattoliche non avevano mai aderito al P.P.I. Queste precisazioni erano dettate dal timore che l’eventuale reazione violenta dei fascisti potesse coinvolgere e compromettere le associazioni cattoliche, e al tempo stesso che l’attività dei popolari potesse arrecare fastidi e imbarazzi alla S.Sede. Nel frattempo altri gruppi di cattolici si costituiscono in associazioni e movimenti per proclamare il completo consenso al governo fascista, dato che il fascismo "riconosce apertamente ed onora quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano reggimento politico, professando, contro le ideologie democratiche e settarie, principi di disciplina e d’ordine gerarchico nello stato, in armonia con le dottrine religiose e sociali affermate sempre dalla chiesa". Dal 1922 al 1926 furono devastate anche redazioni e tipografie di giornali cattolici, ma alla fine furono soppresse d’autorità pochissime testate; si preferì agire sugli uomini favorendo l’infiltrazione di giornalisti cattolici che simpatizzavano per il fascismo e che erano in definitiva gli eredi diretti della destra cattolica. Alcune riviste dell’Università cattolica come "Vita e pensiero" e "Rivista internazionale di scienze sociali" dopo il 1932 assunsero un atteggiamento filofascista. Le polemiche causate dal tentativo fascista di infeudare l’azione cattolica occuparono tutto il 1931 e costituirono la battaglia più importante del giornalismo cattolico durante il ventennio. Difronte all’azione fascista che proclamava l’incompatibilità tra l’appartenenza alle federazioni di universitari cattolici e quelle di universitari fascisti, tutta la stampa cattolica si mobilitò. Ma la rottura definitiva tra governo e cattolici si ebbe ai primi di giugno dello stesso anno, quando i prefetti di tutta Italia ordinarono lo scioglimento delle associazioni giovanili che non facessero capo al Partito Nazionale Fascista.
Il 29 giugno 1931 Pio XI pronuncia per l’Azione Cattolica l’enciclica Non abbiamo bisogno, denunciando le durezze e violenze fino alle percosse e al sangue, irriverenze di stampa, di parola e di fatti contro le cose e le persone, demolisce inoltre l’accusa fascista consistente nell’affermare che i capi dell’Azione Cattolica fossero membri del Partito Popolare Italiano.Il motivo conduttore delle accuse era che Pio XI aveva fatto appello allo straniero e che la S. Sede si fosse alleata con le forze dell’antifascismo. Mussolini intuisce di essersi spinto troppo oltre in questo pericoloso tentativo di fascistizzare gli ambienti cattolici italiani e decide di non forzare oltre la situazione. Fra la S. Sede e il governo l’ accordo, che prevede la compatibilità dell’appartenenza all’Azione Cattolica ed al Partito Nazionale Fascista, sarà concluso il 2 settembre 1931. Ha termine così il contrasto più grave fra mondo cattolico italiano e fascismo, ma al tempo stesso ha inizio un periodo di stasi e di attesa che testimonia anche la fine, almeno all’interno dell’Italia, dell’azione politica democratica dei cattolici italiani. Bisognerà attendere la fine della guerra per assistere al grande risveglio del giornalismo cattolico.
NOTE:
(1) Rivista fondata a Napoli nel 1850 su progetto del padre Gesuita Carlo Curci e con l’incoraggiamento di Pio IX e del Cardinale Antonelli
(2) Ricordiamo tra gli altri: Il conciliatore, L’emancipatore cattolico, Il mediatore.
(3) Non bisogna dimenticare i cattolici moderati, che differivano dagli intransigenti perché sostenevano la necessità di aderire allo stato unitario e non accettavano la formula astensionista di Don Margotti "né eletti né elettori".
(4) Sulla figura di Don Davide Albertario cfr., G. Pecora, Don Davide Albertario, campione del giornalismo cattolico,Torino, Soc. ed. internazionale, 1934; F. Fonzi, Don Davide Albertario, la realtà e il mito, in "Quaderni di cultura e storia sociale", n. 6-7 giugno-luglio 1954.
(5) Il non expedit nacque nel marzo del 1871, quando la penitenzieria del Vaticano, rispondendo alla domanda "se nelle circostanze attuali, ed in vista di tutto ciò che si sta consumando in Italia a danno della chiesa, sia espediente concorrere alle politiche elezioni",-rispose: "non expedire". Ma l’ufficialità si ebbe nel 1874, quando lo stesso Pio IX si espresse, affermando che per un cattolico non era lecito andare a sedere a Montecitorio. Già nel 1861 Don Giacomo Margotti, (fondatore nel 1863 de "L’unità cattolica", battagliero giornale intransigente), aveva coniato la formula né eletti né elettori in un articolo apparso l’8 gennaio 1861, destinato a diventare il manifesto dell’astensionismo elettorale dei cattolici, prima ancora della sanzione ufficiale della S. Sede.
(6) Due mesi dopo la presa di Roma, alle elezioni politiche generali si astenne la totalità dei cattolici; la percentuale dei votanti fu infatti il 45,5% degli elettori iscritti.
(7) Tra i giornali liberali più aggressivi ricordiamo: L’opinione di Firenze e La capitale di Roma.
(8) Tra gli interventi di Leone XIII ricordiamo: un discorso rivolto, il 2 febbraio 1879 ad oltre mille giornalisti cattolici di tutto il mondo radunatisi in Vaticano; e particolarmente gli arcivescovi di Milano (nella cui diocesi aveva sede L’Osservatore cattolico di Don Davide Albertario), Torino e Vercelli; una lettera indirizzata, nel luglio del 1883, al nunzio apostolico in Spagna.
(9) Sull’Opera dei Congressi cfr., G. De Rosa, Storia politica dell’azione cattolica in Italia. L’Opera dei conressi (1874-1904), Bari, Laterza, 1953; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari, Laterza, 1976; E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia (1870-1922), Firenze, casa editrice "La voce", 1923; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, editori Riuniti, 1972.
(10) Nel frattempo all’interno dell’Opera dei Congressi, che accentua il suo carattere di rigida organizzazione, una sezione è validamente funzionante, ed è quella della carità e dell’economia cattolica. Cfr., A.Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904), Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, Università Gregoriana, 1958; G. Are, I cattolici e la questione sociale in Italia (1894-1904), Milano, Feltrinelli, 1963.
(11) Sui Fasci siciliani cfr., F. Renda, I fasci siciliani 1892-94, Torino, Einaudi, 1977.
(12) Causa immediata delle agitazioni e delle sommosse che scoppiarono in tutta Italia fu il rincaro del pane, ma era la gravità della situazione economica il vero motivo dei tumulti. Cfr., N. Colajanni, L’Italia nel 1898, Milano, 1951; G. De Rosa, La crisi dello stato liberale, Roma, Studium, 1955.
(13) Toniolo, prima di essere nominato presidente della seconda sezione, aveva già dato notevole contributo alla stessa, pubblicando sul periodico dell’Opera "Movimento cattolico", saggi sull’azione sociale dei cattolici, nonché fondando a Padova, nel 1889, l’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia; organo di stampa della predetta unione doveva essere, dal 1893, la "Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie" fondata e diretta dallo stesso Toniolo e da Mons.Talamo. Per l’opera di Toniolo vedi i suoi scritti raccolti nei venti volumi dell’Opera Omnia, Roma, Tipografia poliglotta Vaticana, 1947-1953; inoltre Cfr., F. Meda, Il pensiero di Giuseppe Toniolo, Roma, Desclèe, 1919; R.Angeli, La dottrina sociale di Giuseppe Toniolo, Pinerolo, Alzoni, 1956; La figura e l’opera di Giuseppe Toniolo, in "Vita e pensiero", Milano, 1968; A. Ardigò, Giuseppe Toniolo:il primato della riforma sociale per ripartire dalla società civile, Bologna, Cappelli, 1978; E. Guccione, Cristianesimo sociale in Giuseppe Toniolo, Palermo, Ila Palma, 1972.
(14) Tra questi: "La vita del popolo" di Treviso; "Foglietto volante" di Mantova; "Voce di Novara"; "Il risveglio" di Arezzo; "Il Berico" di Vicenza; "La riscossa " di Bassano; "Il cittadino" di Cremona; "Unità cattolica" di Firenze.
(15) Il 5-6 maggio 1898 L’Osservatore cattolico aveva pubblicato un energico articolo nel quale tra l’altro si diceva: "Manca il pane, non riconoscono questa mancanza coloro che mangiano e bevono e hanno bisogno di quiete per digerire […] essi hanno possedimenti, ville, cavalli e guardano sicuri la folla dei pezzenti che domanda lavoro e pane: la guardano e l’insultano come sobillata e incontentabile […]. Queste sono le condizioni del paese: il liberalismo ha derubato la popolazione e continua col suo governo iniquo e insensato a derubarla onde le risorse sono esauste; il liberalismo ha spento e reso impossibile l’amore alla patria, poiché ogni cittadino si sacrificherebbe per la patria e sopporterebbe sacrifici ma nessun italiano è disposto ad amare e soffrire per la setta nefanda che opprime il paese".
(16) Tra questi, particolare scalpore suscitò l’arresto, il processo e la condanna a tre anni di carcere di Don Davide Albertario, accusato di farsi banditore di idee democratiche e socialistiche e di avere, attraverso il suo giornale, ispirato il giovane clero ad inoculare nel popolo il disprezzo nei confronti del re, dell’esercito, delle autorità, facendosi così alleato dei socialisti e dei repubblicani.
(17) A proposito dell’atteggiamento dei cattolici difronte ai fasci siciliani Cfr. F. Renda, I fasci siciliani 1892-1894, cit.
(18) Sul pontificato di Leone XIII Cfr. R. Aubert, Lèon XIII, in I cattolici italiani dall’800 ad oggi, Brescia, 1964; Atti del convegno tenuto a Bologna il 27- 29 dicembre 1960 su Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Roma, 1961, (con relazioni di F.Vito, H. I. Marrou, R. Aubert, E. Passerin D’Entrèves, F. Fonzi).
(19) Tra questi periodici ricordiamo il quindicinale L’Italia nuova apparso a Milano tra il 1900 e il 1903; esso trattava in particolar modo problemi relativi all’autonomia e al decentramento comunale e provinciale. Tra i suoi collaboratori furono Giuseppe Toniolo e Filippo Meda.
(20) Sull’argomento Cfr. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma, Studium, 1963; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico italiano, Bologna, Il Mulino, 1961; A. C. Jemolo, Chiesa e stato in Italia dall’unificazione ai giorni nostri, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 1977; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia,cit.; L. Ambrosoli, Il primo movimento democratico cristiano in Italia (1897-1904), Roma, Cinquelune, 1958; G. Marcucci Fanello, Romolo Murri, in Storia e politica, fasc. II, aprile-giugno 1970; L. Bedeschi, I cattolici disubbidienti, Roma, Napoli, Vito Bianco editore, 1959; G. Spadolini, Murri, in Gli uomini che fecero l’Italia. Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972.
(21) Meda avrebbe voluto che il nuovo quotidiano si chiamasse Il Centro, con chiaro riferimento all’esperienza dei cattolici tedeschi, ma dovette rinunciare a tale progetto, perché un uguale titolo era già stato pensato per un periodico cattolico siciliano.
(22) Nel 1908 il conte Grosoli diede vita ad un trust della stampa cattolica, mediante la costituzione della "Società editrice romana" a cui aderì anche L’Unione di Milano (che allora cambiò testata e si chiamò L’Italia). Ben presto i giornali aderenti a questa società suscitarono sospetti sia fra gli intransigenti sia fra la gerarchia, per il loro eccessivo avvicinamento alla mentalità nazionalistica della borghesia liberale, in particolare per aver contribuito a creare in Italia un clima di euforia nazionalistica a proposito della guerra libica. Il richiamo da parte del pontefice Pio X unito a delle difficoltà finanziarie fecero fallire l’iniziativa.
(23) Sul Patto Gentiloni Cfr. G. Dalla Torre, I cattolici e la vita pubblica italiana ,Città del Vaticano, 1944; F. Meda, Pio X e la vita politica italiana, in Vita e pensiero, giugno 1935; L. Sturzo, Il partito popolare italiano, Bologna, Zanichelli, 1956, vol. I; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla restaurazione all’età giolittiana, cit.
(24) L’atteggiamento di Meda sulla questione delle elezioni del 1913 che si sarebbero svolte col suffraggio universale, e sulla relativa partecipazione dei cattolici, fu espressa nel discorso che egli pronunciò a Ferrara in occasione del 10° anniversario della fondazione del locale circolo cattolico; il testo del discorso si trova in "Il Corriere d’Italia" del 23 settembre 1912; su tale argomento Cfr. F. Meda, I cattolici italiani e le ultime elezioni politiche, in "Nuova Antologia", 16 gennaio 1914.
(25) Contrario a questa nuova linea politica fu L’Unità cattolica, giornale che si mantenne sempre su una linea di tradizionale intransigenza. Contro questa alleanza si schierarono coloro i quali ritenevano necessario che i cattolici dessero vita ad un autonomo partito politico non confessionale ma di chiara ispirazione cristiana; a capo di questi era Luigi Sturzo.
(26) Cfr. F. Meda, La guerra europea e gli interessi italiani,in Vita e pensiero, 30 marzo 1915; F. Meda, La violata neutralità del Belgio, in Vita e pensiero, 20 aprile 1915.
(27) Cfr. A.Fappani, L’entrata dell’on. Meda nel ministero Borselli, R.P.S., 1969; G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze, Le Monnier, 1959; Il nuovo ministero,in L’Osservatore romano 20 giugno 1916.
(28) Sull’opera di Luigi Sturzo Cfr. G. De Rosa, Luigi Sturzo,Torino, Utet, 1977; G. De Rosa, L’utopia politica di Luigi Sturzo, Brescia, Morcellania, 1975; G. Campanini, Luigi Sturzo - il pensiero politico, Roma, Città Nuova, 1979; G. De Rosa, La filosofia politica di Luigi Sturzo, il pensiero sociologico di Luigi Sturzo, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1980.
(29) Per notizie su questa rivista cfr. Civitas, Antologia di scritti 1919-1925 a cura di B. Malinverni, Roma, 1963.
Introduzione
Benedetto D’Acquisto(1), monrealese illustre, manifestò, da giovanissimo, grande passione per lo studio; ancora sedicenne entrò, a Palermo, nell’Ordine dei Frati Minori riformati, dove compì, prima, gli studi superiori di Filosofia e Teologia e poi, divenne insegnante nello stesso convento.
Laureatosi in Filosofia a Palermo, insegnò, tale disciplina, al Collegio San Rocco, di questa Città.
La grande ambizione, l’amore profondo per gli studi, la voglia di farsi conoscere, di farsi apprezzare e, principalmente, di dare un contributo all’ analisi dei nuovi rapporti nella scienza, portò il monrealese D’Acquisto a cimentarsi al pubblico concorso quando si rese vacante la Cattedra di Filosofia, nel 1833, presso la Regia Università degli Studi Di Palermo.
Assieme a lui si presentarono Salvatore Mancino, che fu poi vincitore, e Vincenzo Tedeschi Paternò Castello.
In quell’occasione il D’Acquisto pubblicò la prima parte degli Elementi di filosofia fondamentale, contenente l’esposizione della psicologia come "analisi dello spirito umano"; grazie anche al giudizio che espresse la commissione esaminatrice di Napoli, ebbe modo di farsi ammirare ed apprezzare, anche se la scelta della Commissione cadde sul Mancino.
"Dall’esame maturo e coscienzioso degli scritti risulta essere il D’Acquisto il filosofo, il Mancino, invece, il professore" scriveva la Commissione.
In effetti, il D’Acquisto fornì prova, cosa che si può riscontrare in tutte le opere che ha lasciato, di ricorrere a concetti ed a svilupparli, in maniera tutta propria, senza necessariamente dovere ricorrere a perfezionismi stilistici, spesso formali e assai poco sostanziali(2).
Seguì, come appare evidente da una lettura delle opere pervenute, l’indirizzo eclettico, sviluppando i princìpi della Scuola di Monreale cui si riallaccia idealmente, con frequenti risonanze cartesiane e della scuola francescana.
La carica umana e filosofica del D’Acquisto ritornò con più forza in occasione del concorso, poi da lui vinto, nel 1836, per la Cattedra d’Etica e di Diritto Naturale della Regia Università degli Studi di Palermo.
Mantenne la cattedra fino al 1858, anno in cui venne eletto arcivescovo; ad essa dedicò tutto se stesso, le sue migliori energie intellettuali che gli valsero anche di essere chiamato alla vice presidenza dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo dal 1850 al 1858.
Anche in quell’occasione, ci riferiamo al superamento del Concorso a Cattedra, la memoria estemporanea presentata, Diritto e Dovere del nostro perfezionamento, mostrò alla Commissione ed al mondo scientifico, la profondità filosofica del D’Acquisto, e gli apprezzamenti furono unanimi.
Docente, Arcivescovo della diocesi di Monreale dal 1859 (primo monrealese nella storia della Città), erudito contemplativo, riuscì a dare apporti notevoli alla speculazione filosofica, risultando, peraltro, originale, innovativo e pieno d’attenzione per il concetto di "Uomo"; concetto che ebbe la cura di analizzare, non solo sotto l’aspetto filosofico – speculativo, ma anche sotto quello psicologico, tanto da fargli meritare la fama di "antesignano" di quella psicologia moderna che fu, poi, elaborata nel corso del diciannovesimo secolo.
Egli fu un ontologista ed ebbe posizioni che richiamarono molto Miceli e Gioberti.
La filosofia del D’Acquisto, procede per tappe, e queste sono riscontrabili valutando in profondità le parti in cui egli compie gli "Elementi di Filosofia fondamentale", composti dai due volumi di "Psicologia o Analisi delle Facoltà dello Spirito Umano", editi nel 1835, dal volume della "ideologia o Trattato delle Idee", pubblicato nel 1837 e dal quarto volume "Organo dello scibile umano o Logica", lasciato inedito dall’autore, poi messo alla luce nel 1871 (stampa presso la Tipografia e Ligatoria di Francesco Roberti) per cura dei nipoti, i fratelli Filippo e Matteo Lorico(3).
Il punto di partenza speculativo, da cui prese le mosse il filosofo, è di carattere psicologico, anche se l’obiettivo cui mirava era l’identificazione del problema psicologico col problema ontologico.
Egli è l’autore di una concezione che si caratterizza, filosoficamente, in una posizione a carattere prettamente ontologistico.
Egli pone, nella conoscenza, il fondamento teorico della conoscenza scientifica e per quanto riguarda l’origine delle idee esse sono divise in sensibili, concernenti il mondo materiale, intellettuali, relative al proprio essere, e in necessarie, che riguardano Dio, pur essendo però, sempre, coesistenti simultaneamente nello spirito umano.
A queste, D’Acquisto aggiunge le idee di rapporto, che analizzeremo oltre, le quali forniscono la possibilità di formulare giudizi e ragionamenti.
Egli considera, dunque, il processo conoscitivo, in cui la coscienza riconosce la propria esistenza, nella sua concretezza dell’atto unitario della percezione sensibile e nell’universalità dell’unità consapevole dell’atto cosciente, approdando, in ultima analisi, ad una concezione speculativa qualificabile come "onnicentrismo", in base alla quale tutta la nostra conoscenza vive nella coscienza per la circolarità dell’intelligenza, che comprende tutta l’esperienza sensibile nell’atto cosciente, in equilibrio tra i due poli dell’individualità e dell’universalità.
Il percorso speculativo del filosofo si completa nella "Logica", che rappresenta l’opera principale attraverso la quale il D’Acquisto porta a fondamento il principio cardine su cui costruirà tutto il "Sistema della scienza universale".
Ci riferiamo al principio ontologico dello "Assoluto Creante" che è ragione del conoscere; cosicché, per esso, l’atto logico "ha una capacità universale, ed una forza comprensiva che si estende ed abbraccia tutto che è"(4); e di più perché, in ogni percezione, raziocinio, giudizio, si trova la "è" potenziale, la "è" attraverso la quale il D’Acquisto porta a cognizione i tre elementi, cioè: "l’elemento psicologico della potenza intelligente; l’elemento ontologico dell’obbietto inteso e l’elemento logico nella forza che li connette e nella sua unità li riassume e li rappresenta"(5).
Quest’atto logico che riesce a tenere stretti assieme, nella sua unità, il soggetto e l’oggetto, è da individuarsi come fondamento reale della cognizione, riuscendo, così, a schivare l’idealismo ed il vuoto nominalismo di certi sistemi filosofici.
A rendere importante questo quarto volome degli "Elementi di filosofia Fondamentale", dedicato alla logica, basterebbe sola la teoria della genesi e della natura della ragione umana trattata nel Capitolo uno, che è, pur sempre, una conferma del principio ontologico, la vera ragione dell’induzione non volgare, ma scientifica, quale pare essere stata nell’intendimento d’Aristotele e poi di Galilei.
Nella teoria ipotizzata dal D’Acquisto, "i fatti, le leggi, ossia i principi e l’assoluto formano i tre elementi dell’umano pensiero, ed insieme i tre gradi successivi della sua empirica manifestazione; ed ogni idea, ogni concetto umano, come del pari ogni oggetto, li contiene tutti, e li rappresenta.
La legge è la ragione del fatto, e l’assoluto è la ragione della legge, né il fatto, né la legge sono i termini del pensiero, ma è l’assoluto per via del fatto e della legge"(6).
Questa è la filosofia della logica di D’Acquisto, sulla quale vanno ordinate le altre verità logiche che fanno la così detta Arte Logica, o, meglio dialettica.
Al fine di agevolare l’intelligibilità e la fruibilità della ricerca abbiamo diviso il lavoro in cinque parti coincidenti con la struttura data dal Nostro Filosofo alla sua speculazione.
Nella prima parte, "I Principi preliminari alla logica", abbiamo analizzato le quattordici nozioni che il D’Acquisto ha ritenuto fondamentali e predittivi al lavoro stesso.
Nella seconda parte, "Della induzione", abbiamo esaminato i concetti di induzione, di giudizio, di legge e l’idea di genere e di specie.
Nel terzo capitolo, "Della deduzione", abbiamo posto l’accento sul principio di raziocinio, della sua materia, della sua forma, dell’identità materiale e formale.
Nel quarto capitolo, "Della Argomentazione e delle diverse sui generi", abbiamo esaminato lo studio del raziocinio orale e scritto: ossia l’argomentazione ed i suoi diversi modi e forme (sillogismo, entimema, epicherema, sorite, dilemma, esempio, analogia).
Nell’ultima parte del presente lavoro, il quinto capitolo, "Del metodo", abbiamo trattato i diversi tipi di metodo analizzati dal D’Acquisto: analitico, sintetico, scolastico.
In conclusione abbiamo voluto inserire un piccolo excursus sulla storiografia contemporanea che si è occupata del nostro filosofo.
Cercheremo di dimostrare la grandezza dell’opera di D’Acquisto, che oggi, a buon ragione, è considerato uno dei più grandi e benemeriti studiosi siciliani del Risorgimento che, prendendo le mosse dalla metafisica del suo Maestro Miceli, la supera ingrandendola e raggiungendo uno sviluppo del tutto personale, accostandosi con forme proprie all’ontologismo, molto in voga ai suoi tempi.
Infatti, il D’Acquisto tende a dare importanza determinante all’ontologismo, che è la più famosa delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio.
1. La logica e i principi preliminari
L’Introduzione della Logica del D’Acquisto, benché sembri non uscire dalle vie segnate alla logica di Aristotele e degli Scolastici, trova quanto, oggi, si richiede ad un Trattato che voglia rispettarsi, quando si dice "La logica vi è scritto, ha la sua derivazione dal greco logoV che in latino si traduce in "verbum", cioè parola, discorso, perché essa nella sua essenza non è che l’atto vivo che prorompe dalla virtù ragionevole dello spirito umano, che con la sua unità abbraccia e trascorre dalla quale emana all’obietto che lo fa nascere; essa primamente distingue ed unisce questi due termini, i quali possono considerarsi come due sillabe fondamentali che connette l’atto logico"(7).
Il primo Capitolo dell’opera, "Nozioni preliminari attinenti alla logica", è composto da 14 capoversi contenenti i principi fondamentali che sottostanno alla logica e che permettono una migliore comprensione dell’opera del D’Acquisto.
Il Filosofo, partendo da un’elencazione numerica, che ora riporteremo fedelmente, delle nozioni preliminari alla logica, tratta poi, analiticamente ed in maniera sintetica, le stesse, indicando, di volta in volta, le eventuali perplessità o le analogie con le teorie elaborate dai suoi predecessori.
In queste nozioni preliminari, come in tutta l’opera, il D’Acquisto dà un’impostazione onnicentrica del problema gnoseologico, attribuendo un significato legittimo e, in altre parole ontologico, all’identità dell’io individuale con l’io trascendentale, con la conseguente unità reale d’intuizione sensibile e d’intelletto.
Quest’intuito intelligente contempla per il D’Acquisto la creazione divina, presente in atto nella sensazione, anche la più elementare, che contiene in un nesso ontologico indissolubile "tutta l’umana vitalità e tutte le verità i germe", unite nell’individuo senziente coll’intuito dell’azione creatrice dell’Essere assoluto.
In ciò il D’Acquisto accoglie in buona sostanza i principi ispiratori delle filosofie spiritualistiche di Antonio Rosmini e di Vincenzo Gioberti(8).
E’ evidente l’influenza dell’insegnamento del Rosmini per quanto riguarda, anche, la teoria del "Sentimento Fondamentale", elemento essenziale della personalità umana capace di consentirle di trascendere la sensibilità per le modificazioni apportate dai sentimenti particolari(9).
In tutta la sua opera il D’Acquisto pone nella coscienza le ragioni della certezza della conoscenza; per lui, la coscienza, a differenza dei sensisti e dei psicologisti, è il sapere ed "essenza del sapere, considerato nel suo profondo e vero concetto, è il raddoppiare se è tutto ciò che sa raddoppiando se stesso; perciò la coscienza non crea ma vede ciò che riflette, sa ciò che raddoppia sapendo se stessa"(10).
In tutta la sua opera il D’Acquisto ricerca il soggetto e le ragioni della certezza della conoscenza umana, la natura, l’origine e la distinzione dei sentimenti e delle Idee, lo strumento di queste, in altre parole il linguaggio, ed infine, la causa degli errori.
Nel classificare le nozioni preliminari alla logica pone come prima la seguente: "L’è necessario e primitivo, che si manifesta nel sentimento fondamentale dell’esistenza dell’uomo, contiene implicitamente in se i germi delle prime verità universali"(11).
La forza logica manifesta la sua operosità nell’atto radicale e vivo "è", "in cui si trovano complicati la potenza, l’obietto ed il nesso, che unisce la potenza all’obietto"(12). Infatti, la potenza non può dire "è" senza intuire l’obiettivo e l’obiettivo, per suo canto, non può essere intuito se esso non è.
Questa è, per Benedetto D’Acquisto, la base della logica, che rappresenta, com’egli stesso la definisce, un principio supremo ed evidente nella sua universalità.
E’ "subiettivo" in quanto viene ad esprimere "la infallibile veduta della potenza intelligente; ma esso non potrebbe avere esistenza nella stessa potenza senza l’obietto"(13) sia esso reale che supposto.
La seconda nozione recita così: "L’affermazione "è" contiene in sé tre identità ed essa è la suprema astrazione di tutto ciò che è".
Questo principio è l’espressione naturale e genuina della verità e perciò infallibile. Per il D’Acquisto questo principio ha la sua prima radice nell’è trascendente, contenuto nel sentimento fondamentale, che è comprensivo delle due identità, quell’assoluta e quella condizionale, di cui la prima è semplice ed identica "perché risulta da due estremi semplicissimi ed identici riuniti in un sol atto logico qual è quello della potenza che nella sua veggente identità contiene forse le sue identità dalle quali risulta"(14).
Quest’atto universale afferma nella sua forza l’obiettivo è, la potenza è, l’atto è; e nell’obiettivo forma tutti gli obiettivi possibili, in modo che nulla può stare fuori di questo principio.
Non meno importante appare la cementazione del filosofo monrealese sul terzo principio, ossia sul "Primitivo esercizio della forza logica e sua vera origine".
La logica divina può considerarsi, secondo il D’Acquisto, come atto creativo di tutto l’universo, che si bipartisce, dando origine a due prodotti "la potenza intelligente, ed il mondo con cui la potenza ha un nesso reale e contingente. Or l’Io che riunisce in unità di sintesi reale tutti questi elementi ed i loro nessi e ne forma una sintesi riflessa ed umana; in questo atto … consiste la logica e la sua vitale funzione"(15).
L’atto di cui parla il filosofo che è l’operatore logico identico e comprensivo si comprende il principio ed il germe di tutta la astrazione della funzione della logica riflessa, naturale e scientifica, ed in esso si contengono le cagioni di tutte le distinzioni reali e logiche.
"Come lo spirito viene in conoscenza dell’essere in genere cioè della verità" è il quarto principio analizzato, al Capo uno.
Per il D’Acquisto la suprema azione nello stato umano è il riflesso della massima e suprema realtà "della quale è astrazione intuitiva dalla intelligenza umana nel fondo del suo essere"(16).
Questa suprema astrazione, rispondente all’intuizione della suprema realtà, è il piano universale dove la forza logica con la sua vitale funzione disegna l’albero enciclopedico che dalla terra s’innalza sino al cielo "donde esso ha la radice reale e concreta"(17).
Da questa realtà comincia l’immensa verità degli esseri umani nell’universo, ed in ogni essere si trova la stessa identica azione producente.
Si ha, per il filosofo, una sintesi tra i due atti, quello del creatore e quello, identico, dello spirito umano che riflette tutti gli esseri dello stesso universo. Quest’atto trova in se stesso tutti i germi dello scibile umano.
"Non si dà sviluppo senza disposizione" è la quinta nozione preliminare attenente alla logica. Per il D’Acquisto la funzione della logica permette di passare da una verità nota ad un’altra ignota perché "la è connessa, a formare idee generali che divengono tipi di altre verità, e da queste dedurre altre verità particolari"(18).
La logica è un mediatore che ci permette di sviluppare, estendere ed applicare la verità per la conoscenza di altre verità.
L’identità è lo strumento, di cui si serve la logica in tutte le operazioni, tanto nella formazione dei princìpi, quanto nel dedurre, dagli stessi, principii; è il criterio e la norma assoluta di qualunque operazione logica.
Questo è quanto sinteticamente asserisce il Nostro in "Si dà un principio supremo cioè dell’identità,(…), sotto questo criterio la forza logica si separa in tre modi inventando, inducendo, deducendo"(19).
Per il D’Acquisto la forza logica sviluppa tre operazioni: "la prima si dà quando da un attributo conosciuto passa ad un incognito; la seconda quando da un individuo a più individui passa ad un concetto grande; la terza quando dal genere passa al particolare" (20).
Da quanto detto appare chiaro come il raziocinio, ossia il ragionare, debba risultare, inventivo, induttivo, deduttivo.
"Generazione dei primi principi" è la settima nozione sulla quale si sofferma in fase preliminare il D’Acquisto nel suo Quarto Libro.
"Quando lo spirito umano dice è in esso si trovano virtualmente compresi il principio d’identità come espressione di verità, il principio di contraddizione come eliminazione dell’errore, il principio di sostanza come sostegno di consolidità come produttivo dei suoi effetti, talchè l’è esprime l’atto che intuisce e contiene in se questi principi fusi ed uniti dalla sua esistenza"(21).
La logica, quindi, non produce questi principi, perché non ha la forza di creare, ma li intuisce nella profondità dell’essere e li sviluppa.
La radice prima e suprema di questi principi la vede, con l’intensità del suo sguardo, nell’azione assoluta per la quale essa, intelligenza, esiste, ad intuendola, la intuisce essere assoluto ed immenso, verità assoluta che ripugna l’errore, assoluta causalità di tutti gli esseri e di tutti i loro modi possibili.
In definitiva, per il filosofo, la prima radice di questi principi razionali è la risposta nell’azione assoluta producente.
"I primi principi sono necessari ed assoluti come il principio d’identità dal quale sono generati" afferma D’Acquisto, perché sussistono ed emanano dall’essere assoluto e necessario. Essi sono coordinati e dipendenti l’uno dall’altro, giacché, come afferma il filosofo, "l’essere è ciò che è"(22), l’essere sostiene i modi con i quali è legato; l’essere col suo modo è principio produttivo dei suoi effetti con i quali è connesso.
"Or questi principi sono le basi su cui poggiano tutti i ritrovati, le induzioni e tutte le deduzioni possibili; sono gli strumenti necessari per i quali la logica esegue indi tutte le sue svariatissime operazioni al trovamento della verità in tutte le sue diverse trasformazioni ed apparizioni"(23).
"I Primi principi risultano da una doppia identità" una soggettiva, l’altra oggettiva: la prima è intuente, la seconda intuita.
Queste due identità, secondo il D’Acquisto, divengono una sola identità nell’atto vivo dell’identità intuente, la quale forma con la sua forza il principio universale "è", il quale nella sua estensione ha il supremo grado di evidenza e di generalità, perché è espressione diretta della verità.
Il filosofo si chiede, però, "in virtù di Che?"
In virtù della stessa identità; "né può essere altro il mezzo di passaggio a conoscere e trovare la verità; poiché l’identico non può agire, né può ordinamento passare che mediante l’identità, cioè in conformità alla identità concreta ed assoluta causa identica di tutte le identità moltiplici in fondo delle quali trovasi lo stesso identico che a tutte partecipa senza dividersi"(24).
Dalla identità concreta ed assoluta si originano tutte quelle che il filosofo chiama identità condizionali, cioè gli esseri ed i fatti reali, e dalla identità intuente si riassumono tutti i fatti e si riducono alla identità astratta, cioè alla cognizione astratta della identità intuita.
"D’onde viene alla forza logica la virtù di generalizzare" è il decimo principio analizzato, in premessa a tutta la sua opera sulla Logica, dal filosofo di Monreale.
Singolare appare la definizione che Egli dà di infinito. Lo definisce, infatti, come l’obiettivo concreto e presente della essenza della potenza, anteponendolo al finito, che è la potenza che fa l’astrazione.
Ma, affinché la potenza possa fare l’astrazione, bisogna che ci sia l’intuizione attuale dell’obiettivo; intuizione che rende lo sviluppo della potenza indefinito.
"Ma la potenza non può produrre quest’atto che in presenza di una realtà qualunque, dalla quale levando la individualità aggiunge alla idea astratta della realità l’intenzione della generalità e la rende universale"(25).
"Come la logica in fatto generalizza" è l’undicesimo caposaldo della logica di Benedetto D’Acquisto.
Egli stavolta prende il via dal concetto di individuazione che, nella potenza intelligente dello spirito umano, è tolta dall’oggetto infinito che intuisce. Questo, appagando tutta la capacità, la rende indefinita in atto.
D’Acquisto parla di atto, in quanto la pura intelligenza, ovvero, in seconda battuta, la ragione umana, essendo un concetto della infinita sapienza, come in una sorta di riflessione, è indefinito in se stesso, e perciò la capacità è indefinita.
Questo riflesso forma la massima e suprema astrazione che costituisce l’idea dell’essere puro; essere puro che è necessario, assoluto ed universale, che comprende ed è, il fondamento di tutte le idee generali, specifiche ed individuali.
"I Principi generali sono astratti ed universali, e su di essi convengono tutti gli uomini"; questi principi, assoluti, necessari, immutabili, prendono la loro intrinseca forza e radice dal principio supremo, massima astrazione dello stesso essere, della identità; spetta all’uomo applicarli nella vita, anche se di essi non ha una conoscenza chiara.
"Cagione ultima per cui esiste nello spirito umano la disposizione a generalizzare" i fatti individuali e particolari, afferma il filosofo, sono i fatti stessi, poiché essi non sono perfettamente e totalmente staccati da una causa unica e universale, ma sono ad essa legati e da essa essenzialmente dipendenti.
I fatti, sostiene il D’Acquisto, contengono la causa unica ed universale nella profondità della loro essenza, "la quale è il mezzo empirico per cui essa apparisce e si rende manifesta, e per ciò stesso la ragione umana conoscendo i fatti, in essi e per essi apparisce la cagione, l’essere, il vero universale, quindi nell’umana ragione convergono e si accentrano due induzioni una soggettiva, l’altra oggettiva della stessa e medisima verità"(26).
"I principi sono razionali e sperimentali". Essi possono distinguersi, secondo il filosofo D’Acquisto in necessari , assoluti, razionali ed incondizionati, relativi ed empirici.
I primi prescindono dalla condizione che fa apparire esplicitamente il principio supremo; nei secondi, il principio supremo si considera connesso alla identità condizionale.
Alla prima classe appartengono tutti gli assiomi, alla seconda le idee di genere, di specie e delle legge generali.
2. "Della Induzione"
L’uomo, essere vivente formato di anima e corpo, dal momento stesso in cui comincia a vivere incomincia ad avvertire la vita sensitiva; sentimento, questo, irriflesso, del quale l’uomo non ha coscienza .
Per D’Acquisto, questo sentimento, è il sentimento fondamentale, determinato nella sua essenza, indeterminato nel suo sviluppo.
Lo sviluppo, afferma il filosofo, ha inizio quando la natura esteriore comincia con le sue impressioni a dargli istruzioni.
In quel momento, il sentimento assume tante forme particolari e speciali, quanti e quali sono gli oggetti che lo modificano e lo informano; ognuna di esse è una idea particolare che risponde all’oggetto modificante.
"Come si moltiplicano le idee, afferma il filosofo, si sviluppa il sentimento fondamentale, e lo spirito comincia a mettere in esercizio le sue facoltà, ed avere consapevolezza delle sue operazioni"(27).
Le facoltà che si sviluppano nell’uomo, per il rapporto dello spirito col corpo e per questo col mondo, non sono che individuali e personali; l’atto sostanziale e vitale dello spirito che si interpone tra lo spirito ed il mondo, è circoscritto perché limitati sono gli estremi fra i quali si tramezza, cioè lo spirito ed il mondo.
Queste facoltà, per il monrealese, sono vivificate ed informate dall’atto trascendente che, nella sostanza, è lo stesso, cioè l’atto intelligente dello spirito cosciente del rapporto che esiste tra sé e la sua causa e che sviluppa una facoltà ed un atto perenne senza limiti marcabili; una capacità di appagamento indefinita.
Questa capacità è per il filosofo la ragione umana che, di volta in volta, informa e somministra all’atto sensibile e alla facoltà, un lume che è il primo germe della generalità e della universalità.
Attraverso questo lume, lo spirito vede, nella sua sostanza individuale ed in quella del mondo esterno, la ragione di essere e di esistere; ragione che non ha limiti.
Gli atti dell’umana facoltà ed ogni azione del mondo esterno costituiscono tante idee per lo spirito, ed ogni idea contiene un elemento individuale finito (base e ragione di diversità), ed un elemento universale (generale, senza limiti, principio e fondamento di unità ed identità assoluta e di assoluta universalità).
Per D’Acquisto, seguendo Platone e Sant’Agostino, e i due lumi della scolastica italiana San Tommaso e San Bonaventura, le idee sono immutabili ed eterne; e spiega che esse sono "nel senso che l’idea è l’espressione e l’immagine di un concetto, che comprende una determinata combinazione dè principi: questo concetto è contenuto nella intelligenza infinita che lo concepisce; e siccome eterna è l’intelligenza ed immutabile nel suo concepimento, così lo sono i concetti, di cui le idee sono l’espressione" (§ 450).
Per quanto detto appare evidente che ciascun oggetto, ogni idea, ogni elemento, contengono sia la sostanza, sia il carattere della individualità, che è poi il limite che lo circoscrive, sia il germe della universalità che è assoluto.
Per questo germe, quello della universalità, sostiene il D’Acquisto, esiste "la possibilità della riunione, e per il limite la possibilità della separazione; o in altri termini la possibilità della induzione e della deduzione"(28).
Se si prende in considerazione lo stato riflesso dell’uomo, personale, si possono riscontrare una moltitudine indefinita di idee che passano attraverso il nostro spirito.
Ognuna di queste idee, attestate in maniera incontrastabile dalla coscienza, è singolare ed individuale.
Ma se queste idee sono singolari ed individuali, come possono divenire generali? Come e su quali basi lo spirito generalizza? Per quale motivo?
A queste domande il Nostro risponde affermando che questo è "ciò di che devesi occupare ragionevolmente la logica"(29).
L’idea generale, per il D’Acquisto, si ottiene per mezzo della induzione, quella induzione (epagwmh) che per Aristotele è il procedimento in virtù del quale si attribuisce un estremo al medio, mediante (dia) l’altro estremo; è l’ascesa dal particolare all’universale(30).
Essa risulta da due elementi che prescindono all’azione dello spirito per la quale è eseguita l’induzione stessa: un elemento senza limiti ed un elemento limitato.
Per il filosofo, queste idee non si ricevono per comunicazione fatta alla nostra mente, ma sono formate dal nostro spirito, il quale lavora sopra i sentimenti; e siccome è la materia di questi sentimenti a dare le combinazioni di cui sono capaci i principi metafisici, già compresi dalla sapienza infinita, i tipi sono gli stessi e la potenza che li conosce è diversa, e secondo la diversità della potenza, differisce la natura delle idee.
In questa maniera, il D’Acquisto intende conciliare le opposte scuole, rispondendo la psicologia alla ontologia, non negando l’universale ante rem come i nominalisti, né facendo dell’universale in re l’essenza del particolare a modo dei realisti, bensì tenendo ferma, da un lato, l’opera della nostra mente, dall’altro la ragione obiettiva di queste idee; "concetti umani subbiettivi, rispondenze ontologiche, e modelli eterni della intelligenza divina nello stesso tempo"(31).
Per il D’Acquisto, lo spirito umano, anche se finito nella sua capacità di agire, non trova limiti, perché può, sempre replicare la stessa azione, senza nulla togliere al suo essere.
Ciò è vero, solo se esiste una condizione che lo determini, un oggetto limitato di cui possa dire è e sopra cui possa agire.
Un elemento, dunque, afferma il filosofo, senza limite ed un elemento limitato danno per risultato l’è in fatto, in altre parole l’atto dello spirito.
L’oggetto che lo determina può essere intrinseco ed estrinseco, cioè può essere lo spirito e se stesso, oppure un oggetto esterno.
Nel momento in cui l’oggetto determina l’atto dello spirito, l’idea forma il principio della identità, in altre parole l’è dell’è, cioè l’affermazione riflessa della affermazione spontanea; e come nell’è spontaneo si contiene l’assoluto, nell’è riflesso si conosce in maniera riflessa lo stesso assoluto.
Noi, dunque, possiamo applicare il principio d’identità sopra qualunque oggetto.
In ogni idea, dunque, in ogni atto dello spirito, in ogni è, coesistono necessariamente tre elementi: il soggetto, l’oggetto e l’assoluto intimo; e tutti e tre formano la integrità e la certezza dell’è.
L’idea si rende, quindi, generale, astratta, non per il limite che rende possibili le repliche, ma perché la sostanza dell’oggetto si identifica con l’elemento che le sta sotto, cioè con l’elemento illimitato.
Ma allo spirito per formare l’idea generale, non bastano "le concezioni delle repliche e le loro sole possibilità, bisognano le repliche delle idee già formate rispondenti ai fatti reali, o dei rapporti reali"(32), serve conoscere l’atto dello spirito che si chiama giudizio.
Il giudizio non esprime altro, per il filosofo, che l’atto vivente, identico e comprensivo, dello spirito, l’atto per il quale è possibile "che l’uno si proporzioni all’altro"(33) , cioè alla copula.
Anche per il giudizio Benedetto D’Acquisto fa una bipartizione, dividendolo in affermativo, rapporto d’identità fra due oggetti identici, e negativo, rapporto di diversità e prevedendo per esso una accurata distinzione della materia (idee), della forma (affermazione o negazione), del motivo (convenienza e disconvenienza delle idee o degli oggetti) e della ragione, in altre parole della possibilità del motivo (visione diretta ed immediata delle idee).
Il giudizio è, in definitiva, un atto morale, costituito unicamente dalla intelligenza e dalla volontà, senza l’elemento sensibile che da morale lo rende giuridico.
In altri termini l’azione determinata dall’attività intelligente dello spirito, può restare dentro di essa senza una esterna manifestazione e diventare con ciò atto imperato e giuridico.
Le relazioni tra il pensiero e la volontà sono reciproche e continue e si risolvono in ultima analisi in una sola attività libera.
Nell’autocoscienza della ragione, la legge morale, per il D’Acquisto, assume la forma di "comando supremo", assoluto, che impone alla libertà umana di conformarsi alla natura, alla ragione e alla azione divina, in cui si ha la sintesi del dover essere naturale o "imperativo producente" con il dover essere spirituale o "imperativo dirigente".
La condizione per conoscere la legge è però il fatto, afferma il monrealese D’Acquisto, come la condizione per conoscere l’assoluto è la legge; quindi sebbene "l’assoluto preesista e sia la possibilità della legge, come la legge la possibilità del fatto, pure per conoscere empiricamente e la legge e l’assoluto, bisogna la osservazione del fatto"(34) ; bisogna l’osservazione, per la formazione delle leggi e dei principi nella conoscenza dell’uomo.
Il particolare il D’Acquisto sostiene: "L’osservazione metodica dei fatti conduce alla esistenza delle leggi, e la conoscenza delle leggi ci mena all’assoluto"(35).
Ma sopra tutto, egli osserva ancora, leggi comprese, stanno gli assiomi, che danno "lume e forza a tutti gli altri princìpi, ed essi si risolvono in ultimo nell’assoluto principio e leggi del tutto… Tutti gli assiomi non sono che l’espressione della verità concreta, questa è l’apparizione dell’assoluto alla umana intelligenza, tanto in se stessa, quanto in tutti gli altri oggetti dell’universo"(36).
Tra l’altro per la conoscenza di questi assiomi, di queste leggi necessarie, c’è bisogno della esperienza e della osservazione.
Infatti quando noi paragoniamo due idee, due oggetti, siamo indotti a dedurre; per il D’Acquisto la prima deduzione è la verità.
La verità, astratta e speculativa, non è generale in se stessa, ma è generale in quanto lo spirito risolve queste conoscenze particolari, queste vedute di identità, queste apparizioni di verità; infatti, lo spirito, non vedendo limiti o confini alla sua conoscenza, per questa veduta ampia, eleva limiti e confini alla sua conoscenza, e la verità diviene oggettivamente e soggettivamente generale.
Questa verità è dunque a priori; diventerà a posteriori ed empirica "per riguardo ai confronti da cui risulta"(37), poiché devono prima esistere gli elementi individuali del confronto, quindi il confronto, ed, infine, la conoscenza sperimentale e l’identità empirica.
Tornerà ad essere a priori, dice il D’Acquisto, dopo che, replicati i fatti e moltiplicate le relazioni di identità, la verità acquista il carattere di generalità empirica e riflessa.
Questa sarà una verità a priori relativamente alla sua applicazione e al suo uso.
Le prime verità, i primi principi, sono, quindi, gli assiomi, per la forza di questi si formano tutte le altre idee generali, di legge, di genere (anteriore al particolare perché prima dell’esperienza), di specie.
Tutte queste verità non appaiono all’uomo senza la ragione, né la ragione dell’uomo potrebbe concepire senza i sensi, come i sensi non potrebbero percepire umanamente, poiché nell’uomo non è scomparsa la sensibilità della ragione, che è l’occhio penetrante della ragione stessa.
Nel generale, predomina, quindi, la verità; è la ragione, sostiene il D’Acquisto, che inviluppa l’elemento sensibile.
"Il mio essere ha la sua causa, questa verità è particolare; ogni essere ha la sua causa, questa è generale, di queste due verità una dipende dall’altra perché una implica l’altra"(38).
La generalità delle idee è da considerarsi relativamente al soggetto, non è assoluta ed ammette gradi di generalità secondo la natura degli estremi che determinano il rapporto.
L’idea di esistenza, per esempio, per il filosofo, è generalissima, se a questa si unisce l’idea di sostanza, l’idea di esistenza sussistente diviene meno generale, perché viene a comporsi anche dall’idea di modo.
Altro aspetto analizzato dal D’Acquisto, riguarda le leggi.
Queste esistono a priori, cioè prima dei fatti: i fatti non sono possibili che per le leggi, di cui essi sono la manifestazione empirica.
Di conseguenza se è vero che i fatti sono la manifestazione della legge, questa non può conoscersi senza la conoscenza dei fatti.
La legge è lo spirito, è la risposta della realtà dello stesso fatto; di una realtà alla quale non si da né spazio, né tempo (estrinseche relazioni).
E’ vero che le leggi esistono a priori, noi non le conosciamo se non dopo l’esperienza; è dunque l’esperienza che le rende empiriche.
Si conosce, dunque, una legge, se ci riferiamo al già analizzato concetto di fatto; quando si scopre la connessione reale tra il secondo col primo fatto presi in esame, e si scopre questa connessione; quando, per mezzo dei giudizi identici, si conosce l’identità tra l’uno e l’altro fatto.
Da quanto detto, si potrà concludere che, essendo il fenomeno identico alla legge e la legge identica all’essere, la legge durerà tanto quanto l’essere, considerato come tale.
La generalità di questa legge starà nella estensione che sarà in grado di avere, ossia nel numero di esseri costituiti dalla stessa natura.
A questo punto, il filosofo, elenca una procedura necessaria per conoscere una legge:
1. Esperienza costante e successione di molti fenomeni identici;
2. Successione non interrotta da interposizione di altri fenomeni;
3. Una serie di giudizi identici, l’ultimo dei quali porti il carattere del principio di Identità.
Da quanto asserito dal D’Acquisto, non sembra difficile potere conoscere le leggi che governano i fatti e stabilire altrettanti principi di previdenza e di ragionamento.
Si potranno conoscere tante leggi e si potranno formare tanti rami di scienza, quanti saranno le esperienze identiche sopra i fenomeni e i fatti identici legati da giudizi identici.
Questi principi si estendono, secondo il monrealese, a tutti gli oggetti ed a tutti i fenomeni della natura, di qualunque genere essi siano, ed a qualunque classe possano appartenere.
Ogni genere ed ogni specie ha la sua legge, generica e specifica, la quale risponde perfettamente alla comprensione del genere e della specie.
Sebbene le leggi naturali siano di tutti i tempi e di tutti i luoghi, pur tuttavia esse possono avere maggiore o minore universalità, secondo la maggiore o minore "massa di proprietà di cui si oppongono i fatti identici che costituiscono il genere, la specie o la classe"(39).
Da quanto analizzato, possiamo affermare che le idee generali sono di due ordini: alcune sono necessarie (prodotto immediato della ragione), altre sono contingenti (vengono dall’esercizio delle facoltà); le prime sono tutti gli assiomi, le altre le idee di genere e di specie, e delle leggi naturali.
L’oggetto delle prime è l’assoluto, di cui sono la manifestazione, delle seconde è l’essere contingente e le sue proprietà essenziali.
Di questi oggetti si hanno idee; quando essi si mettono in rapporto con la nostra intelligenza si formano le idee corrispondenti.
Gli oggetti non sono né generali né universali, tranne l’assoluto, essi sono individuali e singolari, la loro azione arriva allo spirito senza metodo; è lo spirito che, in forza della induzione, eleva queste idee individuali ai concetti generali e le rapporta ai loro tipi originali, e lo strumento di tale induzione è il principio della identità.
Formate le idee generali, per mezzo della induzione, lo spirito possiede, afferma il D’Acquisto, le basi e i principi del sapere e della deduzione.
3. Della deduzione
Nei primi due Capi del suo Organo dello scibile umano o Logica, il D’Acquisto fa il punto, non solo del perché della logica, ma anche e principalmente del concetto di idee.
Abbiamo visto che esse, quando sono generali, sono o verità necessarie, quali ad esempio gli assiomi, che risolvono tutto al principio di identità, o verità contingenti, quali sono le idee di genere, di specie, di classe e le idee generali delle leggi naturali.
Ogni genere, ogni specie ha la sua legge a cui sono subordinati; il genere, però, non esprime che l’identico delle specie e la specie ciò che di identico hanno gli individui.
Per quanto detto, l’identità delle proprietà riunisce gli individui nella specie, e la specie nel genere:
Da ciò le leggi naturali che governano i generi e le specie, che si concretano e realizzano, in ultimo, negli individui.
Intanto necessita che ciò si elevi al carattere scientifico. Perché ciò avvenga, bisogna che si combini l’idea contingente con quella necessaria, in un processo, che vede la necessaria, comunicare alla contingente la sua necessità, e la contingente, comunicare alla necessaria la sua empiricità e la sua concretezza.
Solo in questa maniera le conoscenze acquistano il carattere della verità e della evidenza. Le verità necessarie non sono altro, dunque, che i mezzi di trasformazione.
Fatto presente ciò, e riferendoci al caso particolare delle idee, essendo tutte le proposizioni di una scienza altrettante facce dell’idea fondamentale, in ogni proposizione giace la stessa idea con un peculiare rapporto.
Questo rapporto induce una trasformazione nella idea fondamentale, e come questa idea ha la sua legge, la trasfusione di questa legge evidente, costituisce la certezza di tutte le forme dell’idea principale e, per conseguenza, di tutta la scienza.
Il passaggio da una idea all’altra, con l’ausilio del rapporto di identità, costituisce quella operazione che il D’Acquisto chiama raziocinio modo di dedurre.
La forza che il rapporto d’identità comunica al raziocinio non ha limiti, la sua efficacia non è circoscritta, non è, cioè, limitata nello spazio e nel tempo; la sua generalità non ha confini.
Quando questo principio feconda un fatto individuale, lo eleva, gli dà una estensione che prima non aveva, e lo spirito acquista una conoscenza senza limiti.
Ragionare, per quanto detto, significa passare da un giudizio noto ad un altro identico, ignoto; significa vedere in una idea una circostanza di spazio e di forma, nella idea di genere e di specie; significa vedere una idea di tempo nelle leggi naturali, di individuo o di realtà nelle idee necessarie.
Così in un genere, si vede la circostanza che lo specifica, in una specie, la circostanza che la individualizza, in una legge, la circostanza che la manifesta, in un assioma, la circostanza che lo applica.
Le circostanze, per il filosofo, servono, dunque, a tradurre l’identità e a trasformarla, e siccome ogni circostanza ha il suo termine, da cui prende la forma ed il nome d’identità, così ogni deduzione ha bisogno di termini per ridursi alla identità.
"Il ragionare dunque non consiste che nell’applicare l’identità indeterminata alla stessa identità determinata da un rapporto"(40).
L’identità, di conseguenza, si può distinguere in totale e parziale; totale, che consiste nell’esprimere in due modi la stessa idea; parziale, che esiste tra il genere e la specie e tra la specie e l’individuo.
Nel raziocinio a paragonarsi non sono due idee diverse, ma la stessa idea avente due rapporti diversi che fanno comparire due idee e, per effetto del paragone, le fanno apparire diverse.
La natura del raziocinio consiste nella identità; le proposizioni che lo compongono devono essere identiche, perché se non fosse così, il raziocinio sarebbe falso e non dimostrerebbe niente.
L’identità, come già accennato, è, per D’Acquisto, di due specie: cioè totale e parziale.
Per acquistare nuove cognizioni, per conoscere nuovi rapporti, è necessario conservare l’identità dell’idea e vederla sotto diversi punti di vista, poiché la cognizione dei diversi rapporti è una vera conoscenza.
Considerato ciò, asserisce D’Acquisto, il canone del raziocinio è l’identità dell’idea, la diversità dei rapporti e, perciò, di espressione; l’identità è il criterio che fa conoscere la verità e la falsità del raziocinio.
Tutta la forza del raziocinio consiste nello sviluppare una idea, e svilupparla significa mostrare tutti i suoi rapporti possibili con questa legge.
Quando si osserva rigorosamente questa legge "una scienza si percorre tutta con facilità"(41); ma se questo ordine si interrompe, allora, è necessario provare, ossia, stabilire la continuità nella successione dei giudizi.
Il raziocinio, quindi, analizza il pensiero.
Analizzare, significa per D’Acquisto, rendere distinte e successive le idee parziali, le quali, riunite in una idea complessa, si riabbracciano in un solo atto dello spirito.
Quando noi confrontiamo due idee, e fra di esse vediamo immediatamente il rapporto, noi emettiamo e costruiamo un giudizio.
Spesso, però, accade che questo giudizio non si scorge immediatamente, allora, abbiamo bisogno di una idea terza, che, essendo frapposta alle due, si chiama media; idea con la quale confrontiamo le altre due.
Tutta la meccanica del raziocinio è condensata nel seguente assioma "quae conveniunt uni tertio conveniunt inter se"(42), se l’assioma è identico.
Si tratta della identità triforme, in altre parole di quella replicata nelle tre idee; ogni idea, infatti, è identica a se stessa.
Queste tre identità, per il filosofo, sono fuse, dall’atto logico, in una solo identità, chiamato assioma, ed il raziocinio, che su di esso si appoggia, ha per sua legge l’identità.
Ma di che natura devono essere queste idee medie?
Per D’Acquisto, le idee medie devono essere idee identiche ed evidenti nella loro identità.
Si tratta, insomma, di tutte le idee generali, necessarie e contingenti, ossia degli assiomi, delle idee generali di genere e di specie, delle idee delle leggi naturali.
Tutte queste idee, sostiene il filosofo, possono stabilirsi come principii di raziocinio; esse sono identiche o perché formate sul principio d’identità per l’induzione rigorosa, come sono le idee generali; o perché riconosciute per la stessa induzione, mediante il principio della identità; o perché contenenti il principio della identità sotto forme meno generali, quali sono tutti gli assiomi; o perché contenenti lo stesso principio e perciò evidenti in se stesse.
Una intelligenza senza limiti vedrebbe tutto in un istante, senza bisogno di confronti, di giudizi, di raziocini.
Il nostro spirito, allorché passa dallo stato trascendente all’empirico spontaneo, conosce intuitivamente senza formare le prime verità; da qui sorgono le prime credenze naturali.
Nello stato riflesso, egli, per giudicare, ha bisogno di confrontare, e se il rapporto tra le idee che confronta non si scorge immediatamente, allora, basta, per avere conoscenza, l’atto del giudizio.
"Si paragono l’idea di circolo e di rotondità, di tutto e di parti prese assieme, si scorge immediatamente il rapporto d’identità per cui l’una rappresenta ed è identica all’altra, e lo spirito pronuncia il suo assenso, egli fa un giudizio"(43).
Ma se le idee che si paragonano sono complesse, allora, lo spirito resterebbe in uno stato di incertezza. Una incertezza che produce uno stato di violenza, per liberarsi della quale, egli usa, dice D’Acquisto, un certo artifizio, al fine di conoscere il rapporto che va cercando.
Questo artifizio consiste nell’interporre un’idea media alle due paragonate, e per mezzo di questa scorgere il rapporto tra le due.
La conoscenza di tale rapporto non è immediata, ma mediata dall’idea media stessa.
Il trovare questa idea media è difficile, perché, asserisce il filosofo, qualunque sia l’idea, per l’esperienza comparata, e per la interposizione delle verità identiche, non è isolata; essa appartiene già ad una classe; essa è contenuta in una idea identica generale che la contiene nella sua identità.
Si tratta, ripetiamo, della idea media ossia del termine di paragone.
Questa idea, per effetto della sua identità, è rappresentativa di tutte quelle che sono sulla sua comprensiva identità.
Ridotte le idee, che vogliamo confrontare, alla più semplice espressione, allora si conoscerà se è identica alla terza, e così facendo, scopriremo e troveremo i rapporti d’ identità.
Ma chi esegue il raziocinio? Per il D’Acquisto, ad eseguire questa operazione è lo spirito, il quale necessita del concorso di tre giudizi, l’ultimo dei quali ha il carattere della certezza e della evidenza, necessari per il confronto delle due idee, di cui si ignora il rapporto.
Questi tre giudizi possono così essere classificati:
1. Il primo giudizio si assume come principio;
2. Il secondo giudizio è quello di paragone;
3. Il terzo giudizio è quello che è destinato a fare conoscere o dichiarare l’identità totale o parziale tra i soggetti di due giudizi che si paragonano, o tra i predicati, o tra il soggetto del primo ed il predicato del secondo, tra il predicato del primo ed il soggetto del secondo; è quello, che in definitiva, dichiari e riduca alla stessa espressione, l’espressione diversa dalla stessa idea.
Appare, quindi, evidente la necessità, per il D’Acquisto, della esistenza di questi tre giudizi: principio, dichiarante o riduttivo e illazione.
Ma com’esistono, in ogni raziocinio i tre giudizi, così devono distinguersi la materia e la forma.
La materia consiste nei tre giudizi componenti il raziocinio, la forma, invece, è il rapporto di connessione dei tre giudizi, ossia l’identità che deve esistere nel raziocinio.
Da questa distinzione si conosce il motivo per cui un raziocinio può essere vero nella materia, falso nella forma e viceversa.
E’ vero nella materia quando sono veri i tre giudizi; è vero nella forma quando sono vere le connessioni tra i tre giudizi. Lo stesso dicasi invertendo forma e materia e vero e falso.
I giudizi, di cui sopra, possono essere o puri o empirici.
Se i giudizi sono puri, il raziocinio è puro; se i giudizi sono empirici il raziocinio è empirico.
Se i giudizi puri ed empirici si combinano avremo un raziocinio misto.
I raziocini puri servono alle matematiche pure; gli empirici agli usi umani; i misti alle scienze naturali.
Gli empirici, a detta del filosofo, non possono fondare scienza, perché mancano di necessità e di generalità.
4. Della argomentazione e delle diverse sue specie
Il capitolo quarto "Della argomentazione e delle diverse sue specie" è dedicato al raziocinio espresso con parole o per iscritto, ovvero alla argomentazione.
Il raziocinio, per quanto premesso, non differisce dall’argomentazione nella sostanza, essendo essa la manifestazione esterna dell’operazione dello spirito; operazione attraverso la quale lo spirito deduce un’illazione da due premesse che le sono presenti.
L’argomentazione può avere diversi modi e forme: quali sono: il sillogismo, l’entimema, l’epicherema, il prosillogismo, il dilemma e l’analogia.
4.1. Il Sillogismo
Il sillogismo, dal greco sullogismoV, è quella specie d’argomentazione in cui le premesse e l’illazione sono espresse con altrettante proposizioni.
Il filosofo parte dalla radice del termine e chiarisce l’origine greca della stessa: sillogismo deriva, infatti, da sun, che significa insieme, e logoV che vuol dire discorso, quello che i latini chiamarono collectio, cioè calcolo; si tratta, infatti, di una specie di computo che, con l’aggiungere e sottrarre, raccoglie la somma ed il resto.
Dal momento che il raziocinio consta di due giudizi, ed ogni giudizio consta di due idee, anche se esiste la terza che, di solito, è chiamata in causa, il sillogismo, che è l’espressione esterna del raziocinio, consta di tre proposizioni, che è l’espressione delle tre idee del raziocinio.
Si tratta del termine minore, che esprime il soggetto dell’illazione, il termine maggiore, che esprime il predicato della stessa illazione, ed il termine medio, in altre parole l’idea che lega le due idee e i due termini.
La proposizione che nel sillogismo consta del termine maggiore e del medio, si dice maggiore; quella che è formata dal medio e dal minore, si dice minore; la preposizione che lega il termine maggiore col minore, si dice conseguenza.
In questa maniera, ogni sostanza pensante è spirituale ed essendo l’anima umana sostanza pensante, l’anima umana è spirituale; l’anima umana è il termine minore, sostanza spirituale, il termine maggiore, sostanza pensante, il termine medio.
Per quanto detto, il filosofo, conclude ammettendo che:
• Il sillogismo consta di tre soli termini;
• I termini maggiore e minore non devono essere più "universali nella conseguenza che nelle premesse, poiché allora vi sarebbero quattro termini, ed il sillogismo sarebbe inconcludente"(44);
• Il termine medio non deve entrare nella conclusione;
• Il termine medio non può prendersi due volte;
• Non si può partire da due idee negative;
• Da due premesse affermative non può dedursi una conseguenza negativa;
• Non si può avere conclusione partendo da due premesse particolari;
• La conseguenza deve seguire la parte più debole delle premesse.
Queste regole, per D’Acquisto, non sono altro che lo sviluppo del meccanicismo del sillogismo.
4.2. L’Entimema
L’entimema, dal greco enqumhma, è un’argomentazione che si compone di due proposizioni, delle quali, una è antecedente, l’altra, conseguente.
Entimema è una voce derivante dalle parole greche en e qumoV che vale pensiero, concetto.
L’entimema è un sillogismo compiuto nella mente di chi ragiona, è incompleto nell’espressione, in quanto manca di una premessa, chiara ed ovvia.
L’entimema è la più semplice, elegante e precisa argomentazione che uno usa senza attendere alla rigorosa forma sillogistica.
Qui, il filosofo, si rifà, per certi versi alla sentenza entimematica d’Aristotele, quando diceva: "Mortale non conservare un odio immortale". L’entimema, in questo caso sarebbe: " tu sei mortale, dunque non devi conservare un odio immortale"(45).
La preposizione che si sottintende, però, deve essere vera per potersi avere la verità dell’intero entimema.
4.3. L’epicherema
L’epicherema è un sillogismo in cui all’una e all’altra delle premesse, ed anche a tutte e due, si unisce la rispettiva prova; prova che, in ultima analisi, contiene la stessa idea della proposizione della qual è prova.
Anche questo termine trova la sua radice in un tema greco, ossia epiceirhma che in latino prende la forma di aggressio, cioè di argomentazione.
4.4. Il Sorite
Il sorite è una argomentazione in cui le proposizioni sono legate in modo che il predicato della prima diviene soggetto della seconda; il predicato della seconda soggetto della terza, e così di seguito, finché, il predicato dell’ultima si congiunge col soggetto della prima.
Il sorite, fu inventato da Crisippo, secondo Diogene Laerzio, e fu in uso tra gli antichi stoici, ed in speciale modo da Zenone.
Deriva dal greco swroV, cumulo, che risponde al latino acervus, per cui si ha la swreithV, che significa appunto sillogismo, in massa o con proposizioni.
4.5. Il Dilemma
Il dilemma è un’argomentazione che si compone di due o tre proposizioni contrarie, ognuna delle quali sorprende l’avversario.
E’ detto anche "argomento cornuto, perché le sue parti sono disposte in modo che se si evita l’una, si incorre nell’altra"(46).
Il dilemma è una voce greca, dilhmma, in latino sumptio; si tratta di un’argomentazione che muove da premesse disgiuntive per inferire da ciascuna una conclusione che abbatte il giudizio avversario.
"Perché il dilemma possa esserci bisogna che fra le parti non vi sia mezzo, anche se i membri della proposizione disgiuntiva fossero tre o quattro"(47).
4.6. L’esempio
L’esempio può considerarsi come un’altra argomentazione, in cui da uno e dall’altro fatto se ne deduce un altro per la somiglianza che intercorre tra essi.
La forza di quest’argomentazione si desume dall’identità o similitudine che esiste tra un fatto e l’altro, e dall’esperienza sulla quale poggia.
L’esempio è molto utile nelle discipline, dice D’Acquisto, che riguardano la morale e la politica.
4.7. L’Analogia
L’analogia è un modo di argomentare in cui da effetti, leggi, fenomeni, deduciamo altro; "così dalla struttura dei sensi, dal moto spontaneo che osserviamo negli uomini e né bruti argomentiamo che sì negli uomini come negli altri si danno sensibilità e sensazioni"(48).
L’analogia può essere perfetta ed imperfetta; la prima produce una certezza fisica; la seconda solamente probabilità.
Per D’Acquisto, tutta la forza dell’analogia sta nella semplicità della natura e nella sostanza ed uniformità delle sue leggi.
5. Del Metodo
Il capitolo quinto "Del Metodo" è dedicato alle diverse forme di metodo e alle regole che lo governano.
Per il D’Acquisto, come abbiamo già sottolineato, l’atto logico dell’è è il legame universale di tutte le conoscenze umane; esso, dicevamo, comincia la sua operosità vitale dal giudizio, nel quale lega il predicato al soggetto, e forma la prima conoscenza.
Il filosofo suppone, nella Logica, che quest’atto, legando più giudizi, forma un sistema, si avanza ulteriormente, lega più sistemi, e non si arresta che quando arriva al sistema generale, dove la svariata molteplicità, mette termine all’unità.
Questo procedere regolare è chiamato, dal filosofo, metodo. Il metodo, dunque, consiste nel modo in cui procede lo spirito nella congiunzione di vari raziocini per la completa conoscenza di un oggetto.
Per avere una conoscenza completa di un oggetto, qualunque esso sia, è necessario cominciare dall’osservazione dell’oggetto, decomporlo in tutti i suoi elementi, acquistare una cognizione precisa di ognuno di essi, osservare meglio i rapporti che lo legavano, e ricomporlo; oppure osservarlo e formare dalla riunione di questi elementi l’oggetto intero.
Il primo modo di procedere è chiamato, dal D’Acquisto, metodo analitico, il secondo, invece, metodo sintetico.
Il filosofo indica alcuni suggerimenti per evitare errori nella progressione. Li indichiamo per correttezza di procedura:
• Non ammettere mai alcuna proposizione per vera;
• Controllare che la connessione della proposizione antecedente con la seguente sia sempre certa ed evidente.
A queste regole di procedura n’aggiunge delle altre distinte per singolo metodo:
1. Metodo analitico
• Intendere chiaramente lo stato della questione da analizzare ed il suo oggetto;
• Decomporre l’oggetto immediatamente e fissare i rapporti che legavano le varie parti;
• Conoscere le relazioni (per relazioni, il filosofo intende, i punti di comunicazione e di passaggio da ciò che si conosce a ciò che è ignoto);
• Non prendere in considerazione tutto ciò che non è utile alla ricerca;
• Cominciare dalle idee più semplici.
2. Metodo Sintetico
• Non assumere alcuna cosa che prima non sia stata definita;
• Non procedere ad alcuna dimostrazione se non ci si appoggia a principi certi o assiomi;
• Provare in maniera dimostrativa tutte le conseguenze per mezzo di proposizioni già concordate e convenute.
In entrambi i metodi il passaggio dal composto al semplice, e dal semplice al composto, deve effettuarsi per mezzo dell’identità, affinché, questo passaggio, sia immediato e senza salti bruschi.
Ultimo metodo analizzato dal nostro è il metodo scolastico, così detto perché utilizzato dai filosofi scolastici e dai teologi.
Questo metodo ha il carattere analitico: in esso le prove, le difficoltà e le risposte si propongono con precisione, senza alcun ornamento di figure.
La tesi principale si sviluppa in maniera graduale, si spoglia di tutte quelle circostanze che non hanno attinenza e si riduce alla sua semplicità nativa e nel suo aspetto preciso.
Con queste considerazioni il D’Acquisto completa il suo Trattato, consegnando alla storia della filosofia una prova evidente della sua grandezza speculativa; consegnando una materia che rappresenta il fondamento del suo successivo trattato, "Sistema della scienza universale"(49), opera nella quale "il D’Acquisto ha lasciato un bel monumento della filosofia in Sicilia a metà del secolo XIX"(50).
Concludendo con Nicola Giordano, potremmo anche noi dire: "Questo fu Benedetto D’Acquisto come uomo e come filosofo.
Monreale dovrebbe essere superba della rinomanza che accompagna il nome di questo suo figlio presso i filosofi italiani e stranieri; dovrebbe essere orgogliosa che in Esso la Sicilia abbia avuto un metafisico non inferiore ai grandi filosofi di Francia e di Germania"(51).
6. Conclusione
A margine ed in conclusione del presente lavoro vorremmo dedicare una breve riflessione sugli autori che hanno dissertato sul nostro filosofo monrealese, dando questi la possibilità di elevarsi sugli altari della filosofia contemporanea.
Il D’Acquisto rappresenta un pezzo fondamentale della nostra tradizione filosofica contemporanea, costituisce l’avvio della filosofia della "Nuova Italia" (avrebbe detto Benedetto Croce) che si determina intorno alla metà del secolo Diciannovesimo.
Il D’Acquisto, per la storiografia contemporanea, rappresenta un tassello del ricco ed interessante mosaico della filosofia italiana che costituisce la radice della nostra tradizione.
Il Nostro vive l’esaltante momento del Risorgimento Italiano in Sicilia ed è il tramite della scuola monrealese avviata nel 1700 dal, già citato, Professore Miceli.
Del filosofo D’Acquisto non molti hanno parlato, ma sicuramente quei pochi che ne lo hanno fatto, hanno dato un esaltante giudizio del nostro monrealese.
Tra i maggiori: E. Di Carlo con "Una lettera inedita di P. Galluppi a Benedetto D’Acquisto", in Giornale critico della Filosofia Italiana, XX (1939), alle pagine 366-368.
In questa lettera il Di Carlo fa riferimento, al terzo capoverso, proprio al concetto di Logica che il D’Acquisto aveva più volte trattato.
Si legge: " La logica è un mediatore che ci permette di sviluppare, estendere ed applicare la verità per la conoscenza di altre verità.
L’identità è lo strumento, di cui si serve la logica in tutte le operazioni, tanto nella formazione dei princìpi, quanto nel dedurre, dagli stessi, principii; è il criterio e la norma assoluta di qualunque operazione logica"(52).
Altro intervento sul D’Acquisto lo si deve al Di Giovanni in più di una sua opera: con "D’Acquisto e la filosofia della creazione in Sicilia", Firenze 1868; con "Benedetto D’Acquisto e le sue opere. Discorso", pubblicato a Palermo nel 1869; ed infine in "Storia della Filosofia in Sicilia da’ tempi antichi al secolo XIX", II, pubblicato a Palermo nel 1873, alle pagine 214 – 289.
Al Di Giovanni si deve forse il maggior intervento sull’opera del filosofo monrealese.
Fu proprio lo storico della filosofia in Sicilia a riportare sugli altari la figura del d’Acquisto.
Scriveva Di Giovanni: "Egli è l’autore di una concezione che si caratterizza, filosoficamente, in una posizione a carattere prettamente ontologistico.
Egli pone, nella conoscenza, il fondamento teorico della conoscenza scientifica e per quanto riguarda l’origine delle idee esse sono divise in sensibili, concernenti il mondo materiale, intellettuali, relative al proprio essere, e in necessarie, che riguardano Dio, pur essendo però, sempre, coesistenti simultaneamente nello spirito umano.
A queste, D’Acquisto aggiunge le idee di rapporto, che analizzeremo oltre, le quali forniscono la possibilità di formulare giudizi e ragionamenti"(53).
Non meno importante per la comprensione del ruolo svolto dal D’Acquisto nella Storia della Filosofia siciliana dell’Ottocento, fu l’intervento del Di Pietro, in "Illustrazione dei più conosciuti scrittori contemporanei siciliani dal 1830 a quasi tutto il 1876", Palermo 1878, pagine 17 – 23.
Il suo intervento, puntuale e preciso, è stato fondamentale per la ricostruzione della vita del D’Acquisto e dei rapporti che questi intrattenne con i filosofi siciliani suoi contemporanei.
Si deve a Di Pietro la prima biografia ragionata del D’Acquisto.
Altro storiografo del D’Acquisto fu E. E. Filippi, con la sua opera "Benedetto D’Acquisto: l’uomo ed il pensatore, in Celebrazioni siciliane", I, pubblicato in Urbino 1940, alle pagine 85 – 117.
Egli così scriveva del D’Acquisto: " In tutta la sua opera il D’Acquisto ricerca il soggetto e le ragioni della certezza della conoscenza umana, la natura, l’origine e la distinzione dei sentimenti e delle Idee, lo strumento di queste, in altre parole il linguaggio, ed infine, la causa degli errori"(54).
Altro contributo fu dato da E. Garin, in "Storia della Filosofia italiana", III, pubblicato in Torino 1978, alle pp. 1179 – 1256.
Infine, ricordiamo il contributo dato dal monrealese Nicola Giordano nella sua brillante rassegna intitolata "Monrealesi illustri", Pubblica in Palermo nel 1964, alle pp. 147 – 163 e in "Sul preteso incontro tra Benedetto D’Acquisto e Garibaldi", in Risorgimento in Sicilia", IV (1968).
Sul D’Acquisto egli scrive: "il D’Acquisto ha lasciato un bel monumento della filosofia in Sicilia a metà del secolo XIX"(55).
Concludendo con Nicola Giordano, potremmo anche noi dire: "Questo fu Benedetto D’Acquisto come uomo e come filosofo.
Monreale dovrebbe essere superba della rinomanza che accompagna il nome di questo suo figlio presso i filosofi italiani e stranieri; dovrebbe essere orgogliosa che in Esso la Sicilia abbia avuto un metafisico non inferiore ai grandi filosofi di Francia e di Germania"(56)
Ad occuparsi dl D’Acquisto troviamo anche. Iovine, in "De vita et Operibus Benedetto D’Acquisto philosophi O.F.M. archiepiscopi Montisregalis (1790 – 1867)", in Antonianum I (1926), alle pagine 413 – 448; F. Lorico, con "Vita di Benedetto D’Acquisto", pubblicato a Palermo nel 1899; Vincenzo Mangano con "Benedetto D’Acquisto filosofo monrealese", pubblicato in Palermo nel 1890;ancora Vincenzo Mangano, in "La filosofia sociale di monsignor Benedetto D’Acquisto", pubblicato in Palermo nel 1900; G. Millunzi, in "Storia del seminario arcivescovile di Monreale", pubblicato a Siena nel 1895; G.M. Puglia, con "L’arresto del monsignor Benedetto D’Acquisto, arcivescovo di Monreale", pubblicato a Palermo nel 1931; ed infine S. Scimè, in "Indagini sul pensiero del Risorgimento. Il trionfo dell’ontologismo in Sicilia", pubblicato a Mazara del Vallo nel 1949, alle pp. 40 – 42.
Quest’ultimo ha dato una svolta allo studio del D’Acquisto.
Egli così scrive sul filosofo monrealese: " il D’Acquisto con le sue opere di "Elementi di filosofia fondamentale. Analisi delle facoltà dello spirito umano o psicologia" (Vol. I, Palermo 1835, Vol. II, Palermo 1936), "Trattato delle idee o ideologia" (Vol. III, Palermo 1857), "Organo dello scibile umano o Logica" (Vol. IV, Palermo 1871), ha consegnato alla storia della filosofia una prova evidente della sua grandezza speculativa; consegnando, altresì, una materia che rappresenta il fondamento del suo successivo trattato, "Sistema della scienza universale", opera nella quale il D’Acquisto ha lasciato un bel esempio di speculazione filosofica"(57).
Bibliografia
Opere di Benedetto D’Acquisto
Elementi di filosofia fondamentale. Analisi delle facoltà dello spirito umano o psicologia, Vol. I, Palermo 1835, Vol. II, Palermo 1836.
Trattato delle idee o ideologia, Vol. III, Palermo 1857.
Organo dello scibile umano o Logica, Vol. IV, Palermo 1871.
Saggio sulla legge fondamentale del commercio fra l’anima ed il corpo e di altre verità che vi hanno rapporto, Palermo 1837.
Prolusione alle lezioni di diritto naturale nell’Università di Palermo, Palermo 1843.
Memoria estemporanea sul diritto e dovere del proprio perfezionamento, Palermo 1844.
Pel concorso alla cattedra di diritto naturale ed etica nella Regia Università degli studi di Palermo, Palermo 1844.
Discorso preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica nella Regia Università degli studi di Palermo, Palermo 1844.
Sistema della scienza universale, Palermo 1851.
Corso di filosofia morale, Palermo 1851.
Corso di Diritto naturale o filosofia del diritto, Palermo 1852.
Saggio sulla necessità dell’autorità e della legge, Palermo 1856.
Saggio sulla genesi e natura del diritto di proprietà e sulla legittimità della proprietà giuridica, Palermo 1857.
Teologia dogmatica e razionale, Palermo 1862.
Opere su Benedetto D’Acquisto
AA. VV., Dizionario dei Siciliani illustri, Palermo 1939, ad vocem.
E. Di Carlo, Una lettera inedita di P. Galluppi a Benedetto D’Acquisto, in Giornale critico della Filosofia Italiana, XX (1939), pp. 366-368.
V. Di Giovanni, D’Acquisto e la filosofia della creazione in Sicilia, Firenze 1868.
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NOTE:
(1) Al secolo Raffaele, D’Acquisto nasce a Monreale il I° Febbraio del 1790, da Niccolò, calzolaio, e da Maria Di Meo. Muore a Palermo il 7 agosto del 1867. Fu seppellito in una tomba provvisoria donde, poi, le sue ceneri furono traslate, nel 1900, nel duomo di Monreale con solenni onoranze.
(2) Benedetto D’Acquisto nell’Introduzione al Sistema della Scienza Universale così scriveva: " … ed ho volentieri sacrificato la precisione dello stile alla facilità dell’intendimento, appunto come la forma deve spesso sacrificarsi alla sostanza".
(3) Dando una lettura attenta all’opera e al titolo della stessa, è possibile notare che questo trattato di Logica era già pronto prima che il D’Acquisto venisse nominato Arcivescovo di Monreale e comunque durante la sua docenza alla Università Regia di Palermo.
(4) Cfr. B. D’Acquisto, Organo dello scibile umano o Logica, Tipografia e Ligatoria di Francesco Roberti, Palermo 1871, p. 12.
(5) Ivi, pp. 18- 19.
(6) Ivi, p. 40.
(7) Ivi, p. 28.
(8) Cfr. S. Caramella, La Filosofia di Benedetto D’Acquisto, in Atti della Accademia di Scienze lettere e arti di Palermo, s.4 XXVII (1966-67), 2, Lettere, pp. 39-51.
(9) Cfr. I. Iovine, De vita et operibus Benedetto D’Acquisto philosophi O.F.M.. archiepiscopi Montisregalis (1790-1867), in Antonianum, I (1926), pp. 413-448.
(10) Cfr. B. D’Acquisto, Organo dello scibile umano o Logica", op. cit. , p. 12.
(11) Ivi, p. 1.
(12) Ivi, p. 2.
(13) Ibidem
(14) Ivi, p. 3.
(15) Ivi, p. 6.
(16) Ivi, p. 7.
(17) Ibidem
(18) Ivi, p. 8.
(19) Ivi, pp. 8-9.
(20) Ivi., p. 9.
(21) Ivi, p. 11.
(22) Ivi, p. 12.
(23) Ivi, p. 15.
(24) Ivi, p. 16.
(25) Ivi, pp. 19 e 20.
(26) Ivi, p. 23.
(27) Cfr. B. D’Acquisto, Organo dello scibile umano o Logica", op. cit., p. 25.
(28) Ivi, p. 26.
(29) Ivi, p. 27.
(30) Cfr. G. Calogero, I fondamenti, della logica aristotelica, Firenze 1968.
(31) Vedi V. Di Giovanni, Storia della Filosofia in Sicilia, Volume II, Cappelli, Bologna 1985, con appendice di aggiornamento di G.M. Sciacca, pag. 214.
(32) Ivi, p. 30.
(33) Ivi, p. 31.
(34) Ivi, p. 31.
(35) Ivi, p. 41,.
(36) Ivi, p. 42.
(37) Ivi, p. 44.
(38) Ivi, p. 53.
(39) Ivi., p. 75.
(40) Cfr. B. D’Acquisto, Organo dello scibile umano o Logica, op. cit. , p. 83.
(41) Ibidem.
(42) Ivi, p. 86.
(43) Ivi, p. 89.
(44) Cfr. B. D’Acquisto, Organo dello Scibile Umano o Logica , op. cit., p. 107.
(45) Ivi, p. 108.
(46) Ivi, p. 109.
(47) Ibidem.
(48) Ivi, p. 110.
(49) Cfr. B. D’Acquisto, Sistema della scienza universale, Palermo 1850, pp. 365.
(50) Cfr. V. Di Giovanni, Sullo stato attuale e su’ bisogni degli studi filosofici in Sicilia, Palermo 1854, p. 52.
(51) Vedi N. Giordano, Monrealesi Illustri, Palermo 1964, p. 163
(52) E. Di Carlo con "Una lettera inedita di P. Galluppi a Benedetto D’Acquisto", in Giornale critico della Filosofia Italiana, XX (1939), alle pp. 366-368
(53) V. Di Giovanni, "D’Acquisto e la filosofia della creazione in Sicilia", Firenze 1868, p. 49.
(54) E. E. Filippi, con la sua opera "Benedetto D’Acquisto: l’uomo ed il pensatore, in Celebrazioni siciliane", I, pubblicato in Urbino 1940, alle pagine 85 – 117.
(55) Cfr. V. Di Giovanni, Sullo stato attuale e su’ bisogni degli studi filosofici in Sicilia, Palermo.
(56) Vedi N. Giordano, Monrealesi Illustri, Palermo 1964, p. 163
(57) S. Scimè, in "Indagini sul pensiero del Risorgimento. Il trionfo dell’ontologismo in Sicilia", pubblicato a Mazara del Vallo nel 1949, alle pp. 40 – 42.
Un paradosso fastidioso.
C’è un pregiudizio duro a morire che pesa sulla Sicilia e secondo il quale l’isola - crocevia sì di culture straordinarie ma da queste nei secoli dominata - non avrebbe avuto una cultura propria.
Quale paradosso! La terra di Verga, di Pirandello, di Sciascia; la terra di Borgese e di Gentile, di Guttuso e di Bellini.
E come non ricordare la letteratura giuridica di un Tommaso Natale, che prima di Beccaria propose l’abolizione della pena di morte; o la letteratura politica di un Gioacchino Ventura, anticipatore del cattolicesimo liberale; o ancora quell’affluente tutto siciliano del futurismo.
A smentire coloro che ancora si ostinano a guardare la Sicilia dall’alto in basso c’è quell’autentico spirito laico di Giovanni Spadolini che bene aveva in mente "la presenza della Sicilia in tutti i momenti genetici fondamentali della nostra storia nazionale"(1). E se la Sicilia ha dunque avuto una sua storia, che si è innestata in quella nazionale, ha avuto pure una sua cultura.
Certo, è noto il giudizio di Giovanni Gentile sul "Tramonto della cultura siciliana". Ma, come osserva Gaetano Falzone, "non ci possono essere tramonti se prima non ci sono stati meriggi"(2); e del resto ad ogni tramonto segue sempre una nuova aurora.
Un altro elemento, utile per sgominare il paradosso di una Sicilia che ha una sua storia ma non una cultura propria, lo si ricava dalle riflessioni di Eugenio Garin, per il quale non si fa storia della cultura senza fare storia dell’editoria. Ciò equivale a dire che se c’è editoria c’è pure cultura; se c’è una storia dell’editoria c’è pure una storia della cultura.
Ora, i dissacratori ed i negatori della cultura siciliana dimenticano o ignorano che pure la Sicilia ha una propria storia dell’editoria.
Una storia che certamente attende ancora chi la racconti in modo critico e compiuto, catalogando le note biografiche di ciascun editore e le vicende connesse alla loro impresa; una storia nascosta, insomma, da tirar fuori dal dimenticatoio siciliano. E per dare un’idea di questa storia basterà qui citare la lunga attività della libreria editrice palermitana dei Sandron, che inizia nella Sicilia borbonica e prosegue ben oltre la Sicilia fascista; ed andando più indietro nel tempo, fino ai primi decenni dell’ottocento, vanno ricordati i tipografi palermitani Giovanni Pedone e Lorenzo Dato che realizzarono diverse prime traduzioni italiane di opere inglesi o francesi contribuendo così ad inserire l’isola in un circuito culturale di respiro internazionale(3).
La storia, dunque, e l’editoria della Sicilia, smentiscono i portavoce di un paradosso che ormai mostra i segni della stanchezza, e che provoca un insopprimibile fastidio.
Era necessario additare, sia pur rapidamente, i tratti di questo fastidioso paradosso per meglio dare il senso della storia di un librario editore e della sua libreria editrice protagonisti ed animatori della cultura nella Sicilia dei difficili anni ‘30 del novecento.
Il rischio era che Filippo Ciuni, di cui ricorre il centenario della nascita, e la sua libreria editrice venissero riduttivamente considerati come un qualunque "avvenimento" della più grande storia dell’editoria nazionale, mentre invece ne rappresentano un "evento".
Un evento editoriale e culturale tutto siciliano, innestato nella cultura e nella storia editoriale nazionale ed europea.
Un innesto che manda in frantumi quel fastidioso paradosso di una Sicilia priva di cultura. Un evento che dimostra che non le capacità di essere e fare cultura sono mancate e mancano in Sicilia, ma la sensibilità e la coscienza del destino siciliano nel destino nazionale ed europeo, smarritesi fra i lunghi anni di cocente delusione dell’isola ma non sopite, come dimostrano le presenze europee nell’editoria siciliana dell’ottocento e del novecento.
Il ruolo del libraio editore
L’editoria ha recentemente ridestato l’interesse degli storici. Il Tranfaglia, in particolare, ha dedicato a questo affascinante filone culturale un suo recente volume(4).
L’Italia ha avuto fra i suoi editori molti tipografi: il Barbera, per esempio; alcuni intellettuali: Treves o Gobetti; dei librai: Zanichelli, tanto per citare.
Filippo Ciuni appartenne a quest’ultima categoria.
È una categoria particolare quella dei librai editori. È gente che ama i libri con la consapevolezza che dentro al libro c’è una piccola storia o meglio una piccola vita, talvolta nata dal caso talaltra dalla ragione. I librai-editori riescono a distinguere le origini casuali o ragionate di un libro; è un dono che essi hanno.
I libri si scrivono per affare o per passione, si pubblicano per affare o per passione. I librai-editori rifuggono dagli affari, agiscono per passione.
Oggi questa distinzione si è persa e forse proprio perché non ci sono più librai-editori, ne sono rimasti pochissimi.
La logica del profitto ha seminato parecchie vittime fra i librai editori. Ma quando a prevalere era la logica delle idee allora il libro non era una impresa commerciale ma un fatto culturale.
Nei modi di dire contemporanei si sono imposte espressioni come "industria del libro", "prodotto culturale", "imprenditore culturale"; e ne sono scomparse altre come "mecenate della cultura", "operatore culturale".
Il libraio editore era qui: tra gli operatori culturali, a volte tra i mecenati della cultura. Oggi si entra in libreria e se si ha qualche dubbio od interesse ecco il libraio consultare il computer; al tempo dei librai editori invece era il libraio stesso che indicava quale libro poteva soddisfare e risolvere i dubbi del lettore; c’era uno scambio "umano" tra libraio e lettore, non mediato dalla macchina. Ed uno scambio "umano" c’era pure tra libraio ed editore. Anche la corrispondenza tra librai ed editori è oggi cambiata. È diventata infinitamente più commerciale e tecnica; naviga freddamente, senza emozioni, nelle acque insidiose di Internet.
Un tempo, invece, poteva capitare che un libraio di Palermo come Filippo Ciuni ricevesse da un editore prestigioso come Vallecchi di Firenze, lettere come questa: Caro Signor Ciuni, so che ella è tra i più attivi ed efficaci collaboratori di questa Casa Editrice e desidero perciò farle giungere la mia parola di lode e di incitamento. Questa Casa non vuole essere una bottega di libri, ma una fucina di opere e di idee, per cui tutti coloro che ne fanno parte sono investiti da una missione spirituale che va molto al di là delle loro funzioni tecniche o commerciali. Ella ha dimostrato di avere compreso e sentito questa nobiltà del suo incarico e sono quindi sicuro che continuerà a dargli tutto se stesso per fare conoscere ed apprezzare presso i privati, gli enti e le autorità quello che la nostra Casa ha compiuto e si propone di compiere nell’interesse della scuola, della cultura e dell’arte italiana(5).
Ecco, in questa lettera c’è tutto il dramma del libro contemporaneo. Oggi le librerie e le editrici non sono più fucine di opere e di idee ma botteghe o fabbriche; oggi il libraio e l’editore non sentono più il senso di una missione spirituale ma hanno un obiettivo materiale da raggiungere; oggi la diffusione di libri, dispense e altro non ha più una ragione ideale, spirituale bensì estetica e commerciale: si pubblica ciò che si è sicuri di vendere, si vende ciò che chiede la gente magari dopo l’ultima banalità vista in televisione. Prima, invece, erano soprattutto i librai editori a stimolare la curiosità culturale dei lettori proponendo saggi, romanzi, avventure.
Era necessario rimarcare la differenza tra il mondo del libro di oggi e quello di ieri, perché solo così è possibile capire come quello del libraio editore di una volta non era soltanto un mestiere, era una fede, una missione, un rischio; occorreva coraggio, sensibilità intellettuale, passione.
Filippo Ciuni fu il protagonista del mondo palermitano (e non solo) del libro di ieri. Un mondo decisamente perduto, con i suoi valori che cercano faticosamente di farsi spazio nel mondo caotico contemporaneo. Ma è il caos ancora a prevalere. Di quel mondo perduto, di quei valori frettolosamente archiviati restano gli esempi vissuti, e Ciuni è fra questi. Non è retorica, è l’esigenza di stabilire un confine fra passato e presente nel tentativo di aprire la strada al dubbio socratico: e se il passato con i suoi ritmi ed i suoi valori, aveva qualche ragione da recuperare oggi? E se il passato era più civile del presente?
Il grado di civiltà si misura anche e soprattutto dal modo di fare cultura, ed il modo di fare cultura si apprende soprattutto dalla storia di coloro che la cultura, appunto, facevano. È questo il senso della biografia e della testimonianza di Filippo Ciuni. Non un banale amarcord ma il senso e la testimonianza di un’epoca attraverso uno dei suoi protagonisti, cioè attraverso la storia di uno che in quella epoca visse scegliendo la difficile missione del libro.
Anche qui nessuna retorica: il rogo dei libri nella Berlino di Hitler e nella Pechino di Mao e tutti gli "indici dei libri proibiti" che nei secoli, in Occidente come in Oriente, sono stati compilati, ci offrono nitida l’immagine del libro come missione, come rischio, come coraggio. E gli antichi librai editori erano sul fronte avanzato in questa missione. Una posizione scomoda, basti pensare che gli scrittori dei tanti libri mandati al rogo in ogni parte del mondo comunque sono sopravvissuti nella storia, i loro editori sono invece caduti nell’ombra della quotidianità.
Meriti e successi dell’operatore culturale
Recentemente, fra il 10 e il 30 maggio 2000, una mostra storico-fotografica voluta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo, e svoltasi nel Complesso Monumentale di Santa Maria dello Spasimo del capoluogo siciliano, ha ricordato i cinquant’anni di promozione culturale a Palermo di un altro libraio editore: il noto Salvatore Fausto Flaccovio. Per l’occasione è stato dato alle stampe un volume di testimonianze sull’attività culturale della libreria editrice Flaccovio. Da queste testimonianze ricaviamo alcune tracce dell’esemplarità di Filippo Ciuni. Tracce significative se si riflette per un attimo che tra l’attività del libraio editore Filippo Ciuni e quella del libraio editore Fausto Flaccovio c’è di mezzo il secondo conflitto mondiale. Ciuni ha dunque oltrepassato il confine temporale del passato entrando, sia pure in punta di piedi, nella contemporaneità. Qualcosa di Ciuni, insomma, e del suo mondo si è tramandato nel mondo contemporaneo di Flaccovio. E questo è un merito, per Ciuni, anche se poi questo "qualcosa" di Ciuni rivissuto in Flaccovio si è smarrito nell’attualità di questi ultimi dieci anni in cui quella logica del profitto di cui si diceva, sciolta dalle briglie di un senso civile caduto in crisi, si è imbaldanzita e - per il momento - imposta.
Ma cosa è questo "qualcosa?". È stato Salvatore Butera a ricordare che Flaccovio era "cresciuto in una Palermo assai diversa dall’attuale dalla scuola di un altro libraio editore, Filippo Ciuni"(6).
E Nino Aquila, dopo avere ricordato che il giovane Flaccovio era stato assunto come banconista presso la libreria di Filippo Ciuni, aggiunge: "La libreria Ciuni, una delle principali della città, collocata com’era in piazza Verdi proprio di fronte al Teatro Massimo, raccoglieva una clientela particolarmente qualificata. E dopo alcuni anni formativi con Ciuni - continua Aquila - Flaccovio decide di aprire una sua libreria. Verso tale iniziativa fu sospinto dallo stesso Filippo Ciuni, che gli aveva generosamente rivelato i segreti del mestiere, avvalendosi della propria esperienza"(7).
Il "qualcosa" di Filippo Ciuni è lì, tra quei segreti del mestiere che egli ha rivelato all’allievo. È stato scritto che "l’idea vincente di Fausto Flaccovio fu quella di considerare la libreria un luogo di lettura (si poteva leggere anche un libro intero senza che lui chiedesse mai di acquistarlo), di incontro, di dibattito"(8).
Questa idea vincente Flaccovio l’apprese da Filippo Ciuni il quale iniziò alla missione del libro pure Giovan Battista Palumbo e Salvatore Sciascia, altri due protagonisti della storia dell’editoria siciliana del novecento, i quali lavorarono alla libreria Ciuni rispettivamente fino al 1937 e fino al 1942.
E che sia stato Ciuni il capostipite siciliano di una generazione di librai editori che consideravano la libreria non una bottega ma un’officina "colturale", dove ricercare il sapere, dove incontrarsi e scambiarsi opinioni ed idee e provocazioni; insomma un luogo di ritrovo, sì, ma particolare: un luogo di ritrovo di tante culture che dialogano, che leggono, che diffondono, che fanno valere le proprie ragioni e che soprattutto "coinvolgono", attraggono o respingono; che sia stato Ciuni a dare della libreria una rappresentazione viva e movimentata e non museale e statica, è testimoniato da uno dei più anziani librai palermitani: Vincenzo Dall’Oglio, titolare di una antica libreria situata nel palermitano corso Vittorio Emanuele: "Avevo tredici anni - racconta - quando sono entrato come impiegato, con mansioni di commesso, nella libreria di Filippo Ciuni. L’esercizio commerciale funzionava dal 1927, la sede storica era quella di piazza Giuseppe Verdi, proprio di fronte il Teatro Massimo a Palermo …negli anni ‘30 la libreria era frequentata dagli intellettuali più famosi del tempo; Giovanni Alfredo Cesareo, famoso per i suoi studi sulla Scuola Poetica Siciliana ed autore di una approfondita storia della letteratura italiana, Vito Fazio Allmayer e Giuseppe Maggiore. Luigi Russo ed Antonino Di Stefano. Il letterato Pietro Mignosi … studiosi di archeologia e storia dell’arte antica come Pirro Marconi, Guido Di Stefano, professore alla Facoltà di Architettura di Palermo. Dagli artisti Renato Guttuso e Pippo Rizzo … Chi frequentava assiduamente la libreria - ricorda Dall’Oglio - era Giuseppe Tomasi di Lampedusa, entrava in libreria sempre con fare molto riservato, girava fra gli scaffali, spesso era con il cugino, il poeta Lucio Piccolo. Acquistavano molti volumi, spesso erano opere letterarie di autori inglesi e francesi in lingua originale"(9).
Immaginiamo per un attimo, rileggendo le parole di Dall’Oglio, quali conversazioni scandivano il tempo in quella libreria; quale fortuna potevano godere i giovani che vi entravano. E ritorna il triste paragone con l’ambiente di una libreria contemporanea, simile più a un supermercato. "Il commesso di una libreria deve conoscere anzitempo il contenuto delle opere presenti in negozio, per presentarle al cliente", aggiunge Dall’Oglio.
Ed è una traccia ulteriore del merito di Ciuni, di cosa significava per Filippo Ciuni la libreria. E così le conversazioni fra gli intellettuali, alle quali assistevano talvolta partecipando anche i giovani, si incrociavano con le conversazioni tra commesso e cliente; tra Ciuni, intellettuali e clienti; e tutto avveniva attorno al libro: i libri, la fonte del sapere, la terra e l’aratro per "coltivare" se stessi. In un ambiente simile il libraio diventava la destinazione ultima di fermenti, tensioni, sentimenti impulsivi o repulsivi che interiorizzavano o si esteriorizzavano simultaneamente; proiettato in una dimensione del genere, il libraio scopriva e creava, diventava scopritore e creatore, sentiva che il luogo d’incontro e di scoperta doveva necessariamente diventare anche luogo creativo; e dunque le due vocazioni dell’operatore culturale, quella di dare la vita ai libri e quella di farli circolare, si intersecavano fino a sovrapporsi, ed il libraio diventava editore pur restando libraio. Filippo Ciuni ha vissuto tutte queste fasi; le ha interiorizzate, esteriorizzate e tramandate come facevano gli antichi Maestri. Questo è stato il senso della sua vita, ed è stato (ed è) il suo grande merito. Perché se è vero che Salvatore Fausto Flaccovio è stato il libraio editore che nella Palermo degli anni cinquanta, sessanta e settanta ha saputo ridefinire l’idea stessa di cultura della nostra città, è pur vero che prima di lui lo fece Filippo Ciuni ed in un’epoca ben più difficile: quella degli anni trenta e quaranta ovvero del fascismo e della guerra. E se non ci fosse stato Ciuni con le sue idee, con le sue realizzazioni, con il suo esempio ed insegnamento, non avremmo avuto Flaccovio, Palumbo, Salvatore Sciascia che lì, in quella libreria di piazza Verdi appresero ed impararono. È un merito, questo, che va riconosciuto a Filippo Ciuni.
Il coraggio di un libraio editore.
La rappresentazione della libreria come luogo di "coltura" e la concezione del ruolo di libraio editore come missione civile di formare il lettore, farlo crescere, educarlo, riflettono la forma mentis di Filippo Ciuni. Non era uno stato d’animo. L’uomo Ciuni era convinto della possibilità di educare il popolo, di educare la nazione; era convinto della centralità della cultura nella realizzazione e nell’esistenza della civiltà. Di conseguenza il libraio editore doveva essere artefice di un progetto culturale, e questo Ciuni fu nell’epoca in cui visse. La sua attività, o meglio, la sua missione si sviluppa negli anni del fascismo. E "Filippo Ciuni era fascista"(10). Era nato a Sommatino, in provincia di Caltanissetta l’8 aprile 1901. Subito dopo il servizio militare si stabilì a Palermo. Aprì una piccola libreria in via dei Normanni nel 1924, successivamente, nel 1926, si trasferì a piazza Bologni e poi, l’anno successivo a piazza Verdi.
Divenne editore nei primi anni trenta pubblicando la collana "Sicula Gens" diretta da Antonino De Stefano. Nel 1938 pubblicò l’insuperato "Dizionario dei Siciliani Illustri" diretto da Rodolfo De Mattei ed ancora oggi valido strumento per chi coltiva la passione della ricerca storica siciliana.
E le "Edizioni Ciuni e Trimarchi" (una casa editrice messinese quest’ultima nel frattempo rilevata da Ciuni) pubblicarono la "Storia della Letteratura" del Cesareo, la "Musa Epica" di Giuseppe Longo, adottata dalle scuole italiane fino al 1965; la "Storia della Filosofia" di Allmayer; e ancora opere di Biagio Pace, Antonino Pagliaro, Ettore Paratore, Luigi Natoli, Von Shlosser, Michele Cipolla, Lauro Chiazzese, Gaspare Ambrosini.
Mentre la seconda guerra mondiale bruciò purtroppo i progetti di pubblicazione di un "Corpus delle tradizioni popolari italiane" in 10-12 volumi curati da Paolo Toschi, etnologo di chiara fama, che avrebbero dovuto vedere la luce con una serie di volumetti di circa cento pagine (idea che ha avuto notevole successo oggi con la Newton Compton di Roma) sulle tradizioni popolari delle diverse regioni d’Italia; e la pubblicazione di una "Antologia Italiana di novelle e lettere" curata dal Sapegno; oltre che traduzioni di opere tolstojane, del "Martin Eden" e di "Fascismo e Gran Capitale" del Guerin.
Di queste opere sono rimasti solo i contratti firmati dagli autori e da Ciuni. Da notare come la pubblicazione del Guerin o anche dello studio sulle tradizioni popolari regionali non fosse in linea con la politica culturale ufficiale del regime.
Del resto il fascista Ciuni ebbe il coraggio di pubblicare durante il ventennio, tra il 1931 ed il 1933, i "Tre Saggi Filosofici" di Benedetto Croce e le "Figure e Passioni del Risorgimento italiano" di Adolfo Omodeo.
E non si creda che queste due opere di antifascisti (ed antifascista era pure il noto critico verghiano Luigi Russo, cugino e principale collaboratore di Filippo Ciuni) non siano più state pubblicate perché le troviamo addirittura nel catalogo editoriale del 1940 insieme ad opere inglesi e francesi che, in quel momento, rappresentavano la cultura dei nostri nemici in guerra. Come definire tutto questo se non come un atto di coraggio civile e culturale che acquista un significato nobile, dignitoso, alla luce dell’adesione al fascismo di Ciuni?
Pure, questo atto di coraggio civile e culturale trova la sua ragion d’essere nella formazione interiore di Ciuni, animato da una passione civile alla maniera mazziniana. Non si deve credere che questo di Ciuni sia una eccezione nel mondo culturale fascista. Si pensi al Gentile ed al Volpe che coinvolsero nelle loro azioni culturali antifascisti come il Solari, Morandi, Mondolfo, Calogero, Rosselli, Chabod, Maturi, La Malfa e così via, gran parte dei quali li ritroveremo in quel Partito d’Azione animato da una forte tensione mazziniana e da un’idea di socialismo non marxista.
Proprio Gioacchino Volpe sarà, con Manlio Sargenti, il presidente del Consiglio d’Amministrazione della società per azioni "Filippo Ciuni Editore s.p.a" rifondata a Roma nel 1942 e nata in seguito al trasferimento nella capitale delle "Edizioni Ciuni - Trimarchi", trasferimento auspicato dal Ministro dell’Educazione Nazionale del tempo, quel Francesco Ercole amico del Volpe. C’è un filo, dunque, che unisce Volpe, Ciuni ed Ercole e che attraversa la cultura fascista coinvolgendo un certo antifascismo di formazione liberale, repubblicano e socialista-liberale; un antifascismo che è pure anticomunista; un antifascismo che si organizzerà in quell’azionismo ideologicamente contiguo ad un certo fascismo(11).
Il fatto è che purtroppo ancora oggi manca uno studio definitivo sulla storia della cultura durante il fascismo, della politica culturale nel ventennio.
Su questi temi pesa ancora il pregiudizio antirevisionista bobbiano e jesiano del fascismo come non cultura, di una assenza della cultura nel fascismo. Anche per questo storie coraggiose come quella di Ciuni restano in ombra oppure non riescono ad uscire da un ambito locale. E invece la storia di Ciuni, il suo coraggio civile e culturale, il suo incontro con Volpe ed Ercole e con Russo, Croce ed Omodeo apre uno squarcio sulla storia della cultura in epoca fascista e lasciano una traccia che - si spera - possa in futuro essere seguita. Di fronte al conformismo culturale di stampo staraciano ed in opposizione ad esso c’è il tentativo di realizzare un progetto di "cultura nazionale"; e c’è il tentativo estremo di contaminare o meglio di rinsanguare il fascismo con apporti e contributi nuovi e diversi; c’è il tentativo culturale di una nuova sintesi da attuare con l’innesto del mazzinianesimo, del liberalismo, del socialismo non marxista; c’è il tentativo di recuperare ciò che il regime aveva perso per strada: sul piano teorico il fascismo si era presentato come un crogiolo volontarista di liberalismo, nazionalismo e socialismo, sul piano pratico il regime soffocò la sintesi fra questi tre filoni della cultura nazionale sacrificandola sull’altare di un conformismo che si rivelò come il punto debole dell’esperienza mussoliniana. Sono ancora da approfondire i rapporti culturali tra fascisti ed antifascisti negli anni del consenso, e sono ancora da approfondire le aspirazioni ed esigenze culturali di quei giovani fascisti che - nell’Italia repubblicana - diventeranno antifascisti. Ma per adesso abbiamo Filippo Ciuni, il suo merito di avere ridefinito l’idea di libreria, libro ed editoria - in una parola l’idea di cultura - in Sicilia; il suo coraggio civile e culturale di avere delineato un progetto culturale arenatosi in uno di quei "porti delle occasioni mancate" di cui era pieno il regime.
Anche per questo il fascismo culturale di Ciuni si stava trasferendo, come quello di altri (da Guttuso a Pasolini a Bigiaretti ed Alvaro), su altri porti: "A Filippo io mi ero rilegato dell’affetto profondo di una volta. In questo inverno egli era venuto tre o quattro volte a trovarmi nel mio rifugio - scrive Luigi Russo partigiano sui monti, alla moglie di Filippo - Avevamo fatto tanti progetti per riprendere la collaborazione di una volta, e gli ospiti a cui io lo presentai, rimasero tutti ammirati del temperamento animoso e della mente veloce con cui afferrava e coloriva i progetti che io appena appena abbozzavo"(12).
In quei progetti vi era ancora la missione civile del libro: educare la nazione per un’Italia migliore. Fallita con il fascismo Ciuni sperava ancora, non demordeva, non si arrendeva. I bombardamenti del ‘43 avevano distrutto il deposito librario di Palermo, un’alluvione del Tevere aveva messo in ginocchio la casa editrice, la guerra civile stava per esplodere violenta e cattiva, ma Filippo Ciuni progettava ancora, con fede, con quel senso della missione che aveva caratterizzato il suo pensiero e la sua azione.
Morirà troppo presto: il 10 settembre 1944, ad appena 43 anni.
"Per conoscere ho l’intelletto, per realizzare ciò che ho conosciuto ho la forza" ha scritto Fichte (La Fede, 1800). Se gli scrittori, gli intellettuali sono coloro che "conoscono", i librai editori sono la "forza" per "realizzare" ciò che gli intellettuali hanno conosciuto.
Oggi viviamo in un tempo in cui non è possibile conoscere o rivedere perché bastano le verità rivelate e i dogmi imposti da una nuova forma di conformismo che alligna la repubblica; viviamo un tempo in cui la "forza per realizzare" è stata bandita.
I librai editori sono scomparsi fra le nebbie, i libri sono diventati oggetti di arredamento e le librerie botteghe di banalità. Il campo delle eccezioni si va sempre più restringendo. Ai pochi rimasti fra le rovine e decisi a cavalcare la tigre contro il tramonto dell’occidente sia d’esempio Filippo Ciuni.
NOTE:
(1) G. Spadolini, Perché non possiamo non dirci siciliani, Il Messaggero, 25 luglio 1992.
(2) G. Falzone, Il Risorgimento a Palermo, Palermo - Sao Paulo 1971, p.57
(3) cfr. in proposito: B. Lo Cicero, L’editoria siciliana nell’800, La Provincia, 13 febbraio 1996. Per una sintesi della storia della Sandron vedi: M. Ingrassia, I Sandron e la Palermo dell’ottocento, La Sicilia, 22 maggio 1999.
(4) N. Tranfaglia - A. Vittoria, Storia degli editori italiani, Roma-Bari 2000.
(5) La lettera è datata: Firenze 20 luglio 1927, indirizzata al Signor Filippo Ciuni, Piazza Bologni 18 Palermo, ed è su carta intestata "Vallecchi Editore Firenze Società anonima. Il Presidente", in calce la firma del famoso editore fiorentino. La lettera mi è stata fornita dal sig. Maurizio Ciuni, figlio di Filippo, che qui ringrazio per il materiale che mi ha fatto consultare per la stesura di questo saggio.
(6) S. Butera, Una rosa dal lunghissimo stelo, in AA.VV., Salvatore Fausto Flaccovio, libraio editore, Palermo 2000, p.33.
(7) N. Aquila, Una storia esemplare, in: Idem, pp.45-46.
(8) F. Gambaro, Quella libreria era la casa della cultura, Giornale di Sicilia, 10 Maggio 2000.
(9) Cito dall’intervista di A. Cangelosi a V. Dall’Oglio, pubblicata sul quotidiano palermitano Oggi Sicilia, il 30 gennaio 2000 con il titolo "Uno scaffale e tante storie".
(10) Cito Roberto Ciuni, figlio di Filippo, che così scrive in una lettera a Dino Grammatico che ringrazio per avermela lasciata consultare.
(11) Cfr., p.es. in proposito: D. Settembrini, Fascisti e Azionisti, carissimi nemici, in Nuova Storia Contemporanea, numero 4/1998.
(12) Cito da una lettera di Luigi Russo a Luisa Saracinelli Ciuni datata: Firenze 29 settembre 1944, conservata da Maurizio Ciuni.
I primi giorni di aprile del 1930 Niccolò Giani fonda a Milano, insieme ad un gruppo di giovani in prevalenza universitari, la Scuola di Mistica Fascista; "Nella gran massa dei nostri colleghi - scriveva Giani - la nostra rivoluzione era considerata soprattutto nelle sue realizzazioni concrete, il lato profondamente spirituale del fascismo sfuggiva del tutto o quasi. Di fronte a tale materializzazione della nostra rivoluzione noi reagimmo(1).
La Scuola (che prese il nome da Sandro Italico Mussolini figlio di Arnaldo Mussolini prematuramente scomparso) si proponeva di "diffondere mediante conferenze e pubblicazioni, i principi informatori della Mistica Fascista e la loro concreta attuazione"(2). "Non cercate altrove - scriveva Giani che diresse la Scuola fino al 1941 - guardate al fascismo, imparate a conoscerlo e lo amerete, studiatelo e diventerà la vostra idea. Né per voi sarà mai una catena ma un vincolo d’amore verso una creazione più grande dell’umanità. Esso sarà per voi e per tutti l’alba di un nuovo giorno"(3).
L’attività dei giovani mistici si incentrava su delle pubbliche riunioni libere a tutti "poiché - affermavano - il Fascismo è apostolato, cui tutti debbono potersi accostare con cuore sincero per sentirne la bellezza ed essere presi dell’altezza della missione che la provvidenza ha affidato al Duce"(4). Ispiratore del gruppo dei giovani della mistica fu Arnaldo Mussolini(5) che con il discorso Coscienza e dovere, pronunciato per l’ inaugurazione dell’ attivita’ del terzo anno della Scuola, fornì ai "mistici" quello che essi considerarono il loro manifesto etico-politico, "lo spirito che vi anima - aveva affermato Arnaldo Mussolini - è in giusta relazione al correre del tempo che non conosce dighe, nè ha dei limiti critici; mistica è un richiamo a una tradizione ideale che rivive trasformata e ricreata nel vostro programma di giovani fascisti rinnovatori. [...] Il problema dei giovani per noi è un problema di formazione salda del carattere e per voi giovani si accoglie nell’unità indissolubile di questo binomio: coscienza e dovere. [...] Il domani deve essere migliore dell’ oggi. Voi, in una parola, dovete essere migliori di noi. Non mi spiace quando vedo in voi dei giudici severi intransigenti di cose e persone. [...] Le questioni di stile anche nei minimi particolari devono avere per voi un’importanza singolare, essenziale. Ogni giovane fascista deve sentire la fierezza della sua gioventù unita al senso dei propri limiti [...] qualunque manchi di stile, sarà sempre fuori dello spirito e fuori dal costume fascista. Le miserie non sono degne del ventesimo secolo. Non sono degne del Fascismo. Non sono degne di voi"(6).
Il culto del Duce, quale fondatore e massimo interprete del fascismo e della sua missione storica, fu posto al centro dell’attività della Scuola di Mistica Fascista. "Ogni vera rivoluzione mondiale - scriveva Giani - ha la sua mistica, che è la sua arca santa, cioè quel complesso di idee-forza che sono destinate ad irradiarsi e ad agire sul subcosciente degli uomini. La scuola, è sorta appunto per enucleare dal pensiero e dall’azione del Duce queste idee-forza. La fonte, la sola, unica fonte della mistica è infatti Mussolini, esclusivamente Mussolini. Forse che ignorando o non conoscendo a fondo il pensiero del Duce si può affermare di essere fascisti? Noi diciamo di no. Che il fascismo non è istinto ma educazione e perciò è conoscenza della sua mistica, che è conoscenza di Mussolini"(7). Nello studio di Mussolini vero e proprio "vangelo del fascismo" i giovani della mistica trovavano tutte le risposte, "solo la Sua parola può dare la risposta esatta e perfetta ai nostri dubbi, può placare le nostre ansie, può diradare le nostre foschie. Ecco perchè i Suoi discorsi e i Suoi atti devono essere il nostro viatico quotidiano, il nostro breviario di ogni giorno, la pronta risposta ad ogni nostra segreta pena. Ecco perchè noi giovani dobbiamo averlo sempre vicino e studiarlo con amore, conoscerlo senza lacune, approfondirlo senza soste. [...] Dubbi e pessimismo, incertezze e indecisioni sono scomparsi quando abbiamo aperto la pagina giusta e abbiamo letto il pensiero preciso del capo. Questa gioia e questa fortuna devono essere di tutti: questo noi vogliamo e per questo dobbiamo arrivare all’ esposizione organica di tutto il Suo Pensiero e di tutta la Sua Azione"(8).
La fede era considerata dai "mistici" uno dei valori principali della militanza politica, Giani "fu soprattutto un fedele ed un intransigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico [...]. Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di compromesso; sul terreno della fede non ammetteva patteggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall’altra parte c’è il brutto, il male, la meschinità"(9). I giovani della mistica si sentivano appartenenti ad un ordine religioso, nella consegna data alla Scuola Mussolini aveva infatti detto loro: "La mistica è più del partito un ordine. Chi vi partecipa deve essere dotato di una grande fede. Il fascismo deve avere i suoi missionari, cioè degli uomini che sappiano convincere alla fede intransigente. È la fede che muove - letteralmente - le montagne. Questa può essere la vostra parola d’ ordine"(10).
Frequenti furono i richiami della Scuola alla necessità di contrastare in ogni sua forma lo spirito borghese: "insorgiamo - scriveva Giani - con tutte le nostre forze contro coloro che vorrebbero inchiodare la Rivoluzione riducendola a vigile e disciplinato guardiano delle loro piccole o grandi ma pur sempre miserevoli fortune, dimenticando che il Fascismo lo si serve e di esso non ci si serve [...]. All’indice i timorosi, i rimorchiati, tutti coloro che nella rivoluzione hanno visto e continuano a vedere solo il carabiniere che deve garantire la loro modesta tranquillità casalinga"(11).
Era secondo Daniele Marchesini "un atteggiamento insofferente di tutto quanto non fosse fanaticamente ortodosso e si opponesse alla realizzazione di un fascismo rivoluzionario. Era [...] polemica condotta con sincerità, onestà e buona fede contro il ‘carrierismo’ e il ‘pescicanismo’, contro un vertice sclerotizzato nella burocratica mentalità delle mezze maniche"(12). I giovani della mistica dovevano formare gli uomini nuovi, gli italiani di Mussolini, "solo quando un valore - scriveva Giani - o un principio si connatura al punto da diventare esigenza inderogabile, cioè stile, esso è storicamente operante. E lo stile, soltanto lo stile è il rilevatore della compiutezza degli uomini nuovi e lo stile distingue realmente il fascista"(13). La mistica doveva rappresentare non una "nozione di cultura", ma un modo di vivere fascista, "non vuole dare della cultura, nè dottrinarismo, ma essa è e vuole rimanere maestra di vita: che tutto torna agli uomini, ha detto Mussolini"(14).
"Siamo dei mistici - affermava Giani al convegno nazionale indetto dalla Scuola nel 1940 sul tema ‘Perché siamo dei mistici’ - perché siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini partigiani per eccellenza e quindi per il classico borghese anche assurdi [...] del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono solo gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo. [...] La storia è e sarà sempre un assurdo: l’assurdo dello spirito e della volontà che piega e vince la materia: cioè la mistica. Fascismo uguale Spirito, uguale a Mistica, uguale a Combattimento, uguale a Vittoria, perché credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, marciare e vincere non si può se non si combatte"(15).
La guerra che scoppiò rappresentò per i giovani della Scuola il banco di prova della loro preparazione, "una rivoluzione - aveva scritto F. Mezzasoma vicedirettore della Scuola - che voglia durare e perpetuarsi nei secoli ha bisogno di collaudare al fuoco della guerra l’ idea dalla quale è sorta e per cui combatte"(16). Nella primavera del 1943 saranno 16 i caduti (cinque le Medaglie d’oro) della Scuola.
Niccolò Giani cadde in Albania il 14 marzo 1941. Alla sua memoria venne conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: "Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il compito di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa di pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l’ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di: ‘avanti Bolzano, viva l’Italia’, veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo valore e amor patrio"(17). La sua morte fu coerente ad un ideale di vita intesa come sacrificio ed eroismo, era l’insegnamento di Arnaldo che ritornava "Essere sempre entusiasti, giovani, pieno lo spirito di gioia, lieti di combattere e lieti di morire, per dare a questo mondo che ci circonda la forma dei nostri sogni e dei nostri ideali"(18).
NOTE:
(1) Libro e moschetto, 20 marzo 1930.
(2) D. Marchesini, La Scuola dei gerarchi, Feltrinelli, Milano 1976.
(3) N. Giani, Aver coraggio, Dottrina fascista, settembre 1937.
(4) ACS, Segr. part. Duce, carteggio ord. N. Giani, 509017, fasc. SMF, programma della Scuola per l’ anno XI.
(5) Cfr. M.Ingrassia, L’idea di Fascismo in Arnaldo Mussolini, ISSPE, Palermo 1998.
(6) A. Mussolini, Coscienza e dovere, in Il Popolo d’ Italia, 1 dicembre 1931.
(7) Generazioni di Mussolini sul piano dell’ impero, estratto dalla rivista Tempo di Mussolini, n. 2 1937.
(8) idem.
(9) F. Mezzasoma, Niccolò Giani discepolo di Arnaldo, in Dottrina fascista, luglio 1941.
(10) D. Marchesini, La Scuola dei gerarchi, cit.
(11) N. Giani, Aver coraggio, cit.
(12) D. Marchesini, Un episodio della politica culturale del regime: la Scuola di Mistica Fascista, in Rivista di Storia Contemporanea, n. 1 1974.
(13) N. Giani, La mistica come dottrina del fascismo, in Dottrina fascista, aprile 1938.
(14) Idem.
(15) N. Giani, Perché siamo dei mistici, in Dottrina fascista, gennaio-marzo 1940.
(16) F. Mezzasoma, Il cittadino della nuova Italia, in Dottrina fascista, febbraio-marzo 1942.
(17) ACS, Segr. part. Duce, carteggio ord., N. Giani, busta 985, fasc. 509017/2, segreteria politica del PNF.
(18) A. Mussolini - F. Belfiori - L. Gagliardi, Arnaldo: la rivoluzione restauratrice, Settimo Sigillo, Roma 1985.
(Questa traccia d’articolo per la "Rivista per le Signorine" di Torino, non fu mai sviluppata né pubblicata).
Femminismo. - La parola è brutta e il fenomeno sociale ch’esso vuol significare non è meno brutto. Ma questa corrente di idee nuove e strane è una reazione, e, come reazione, è condannata a sparire. Certamente, non sparirà senza lasciarsi dietro qualche cambiamento; sarà cambiamento in meglio o in peggio? - Il problema non può risolversi a parole. La signora Luisa Anzoletti che, nella sua conferenza sulla Donna nuova, vorrebbe aver trovato lo scopo, a quanto ella dice, provvidenziale a cui tende inconsapevolmente il movimento femminista moderno, ci presenta però un ben triste quadro nell’esistenza di tante donne che per la necessità della vita vogliono e sanno rinunziare al più dolce e santo conforto: la famiglia. In questa turba di diseredate di affetti io vedo, checché ella ne dica, una piaga sociale, non meno tremenda di quella dei diseredati della fortuna. L’eroismo non è da esigersi nelle masse; e per una società civile, l’accettare, il convalidare, e forse l’imporre tale tremendo sacrifizio è per lo meno un’imprudenza, è lo stesso che serbare una scintilla sotto la paglia.
Dire che la Provvidenza conti su tale fenomeno per rimediare ad un eccessivo accrescimento della specie umana, è secondo me una bestemmia, come il dire che la Provvidenza conti sulla guerra per ovviare allo stesso pericolo.
Ma, ripeto, il problema non è tale da risolversi così leggermente. Solo io mi domando spesso che influenza possono avere tali idee moderne non già sull’educazione intellettuale delle fanciulle, ma sulla loro educazione morale. Oggi si pensa molto alla mente e poco al cuore e alla coscienza, e io penso invece che nelle donne quello che si dovrebbe tentar di risvegliare insieme alle facoltà intellettuali (di cui non si può fare certo a meno) è il sentimento e la coscienza del proprio individuo, della propria responsabilità rispetto alla società e della importanza nell’educazione delle generazioni avvenire. Molti, lo so, ripetono simili cose in tutti i toni, molti parlano delle donne, ma forse nessuno parla energicamente e con buoni e sani risultati alle donne. Nessuno sa dare alle fanciulle il savio precetto del "Nosce te ipsum"; si infarciscono di dottrina, si rendono vane con l’istruzione senza la educazione seria e soda, e si giunge così al risultato di avere degli esseri squilibrati e ibridi che della donna di un secolo fa hanno ancora la vanità piccina, gretta, tutta femminile, della donna avvenire non hanno ancora la serena superiorità, il criterio giusto e retto.
Si è detto che l’intelligenza della donna non sia inferiore a quella dell’uomo, ma di diversa natura. Questo deve essere vero, essendo sotto tanti aspetti la natura dell’uomo dissimile da quella dell’uomo; ma bisogna anche pensare quanto peso di influenza atavica gravi sulla donna. Fino dalle età più remote la donna fu riguardata come un essere inferiore, perché, dove regnava non regnava altro che la forza, la debolezza femminile fu considerata ragione di inferiorità anche morale; né la donna, in quelle condizioni sociali, poteva avere la più lontana idea di ribellione. Era necessità dei tempi.
Oggi regna l’intelligenza, e la donna che s’é avveduta di potere anch’essa pensare, ha chiesto anche la sua parte di sapere, di coltura intellettuale, ha chiesto il diritto di porsi al livello del suo compagno. È necessità dei tempi.
Ma è stata una rivolta improvvisa a cui mancò la preparazione. E per tale cambiamento la preparazione doveva essere lunga. Ora io mi chiedo: è possibile un vero progresso quando per andare innanzi si comincia con un balzo simile? La rivoluzione è veramente un sintomo di progresso, ma quasi sempre dopo la rivoluzione le cose tornano allo stato antico: è sempre tanto forte il partito conservatore! Solo dopo molti tentativi e dopo un lungo lavorio segreto l’evoluzione si compie inesorabilmente, e non v’è conservazione possibile. Ora io non credo che sia giunto questo momento fatale. Esso si prepara soltanto. I nostri figli lo vedranno, lo faranno venire, forse, e i nostri figli debbono nascere da noi. La preparazione, dunque, è nostra.
Poniamoci bene in mente questo: che nel nostro presente è la preparazione dell’avvenire e che a noi tocca adoperarci perché tale avvenire sia ricco di grandi e buone cose. E per noi intendo noi donne, noi madri che vedremo svolgere sotto i nostri occhi e fra le nostre cure quelle vite, risvegliarsi quelle intelligenze, quelle attività che domani possederanno il mondo: i nostri figli.-
Io vorrei parlare parole vive alle fanciulle, che presto vedranno crescere intorno a sé giovane e rigogliosa la vigna sacra, la famiglia. Io vorrei dir loro: badate, vigilate; la vostra anima pura, disposta come cera a ricevere tutte le impressioni, la vostra gioventù lieta, il vostro ardore latente, la vostra piena e forte attività sono tesori che non vi furon dati solo perché ne godeste; con essi vi fu data la responsabilità di usarne a pro’ della società e vi fu data anche la coscienza del vostro valore affinché sentiate la dignità del vostro ufficio e vi teniate alte su tutto e su tutti. Il nemico terribile contro cui difficilmente vi potrete forse difendere, e che intralcerà tutte le vostre migliori opere, è la vanità. La vanità, sia per legge di natura, sia per il falso concetto e la falsa educazione in cui finora è stata tenuta la donna, è quasi connaturata in lei, ed è la sua sventura. È una specie di atmosfera fittizia e deprimente che avvolge tutto quanto riguardi la donna; in lei tutto diventa leggero e vano, financo l’istruzione. Mi direte forse che la donna molto istruita potrà essere tutt’al più pedante. Ahimè; ma, chiedo io, che cosa è la pedanteria altro che un voler fare sfoggio del proprio sapere? e potrà mai fare sfoggio del proprio sapere una mente alta e illuminata che scorga la propria insufficienza dinanzi alla immensità della scienza o dell’arte? L’esser pieni di sé non è forse indizio di leggerezza?
Io voglio l’istruzione nella donna, l’istruzione vasta e profonda, data con criterio e con giustezza di scopo, l’istruzione che svolge l’intelligenza e l’aiuta a giungere da sé dove scuole e maestri non possono più guidarla, in una sfera di serena superiorità morale dove l’anima sia al sicuro da qualsiasi tentazione o da qualsiasi offesa.
Oggi non sono più le sole mura domestiche o le inferriate che possano servir di custodia alla virtù femminile; oggi, che, come disse la signora Bisi, la vita è più intensa e insieme più difficile per tutti, la virtù femminile deve sapersi mostrare nella società e saper combattere e guadagnare palmo a palmo il terreno che la corruzione invadente le contende. Io voglio perciò nella donna la superiorità morale, la piena sicurezza di sé che la faccia grande e santa agli occhi dei figli, che la faccia degna della loro piena, intera fiducia e del loro rispetto, anche quando saranno in grado di giudicare le sue azioni tutte.
Pensiamo ai nostri figli! Lo ripeto a voi, fanciulle che diverrete madri e non sapete ancora la vita, e che non sapete che questa vostra beata e santa ignoranza di oggi, se non divenisse un giorno coscienza illuminata e forte, sarebbe ignavia, sarebbe colpa che cadrebbe (oh la punizione tremenda!) non già su di voi, ma sui vostri figli, su quelli che aspettano da voi la vita del corpo e la vita dell’anima.
Siate come le vergini savie della Sacra Scrittura: mantenete viva la fiamma della volontà e della fede, e aspettate.
Ma la volontà, come tutte le forze, deve essere esercitata per mantenersi, e deve essere esercitata nella lotta più frequente e più difficile: quella con noi stesse. Per potere e sapere comandare bisogna prima sapere e volere ubbidire. Per imporre dunque la volontà nostra ai nostri figli dobbiamo cominciare coll’imporre a noi stesse questa volontà. Essa è la forza creativa dell’uomo, perché chi vuole può: il risultato può essere vicino o lontano, facile o arduo; qualche volta, forse, non sarà raggiunto nella vita: non importa. L’aver fortemente voluto, l’aver tenuto costantemente dinanzi alla mente uno scopo, è già raggiungere un grado di elevatezza morale abbastanza alto; e se dietro a noi non avremo lasciato che l’esempio, l’opera nostra non sarà andata perduta.
E quand’anche la lotta che avremo sostenuta nel segreto dell’anima fosse nota a noi soli, e se nessuno ci fosse grato dei sacrifici compiuti nell’ombra, e se al nostro prossimo nessun bene, neanche quello dell’esempio, restasse in compenso delle nostre sofferenze, tanto più grande ne diverrà tutto ciò che avremo sostenuto e vinto, perché puro da ogni più lieve ombra di vanagloria che potesse offuscare la bellezza del sacrificio.
Sarà grande, sublime per se stesso; tutto ciò che sta da sé, tutto ciò che non si riferisce ad alcuna cosa terrena, tutto ciò che è buono e bello soltanto per amore della bontà e della bellezza, e non per accattare l’ammirazione degli uomini, è santo.
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8 maggio 1908 - Quante sciocchezze scrissi nove anni fa su queste pagine! Avevo ancora troppe illusioni; credevo ancora che noi potessimo aspettare la felicità dal di fuori, tutta, e che ci fosse dovuta, e che dall’amore, almeno, questa dovuta felicità potesse venirci. Forse ora sono già vecchia? Certo, il mio pensiero si è evoluto: so meglio che cosa sia il femminismo; so benissimo, ora, che ogni felicità che non abbia come sorgente principale il sentimento d’amore e di ammirazione per il Bene assoluto, è felicità egoistica e mal fondata, quando non sia addirittura falsa. L’amore darà molto, ma non dà tutto. Bisogna credere all’amore, ma prima bisogna credere in Dio e nella perfettibilità umana; non chiudersi nel proprio guscio, ma aprire dall’anima nostra una finestra molto grande sul mondo, e da questa guardare, sorridere, piangere, tendere, anche, le braccia a qualcuno, e gridare la nostra parola di femministe italiane, e predicare, magari, e farsi gridar la croce addosso, per sopraffare certe voci troppo forti e troppo empie.
18 luglio 1918.- Dieci altri anni di esperienza! - L’amore non è tutto! La simpatia umana non è tutto! - Tutto è vivere per Dio e per la Verità; per predicarla, se si ha voce da insegnarla al prossimo; per la dedizione di sé al prossimo - se si è liberi - per la preghiera sempre e in ogni modo. Gli uomini sono travolti e illusi da troppi errori. - Bisogna amarli tanto, fino al punto di trovare che non è sacrifizio inadeguato dedicare tutta la vita a inculcare in essi il dovere e Dio. - E chi non può, dico, parlare a tutti gli uomini, parli con Dio, e gli chieda di mandare gli operai per la messe.
Tutto è vanità, fuorché fare il bene e pregare. E la vita è bella solo perché - finalmente! - deve finire di condurci a Dio. Non credo che un’ulteriore esperienza possa suggerirmi niente di più vero e più chiaro all’intelligenza. - In questi ultimi sei anni, la mia esperienza si è accresciuta degli elementi più vitali. Ho stritolato il mio orgoglio, in tutti i sensi; mi sono liberata; ho imparato da Rosmini a pensare; ho veduto la guerra.
18 agosto 1919 - Così scrivevo un anno fa! Dopo quattro mesi dovevo vedere partire Antonietta col suo Gesù ... Che cosa potevo ancora provare della vita se non questo distacco, che mi ha staccata dalla vita stessa? - Ecco, ora io non posso più generalizzare, parlando della vita. Per gli altri vi potranno essere varie forme di vita, sempre nel bene. Per me non c’è più che una forma, Il silenzio in Dio, il dovere per piacere a Dio, la gioia (incomprensibile agli altri) di dire in tutto: "Sia fatto di me secondo la tua parola. - Non sono più io che vivo, è Gesù che vive in me".
In questo abisso d’amore e di luce il mio dolore umano diventa una esaltazione, una trasfigurazione di tutta l’anima in Dio. Sia benedetta la volontà di Dio, nel dolore e nella gioia, nella consolazione e nelle tenebre, nella vita e nella morte, nel tempo e nella eternità.
Sergio Caruso, straordinario di filosofia politica presso l’Università degli Studi di Firenze, ha recentemente pubblicato un’interessante opera in due tomi (La miglior legge del Regno. Consuetudine, diritto naturale e contratto nel pensiero e nell’epoca di John Selden (1584-1654), Milano, Giuffré Editore, 2001, pp. 1023) su John Selden, autore con Edward Coke dellaPetition of Rights, interlocutore di Ugo Grozio e amico di Thomas Hobbes. Si tratta di un ampio e approfondito lavoro di ricerca iniziato nel 1982 presso la British Library di Londra e il fondo Magliabechiano della BNC di Firenze, i cui risultati, come il titolo suggerisce, tra l’altro, mettono in evidenza come la migliore legge del regno sia la consuetudine che, in Selden, assume valenze etico-politiche più che giuridiche.
Selden influenzò la cultura inglese del suo tempo e la sua fortuna fu registrata anche in America. J. Locke lo definì "dotto e giudizioso" (p. 894) e nel Settecento le opere di Selden furono lette dagli studiosi francesi Leclerc e Barbeyrac, dagli enciclopedisti Diderot e d’Alembert; in Germania da Pufendorf; in Italia da Vico, Maffei, Ansaldi, Finetti, Longano (p. 915-935). Al contrario, rileva Caruso, il silenzio degli studiosi italiani contemporanei non viene spiegato se si considera che le sue opere non sono affatto irreperibili o "noiose".
Nato in piccolo sobborgo di East Terring, nella contea del Sussex, nell’Inghilterra meridionale, John Selden era figlio di uno small farmer, appartenente alla yeromanry, i piccoli possidenti con una rendita annua di almeno quaranta scellini anche se, tra il Cinque e il Seicento, la yeromanry era una classe in crisi. Frequentata la grammar school e - grazie all’aiuto di alcune persone - l’Università di Oxford, fu ammesso all’Inner Temple, una delle quattro corporazioni giuridiche; nel 1607, infatti, scrive la tesi di abilitazione Anaelecton Anglo-Britannicon che costituisce la prima delle sue opere (p. 436). Negli anni 1607-1610 compone Janus anglorum, Jani anglorum facies altera e England’s Epinomis una sorta di enciclopedia storica delle istituzioni. Selden è consapevole che "la storia della costituzione inglese è una storia di scontri tra raggruppamenti d’interessi […] e dunque storia dei punti di equilibrio di volta in volta raggiunti e convenuti tra quelle forze" (p. 454).
Selden incarna la "sapiente mescolanza di gallantry e cautela, audacia e silenzi, coerenza morale e prudenza politica" (p. 107); la sua personalità si distinse per l’arte della diplomazia interpersonale e l’arte di "navigare di bolina" "seguendo la rotta che fa col vento il minimo angolo possibile" (ivi). Proprio nelle pagine di uno testi più importanti di Selden, Table Talk, egli spiega agli amici quando conviene parlare e quando tacere; una sorta di manuale che non ha nulla di machiavelliano ma, piuttosto, rappresenta un insieme di accortezze politiche di difesa e non protese alla conquista del potere.
L’infanzia e la giovinezza di Selden coincidono con un momento felice per l’Inghilterra caratterizzato da tutto un fermento culturale voluto da Elisabetta I ma anche da controversie religiose. In campo religioso, la sovrana fu sempre decisa a colpire chiunque attentasse al carattere nazionale della Chiesa inglese. Era questa la teoria detta erastianismo - dal nome grecizzato del medico e teologo svizzero Thomas Liebler (1524-1583) - pienamente condivisa da John Selden anche se in lui il termine si svuota di ogni forma sanguinaria. L’erastianismo "gradito alla Corona per ragioni politiche" fu apprezzato in Inghilterra anche da parecchi uomini di legge e di lettere per ragioni culturali. Ma se Selden fu erastiano politicamente fu arminiano spiritualmente. Jacob Harmensen aveva elaborato un calvinismo temperato e meno rigoroso poiché, rispetto a Calvino, riteneva che la misericordia divina "mirata alla salvezza di tutti, si lascia condizionare dal libero comportamento di ognuno" (p. 160). Quello di Selden fu un arminianesimo "inglese", i cui aderenti, chiamati "latitudinari", più che la "via media" predicavano la "via lata": "un modo di intendere la fede cristiana nella cui larghezza (latitudo) ci fosse spazio per tutti gli adiaphora o differenze irrilevanti" (p. 163).
Selden entrò giovane nella Società degli Antiquari dove si guadagnò un grande rispetto. Egli aggiunse alla conoscenza delle lingue classiche - greco e latino - le lingue sacre e l’ebraico. La sua reputazione sarà tale da essere considerato alla fine della sua vita il più erudito degli Antiquaries. Si trattava di una associazione di "Studi Storici", fondata nel 1572, i cui membri si riunivano una volta la settimana per discutere questioni archeologiche ma anche problemi legati alla storia delle istituzioni. In verità, osserva Caruso, vi erano tre tipi di antiquari: quelli inflessibili - come Selden - nella ricerca documentale; quelli compiacenti a fornire argomenti storici a favore della compravendita di nobiltà in generale o per mettere in luce benemerenze di certe famiglie, e, infine, i "veri e propri falsari al soldo degli arrivisti" (p. 123). Nel 1614 e, poi, ampliata, nel 1631, Selden pubblica Titles of Honour,una ricerca storico-giuridica di argomento araldico. La pubblicazione nasceva in un periodo in cui si assisteva a una certa inflazione dei titoli nobiliari; i titoli più importanti venivano esibiti o rivendicati mentre quelli medio-bassi risultavano più facilmente commerciabili (p. 469). E lo stesso Giacomo I, nel disperato bisogno di denaro, aveva cominciato a dedicarsi alla vendita dei titoli. Con Titles of Honour Selden "mette in guardia contro l’adulazione, il servilismo e l’idolatria di cui certi titoli meramente umani, vengono troppo spesso circondati" (p. 472). L’opera, sottolinea Caruso, è principalmente storiografica con rilevanti aspetti sistematico-dottrinali. Nelle prime pagine il pensatore inglese vede, bodinianamente, l’origine dello Stato dall’unione delle famiglie. Egli, pertanto, ammette l’esistenza di una monarchia paterna all’interno delle prime famiglie ma, contrariamente a ciò che sostenevano i fautori dell’assolutismo, afferma che "il primo ad elevarsi fu uno stato popolare: una democrazia". Tale riflessione viene chiarita nella seconda edizione del 1631 nella quale l’autore mette in dubbio l’antecedenza cronologica della democrazia affermando che la monarchia appare comunque la forma di governo più antica. (p. 481).
Nel periodo giacobita sir Edward Coke rappresenta, insieme a Selden, una delle figure più importanti della vita politica inglese e uno dei più autorevoli esponenti degli studi parlamentari. Speaker della House of Commons, Coke ebbe il merito di contrapporre "al divino mistero della prerogativa regia", il "mistero laico della common law" (p. 66). Coke proclamò una limitazione della prerogativa regia affermando che il re non poteva far diventare illecito ciò che prima non lo era. La common law risultava immodificabile non solo da parte del re, ma anche del Parlamento il quale, a sua volta, non poteva che limitarsi a interpretarla. A Selden, invece, spetterà il compito di far prendere coscienza al Parlamento del suo carattere di "rappresentanza bicamerale della nazione intera, nel pubblico interesse" (p. 74).
Dopo la Riforma aveva preso forma un vero e proprio diritto ecclesiastico tipicamente inglese. Selden sarà critico nei confronti di tutte le corti ecclesiastiche sia per le funzioni penali di tipo repressivo, sia per qualunque tipo di giudizio; al vertice dei tribunali ecclesiastici vi era, infatti, la court of High Commission che estendeva la sua competenza in materia di offese morali "fino a comprendere la manifestazione d’idee avverse o difformi rispetto alla religione di Stato" (p. 85). Selden si sentì sempre uno schietto protestante e non nascose mai la sua avversione per la Chiesa di Roma. Egli, però, non dubitò mai dell’importanza delle Sacre Scritture e della Rivelazione in esse contenuta: "sia l’Antico che il Nuovo Testamento erano intesi da lui come una sorgente di verità - non solo morali, ma anche storiche - da intendere alla lettera" (p. 149). Selden assunse le Scritture come fonti primarie di valore incontestabile anche se riteneva che ogni cristiano aveva il diritto-dovere di leggere la Bibbia in assoluta autonomia "con l’ausilio della ragione e senza soggiacere ad alcuna interpretazione autoritativa" (ivi).
La Chiesa, per Selden, "non ha giurisdizione su nulla, né può rivendicare diritti di sorta o competenze riservate sul terreno civile; neppure su quelle cose che le sono tradizionalmente dovute […] e neppure su quelle materie che venivano ritenute di competenza delle corti ecclesiastiche (pp. 155-156). Lo stesso matrimonio è, per il pensatore inglese, un contratto di diritto civile e le parole del Vangelo "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" stabiliscono un limite che deve essere definito dalla ragione umana - ragione artificiale - del giurisperito e, prima ancora, dalla ragione naturale "mix di diritto naturale e semplice ragionevolezza" (p. 156).
Dopo Elisabetta, Giacomo I riconosce che ogni monarca deve rispettare le leggi fondamentali del Regno benché "fornito di prerogative divine". Egli, scrive Caruso, "parlava di un "patto" col popolo, cui viene promesso di rispettare le leggi fatte per esso", ma si trattava di una legge tutta interna alla coscienza del re" (p. 57) e, cioè, di un’osservanza insindacabile e insanzionabile. Il sovrano ricorreva a un’immagine di un patto tra Dio e Noé nel quale Dio in persona stava per il re e Noè simboleggiava il popolo. Tali pretese, osserva l’autore, discordavano da quei paradigmi giuspolitici consolidati nella tradizione inglese ed espressi nelle opere di Giovanni di Salisbury, di Hooker, di Glanville, Bracton e Fortescue.
Caruso sottolinea come Giacomo I avesse commesso almeno tre errori nella sua azione di governo: sul piano politico, ideologico e personale. Sul piano politico poiché il sovrano non si rese conto che la Camera dei comuni era insofferente verso ogni tipo di dipendenza; sul piano ideologico perché portò avanti la formula della rivendicazione del diritto divino che, evidentemente, allarmava i membri del Parlamento inglese; e, infine, sul piano umano perché "adottò uno stile megalomane e talora arrogante" (p. 90). Da tutto ciò si possono capire le ragioni del lungo conflitto che nel periodo giacobita si ebbe tra la "prerogativa" regia e i "privilegi" del Parlamento. Le pretese di diritto divino - sia del re, ma anche del papa – venivano interpretate dal pensatore inglese come "giochi di prestigio per tirar fuori denaro e potere ai laici" (p. 159).
Nel 1614 Giacomo I scioglie il Parlamento dando il via al governo provvisorio di George Villiers, poi duca di Buckingham. In questo periodo, Selden pubblica De laudibus legum Angliae di Fortescue, un’opera nella quale il dominio politico e regale veniva considerato quello "dove il re non può governare che sulla base di leggi approvate dal Parlamento, di contro al governo regale tantum, dove la monarchia scivola nel dispotismo" (p. 175).
Nel 1617 Selden dà alle stampe The History of Tithes - una delle più approfondite trattazioni storico-giuridiche - nella quale egli sostiene che le decime non potevano essere un’istituzione divina anche se non trae egli stesso tale conclusione ma si limita a suggerirla (p. 537). Egli accusa il clero di essere una classe oziosa e ignorante che affida il suo potere a simboli esteriori privi di una vera cultura. Convocato di fronte al Privy Council, alla presenza di Giacomo I, l’autore cercò di sostenere che il fine del suo libro era quello di rafforzare la legittimazione delle decime producendo argomenti diversi da quelli insostenibili di diritto divino. Il sovrano "fece finta di crederlo" e tutto finì con la proibizione del libro e la distruzione della prima tiratura. Tale censura, osserva Caruso, paradossalmente, andò a vantaggio di Selden poiché le polemiche che seguirono, piuttosto che danneggiarlo, andarono a beneficio della sua carriera.
Nel 1617 egli scrive Mare clausum pubblicato solo nel 1635 dopo ampie modifiche, in risposta al libro di Grozio Mare liberum. Mare clausum rappresentava "un’astuta miscela di giusnaturalismo e storia, di ragione ed erudizione, di analisi etico-giuridiche e di realismo politico" (p. 621). Lo scontro tra i due pensatori testimoniava il conflitto di interessi tra l’Olanda - grande potenza navale - e l’Inghilterra che aspirava a ricoprire quel ruolo. Secondo Grozio è irragionevole, impossibile "appropriarsi del mare aperto, perché questo, a differenza della terra, è per sua natura indefinito e naturalmente abbondante" (p. 610). Fu Giacomo I a decidere di affidare proprio a Selden - quello stesso intellettuale che era stato portato davanti al Privy Council - il compito di difendere gli interessi inglesi affermando, contro Grozio, l’idea del dominium maris; il tutto però con grande rigore logico e senza contraddizioni poiché Grozio era il più grande giurisperito di quel secolo. Ma l’imminente fine della tregua di Anversa e la guerra dei Trent’anni, scoppiata nel 1618, spinsero il sovrano inglese a non continuare su quella polemica che finirà senza neanche cominciare.
Gli anni 1617-1646 sono caratterizzati da tutta una produzione ebraista: Selden pubblica Of The Jews in England - nel quale affronta il ruolo degli ebrei nel prestito a interesse - e i saggi storico-legali sul problema delle successioni. Tra questi scritti va menzionato il De jure naturali et gentium juxta disciplinam Hebraeorum opera nella quale l’autore esprime non solo la concezione ebraica del diritto naturale ma offre un importante contributo filosofico alla storia del diritto (p. 661). Qui l’autore ritiene che il diritto naturale, per essere definito "diritto", deve essere un comando: una legge deve essere coattiva e, pertanto, deve essere percepita dal destinatario come sanzionabile (p. 678). Nel 1646 pubblica Uxor Hebraica, un’ approfondita trattazione in tre libri sul diritto matrimoniale degli antichi israeliti con particolare riguardo allo status di moglie, ai casi di ripudio, alle forme di divorzio (p. 729).
Con il sostegno di alcune famiglie aristocratiche Selden entrò come deputato nella Camera dei comuni: due volte sotto Giacomo I e poi sotto Carlo I, infine, alla vigilia della Rivoluzione, come membro del gruppo moderato. Negli anni 1621-1649, di intensa battaglia contro l’assolutismo, egli sarà sempre in prima fila occupandosi, in particolare, della rivendicazione dei privilegi dei Comuni, della verifica dei poteri e autonomia dell’ordine del giorno.
Selden riteneva abusato il principio secondo cui Salus populi suprema lex esto. Esso era stato impiegato ora a favore dell’assolutismo regio e dell’arbitrio delle corti, ora contro l’assolutismo e a favore del consenso.
Nel 1621, Giacomo I pronuncia un discorso con cui definisce i privilegi del Parlamento una concessione della Corona. Fu allora che le due Camere decisero di commissionare a Selden un expertise storico-legale, al fine di replicare al re. Selden dimostrò che quei privilegi erano originari anche se ammetteva che esistevano prerogative della Corona. Nonostante tale precisazione il pensatore inglese venne arrestato insieme a quei membri della Camera dei Comuni che erano considerati responsabili della protesta. Si trattò, specifica Caruso, di misure dimostrative definibili né più né meno che arresti domiciliari. A quelle vicende seguì, il 6 gennaio del 1622, lo scioglimento del Parlamento. L’esperienza del carcere accomunò Selden a sir Francis Bacon anche lui membro della Società degli Antiquari, anche lui avvocato e membro della Camera dei Comuni. Come deputato Selden affermò il primato della legge e i diritti del Parlamento contro le pretese assolutistiche della Corona. Egli sostenne la battaglia per l’Habeas Corpus; una battaglia senza successo poiché solo dopo la sua morte il testo verrà ratificato da Carlo II.
In riferimento ai pretesi privilegi del re, l’autore dichiarava che "a King that claimes Priviledges in his owne Kingdome […] is just as a Cook" (p. 215). Dunque, come Giacomo I amava paragonare il suo rapporto con il popolo come quello tra Dio e Noè, così Selden paragona l’ufficio del re a un ruolo servile: quello di un cuoco. Il re non era che il servitore dello Stato.
Dopo gli arresti nel 1621 per ordine di Giacomo I, Selden fu rinchiuso in varie prigioni dal 1629 al 1631, sotto Carlo I, per aver collaborato con Coke alla Petitions of Rights. Carlo I, figlio di Giacomo, salì al trono nel 1625. Nuovi cambiamenti si registravano nella vita politica inglese poiché si andavano sempre più delineando due partiti: uno del re e uno del Parlamento. Di quest’ultimo facevano parte, tra gli altri, Selden, Coke, Diggers, Elliot, Pym. Nel 1625 Carlo I scioglie il suo primo Parlamento ma per esigenze politico militari è costretto a convocarne un secondo nel febbraio del 1626. La nuova Camera dei Comuni accetta di votare sussidi e crediti di guerra ma decide anche di farne una legge vigente solo al termine della sessione parlamentare (pp. 221-222). Con tale strategia il Parlamento evita di farsi sciogliere dal re; al tempo stesso esso prepara un’inchiesta sul fallimento della spedizione di Cadice, procede all’impeachment di Buckingham. Dinanzi a tutte queste tattiche il sovrano si dice costretto a scogliere il Parlamento ma, sottolinea acutamente Caruso, finisce per rimanere prigioniero del Parlamento poiché, così facendo, resta ancora senza sussidi.
Nel 1628, Selden pubblica l’opera Marmora Arundelliana nella quale illustra e commenta più di quattrocento pezzi tra busti, statue e tabelle marmoree appartenenti al conte di Arundel che aveva raccolto in Grecia e in Italia tali antichità e aveva ora chiamato Selden per catalogarle e interpretarle. Il 17 marzo 1628 si assiste alla prima riunione del terzo Parlamento; la Camera dei Comuni ha tra i suoi membri gli intellettuali più importanti: Selden, Coke, Pym che portano il dibattito ad alti livelli. Fra il 1628 e 1629 Selden interviene sui principali argomenti politico-costituzionali: garanzie di libertà, habeas corpus, immunità parlamentari, privilegi del Parlamento, tassazione, tutte questioni che confluiscono nellaPetitions of Rights (p. 234).
Selden affermava che perfino l’antica costituzione poteva essere modificata dal Parlamento; con ciò egli non voleva certo modificare la Magna Charta ma voleva solo sottolineare che ciò sarebbe stato possibile. Il principio assolutistico e bizantino Quod principi placuit legis habet vigorem - al quale si erano ispirati Giacomo I e Carlo I - pertanto, andava capovolto affermando che solo quello che piace al Parlamento ha forza di legge: "ogni volere del principe è legge, in quanto il popolo ha conferito a lui e trasferito su di lui ogni sua autorità e potere, per mezzo di una legge" (p. 521).
La Petition conteneva alcune disposizioni importanti: che il re non poteva imporre tasse senza il consenso del Parlamento; che nessuno poteva essere perseguitato o sottratto ai suoi giudici naturali; che il re non poteva "acquartierare nelle case di privati cittadini soldati di terra e di mare" (p. 243). Carlo I sanzionò l’Atto dei diritti, sciolse le Camere (10 marzo 1629) pubblicando un manifesto nel quale spiegava le basi del suo governo. Seguirono altri arresti: Selden venne accusato di "espressioni sediziose" e fu rinchiuso nella torre di Londra e liberato, in seguito, solo grazie all’aiuto di influenti amici.
Nel 1635 Selden dà alle stampe il Mare clausum che in un anno ebbe almeno cinque edizioni. "Come inglese e come patriota - scrive Caruso - era preoccupato della sfida olandese" (p. 270); l’Olanda non voleva riconoscere alcuna validità all’ordinanza del 1609 che la escludeva dal pescare gratis lungo le coste inglesi e scozzesi. Selden riordina le sue meditazioni del 1619 e pubblica la sua risposta alle tesi di Grozio. Tale opera mise Selden in ottima luce tanto che il re gli propose importanti cariche come quella di Lord Guardasigilli che rifiuterà per vari motivi: morali (cioè per fedeltà ai propri valori); psicologici (per il risentimento) e politici (nel senso che pur essendo un moderato egli non vuole trovarsi, nel momento finale dello scontro tra Corona e Parlamento, dalla parte sbagliata). Egli accetterà solo la carica di responsabile degli archivi di Stato più consona ai suoi interessi (p. 346).
Senza Parlamento la situazione editoriale peggiorò notevolmente: per decreto della Star Chamber la censura divenne preventiva. Selden riteneva, invece, che si dovesse poter leggere di tutto anche nella sfera della religione. Fu così che alla fine degli anni trenta nacque il Tew Circle grazie alla sensibilità di Lord Falkland, John Hales e W. Chillingworth. Nel Circolo cominciarono a riunirsi "gentiluomini colti e aperti, generalmente latitudinari" (p. 285) che prediligevano argomenti sul rapporto tra politica e religione. In questi stessi anni Richard Milward (1609-1680) segretario e amanuense di Selden, comincia a trascrivere i pensieri del suo padrone - riferiti al periodo 1634-1654 - sugli argomenti più vari che, nel loro insieme, costituiranno il famoso lavoro Table Talk (p. 758).
In esso il lettore trova analizzate alcune categorie sociali del tempo: clero, autori di libri, Lord. Selden diffida dei parroci affermando che il ministero divino non è altro che un mestiere che, certo, non si può improvvisare. Egli consiglia al "povero laico" di smettere di credere a tutto quello che gli uomini di Chiesa dicono e, dall’altro lato, consiglia ai preti di smettere di "ingannare i laici" se non vogliono "pagarla cara" (p. 306). Se questo è l’attacco ai ministri della Chiesa, Selden accusa i Lord di recente creazione di vivere nell’adulazione "nella posizione meno favorevole per assumere coscienza di sé e del mondo che li circonda" (p. 309). In Table Talk emergono le due polarità concettuali di Selden: funzione ed essenza; fede e ragione; emerge un Selden antropologo - che consiglia ai politici a non sottovalutare mai l’human invention (p. 782) -; psicologo dell’ipocrisia umana e delle umane paure e sociologo ante litteram (p. 788).
Particolarmente rilevante è lo studio del rapporto tra Selden e Hobbes. Entrambi lavoravano sull’idea di legge di natura come espressione della ragione naturale; ed è facile, osserva Caruso, pensare che, entrambi erastiani, si impegnarono in accanite discussioni di argomento politico religioso. Hobbes certamente condivise la dura critica all’ignoranza del clero; l’idea che nelle verità cristiane non c’è niente da analizzare e niente da dedurre. L’analisi attenta dei due pensatori inglesi mostra, secondo l’autore, una certa influenza seldeniana su Hobbes anche per alcune convergenze di idee e principi tra cui: l’erastianismo politico; il razionalismo anglicano (avverso nel metodo alla tradizione filosofica degli scolastici) e, infine, l’autonomia naturale degli individui (p. 316). Una differenza rilevante viene registrata in termini di contratto poiché in Hobbes il sovrano è concepito come "terzo non contraente", in Selden, al contrario, il monarca è parte del contratto (p. 829). Selden, pertanto, reinterpreta l’idea di patto in termini laici e utilitari in modo che la figura del re risulti desacralizzata (p. 831).
Il "breve Parlamento" convocato dopo undici anni durò, come il suo stesso nome suggerisce, solo poche settimane (13 aprile - 15 maggio 1640). Il re convoca nuove elezioni dalle quali verrà fuori il più lungo e combattivo Parlamento della storia inglese: il Long Parliament. Tra gli argomenti più dibattuti da questo Parlamento vi fu quello in materia di organizzazione ecclesiastica. Nel 1641 i vescovi della Camera dei Lord vennero espulsi, si venne a formare un partito radicale che propugnava l’abolizione completa dell’episcopato. Selden affermerà che "i vescovi stanno al basso clero come l’aristocrazia sta al popolo; l’episcopato è l’aristocrazia del clero" e pertanto c’è bisogno dei vescovi in un regime monarchico come c’è bisogno di aristocrazie che medino il rapporto dei sudditi con il re (p. 332).
Il tema dei privilegi parlamentari fu, in parte, trattato da Selden nel 1642 nell’opuscolo Priviledges of the Baronage of England e, certamente, nel Table Talk. Egli considera le leggi, sul piano giuspolitico, un contratto fra re e popolo: "nel contrattualismo seldeniano solo il re, finché regge il contratto, è in un certo senso "sovrano" fornito per legge di poteri superiori a quelli di chiunque altro" (p. 367). Il Parlamento è l’organo rappresentativo del popolo intero ma Selden diffida del popolo: "idea vaga e pericolosa" tanto che preferisce parlare di sudditi.
Il 1643 è l’anno di lutti per l’Inghilterra; la guerra civile assume l’aspetto di lotta fra royalists e roundheads cioè, fra cavalieri sostenitori del re e puritani. Selden è ostile alla guerra civile ma finisce per elaborare una teoria della rivoluzione. C’è una guerra civile e bisogna scegliere il male minore: è meglio che stravinca il Parlamento piuttosto che il re!(p. 374). Il popolo può prendere le armi contro il sovrano quando il contratto è infranto. Ma chi stabilisce la rottura del patto? Egli ritiene si possa prendere a modello il duello: esso è lecito quando non esistono vie legali per raddrizzare un torto. Ma il costume autorizza i sudditi a un duello contro il sovrano? Scrive Selden a tal proposito: "Though there be non written law for it, yet there is custom, which is the best law of kingdom" (p. 377). Il costume, dunque, è la migliore legge del regno ma: "la prescrizione d’impugnare le armi contro un re fedifrago non è una common law" (p. 378) nel senso stretto degli avvocati. Si tratta piuttosto, spiega Caruso, di "costumanze" che trascendono e fondano l’ordinamento in quanto "politico".
Al duello egli aveva dedicato già nel 1610 un’opera dal titolo Duello or single combat opera che offre spunti di critica sociale e giuridico-politica. Il duello è una istituzione sociale espressione di un éthos che giunge al presente dal passato ( p. 456). Il codice cavalleresco aveva la funzione di considerare gli uomini uguali, sia moralmente che materialmente, proprio nell’occasione del duello. E le stesse Scritture, del resto, non escludono in certi casi il ricorso alle armi. La "santità" del duello stava, secondo Selden, nell’idea che i conflitti relativi alla parola data dovevano potersi risolvere in modo rituale (p. 465).
Alla morte di Pym, "testa pesante della rivoluzione", la leadership passa nelle mani di Oliver Cromwell. Selden è probabile che diffidasse di quella intransigenza con cui Cromwell si opponeva a ogni prospettiva di riconciliazione e diffidasse anche di quelle simpatie presbiteriane. Ma la nuova leadership assunse un atteggiamento opposto: "all’intransigenza politica affianca una larga apertura sul piano religioso". Tale cambio di rotta gli farà guadagnare il favore e l’interesse dell’anziano Selden. Nel 1645 questi entra nella Commissione ristretta di dodici persone alle quali il Parlamento demandava la riorganizzazione dell’Ammiragliato cioè il complesso di istituzioni civili, militari, amministrative e giudiziarie.
Alla esecuzione della decapitazione di Carlo I Selden non volle prendere parte nonostante egli avesse sostenuto che ci sono circostanze in cui, rotto il contratto tra principe e sudditi, la decisione è affidata alle armi (p. 409). Egli non si lasciò mai andare a esplicite esaltazioni di Cromwell. Il suo realismo, osserva Caruso, la sua prudenza di uomo settantenne, lo spinsero al silenzio. Nel 1651 Cromwell promulga il Navigation Act diretto contro l’Olanda. Ancora una volta emerge il sentimento patriota di Selden che lascia che il suo scritto del 1635 abbia un ulteriore diffusione e, lui stesso, criticato dalla pubblicistica olandese, risponde nel 1653 con le Vindicae, ultimo scritto pubblicato in vita.
Tra il 1650 e il 1655 Selden dà alle stampe un’opera monumentale De synedriis continuando a mostrare il grande interesse per la storia delle istituzioni d’Israele in epoca biblica. Qui l’autore, soffermandosi sul periodo mosaico, vede nella suddivisione della terra di Canaan fra le dodici tribù, l’origine e la legittimazione del potere popolare. Ciò, però, osserva Caruso, non vuol dire che la democrazia è per Selden il regime originario. L’esistenza di un potere popolare non coincide con il governo del popolo ma con l’esistenza di limiti invalicabili da parte di qualunque potere sovrano (pp. 737-738). Il pensatore inglese si muove sul piano logico e non cronologico senza volere accordare alla democrazia un primato. Egli si mostra favorevole alla monarchia costituzionale consona alla tradizione politica di un popolo, come quello inglese, "amante della libertà" (p. 819). Le critiche che egli mosse a Giacomo I e a Carlo I non riguardarono mai la monarchia in quanto tale ma furono sempre rivolte agli abusi, all’assolutismo.
Il lavoro di Sergio Caruso ha il merito di colmare la lacuna della storiografia italiana nei confronti di questo grande pensatore inglese. I due pregevoli tomi rappresentano la più completa e sistematica ricerca che sia stata mai pubblicata in Italia e in Inghilterra. L’autore ha corredato il secondo tomo di una ampia bibliografia che raccoglie la letteratura critica o secondaria e quella coeva o primaria utile a quanti volessero continuare non solo nello studio del pensiero di Selden ma anche del periodo storico in cui egli visse e operò. Selden, come lo stesso Caruso evidenzia, ha una sua modernità registrabile nel rifiuto dei luoghi comuni di matrice scolastica; nel ripensamento sulla natura umana in termini diversi dall’aristotelismo cristiano; nella sua "enfasi sulla volontà come ingrediente indispensabile di ogni normatività" (pp. 838-840); nella sua capacità di impiegare parole e di evocare immagini; nell’essere, in una parola, fautore della laicità dello Stato e della cultura.
Gli scritti di Angelina Lanza (1879-1936) offrono brevi, intensi flash sulle vicende storiche e sociali del suo tempo. Gli eventi drammatici della propria vita e la profonda Fede l’avevano portata a guardare con distacco gli avvenimenti storici anche a causa di tragiche coincidenze, come la fine della guerra che si traduceva in motivo di grande tristezza familiare: "4 novembre […]. La data della vittoria - scriveva nel suo Diario spirituale - ma anche la data della malattia di Antonietta"(1). La morte della figlia(2) - annotava nel Quaderno di pensieri (1898-1918), in una traccia di articolo sul Femminismo che per la prima volta viene pubblicato in appendice al presente lavoro - la faceva riflettere sull’importanza del distacco dalla vita tanto da farle dire di non potere più generalizzare sull’argomento e di avere ormai solo una forma di vita: "il silenzio in Dio, il dovere per piacere a Dio"(3).
I cenni alla guerra ci svelano il dolore per i caduti, l’amor di patria ma anche la profonda pietà verso il nemico: "Anche i nemici - scrive la Lanza ricordando un pensiero di Antonietta - sono uomini e soffrono e combattono con fede per il loro paese"(4).
Spesso una lettura le dava la possibilità di meditare sulle drammatiche piaghe della società moderna come quando, nel settembre del 1935, un anno prima della morte, rilegge La Capanna dello zio Tom, libro che aveva conosciuto per la prima volta da bambina. A distanza di tanti anni il romanzo di Harriet Beecher Stowe - autrice, a suo avviso "cattolica", "tanto è il vero e profondo spirito del Vangelo che anima tutto il libro" - le sembrava un inno contro la schiavitù. In quel romanzo ella vi trovò una critica acerba contro i pastori protestanti che prendevano a testo la Bibbia per giustificare la schiavitù e nei protagonisti Evangelina e Tom vi trovò, come ella scrive, "due anime che si offrono vittime per liberare il loro paese dall’orrore della schiavitù"(5), due anime, una appartenente alla classe degli oppressori, l’altro a quella degli oppressi.
Dalle riflessioni di Angelina Lanza si desume una concezione della realtà storica non completamente autonoma ma che ha un intrinseco rapporto con la Provvidenza divina; una storia che - come affermava Sant’Agostino, autore caro alla scrittrice palermitana(6) - è retta dalla Provvidenza superiore che ha nel Cristo l’alfa e l’omega, il significato ultimo(7). La Lanza riprende tale concezione agostiniana e vichiana(8) della storia, secondo cui il mondo delle nazioni non si può intendere se non in rapporto all’ordine provvidenziale e alla storia ideale eterna(9). Nella lotta tra bene e male, pertanto, quest’ultimo non avrà mai peso sul fine dei fini poiché la ragione storica è la costante tensione degli uomini verso il bene.
Ella cercava di interpretare tutti gli eventi politici o sociali alla luce del messaggio evangelico. In pieno fascismo, ad esempio, non troviamo giudizi o prese di posizione; una sola volta, nel suo Diario spirituale, riferisce che le parole di Mussolini sul riarmo le avevano dato da pensare(10) ma che meditare su tali cose significava per lei deconcentrarsi dal suo cammino spirituale convinta che le distrazioni "mondane" e il troppo parlare mal si confacevano con una vita dedicata a Dio(11). Dai suoi scritti, invece, emergono più volte sintetiche e intense critiche alla potenza sovietica. Le drammatiche notizie che apprendeva sulla vita politica e sociale russa la spingevano a pregare Dio affinché le nazioni cattoliche fossero liberate dal pericolo del comunismo. La "Voce"(12) la rassicurava e le diceva che le "lordure" ammassate dagli uomini sulla terra erano talmente tante che sarebbe stato indispensabile che le colpe fossero espiate e che "un immenso incendio", con la sua grande opera distruttrice, finalmente ricostruisse una terra di pace e di ordine(13). Già nel 1899, ella, nonostante dichiarasse di non considerare le rivoluzioni "veramente sintomi di progresso" poiché "quasi sempre dopo […] le cose tornano allo stato antico"(14) a causa della forza del "partito conservatore", finiva per affermare che l’evoluzione, e dunque il progresso, dopo molti tentativi e dopo "un lungo lavorio segreto […] si compie inesorabilmente, e non v’è conservazione possibile"(15).
La lotta, l’antagonismo, il conflitto, diventavano fattori distruttivi ma necessari per l’avanzamento sociale e umano. Ed è l’eterogenesi dei fini, come azione costante e interna all’uomo che lo spinge ad elevarsi e realizzarsi razionalmente - segno dell’intervento divino - a farle dire che anche la "cecità" degli uomini di governo rientrava in un disegno divino.
Il Cristianesimo, pertanto, aveva avuto e avrebbe continuato ad avere una sua funzione storica. E a favore del continuo progresso del cattolicesimo la Lanza annotava due argomenti: uno inverso "il più forte del mondo" e uno diretto con un "valore tutto interiore e spirituale"(16). Il primo argomento scaturiva dal fatto che il grande disordine, la "troppa follia collettiva sulla terra" avrebbero inevitabilmente portato ad un grande urto dal quale sarebbe nato un nuovo ordine indirizzato proprio dal Cristianesimo. L’argomento diretto, invece, partiva dalla considerazione che c’era troppa "santità nascosta", troppa ricchezza spirituale che "serpeggiava per la terra" anche attraverso le missioni; c’era troppo spirito di sacrificio, troppa "volontà di immolazione" perché "da questa linfa segreta non [dovesse], al momento segnato da Dio, prorompere una generazione nuova, un popolo d’anime elette, o almeno una classe di "conduttori di plebi", che [risolvesse] tutti i problemi più spaventosi d’oggi, con una formula sola: quella del Vangelo attuato e vissuto"(17). La stessa giustizia intesa non solo come "santità personale" ma anche come equità pubblica, tanto "ardentemente invocata" da milioni di persone, certamente, prima o poi, attraverso "tutte le crisi e tutti i disastri politici e sociali" avrebbe raggiunto il suo fine.
L’appassionata Fede nella Provvidenza divina e nel progresso umano le faceva capire che forse l’"imperversare dello spirito di follia dispotica - vera "follia imperatoria" che [appariva], in Russia e altrove, come fenomeno storico - [fosse] un’altra permissione divina". La Russia aveva ristabilito la schiavitù come ultimo termine di civiltà e tale degenerazione, a suo avviso, sarebbe stata superata dalla violenza di una "disperata volontà di giustizia" che avrebbe portato l’umanità agli ultimi eccessi e, oltre questi, al raggiungimento del suo fine. La sua spiegazione era che quel disordine doveva arrivare sino al suo culmine poiché "l’urto [doveva essere] castigo, e, insieme, incendio purificatore".
Angelina Lanza scriveva tali considerazioni negli anni 1932-1936 caratterizzati dall’intensa attività di "lavoro di formichetta" - come amava definirlo - nella missione di apostolato rosminiano(18). Sono gli anni in cui scrive il suo Testamento spirituale, in cui pubblica anonimo il volumetto La completa offerta di sé(19).
Nel suo Testamento spirituale la scrittrice palermitana confessa che, nel periodo di crisi spirituale, la Chiesa cattolica le era apparsa tirannica "nei suoi mezzi di governo, umana nei suoi fini, dura nelle sue decisioni in materia di fede, finalmente povera di santità in molti suoi membri, dopo il [suo] atto di fede cieca, [le] apparve come l’edifizio fondato da Gesù Cristo e vivente nello Spirito Santo"(20). L’amore per la Chiesa le faceva apprezzare l’operato e gli scopi dell’Azione Cattolica in quanto istituzione le cui associazioni avevano il merito di educare i suoi membri, tra cui le donne(21), nell’esercizio dell’apostolato, creando una comunione spirituale necessaria affinché ogni fedele divenisse "vero apostolo". E soprattutto le giovani donne, secondo la Lanza, dovevano essere educate a mantenere "viva la fiamma della volontà della fede"(22) affinché esse potessero godere di una superiorità morale e piena sicurezza di sé che le avrebbe fatte "grandi e sante" agli occhi dei figli. Volontà della fede che, "come tutte le forze doveva essere esercitata per mantenersi"(23) nella lotta "più frequente e più difficile": quella con se stesse. Ma per imporre la volontà ai propri figli bisognava prima imporla a se stesse poiché "per sapere comandare bisogna prima sapere e volere ubbidire"(24).
Dopo la grande guerra, l’Azione Cattolica aveva ripreso la sua attività diffondendo anche un programma (30 gennaio 1919) per inneggiare "all’educazione della coscienza popolare e alla integra e franca osservanza dei doveri religiosi civili e sociali secondo gli insegnamenti della Chiesa, per rinsaldare sempre meglio il vincolo che deve unire tutti i cattolici italiani per l’affemazione e la difesa dei principi dai quali dipende la restaurazione cristiana della società"(25). E la prima forma di intervento dell’Unione donne consistette nell’assistenza alle famiglie dei reduci, ricovero bambini orfani e abbandonati, sostegno alle vedove(26); la Lanza condivise tale impegno sociale tanto che nel 1916 lavorò a favore dei soldati, nella sezione palermitana dell’"Alleanza femminile" del cui consiglio di amministrazione faceva parte il marito(27).
Sin dagli anni ‘20 ella partecipa alle riunioni del Segretariato Cultura Unione Cattolica Femminile; quegli incontri le facevano sentire il piacere di comunicare con persone della stessa Fede(28) però ella temeva che le troppe occupazioni mal si adattavano alla sua instabile salute; le sembrava che l’equilibrio raggiunto tra il suo essere un po’ Marta, simbolo della vita attiva, e un po’ Maria, immagine della vita contemplativa, fosse profondamente turbato dal predominio della prima sulla seconda: "Marta ridiventa assorbente e vuole comandare troppo"(29) annotava sul suo Diario spirituale.
Il 17 luglio 1933 partecipa alla prima riunione di dirigenti dell’Azione Cattolica(30). Padre Francesco Lauria, assistente ecclesiastico e parroco di Santa Maria Ausiliatrice, il 26 luglio le propone la direzione del gruppo parrocchiale di Azione Cattolica.
La Lanza aveva subito manifestato le sue perplessità circa la difficoltà di accettare un tale incarico ma dietro incoraggiamenti del padre Lauria aveva finito per acconsentire consapevole però che la carica non sarebbe durata a lungo "per le [...] forze fisiche insufficienti, pei troppi doveri familiari, per la [...] lentezza e incapacità"(31). Ancora una volta, il suo sentirsi più Maria che Marta, l’aveva spinta a chiedere conforto nella preghiera per essere strumento della volontà divina; capì che doveva compiere il suo dovere senza troppo angustiarsi; e dopo non pochi turbamenti e titubanze accettò quell’incarico più che per convinzione, per rispondere a un disegno provvidenziale. Su invito di Padre Lauria, si dedicò alla lettura di testi sulla dirigenza dell’Azione Cattolica e, in particolare, al libro Luci sul cammino, convincendosi sempre più che l’incarico di dirigente era "affar serio, che importa fatica, che richiede tempo e libertà di movimento in famiglia" tutte cose che a lei mancavano(32). Un punto, a suo avviso, non le si confaceva: la responsabilità personale della dirigente. Lauria cercò di risollevare la Lanza da quelle paure, affiancandole, in qualità di segretaria, Maria Migliori. La scrittrice palermitana continuò ad essere impensierita da quella carica: "non so - scriveva nel suo Diario spirituale - ho una sorta di ripugnanza, che non mi par tutta cagionata dalle difficoltà materiali: non è il lavoro per me, forse sono troppo esaurita fisicamente, o forse è il senso, divenuto abituale, dell’opposizione sistematica a tutto ciò che è "chiesa" e simili, che mi preavvisa e mi suggerisce: astieniti, per prudenza e per ubbidienza coniugale"(33).
Nonostante ciò, la Lanza si impegnò con grande operosità nella sua nuova mansione programmando le riunioni del Gruppo Donne dell’Azione Cattolica la cui attività si intensificò a partire dal 4 settembre 1933 dopo che un incontro preparatorio aveva dato inizio alla organizzazione(34); il Consiglio, invece, si riunì per la prima volta il 13 dicembre 1933(35). Nel suo primo discorso, tenuto il 26 dicembre, la Lanza incoraggiò il Gruppo a prodigarsi per il bene della collettività consapevole che l’inesperienza sarebbe stata superata dall’amore di Dio e convinta che la "formazione all’Azione cattolica ognuno deve farsela da sé, avvicinandosi molto a Gesù"(36).
L’impegno della Lanza rappresentò uno strumento di edificazione religiosa e di apostolato quotidiano in un periodo in cui l’Azione Cattolica era appena uscita da quell’adeguamento richiesto dagli accordi del 2 settembre 1931 che avevano smussato l’attrito tra Chiesa e Stato Italiano(37). Le donne guidate da Angelina Lanza si prodigarono in attività caritatevoli a favore dei ragazzi bisognosi della parrocchia. E lei stessa, nel suo Diario spirituale, racconta i pomeriggi passati a distribuire i doni accanto all’albero di Natale preparato con le altre iscritte(38). L’attività iniziata presso la parrocchia S. Maria Ausiliatrice di Palermo, superate le prime confessate titubanze, aveva immediatamente suscitato un grande interesse tanto che - come lei stessa annota - preferiva non uscire e conservare "le forze per andare alle riunioni"(39). I suoi discorsi erano quasi sempre preparati in anticipo e solo il 5 marzo 1934, lei stessa stupita, scrive che per la prima volta aveva parlato a braccio intorno al significato spirituale del distintivo di Azione Cattolica(40).
Ricevere il distintivo significava entrare ufficialmente e "visibilmente", a far parte del grande movimento sociale, ancora giovane, ma che già si era diramato per tutta la vita della nazione e che doveva avere uno sviluppo ancora più significativo in avvenire. Il distintivo era "la bandiera al reggimento" dell’Azione Cattolica, un segno, un simbolo, una "vera consacrazione". Nel riceverlo ogni donna, secondo la Lanza, doveva ricordare, se aveva mai assistito alla vestizione di una suora, la solennità con cui "viene consegnato ogni pezzo della […] nuova veste". Ma queste cose "grandi" non erano per loro, "operaie della vigna", alle quali era destinato il "semplicissimo e piccolissimo" segno di appartenenza. In quel simbolo ognuna di loro doveva vedere spiritualmente racchiuso tutto ciò che "forma l’appartenenza del soldato, uniforme e armi; e anche ciò che forma la forza segreta della suora, velo, cingolo, e cero acceso". Il distintivo doveva rappresentare una piccola fiamma generatrice di volontà che per la Lanza si traduceva "in volontà di apostolato vero". Da quel momento, le donne del Gruppo avrebbero dovuto promettere a Dio di servirLo e di fare in modo che la loro attività fosse tutta indirizzata al bene(41).
A volte le riunioni le apparivano "poco utili e poco significanti" e si rammaricava che Padre Lauria, suo Direttore spirituale, identificasse la "Sintesi della Minima Via delle piccole sorelle"(42), la profondità spirituale della congregazione di contemplative(43), con l’Azione Cattolica(44). Lauria, da "spirito pratico, tanto vivace, tanto fattivo di bene, dei salesiani", come ella lo definiva, le consigliava di versare tutte le energie e i lumi(45) nella sua azione di dirigente del Gruppo Donne Cattoliche.
Il 16 maggio 1934 in occasione della giornata diocesana dell’Azione Cattolica, la Lanza partecipò alla conferenza tenuta da mons. Rota, sul testo del Vangelo "la trasfigurazione". Rota riferì parole elevatissime soprattutto nel descrivere l’azione di Gesù quando presceglie un’anima e la prepara a qualche missione; quelle "parole - scrive Angelina Lanza - mi ferivano il cuore, una ad una; egli intendeva una cosa, la missione di dirigente dell’Azione Cattolica, io ne udivo un’altra"(46).
Nella seduta del 25 maggio furono nominate alcune consigliere e, in quella circostanza, ella presentò le sue dimissioni da presidente del Gruppo, dimissioni che don Lauria e la segretaria costrinsero a ritirare(47).
A suo avviso l’Azione Cattolica era ancora lontana dalla sua forma stabile ed efficace ma riteneva che il sentimento religioso di una fanciulla, educata in una famiglia cattolica, potesse essere sempre più affinato attraverso l’Azione Cattolica o le Dame di San Vincenzo de’ Paoli(48).
L’Azione Cattolica aveva il merito di accogliere e incanalare "tante e tante piccole e grandi attività, non solo di beneficenza materiale, ma anche di spirito d’apostolato, di diffuso rinnovamento interiore"(49). Essa aveva offerto ai cattolici l’occasione "di guardarsi in viso, di numerarsi, di darsi la mano"; aveva ricordato doveri e diritti di fronte alla società corrotta. E in tale difesa dei principi cattolici nella vita individuale e sociale stava, secondo la Lanza, la grandezza di tale istituzione.
NOTE:
* L’argomento è stato oggetto di una comunicazione presentata nella giornata di studi su Angelina Lanza. Diario Spirituale, tenuta a Palermo, presso la Facoltà Teologica di Sicilia, il 25 novembre 2000.
(1) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, a cura di Peppino Pellegrino, Roma, Edizioni Spes - Fondazione Capograssi, 2000, p. 93. Si veda anche 4 novembre 1933, Ivi, p. 459. La Lanza aveva scritto una Preghiera per la vittoria, un vero inno
all’amor di patria e un omaggio ai caduti in guerra. Cfr. A. LANZA, Poesie, a cura di Peppino Pellegrino, Milazzo-Palermo, Spes - Thule, 1995, pp. 344-345. In questa interessante raccolta sono comprese alcune poesie dedicate ad eventi bellici come I reduci per l’arrivo dei primi feriti di Libia (31 ottobre 1911); In morte di Pietro Gullo ucciso a Bengasi il 12 marzo 1912 (Cfr. Ivi, pp. 339-341; 342-343).
(2) Il 12 dicembre 1918 muore di tifo Antonietta. Il 21 agosto 1922 muore di mediterranea l’altra figlia Maria Filippina.
(3) A. LANZA DAMIANI, 18 agosto 1919, in: Quaderno di pensieri (1898-1918). Tali pagine del quaderno - contenenti l’articolo Femminismo del 1899 e le postille aggiunte dall’autrice negli anni 1908, 1918 e 1919 - sono inedite. La copia dello scritto, conservato presso l’Archivio rosminiano di Stresa (Q. V. 7a), mi è stata gentilmente donata dal Prof. Peppino Pellegrino.
(4) A. LANZA DAMIANI, Testimonianze autobiografiche. Le figliuole, in. P. PELLEGRINO, Itinerario spirituale e artistico di Angelina Lanza Damiani, Milazzo, SPES, 19812, p. 33.
(5) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, 2 settembre 1935, cit., p. 641.
(6) Nel suo Testamento spirituale l’autrice confessa di aver trovato in una pagina delle Confessioni di Sant’Agostino "la parola" che le avrebbe indicato la via, in un momento di sconforto e di crisi spirituale.
(7) Per un approfondimento si veda N. ABBAGNANO, S. Agostino, in: Storia della filosofia, vol. II, La filosofia medioevale (la Patristica e la Scolastica), Torino, UTET, 1993, pp. 64-83.
(8) Sul concetto di storia in Vico, si veda N. ABBAGNANO, Vico, in: Storia della filosofia, vol. IV, La filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, UTET, 1993, pp. 136-152.
(9)A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, cit., p. 147.
(10) Ivi, 25 maggio 1934, p. 555.
(11) Ivi, 18 agosto 1927, p. 54.
(12) Già nel giugno del 1921, a Mondello (PA), la Lanza aveva avuto le prime manifestazioni di ordine soprannaturale; ella comincia a percepire "locuzioni interne", pronunciate da una Voce che esercita su di lei "un potentissimo ascendente per la straordinaria ricchezza di lumi, di grazia, di compensi celesti, con cui l’accompagna e la sostiene nella via della perfezione". (P. PELLEGRINO, Nota bio-bibliografica, in: Diario spirituale, cit., p. 692)
(13) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, cit., 20 marzo 1933, p. 358.
(14) A. LANZA DAMIANI, Femminismo,1° giugno 1899, in: Quaderno di pensieri (1898-1918), Archivio rosminiano, Stresa (Q. V. 7a).
(15) Ibidem.
(16) A. LANZA, Lettera a Silvia Reitano, 19 agosto 1934, in: Lettere, prefazione di P. Giuseppe Bozzetti, Milazzo-Stresa, SPES-SODALITAS, 19822 p. 144.
(17) Ibidem.
(18) La Lanza si impegnò per la diffusione di libri su Rosmini facendo in modo che le librerie San Paolo e Tumminelli di Palermo accettassero il deposito di materiale rosminiano. La scrittrice palermitana si impegnò anche a coinvolgere importanti studiosi come Giuseppe Amato Pojero, Giuseppe Maggiore, Giulio Bonafede, i sacerdoti Mariano Caldarella, mons. Mariano Campo. (Si veda P. PELLEGRINO, Nota bio-bibliografica, cit., p. 696).
(19) Il libricino, alla morte dell’autrice, suscitò l’interesse di Luigi Sturzo che, da Parigi, ne consigliò la lettura al fratello filosofo Mario, Vescovo di Piazza Armerina. Si veda L. STURZO - M. STURZO, Carteggio, IV, 1935-1940, a cura di Gabriele De Rosa, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1985, pp. 219; 226; 231.
(20) A. LANZA, Lettere, cit., pp. 251-252.
(21) Sul ruolo delle donne negli scritti di Angelina Lanza si veda C. GIURINTANO, La riflessione di Angelina Lanza sulla donna nella Chiesa e nella società,in: "Rassegna Siciliana di storia e cultura", anno I, n. 2, dicembre 1997, pp. 57-64.
(22) A. LANZA DAMIANI, Femminismo, cit., testo riportato in appendice.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem. "Saper comandare e ubbidire" era la virtù civica aristotelica quella, cioè, che distingueva il buon cittadino dall’uomo buono. Cfr. ARISTOTELE, Politica, III, 4, 1277 a-b.
(25) G. DE ANTONELLIS, Storia dell’Azione Cattolica, Milano, Rizzoli, 1987, p. 142.
(26) Ivi, p. 143.
(27) Cfr. P. PELLEGRINO, Nota bio-bibliografica, in: Diario spirituale, cit., p. 690.
(28) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, 24 novembre 1926,cit., p. 35.
(29) Ivi, 18 luglio 1928, p. 76. Si veda Luca 10 (38-42).
(30) Ivi, 17 luglio 1933, p. 403. Nella parrocchia S. Maria Ausiliatrice di Palermo non risultano verbali delle riunioni del Gruppo Donne di Azione Cattolica.
(31) Ivi, 26 luglio 1933, p. 406.
(32) Ivi, 6 agosto 1933, pp. 415-416.
(33) Ivi, 6 agosto 1933, pp. 415-416.
(34) Ivi, 11 settembre 1933, p. 432.
(35) Ivi, 13 dicembre 1933, p. 477.
(36) Ivi, 26 dicembre 1933, p. 485.
(37) In base a tale accordo veniva stabilito che l’Azione Cattolica era essenzialmente diocesana e dipendente direttamente dai Vescovi "i quali ne scelgono i dirigenti ecclesiastici e laici" con esclusione di coloro che appartennero a partiti avversi al regime". Il secondo punto del compromesso affermava che l’Azione Cattolica non ha nel suo programma la costituzione di associazioni professionali e sindacati di mestiere. Inoltre, i Circoli Giovanili facenti capo all’Azione Cattolica si sarebbero chiamati Associazioni Giovanili di Azione Cattolica. L’accordo di settembre portava una novità nei rapporti tra Azione Cattolica e appartenenza al Partito Nazionale Fascista poiché sopprimeva la precedente disposizione del 10 luglio 1931 sulla incompatibilità tra iscrizione al partito fascista e iscrizione alle organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica. Si veda G. DE ANTONELLIS, op. cit., p. 171 e L. CIVARDI, Cenni storici dell’Azione Cattolica italiana (1865-1931), Estratto dalla VII edizione del "Manuale di Azione Cattolica", Pavia, Editrice Vescovile Artigianelli 1933, pp. 107-111.
(38) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, 11 gennaio 1934, cit., p. 495.
(39) Ivi, 15 gennaio 1934, p. 498.
(40) Ivi, 7 marzo 1934, p. 518.
(41) A. LANZA, Il distintivo di Azione Cattolica (1934), in: Pagine spirituali, II, Le virtù nascoste e altri scritti, Domodossola, Sodalitas, 1950, pp. 200-201.
(42) A. LANZA DAMIANI, Diario spirituale 1924-1936, 15 marzo 1934, cit., p. 519.
(43) Ivi, 7 marzo 1934, p.517.
(44) Ivi, 20 marzo 1934, p. 542.
(45) Ibidem.
(46) Ivi, 16 maggio 1934, p. 551.
(47) Ivi, 25 maggio 1934, p. 554.
(48) A. LANZA, Lettera a Giovanna Bellora-Sironi, 12 settembre 1932, in: Lettere, cit., p. 195. La signora Bellora-Sironi era un’ascritta rosminiana di Gallarate (Varese) che dopo la morte del marito rimase a capo di una avviata azienda tessile. (Si veda Diario Spirituale, nota a piè pagina 135).
(49) A. LANZA, Lettera a Silvia Reitano, 19 agosto 1934, in: Lettere, cit., pp. 143-144. Silvia Reitano era una scrittrice di novelle e poetessa legata alla Lanza da profonda amicizia testimoniata da ben 162 lettere conservate nell’Archivio rosminiano di Stresa. (Ivi, nota a piè pagina 79).
Innanzi tutto, per poter fare una analisi basata su alcuni elementi di riferimento nel parlare di sicurezza e stabilità nel Mediterraneo, occorre individuare almeno alcuni fattori di destabilizzazione nel mondo contemporaneo. Ormai è opinione condivisa che i nuovi fattori destabilizzanti, per quanto riguarda in particolare il settore regionale qui analizzato, possano essere: conflitti etnici, quali quelli nei Balcani e nell’Africa a sud del Sahara; nazionalismi, che spesso, quando sono aggressivi, sono la causa dei conflitti etnici così come questi possono essere l’effetto degli ultranazionalismi; emigrazioni epocali e immigrazioni clandestine; proliferazione nucleare e altre armi di distruzione di massa (chimiche, biologiche…); terrorismo di varie matrici: religiosa, ideologica, criminale, ad esempio; ecoterrorismo…; importanti mutamenti climatici; disastri ecologici. Tutti questi elementi possono portare minaccia alla sicurezza nel Mediterraneo e concretarsi in:
a) fattori di carattere politico: l’instabilità balcanica, le crisi israelo-palestinese e libanese, il confronto greco-turco;
b) fattori di carattere ambientale: come pericoli epidemiologici, desertificazione, salifinicazione delle acque dolci e delle terre coltivabili;
c) fattori di carattere politico-religioso: integralismo come fattore di instabilità politica (Egitto, Algeria, Turchia, Libano e Israele) e fonte di terrorismo internazionale (Libia, rifugiati palestinesi, Algeria, Iran, Afghanistan);
Sarebbe un grave sbaglio se ci si avvicinasse alla comprensione del Mediterraneo come se questo mare fosse una singola entità; occorre conoscerne le diversità, nella comprensione del fatto che si tratta di una unità regionale complessa.
A questo proposito è stimolante iniziare queste riflessioni con le parole di un maestro dell’analisi storica del Mediterraneo, Fernand Braudel, il quale scriveva che questo mare è mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Yugoslavia…come spiegare l’essenza profonda del Mediterraneo……(1) . Vi sono le radici comuni della parte più profonda della civiltà italiana, francese, greca, spagnola, araba, berbera. La storia del Mediterraneo è la storia della marineria che è, ancora ai nostri giorni, un elemento non dissociabile dallo sviluppo di una storia economica e sociale.
E’ importante ricordare che il Mediterraneo è un mare. Tre sono le costanti fisiche e geografiche del Mediterraneo: è un mare aperto; è un mare immenso, è un mare che non è sempre molto ospitale. E sul mare, a Lepanto, nel XVI secolo si giocò il dominio terrestre dell’Impero ottomano, contro la cristianità. E ancora su questo mare si gioca la partita della stabilità e della sicurezza di una regione strategica.
1. Geografia e geopolitica. Il Mediterraneo è un modello primario di una notevole complessità geopolitica. E’ ancora uno degli spazi principali, nei quali, volontariamente o non, il mondo cosiddetto occidentale mette in gioco il proprio ruolo di potenza mondiale. E’ anche una nuova frontiera verso la quale l’Italia vuole e deve restare libera, pur nel rispetto degli accordi internazionali, di controllare i suoi approcci, di commerciare senza problemi e di restare fedele ai suoi principi, sempre nel quadro delle alleanze militari alle quali ha aderito. Geologicamente, il Mediterraneo è una zona di frattura: è qui che il grande continente africano si è separato da quello europeo e asiatico. Il continente africano e quello europeo hanno ancora un tenue filo di unione in due cardini o cerniere, (Turchia da una parte e Spagna-Marocco dall’altra: Dardanelli e Gibilterra): è lì che i due mondi si uniscono, si guardano, si affrontano. E’ uno spazio marittimo facilmente determinabile dal punto di vista geografico: è un mare interno delimitato dallo stretto di Gibilterra a Ovest e dalle coste del Medio Oriente a est. Con l’espressione Mar Mediterraneo s’intende il mar Egeo, il mar Adriatico, il mar Tirreno, il mare Ionio, il Golfo della Sirte o mare Libico, come si diceva nel passato. Bisogna altresì fare attenzione che, se da un punto di vista strettamente geografico, alcuni ritengono giustamente che il Mediterraneo finisca ai Dardanelli, da un punto di vista geopolitico, almeno, il Mar Nero è invece da considerarsi parte integrante di questo mare. Il Mediterraneo è luogo d’incontro di tre continenti: europeo, africano, asiatico. Qualche cifra: si stende su circa 3800-4000 Km. in lunghezza, 1200 in larghezza; circa venti stati si affacciano su questo mare o ne sono legati geograficamente con circa 200 milioni di abitanti.
2. Questa situazione di un Mediterraneo, centro del mondo conosciuto, ha iniziato a registrare cambiamenti nel corso del XVI secolo, conseguenze palesi della scoperta di un Nuovo Mondo. Dopo un periodo relativamente breve, per la storia dell’uomo, un periodo di tre secoli, durante i quali il settore non ha più avuto quell’importanza di cui aveva goduto precedentemente, il Mediterraneo ha visto progressivamente allargarsi di nuovo il suo orizzonte per divenire, soprattutto dopo qualche importante e significativa impresa, come l’apertura del Canale di Suez, elemento di unione di distese oceaniche, attirando questa volta nella lotta per il suo dominio, anche quelle potenze che non sono rivierasche. Gli Stati Uniti sono comparsi in questo settore strategico, sostituendosi ai precedenti colonizzatori, in particolare alla Francia e all’Inghilterra e diventando i dominatori di una parte almeno del Medio Oriente, con una forma di neocolonialismo politico, che attuano, sentendosi, secondo la loro stessa definizione più volte ripetuta, i gendarmi del mondo. Poco dopo di loro, anche la potente Unione Sovietica ha cercato il suo primato in quel mare, verso il quale, è doveroso ricordarlo, anche
l’impero degli Zar aveva da sempre cercato uno sbocco.
3. Il Mediterraneo é allo stesso tempo una unità organica, anche se questa opinione incontra non poche opposizioni. Il Mediterraneo è stato per lungo tempo il centro del mondo, anzi più che il centro del mondo, era il mondo stesso. Poi nuove scoperte geografiche hanno spostato l’asse dell’interesse mondiale da quel centro, finché la zona è tornata ad essere di grande importanza, già agli inizi di questo secolo, soprattutto a) per l’abbondanza di una materia strategica, della quale non si sono ancora trovati sostituti equivalenti su larga scala, l’oro nero, il petrolio, dal quale continua a dipendere l’andamento dell’economia globale di quella parte del mondo privo di questa risorsa(2); b) per l’abbondante produzione di gas; c) per la penuria di un altro importante elemento strategico l’acqua per la quale in realtà molte lotte si stanno conducendo, di carattere politico. Quello che è rimarchevole in questa regione, da ritenere a ragione un insieme unico, è certamente l’apparente diversità dei popoli che vi abitano, ma con alla base una serie di elementi comuni. Quello che è rimarchevole in questa regione, da ritenere a ragione un insieme unico organico, è la diversità dei popoli che vi abitavano e che vi abitano tuttora, diversità di popoli e di nazioni, diversità di religioni, diversità di scritture, ma con alla base elementi comuni. Gli stati che si affacciano sul Mediterraneo sono legati al suolo, al clima, ad un passato comune, ad una storia comune, a religioni che si combattono, ma che hanno elementi comuni e sono espressioni di uno stesso modo di intendere la spiritualità. Il Mediterraneo dunque riunisce le condizioni di base costitutive di una unità organica per storia, economia, geografia umana, culture, geologia, clima, vegetazione(3).
4. Un elemento di omogeneità, non si deve dimenticare è che le aree del Mediterraneo sono aree di commercio e non di produzione, escludendo quanto sopra ricordato circa il petrolio e il gas. Qualcosa che oggi sicuramente li accomuna, dal punto di vista economico, come sostiene Stefano Silvestri(4), è il fatto di essere aree di commercio più che di produzione, area di transiti, costellati da città-porto e, come nel passato da zone franche. Alcuni autori sostengono che questa caratteristica dell’omogeneità commerciale ne ha facilitato la frammentazione politica e la conflittualità, in una concorrenza difficile: quel che è vero è che la lotta per avere gli sbocchi al mare ha sempre generato massima conflittualità sia prima che dopo le due guerre mondiali, ma non solo in questa regione strategica. Il porto rappresenta commercialmente lo sbocco per le produzioni e quindi per l’incremento del commercio import-export ed è un elemento di valenza strategica in difesa e in offesa(5)
5. Difficoltà oggettive per un ordine complessivo nel Mediterraneo. Nel passato, i tentativi fatti per instaurarvi un ordine mediterraneo complessivo non hanno ottenuto risultati duraturi nel tempo, salvo forse che durante l’impero romano. Non vi è riuscito l’Impero bizantino. Non vi è riuscito quello ottomano. Non vi sono riuscite le potenze coloniali europee. Forse potrebbe riuscirvi la comunità delle nazioni nell’era che sempre più si caratterizza per essere quella di una globalizzazione integrale, dell’evoluzione tecnologica degli armamenti, delle comunicazioni, di un Intelligence, correctly used, che hanno sicuramente ampliato gli orizzonti strategici sia per la minaccia che per la risposta.
6. Più recentemente, il mondo, ingessato nel modello matematico e rigido del bipolarismo, trionfo dell’immobilismo caro agli spiriti più brillanti della tecnocrazia, è letteralmente imploso: le identità nazionali, sviluppatesi nel secolo scorso, con le diversità etniche e religiose, hanno fatto la loro riapparizione nella continuità di quello che erano sempre state, con le loro ideologie, cioè un vero mosaico: l’ambiente mediterraneo è allo stesso tempo europeo, balcanico, magrebino, cattolico, ortodosso, islamizzato e in piccola parte, ebreo. Vi hanno trovato spazio imperi, regni, beycati, sceiccati. Vi si trovano nel nostro secolo nuove e vecchie forme di governo: monarchia, repubblica, regimi totalitari e tutti gli stadi rappresentanti dell’evoluzione democratica, così come vi si trovano sicuramente tutti gli stadi dell’evoluzione economica, dall’agricoltura condotta con metodi ancora primitivi alle Sylicon Valley europee. Per complicare ulteriormente la situazione, in questo mare non vi è una frontiera stagna alle influenze reciproche dei grandi movimenti, che si intersecano in una reciproca compenetrazione e si scontrano a volte in modo complesso e assai insidioso.
7. Frontiera, dunque zona di contatto. Il Mediterraneo potrebbe essere in effetti una zona dall’equilibrio instabile, tra forze numerose, tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, tra il Medio Oriente e il resto dell’universo, tra due civiltà e tre religioni, 17 paesi e più di 400 milioni di abitanti. In sostanza una frontiera in tutti i sensi possibili, focus di quel concentramento umano che ha visto nascere delle religioni e morire degli imperi tra i quali l’Egitto, poi la Grecia, poi Roma, poi Bisanzio, poi Costantinopoli. La Sublime Porta, dominio di grande civiltà e forti eredità culturali è stata smantellata non solo a causa della propria estensione e della progressiva impotenza politica e amministrativa - per quanto per molti secoli sia riuscita a concretare una difficile forma di coesione tra tanti popoli diversi -, ma anche dalla presenza grandemente invasiva, nell’Ottocento, della Francia e dell’Inghilterra: queste due potenze europee, in particolare, hanno importato nel settore mediorientale una nuova forma di capitalismo, che ha sovvertito equilibri economici, ormai precari, e quindi politici, che dimoravano non soltanto su una demografia mediocre e una economia tradizionale, ma anche su una relativa compattezza pre-capitalistica, data dai commerci marini; compattezza appunto sconvolta dai nuovi sistemi finanziari. Come però bene fa notare lo studioso francese André Nouschi(6), in un suo recentissimo e approfondito studio, con il capitalismo il Mediterraneo entra nel circuito economico mondiale e anche la circolazione delle merci e i trasporti, specialmente dopo l’apertura del canale di Suez, è stata incrementata fino a modificare definitivamente le caratteristiche economiche del pre-capitalismo.
8. In questi ultimi anni sempre più la Turchia è stata una cerniera e una frontiera avanzata: la sua doppia identità, europea e asiatica, eredità dell’Impero Ottomano, e la sua presenza nella Nato ne fanno un alleato prezioso, anche se obiettivamente piuttosto difficile, se non scomodo. Se, come sembra, la Turchia entrerà nella UE, forse prevarrà la sua anima europea; con la sua struttura statuale e la sua organizzazione interna potrebbe divenire il ponte più importante nel dialogo con l’Islam e con i paesi islamici, essendo la maggioranza dei suoi abitanti musulmana. E potrebbe anche, con la presenza delle sue numerose comunità in Europa essere anche in questo territorio un legame tra i cittadini europei di religione cristiana e quelli di religione musulmana, sempre più numerosi. Sembra inoltre essere lo stato islamico nel quale l’integralismo non riesca a prendere il potere o ad esercitare una forza di pressione che destabilizzi la politica locale, grazie soprattutto ad una classe militare tradizionalmente molto forte e determinata, che, erede del laicismo di Ataturk, non lascia spazi di potere a nuove istanze politiche ammantate di motivazioni religiose. E’ anche evidente che la situazione finanziaria turca fallimentare avrà riflessi importanti sui valori della moneta europea, l’Euro. Occorre dunque vigilare e sostenere Ankara, imponendo anche un maggiori rispetto per i diritti umani.
9. Il Mediterraneo è sempre stato forse troppo ricco di tensioni nate in forza di equilibri instabili, ognuno dei quali, in qualsiasi momento si confronta con altri nel suo ambiente con un gioco di fusioni e di fissioni: da questi equilibri instabili la seconda metà del Novecento ha ereditato una caldaia in ebollizione, una bomba potenzialmente forse pronta ad esplodere o forse mai, proprio per quegli equilibri instabili; tomba impossibile dell’umanità politica, perché sua culla continua. Ed è una culla perché così ha voluto la geografia e … la geografia è la sola costante della politica estera, come sosteneva Bismarck, non tralasciando, però, l’impatto dell’elemento "economia", come è stato dimostrato ampiamente negli ultimi due secoli, in particolare.
10. Nell’analizzare la situazione attuale del Mediterraneo, vi è inoltre da considerare un episodio breve nel tempo, ma non marginale per la storia della regione: le conquiste coloniali, che non sono state regolarizzate sempre da trattati, poiché furono spesso la conseguenza di intese preventive sulla base delle compensazioni territoriali, che non tenevano in alcun conto le identità nazionali, pur presenti, le sovranità reali esistenti; che disposero di territori come se fossero stati sotto la propria sovranità nazionale. Un esempio: l’Inghilterra, sia pur per ragioni dichiaratamente umanitarie, dispose della sorte di un territorio, la Palestina, che non faceva parte del suo Impero, del suo territorio metropolitano e che, dopo la prima guerra mondiale, gli era stato consegnato in mandato, in vista di una futura indipendenza. Il territorio fu governato, diviso, smembrato, assegnato: si aprì così il conflitto arabo-israeliano che caratterizza ancora dopo cinquanta anni le vicende mediterranee. La pragmatica politica estera della Gran Bretagna nella prima parte del secolo XX fu diretta soprattutto a proteggere la via alle Indie, il suo impero coloniale; a mantenere la sua influenza e il suo potere nel Medio Oriente, considerato a ragione, una zona di grande importanza strategica.
11. Sulle rive di questo mare si affacciano due spazi terrestri che sono anche due spazi culturali, come ben fa notare Ian Lesser nei suoi studi(7): quello arabo è un importante spazio storico culturale che si pone di fronte e a contatto con il suo omologo dell’Occidente, in quanto spazio mediterraneo e quindi dialoga con l’Europa con tutte le sue risorse, la sua demografia e anche con le conseguenze dei suoi conflitti, in particolare quello arabo-palestinese. L’Europa non si è mai potuta sottrarre e non può sottrarsi a questo dialogo che la coinvolge sempre più direttamente, anche per via delle forti correnti migratorie che continuano a percorrere quel mare in ogni direzione, da secoli. Correnti migratorie che sono state più intense negli ultimi dieci anni, ma che sono state sempre una caratteristica di questo bacino, fin dall’antichità, dove il concetto di libero scambio delle merci e di mobilità delle persone era forse più ampio che nei due secoli immediatamente precedenti l’attuale. Queste correnti migratorie sono frutto di un fenomeno demografico di grande importanza: infatti la crescita demografica è stata molto più importante nei paesi a sud del Mediterraneo che nel resto dell’Europa – crescita demografica di alcune popolazioni che ancora oggi aumenta, anche fuori del territorio di origine. Il tutto unito a quel fenomeno al quale si accennava precedentemente, e cioè quello di un capitalismo nuovo per queste terre. Bisogna dire che tutto questo ha distrutto i solidi vincoli di una società tradizionale, formata dalla tribù e dalla famiglia allargata. Insieme al nuovo concetto di nazione e di nazione - identità nazionale, si sono spezzati legami precedenti molto forti; sono sparite strutture sociali tradizionali, dando origine ad una nuova diaspora che è divenuta sempre più intensa specialmente dopo la seconda guerra mondiale e nell’ultimo decennio. Peraltro vi è da considerare che con la spinta originaria di una emigrazione dalle campagne alle città si è verificato un primo movimento di umanità all’interno stesso dei vari paesi, che ha contribuito alla dissoluzione dei legami precedenti. L’inurbamento di molti elementi ha determinato anche sacche di sottoproletariato nelle città mediterranee che si sono espanse a vista d’occhio: il miraggio del salario sicuro, fosse esso dato da lavori edili o dal settore industrializzato, ha spopolato le campagne: prima nel settore nord del Mare, cioè in Europa; poi, con sequenza logica, dovuta anche alle speculazioni coloniali e postcoloniali, lo stesso fenomeno si è affermato sulla sponda sud del Mare, creando squilibri importanti in una società agricola e patriarcale, ma non industrializzata. Questo fenomeno ancora continua e in modo accentuato: il Cairo, ad esempio, che solo fino a pochi anni fa era già una grande megalopoli con cinque milioni di abitanti, conterebbe ora, secondo le più recenti stime, circa dieci milioni di abitanti: quanti di essi sono oltre la soglia della sopravvivenza! Quanti di essi godono di un salario sicuro e di una vita appena dignitosa? La differenza fra le classi sociali, già forte sotto il regno del Khedivé, cioè nel secolo scorso, che si era attenuata con il colpo militare del 1952 e la progressiva politica di Nasser a favore degli strati più deboli della popolazione, è ora sempre più forte e la forbice continua ad allargarsi, creando squilibri economici e forti tensioni sociali, che poi possono diventare preda di un qualsiasi fanatismo che prometta condizioni migliori.
12. Nei tre decenni che corrono fra la prima e la seconda guerra mondiale il Mediterraneo viene profondamente trasformato, in quanto i due conflitti hanno avuto conseguenze assolutamente nefaste per questa regione, dal punto di vista economico, sociale e strutturale. L’influenza degli ‘ismi’ europei non è stata senza conseguenze sulla sponda sud. Inoltre il secondo conflitto modifica radicalmente l’equilibrio delle forze nel Mediterraneo: Francia e Inghilterra spariscono quasi totalmente dal settore, anche per l’ostilità, non troppo celata dell’alleato Stati Uniti, che si considera il liberatore del mondo, il paladino delle libertà individuali e poi appunto il gendarme della pace. Le vicende dell’Iran, stato non propriamente mediterraneo, ma che ha avuto profonda influenza su questo settore negli ultimi venti anni, dimostrano come una politica occidentale non sempre corretta e soprattutto non sempre coerente, forse anche per mancanza di una conoscenza approfondita dei problemi del Golfo, ha avuto esiti nefasti per l’equilibrio delle forze e dei movimenti politici nel mondo islamico.
13. Le due guerre mondiali non alterarono la struttura originale del Mediterraneo, ma depositarono in profondità il seme del concetto dell’identità nazionale di valore europeo, contrapposto a quello islamico della ‘umma’ , cioè della nazione islamica. In effetti la ‘umma’ sembra essere più che altro essere un sogno utopico, perché almeno finora è ben radicato nel mondo musulmano il concetto di stato e delle sue frontiere, nell’accezione cosiddetta occidentale dell’organizzazione politico-burocratica di un territorio. Del resto è la forma organizzativa che si è imposta in quasi tutte le terre e che comunque sancisce l’ingresso nella comunità internazionale e ne legalizza l’appartenenza. Inoltre dal 1945 in poi il Mediterraneo è divenuto uno dei teatri del confronto fra le due superpotenze. Conseguenza della dottrina di Truman, si costituì la VI flotta americana nel 1948 per il Mediterraneo. Dopo arrivarono i sovietici con l’Escadra, ma molto più tardi, nel 1964. Le due superpotenze dunque si confrontarono in questo mare, mantenendo proprio con la loro presenza un equilibrio incredibilmente stabile in una destabilizzazione controllata, in una zona divenuta rischiosa e pericolosa, e, come si è visto, dagli equilibri invece assai precari. Con il secondo conflitto mondiale, che ebbe come teatro di guerra anche il settore sud del Mediterraneo, la coscienza del diritto alla propria indipendenza ha portato tutti gli stati rivieraschi a cercare la migliore formula per governarsi da soli e a credere di averla trovata, subito dopo aver conseguito l’indipendenza. Il diritto dei popoli all’autodeterminazione è stato la motivazione principale della politica iniziale del secondo dopoguerra, specialmente dopo la fine in Europa del fascismo e del nazismo che hanno mostrato all’intera umanità i pericoli insiti nel totalitarismo e hanno rinforzato il senso di nazionalismo sulla sponda sud.
14. La storia del Maghreb e del Mashreq è sicuramente contrassegnata da esempi di centri politici potenti (tradizione che si è indubbiamente rafforzata con l’impatto coloniale). Nel trentennio che segue la fine del conflitto, la politica del mondo mediorientale, come fa notare Nouschi(8), si divide in due scuole, quella filo sovietica con le caratteristiche della pianificazione e dell’autogestione e quella che ha per modello il mondo capitalista liberale, nel quale lo stato avrebbe solamente un ruolo di indirizzo e coordinamento. Intanto i nazionalismi locali che erano sbocciati durante il colonialismo, si sono rafforzati dopo il conflitto mondiale. Vi sono stati nazionalismi ‘coloniali’ quali ad esempio il sionismo: esso ha lasciato come pesante eredità il conflitto fra nazionalisti palestinesi e nazionalisti ebrei, oltre che la lotta delle due diverse credenze religiose.
15. Il nazionalismo di impronta europea ha anche agito come fiamma ravvivante di quello che era il nazionalismo arabo, non solo come contrapposizione alla concezione turco-ottomana o al panturchismo di Ataturk. Già prima della nascita di Israele come stato sovrano, il nazionalismo arabo aveva fatto la sua comparsa. La Lega Araba, costituita ancor prima della fine della seconda guerra mondiale, con sede al Cairo, ne è stata il portavoce più accreditato per decine di anni; quando al Cairo Neguib e poi Nasser presero il potere, la Voce degli Arabi di Radio Cairo si propagò in Medio Oriente, continuando a diffondere l’idea di un nazionalismo arabo e il prestigio egiziano continuò ad essere leader di quel mondo, come lo era stato durante l’impero ottomano. Con la personalità di Nasser, però, la Lega Araba, come istituzione, passa in secondo piano. E’ Nasser stesso, è la nazionalizzazione del Canale che ridà agli Arabi l’idea di una grande dignità che si fonda sulla grandezza della civiltà araba e sulla sua importanza nel mondo dei filosofi, dei pensatori, degli scrittori, dei matematici, cioè sull’importanza della civiltà araba nell’intera storia dell’umanità. E’ quello il periodo in cui si assiste ad una esaltazione di un nazionalismo arabo musulmano: i Fratelli musulmani, molto attivi in Egitto dal 1922 circa, hanno una notevole forza e acquistano sempre più visibilità con i loro programmi politici e sociali quali fare della moschea il centro religioso, sociale e culturale della comunità musulmana, considerando che esse lo sono, per loro funzione e loro istituzione. I Fratelli musulmani respingevano e respingono qualsiasi riferimento all’occidente e predicano un ritorno all’Islam purificato delle influenze occidentali, con l’applicazione della legge coranica, la sharia, nell’ambito del pubblico e del privato, perché solo quella è la legge che il musulmano deve seguire.
16. Uno degli errori più comuni che si commettono in occidente, riferendosi a questa regione è quello di confondere o di assimilare facilmente l’arabismo con l’Islam, ove invece meglio sarebbe per il Mediterraneo riferirsi ad un’area islamico-mediterranea che potrebbe così includere il mondo ottomano, che non è arabo ma musulmano; la Spagna che è stata anche arabo-islamico-giudea, o la Sicilia medioevale e moderna, in una storia dunque che comprende tutto il Mediterraneo. Corre dunque l’obbligo di tentare di delineare con semplicità alcune linee di miglior comprensione dell’Islam come religione e della concezione islamica dello stato come fattore politico aggregante, nonché degli ismi che si sono diffusi nel mondo islamico, sia esso arabo o non. Ma gli ismi pericolosi non si agitano solamente su una sponda del Mediterraneo. Anche i Balcani sono di nuovo in fiamme e i paesi europei non sono esenti da fiammate di terrorismi.
17. Alla luce della storia e dell’influenza che da sempre l’Islam ha avuto sulla concezione statuale – essendo il sacro e illuminato testo del Corano la legge che guida tutti i comportamenti politici, civili e sociali –, cioè di queste interazioni importanti, si può comprendere come storicamente si siano formate entità politiche durevoli basate su un profondo senso di identità collettiva. Si è a lungo parlato di concetto di nazione araba e di panarabismo: è indubbio che nel passato se ne è parlato, almeno nella percezione occidentale, soprattutto come alternativa al dominio imperialista. La consapevolezza delle proprie tradizioni culturali e religiose è motivo di orgoglio per tutte le popolazioni mediterranee.
18. La posizione geopolitica dei paesi del Maghreb e del Mashreq fa di questi stati una frontiera culturale, come si è sopra schematizzato, una linea politica ed economica di grande importanza, soprattutto dopo la fine della cosiddetta guerra fredda, con i profondi cambiamenti avvenuti nell’est europeo. Il rispetto dei diritti naturali dell’essere umano è profondamente inserito in tutte le sure del Corano. Se però si utilizza un testo religioso per adattarlo ad una politica di sopraffazione, ciò riguarda la parte meno nobile della natura dell’uomo. Ma questo è successo anche nel mondo occidentale, pur se qualche secolo fa.
19. L’Islam moderato può essere un ottimo fattore di espansione per la società del Vicino e Medio Oriente, che rispetta i locali valori tradizionali, uniti al desiderio di una vita democratica, anche se non intesa nel modo in cui viene applicata nel mondo occidentale. Occorre che quei governi e quelle popolazioni trovino la loro via alla democrazia, che non deve essere necessariamente strutturata come quella degli stati che da più lungo tempo ne hanno esperienza e che sono gli eredi diretti dell’Illuminismo, della Dichiarazione americana d’indipendenza, della Rivoluzione Francese e di quella Russa. Le esperienze politiche maturate con diverse tradizioni culturali e religiose non sono comunque e ovunque esportabili. Occorre che il mondo occidentale, in particolare l’Europa, comprenda questi tratti fondamentali dei suoi vicini al di là del Mediterraneo e li rispetti, aiutando, soprattutto dal punto di vista economico e finanziario, gli stati rivieraschi che ne hanno bisogno, a ricostruire una vita sociale e politica senza terrorismi e senza monopoli assurdi di potere. L’aiuto economico non deve essere di carattere neocoloniale, cioè badando ai profitti della propria economia, ma investendo in quei territori e reinvestendo gli utili lì stesso, fino al momento in cui gli stati non avviino una economia sana e bilanciata, che consenta la formazione di un numero adeguato di posti di lavoro. La pace sociale può essere musulmana e democratica, nel rispetto dei valori culturali algerini. Il colloquio da avviare è anche con i partiti islamici, senza averne una paura irrazionale o giudicando gli avvenimenti con pregiudizi e stereotipi radicati.
20. Ad esempio, attualmente un intervento del mondo occidentale in Algeria, che non sia esclusivamente economico, finanziario, di aiuto tecnologico per il progresso della nazione, sarebbe un grave errore. Il terrorismo deve finire, ma i mezzi per combatterlo non sono solo le armi e la repressione: sono il lavoro, il cibo, le case, l’istruzione, la pace sociale. Non bisogna dimenticare che i giovani sotto i trenta anni costituiscono la fascia più ampia della nazione algerina e quella che ha i maggiori problemi di adattamento. Ma l’Algeria è un paese dalle molte risorse, che, ben gestite, potrebbero efficacemente contrastare il terrorismo e i suoi finanziatori e assicurare stabilità alla nazione e alla regione mediterranea. Un’Algeria instabile o che cerchi di ottenere una leadership militare rispetto ai suoi confinanti potrebbe essere seriamente un problema per la sicurezza del Mediterraneo; non un’Algeria islamica moderata, integrata in una comunità europea allargata a sud e in una rete commerciale ed economica di progressivo sviluppo.
21. Attualmente l’Algeria può rappresentare decisamente un focolaio di insicurezza per la situazione generale strategica attuale, così come lo è la Palestina e il conflitto che la oppone ad Israele. Questi conflitti vanno risolti con la diplomazia e con i governi civili, evitando pericolosi interventi armati, ove possibile. Le missioni di "pace" siano veramente missioni di pace e non ulteriori fattori di instabilità locale. Se i movimenti islamici riusciranno a ricondurre la pace sociale in Algeria, devono essere accettati da tutto il mondo occidentale, con la consapevolezza che ogni popolo, nel rispetto dei diritti dell’uomo, ha il diritto e il dovere di scegliersi le forme di governo che desidera. Gli altri stati del consesso internazionale devono aiutare, soprattutto economicamente, in modo produttivo, gli stati con maggiori difficoltà a trovare la loro via di costruzione o di ricostruzione di una nazione. La popolazione algerina sembra aver compreso che deve risolvere i problemi con la forza della sua volontà. Se il governo al potere è un regime assoluto, deve essere isolato. Se il benessere e la sicurezza dell’Algeria passano attraverso un governo islamico, che rispetta i diritti umani, si accetti questa possibilità, senza respingere alcuna prospettiva, con una chiara condizione: che cessi il terrorismo e relazioni di civiltà riprendano tra i vari gruppi politici, per consentire lo sviluppo e il progresso della popolazione.
22. E’ vero anche i cambiamenti rivoluzionari avvenuti in quello che era l’impero sovietico nonché le accelerazioni politiche e economiche avvenute in Asia e in Africa stanno dando una diversa caratterizzazione ad alcune delle costanti politiche mediterranee e il fenomeno non è da sottovalutare.
23. I popoli del Mediterraneo da sempre si dividono in paesi a prevalente tradizione cristiana, paesi a prevalente tradizione arabo-islamica e un paese a prevalente tradizione ebraica. Pur avendo molto in comune, non sempre queste tradizioni sono riuscite a comprendersi e a convivere, forse anche perché spesso non si conoscono approfonditamente o non vogliono ammettere di conoscersi, rifiutando un dialogo che potrebbe essere invece fonte di benessere economico e sociale, come già lo è dove si è potuto concretizzare. Quello che per ora occorre mutare profondamente, nei paesi di tradizione cristiana, è una percezione convenzionale, stereotipa, dell’Islam. Commentatori, islamici e non, sono propensi a vedere l’Islam più come una religione nel senso occidentale della parola, ma bisogna ricordare che per l’Islam, la religione è la base sulla quale sono fondate e si integrano tutte le attività della società, economiche, sociali, intellettuali. La visione islamica permea di sé l’intera vita della società e degli individui, nel mondo islamico. Questo non vuol dire che la visione o la fede religiosa determinino in modo assoluto l’intero modo di vivere, perché ci sono vari aspetti, soprattutto nel mondo contemporaneo – anche per le influenze occidentali - che hanno una relativa autonomia, ma è pur vero che nell’insieme esercitano un certo controllo e una certa pressione.
24. E’ indubbio che i media occidentali attualmente presentino al proprio pubblico per lo più gli aspetti più inaccettabili dell’Islam: nella stampa quotidiana e in quella politica, l’Islam è quasi sempre rappresentato come una forza militante e violenta, intollerante, espansionista e ostile, rigidamente conservatore, arcaico e anacronistico e in ultima analisi, spesso brutale. E non viene fatta nessuna differenza fra quanto scritto dal Profeta e quelle che sono le interpretazioni degli scritti, elasticamente adattate, spesso, a una ricerca di potere o di pressione. Il sacro Libro del Corano non è solo uno dei più grandi e illuminati tra i libri profetici, ma è anche un capolavoro letterario di tutti i tempi. Accettato dai musulmani senza alcun dubbio, come rivelato a Maometto da Dio per mezzo dell’angelo Gabriele, 1300 anni fa, il Corano rappresenta la legge di base, le regole principali della condotta fondamentale per la vita degli arabi di osservanza musulmana. Certamente gli eventi della rivoluzione islamica in Iran, il modo in cui la legge islamica è stata imposta in Sudan, l’estremismo islamico in Egitto che ha portato all’assassinio di Sadat o il fanatismo dei militanti sciiti in Libano sono un esempio che fanno pendere la bilancia della percezione di questo mondo verso il modo in cui l’occidente vede l’Islam. Ma queste sono semplificazioni, banalizzazioni di quello che è in realtà l’Islam. Per esempio, le motivazioni per la militanza e la violenza, per la militanza violenta sono spesso assai complesse, e vanno da una innata pulsione che si può trovare nell’individuo di ogni società (la società cosiddetta occidentale ne ha molti esempi) alla reazione contro la militanza e la violenza di altre ideologie e spesso include anche un alto grado di auto difesa. Queste caratteristiche non sono confinate solo al mondo islamico, anche se molto spesso a questo si fa riferimento, quando si parla di fondamentalismo e integralismo. Le relazioni fra le autorità cristiane a Gerusalemme sotto il dominio degli ottomani, e la politica dei mandati, l’invasione sovietica dell’Afganistan, la liberazione teologica dell’America Latina, l’estremismo dei Sikh in India, l’attività del gruppo Baader-Meinhof e di altre simili organizzazioni sono esempi di quello che può suscitare la violenza ideologica e un fanatismo distruttivo. In molte discussioni l’Islam è stato troppo spesso presentato come qualcosa di molto diverso e ostile al mondo occidentale, anche se si deve riconoscere che da qualche anno a questa parte, in parte dovuto alla sempre più massiccia presenza di immigrati nella parte nord del mediterraneo, si stanno facendo notevoli sforzi per tentare di comprendere meglio quella civiltà e quei costumi. Ci sono molti parallelismi tra questa fede e le altre due che sono nate nella stessa culla, cristianesimo e ebraismo: lo stesso valore, ad esempio, viene dato al pellegrinaggio, alla coralità ecclesiale dell’adorazione, al valore spirituale del digiuno, alla morigeratezza e a una certa severità di costumi. Quasi le stesse proibizioni si riscontrano nelle tre religioni, e sia consentito aggiungere, lo stesso misoginismo. Concretamente ci sono differenze nei dettagli, nel modo di articolare il simbolismo. La sorgente dell’ispirazione può essere diversa, ma come Ibn Khaldun, Ibn Taaymiyya, al Mawardi e altri, nel passato e nel presente, hanno chiaramente riconosciuto, gli imperativi del potere da raggiungere nell’arena politica non sono differenti. L’applicazione pratica dei codici di comportamento è identica. Così come lo sono le regole di base per un vivere civile, per un vivere da essere umani, figli di uno Spirito Eletto, come lo si voglia chiamare, Jahvé, Dio o Allah. Indubbiamente, molti dei valori fondamentali etici e morali dell’Islam non sono sconosciuti, anzi sono molto familiari agli abitanti del mondo occidentale: la virtù, l’onestà, la compassione, la cura del bisognoso e del deprivato, la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la moderazione, il rispetto degli interessi altrui. Non tutto naturalmente viene sempre applicato nella vita di tutti i giorni, perché la natura umana è aggressiva, prepotente e per questo necessitano le regole di civile convivenza, sotto tutte le latitudini: e non ci sono primi della classe in nessun angolo del mondo contemporaneo, detentori dell’unica ricetta per la civiltà umana. Inoltre giustamente i pensatori musulmani insistono con regolarità sul fatto che i principi, le pratiche dell’etica delle altre ideologie erano consustanziali all’Islam fin dagli inizi e sono state spesso articolate, identificate, o definite nella rivelazione e nella prassi musulmana, mentre allo stesso tempo, gli stessi musulmani insistono sopra la distinzione e la separazione dell’Islam dalle altre ideologie. Ma queste interpretazioni di dotti e sapienti, nonché di letterati hanno fatto sì che esse siano state recepite in modo ostile nel mondo occidentale. L’Islam è molto più che una questione di fede o di dogma o di rituali. Offre linee guida per tutte le aree del comportamento umano. La guida viene data non solo per quanto riguarda le questioni concernenti la fede, ma anche per gli aspetti morali, sociali e gli standard culturali. Sono poi nel Corano quei principi generali che devono informare di sé la struttura etica, sociale, civile, economica e politica del mondo musulmano. E in certi casi la guida è data in forma di regole specifiche. La guida è stata elaborata lungo il corso di anni in un ben comprensibile codice di comportamenti. Ma poiché i principi e le regole stabilite nella rivelazione sono ideali e poiché la quasi totalità dell’Islam è influenzato dalla realtà e dalla pratica, la pratica attuale degli individui e della società è un importante elemento modificatore nell’identificare quello che i musulmani credono sia Islam da comprendere e da applicare. L’Islam, in se stesso, come religione e fondamento di pensiero non è un pericolo per la stabilità della regione, così come non lo è il cristianesimo o l’ebraismo. Il vero pericolo è dato dalle componenti politiche che dichiarano di ispirarsi o di uniformarsi alle leggi religiose, nel tentativo di arrivare ad esercitare un potere politico con ogni mezzo e per arrivare a questo fine scatenano la violenza, che è la vera nemica, insieme naturalmente a problemi sociali, come le migrazioni di massa, o a problemi economici, che indeboliscono le economie dei singoli stati, della stabilità della regione mediterranea, in una regione dove gli scontri sono stati poi incontri di civiltà diverse, ugualmente grandi e degne dell’essere umano.
25. E’ indubbio che nel corso degli ultimi cento anni i paesi che si affacciano sul mediterraneo siano molto cambiati, per quanto riguarda almeno il numero della popolazione passata dai 120-125 milioni degli inizi del secolo XIX ai 425-430 milioni dell’inizio del XXI secolo. L’aumento della popolazione è stato dovuto soprattutto alla sponda sud del mare, mentre anche in Europa la popolazione aumenta, ma ad un tasso di crescita decisamente inferiore. Nel già citato volume di André Nouschi(9), viene fatta una analisi molto interessante dei cambiamenti riscontrati nella regione negli ultimi cento anni: lo studioso francese fa notare che nel 1914 gli uomini erano per lo più dei contadini, dal 75 all’85%, mentre nella popolazione del 2000, la maggioranza sono cittadini (tra il 50 e il 70%); le città sono sovrappopolate mentre le campagne sono abbandonate, anche se in gran parte dell’Europa si sta assistendo al lento fenomeno della rivalutazione delle stesse e della vita agricola, organizzata però con metodi manageriali e su base industriale. Sempre più le megalopoli diventano numerose e le bidonvilles fanno parte delle grandi città. Questo accade sia a nord che a sud. Sempre più la forbice tra le varie classi sociali si amplia, invece di richiudersi.
26. Le tensioni sociali sono quindi forti, in un quadro complesso di grandi convergenze e forti contrasti: e su queste tensioni, soprattutto nel mondo musulmano si innestano l’integralismo e il fondamentalismo islamico. Sono due ismi sui quali molto discettano studiosi occidentali e molto discutono, cercando di comprendere a fondo la differenza fra questi due ismi. Volumi di articoli e saggi sono stati scritti su questo argomento. In questa sede non interessano tanto le interpretazioni dell’essenza delle denominazioni, quanto le conseguenze che essi possono avere non solo nel bacino considerato, come forza politica o di sovvertimento politico, che influenzano direttamente le vicende della comunità internazionale, destabilizzando intere regioni.
27. Relativamente al problema dell’emigrazione dalla sponda sud del Mediterraneo alla sponda nord, si può concordare con l’opinione di Fuller e Lesser(10), che l’esistenza delle comunità musulmane in Europa sono la sfida più importante all’Islam nel secolo XXI e possono diventare un vero elemento di destabilizzazione all’interno stesso dell’Europa, fin nella mittel Europa. Una destabilizzazione politica all’interno di alcune delle nazioni europee a causa di una non corretta organizzazione del problema immigrazione di matrice islamica o comunque clandestina, anche se non musulmana, può avere delle forti influenze su tutto il Mediterraneo, sponda nord e sud. Vi sono sempre state emigrazioni epocali di grande ampiezza e questi ultimi anni indicano che siamo in una di queste fasi. Grandi comunità musulmane hanno deciso di vivere in società secolari, delle quali non condividono molti aspetti della vita sociale, accettandone però i lati positivi dal punto di vista libertà, democrazia, assistenza sociale. Ma saranno proprio le comunità musulmane che vivono in Europa ad avere un peso influente sulle relazioni fra i paesi europei e quelli a sud del Mediterraneo e quindi ad essere uno degli elementi chiave per il mantenimento di una stabilità mediterranea.
28. Rivediamo ora più approfonditamente la situazione relativa ai fattori ambientali, cioè quei fattori che incidono sulla vita degli esseri umani a quelle latitudini. Da quando sono stati scoperti e sfruttati petrolio e gas, la loro produzione è aumentata in proporzione geometrica fino al 1979, si è ristretta dal 1979, anche a causa della risoluzione islamica in Iran e per il conflitto Iran-Iraq; dal 1985 ha ripreso a crescere continuamente, ma in modo inferiore al primo periodo. L’altalena dei prezzi ha sempre seguito le politiche dei vari stati produttori, e questo ha fatto sì che i grandi consumatori quali l’Europa e il Giappone, abbiano ridotto i consumi, cercando energie alternative, quali l’energia nucleare e l’energia eolica. Dal punto di vista delle energie alternative naturali quali quelle eoliche o solari, il Mediterraneo è ancora una volta pieno di risorse, possedendo in abbondanza queste due ultime energie, visto che le risorse idrocarburi sono limitate nel tempo (dai 50 ai 100 anni, se non si scoprono nuovi giacimenti remunerativi). Algeria, Libia e Egitto hanno petrolio per il prossimo trentennio, mentre le riserve di gas per Algeria e Libia sono più importanti e con più lunghe prospettive. Inoltre uno dei problemi che affanna il Mediterraneo è quello dell’inquinamento delle acque e dell’ambiente in genere.
29. Ben si sa che la vita dipende primariamente dall’acqua che non è inesauribile, come si credeva, fino a relativamente poco tempo fa. Le regioni più favorite sono quelle aperte ai venti dell’ovest e alle zone montagnose: vedi l’Anatolia, in Asia Minore; la catena dell’Atlante marocchino. Per i paesi dell’est e del Sud, l’acqua rappresenta circa il 7% della superficie totale. Al contrario le zone dove le precipitazioni sono inferiori a 400mm all’anno sono numerose, senza contare quelle che subiscono l’influenza del deserto. Le trasformazioni dell’economia e della demografia rendono la questione dell’acqua ancora più preoccupante. L’accrescimento della popolazione costituisce un primo fattore di squilibrio generale: l’esplosione urbana sempre meno controllata costituisce l’altro fattore di squilibrio che accelera il degrado della vita quotidiana. Quindi la crescita demografica, l’estensione delle superfici coltivate, lo sviluppo dell’industria e del turismo comportano un consumo sempre maggiore, soprattutto nelle città e questo aumento si è rivelato consistente soprattutto dopo gli anni ’60. Delle dighe sono state edificate nel Maghreb, in Spagna, in Turchia, in Egitto(11). Bisogna però considerare che le dighe non sono la soluzione più salutare per questi problemi. Si è visto con la diga di Assuan: dopo alcuni anni ha avuto un effetto destabilizzante sulla fauna nel delta del Nilo e sul suolo vicino dove la salinità è aumentata terribilmente. Malgrado tutte le precauzioni degli ingegneri, la diga si invasa sempre più e la quantità di acqua che riesce a fermare diminuisce di anno in anno. Peraltro i francesi avevano avuto una esperienza similare in Algeria nel secolo scorso. Nel 1985 l’Egitto era alla soglia minima di consumo di acqua per abitante (1000 m3) mentre in altri paesi come Israele e Giordania si era già ben al di là di questa soglia. Da molto tempo gli abitanti dell’Algeria hanno acqua solamente per qualche ora al giorno e qualche ora di notte. In tutti gli alberghi del Sud del Mediterraneo si raccomanda ai turisti di economizzare l’acqua. Al di là di questi problemi di natura domestica, il problema dell’acqua ha dei risvolti politici importanti di natura internazionale: ad esempio tra i paesi arabi e Israele per le acque del Giordano; tra la Turchia e i suoi vicini Siriani e iracheni, perché i Turchi vogliono trattenere le acque del Tigri e dell’Eufrate, con il pretesto che le loro sorgenti sono in territorio anatolico. Il far rimanere le acque di questi due fiumi in Anatolia fa correre un grave pericolo per gli altri paesi rivieraschi e bisogna convincere turchi e israeliani che non possono avere il monopolio di quei fiumi nel loro stesso interesse. Le acque del lago di Tiberiade si abbassano di anno in anno e i coloni devono avere la possibilità di irrigare i loro campi. Dove attingere l’acqua? Di già gli ingegneri idraulici israeliani hanno profondamente sfruttato le falde acquifere sotterranee per far fiorire i deserti e continuando così, la colonizzazione ebrea aggiunge minaccia alla minaccia per i palestinesi e la loro autonomia: da una parte interpreta gli accordi di Oslo a suo modo e dall’altra è una minaccia all’equilibrio ecologico delle regione, intesa in senso lato. D’altra parte la deforestazione e l’espansione urbana distruggono l’equilibrio vegetale che poi è indispensabile per trattenere le acque; ci si sforza di rimboschire, come cercano di fare Israele, Tunisia e Algeria chiedendo peraltro alla popolazione di partecipare con giornate apposite, anche per creare una coscienza ecologica. Ma basta tutto questo di fronte al consumo delle acque utilizzate dalle industrie e non riutilizzate, dopo accurata depurazione? E che dire dei rifiuti che le stesse industrie gettano nel Mar Mediterraneo? Ed ecco dunque che l’inquinamento ha dimensioni gigantesche in Europa e soprattutto nelle grandi città del sud. I canali del Cairo sono divenuti delle fogne a cielo aperto. Che dire di un bellissimo quartiere di Damasco, Ghouta, una volta oasi dal grande charme e ora quartiere urbano, mentre ad esempio l’oasi di Gades ha visto impiantarsi delle industrie? In molti porti sia europei che mediorientali, le acque utilizzate fluiscono in mare senza depurazione e continuano ad accrescere l’inquinamento dei mari che a loro volta inquinano le terre. Se l’acqua è importante altrettanto lo è la terra: ma le terre si stanno desertificando. La sterilità delle terre si sta estendendo dalla Grecia, al Maghreb, al Libano. Questa sterilità dei suoli rischia di accelerarsi se non vi sono programmi coordinati di rimboschimento e sfruttamento del suolo, con colture rotate e con l’uso attento delle acque. La lista delle devastazioni che riguardano milioni di ettari è vasta.
30. L’altro problema grave di quelle zone è il forte inquinamento del Mar Mediterraneo, considerato molto spesso la pattumiera di molti stati. L’inquinamento minaccia le coste ma minaccia soprattutto le attività economiche quali la pesca, innestando un ulteriore elemento di difficoltà in quel mare. Questi sono fenomeni che si stendono su un lungo periodo mentre le minacce più immediate dovute alla negligenza o all’indifferenza per preservare l’avvenire sembrano più gravi per la semplice vita degli uomini.
31. I paesi dell’Europa mediterranea hanno in comune l’esigenza di dover risolvere un insieme di problemi sociali che vengono comunemente definiti come problemi del sottosviluppo. E questi problemi hanno le stesse caratteristiche sostanziali sia a nord che a sud. E’ in atto un grande scontro non di religioni, ma di ideologie per il possesso del potere e soprattutto per l’esercizio del potere; di economie sviluppate che tendono alla globalizzazione per sopravvivere e prosperare, soprattutto.
Molti dunque sono gli elementi da valutare per comprendere e tentare di analizzare quanto sta avvenendo nel Mediterraneo.
E’ evidente che l’emergere di un Islam duro, purificato dalle sue scorie ‘coloniali’, è la nota dominante dei paesi a sud del Mediterraneo e anche nell’est europeo (qui, insieme a nazionalismi mai sopiti), ma è, da una parte, una reazione di rivalutazione di valori, rispetto ad un degrado degli stessi, che si è andato progressivamente appesantendo nel periodo post bellico nella sponda nord del Mare. Dall’altra è il riemergere di antiche contrapposizioni culturali ed economiche, soprattutto. Per questa ragione con la bandiera dell‘Islam si agitano rivendicazioni socio-economiche e un forte desiderio di esercizio del potere.
Alla pace e ai principi imposti agli inizi di secolo dalle potenze europee, si sono sostituite guerre fratricide, guerre civili per la supremazia del potere e l’imposizione della propria visione di sviluppo economico e di rapporti con i paesi non islamici. Problemi interni che hanno però grande rilevanza esterna. Tanto più ora che l’emigrazione delle popolazioni della riva sud verso il nord ha portato questi problemi fuori dal territorio metropolitano, nei paesi europei di insediamento. Le fratture tra membri delle stesse comunità sono più frequenti di quel che non si pensi e riproducono, anche se in modo diverso, le differenze di ideologia che si presentano nella madrepatria.
Per riassumere sinteticamente quanto fino ad ora analizzato sia pur con brevi note, su problemi sociali, problemi economici, problemi ideologici ed integralismi, peraltro non solo musulmani, si può dire che il Mediterraneo è per eccellenza la regione dei conflitti, delle dominazioni, ma dei forti rapporti, economici e culturali, tra le diverse popolazioni che vivono e vivrebbero ancora di più, complessivamente nello stesso modo. Per evitare un pericolo o combattere un nemico, occorre conoscere bene il nemico e valutare nel giusto modo il pericolo, per evitare soprattutto di avere falsi obbiettivi e disperdere le forze che sono sempre troppo poche.
Il vero pericolo per una stabilità nel Mediterraneo non è l’Islam, come religione o come modo di vivere, anche se alcuni problemi, quali quello del velo per le donne, potrebbero far intendere in tal maniera. Il vero pericolo è l’instabilità economica, la recessione, l’ineguaglianza continua delle risorse e il loro non equo sfruttamento, che può alimentare il fuoco degli ismi, fino a farlo divenire incendio divampato. Un esempio: la guerra fra arabi e israeliani è forse anche guerra di ideologia, certamente, ma è soprattutto guerra per le terre da coltivare e sulle quali vivere, terre che in origine appartenevano a tutti i palestinesi, cristiani o musulmani che fossero. Guerra per vivere sul proprio territorio. Oltre a questo la Palestina è stata anche un terreno di prova e di conflitto per le superpotenze mondiali. Ove la situazione economica è molto carente, estremismi di carattere terroristico, di qualsiasi matrice siano, hanno ottima presa
Il pericolo è una seria mancanza di dialogo, di reciproca conoscenza, di reciproco rispetto, di squilibri economici, di mancato riconoscimento dei più elementari diritti umani: ma questo non avviene quasi mai per motivi ‘religiosi’, ma per la mancanza di una democrazia, peraltro non sempre da intendere secondo i canoni occidentali più integralisti in merito.
Il pericolo va studiato attentamente per non farlo diventare realtà, ma ove sia valutato non correttamente, si rischia a) di contrapporsi ove non vi sia reale bisogno e b) di lasciare varchi ove invece subdolamente si insinua un potere assoluto, politico o economico, che soffoca qualsiasi critica, pur parlando di religione o di democrazia. Questo può avvenire sulle sponde sud o sulle sponde nord del Mediterraneo.
E’ indubbio che la sicurezza post-guerra fredda è slittata dal centro dell’Europa alla periferia, specialmente verso il sud. Il risultato è che il Mediterraneo sta diventando molto importante nel futuro in termini di sicurezza locale e regionale.
E’ altresì indubbio che specialmente sulla sponda sud di questo Mare sono presenti tutti gli elementi che portano ad una instabilità politica e alla mancanza di sicurezza. Ancora una volta, però, occorre ben comprendere dove sono i veri pericoli, evitando di combattere falsi obiettivi. La situazione si presenta molto complessa e deve essere studiata, non solo con moderni mezzi messi a disposizione dalla avanzata tecnica satellitare e informatica contemporanea, ma con presenze conoscitive e ricognitive sul posto, perché solo la mente umana può dare le giuste coordinate, se a corredo di queste ricognizioni vi è una profonda conoscenza del territorio, della sua storia e dei suoi problemi passati e in essere.
NOTE:
(1) Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Bompiani, Milano, 1992, p. 7.(2) Ben aveva compreso l’importanza del petrolio alla vigilia della prima guerra mondiale Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato: era stato interessato da Sir Francis Hopwood all’acquisto, per conto della Marina britannica, delle azioni della Compagnia concessionaria dello sfruttamento del petrolio in Persia. Per fare approvare tale acquisto alla Camera dei Comuni, che tendeva a non accettare l’offerta, egli disse tra l’altro:…nobody cares in war time how much they pay for a vital commodity…but in peace, price is rather an important matter…in years of peace we may acquire proper bargaining prices…the demand for oil is steady and is growing…There is a great potential demand behind…because once people are commmitted to the use of oil for engine….it is not possible for them to go back to coal… Questo parole furono dette il 17 giugno 1914.(3) Così scrive Bichara Kader in Il Mediterraneo. Popoli e risorse verso uno spazio economico comune di Agostino Spataro- Bichara Kader , Edizioni Associate, Palermo, 1993, p. 3.(4) Stefano Silvestri, Il quadro strategico del Mediterraneo unità o frammentazione, in Il Mediterraneo quale elemento del potere marittimo, Acta del Convegno di Storia Militare 16-18 settembre 1998 , Roma, 1998, pp. 357-363.(5) Ben lo sapevano i siriani quando nel periodo 1936-1939 tentarono in tutte le sedi internazionali di fare in modo che il porto di Alessandretta (attualmente Iskenderun, nella regione turca dell’Hatay), nell’omonimo Golfo, e il territorio circostante non fosse annesso ai turchi e fosse invece parte integrante della Siria. Il porto rappresentava la possibilità di sbocco al mare per i prodotti di tutta la regione di Aleppo e una posizione strategica di primaria importanza. Ancora oggi questo porto ha una notevole importanza strategica nel quadro dell’Alleanza Atlantica.(6) La Méditerranée au 20e siècle, Armand Colin, Parigi, 1999, p.5.(7) Ian Lesser- Ashley J. Tellis, Strategic exposure. Proliferation around the Mediterranean, Rand Institute, California, 1996.(8) Cit., p. 171.(9) Cit., p.333 e seguenti.(10) Graham Fuller e Ian Lesser, A sense of siege. The geopolitics of Islam and the West, Westview Press, A Rand Study, 1995, p.88.(11) Si ricorda storicamente la diga naturale di Marib: la sua sparizione, dovuta probabilmente ad un terremoto, comunque a fatti naturali, ha provocato la siccità del territorio dello Yemen del Nord, una volta considerato Arabia felix, per la fecondità della sua terra.
NOTE:
(1) Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Bompiani, Milano, 1992, p. 7.
(2) Ben aveva compreso l’importanza del petrolio alla vigilia della prima guerra mondiale Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato: era stato interessato da Sir Francis Hopwood all’acquisto, per conto della Marina britannica, delle azioni della Compagnia concessionaria dello sfruttamento del petrolio in Persia. Per fare approvare tale acquisto alla Camera dei Comuni, che tendeva a non accettare l’offerta, egli disse tra l’altro:…nobody cares in war time how much they pay for a vital commodity…but in peace, price is rather an important matter…in years of peace we may acquire proper bargaining prices…the demand for oil is steady and is growing…There is a great potential demand behind…because once people are commmitted to the use of oil for engine….it is not possible for them to go back to coal… Questo parole furono dette il 17 giugno 1914.
(3) Così scrive Bichara Kader in Il Mediterraneo. Popoli e risorse verso uno spazio economico comune di Agostino Spataro- Bichara Kader , Edizioni Associate, Palermo, 1993, p. 3.
(4) Stefano Silvestri, Il quadro strategico del Mediterraneo unità o frammentazione, in Il Mediterraneo quale elemento del potere marittimo, Acta del Convegno di Storia Militare 16-18 settembre 1998 , Roma, 1998, pp. 357-363.
(5) Ben lo sapevano i siriani quando nel periodo 1936-1939 tentarono in tutte le sedi internazionali di fare in modo che il porto di Alessandretta (attualmente Iskenderun, nella regione turca dell’Hatay), nell’omonimo Golfo, e il territorio circostante non fosse annesso ai turchi e fosse invece parte integrante della Siria. Il porto rappresentava la possibilità di sbocco al mare per i prodotti di tutta la regione di Aleppo e una posizione strategica di primaria importanza. Ancora oggi questo porto ha una notevole importanza strategica nel quadro dell’Alleanza Atlantica.
(6) La Méditerranée au 20e siècle, Armand Colin, Parigi, 1999, p.5.
(7) Ian Lesser- Ashley J. Tellis, Strategic exposure. Proliferation around the Mediterranean, Rand Institute, California, 1996.
(8) Cit., p. 171.
(9) Cit., p.333 e seguenti.
(10) Graham Fuller e Ian Lesser, A sense of siege. The geopolitics of Islam and the West, Westview Press, A Rand Study, 1995, p.88.
(11) Si ricorda storicamente la diga naturale di Marib: la sua sparizione, dovuta probabilmente ad un terremoto, comunque a fatti naturali, ha provocato la siccità del territorio dello Yemen del Nord, una volta considerato Arabia felix, per la fecondità della sua terra
L’appello di Rosario La Duca "all’apertura di un dibattito che possa fare completa luce" sull’identità della terza salma riposta nel sarcofago porfireo di Federico II merita la massima considerazione, soprattutto perché vi si può leggere, fra le righe, la totale carenza di un saldo impianto storiografico, base necessaria e ineludibile di ogni ulteriore indagine che voglia fruire dell’ausilio di scienze che ancora sono ben lungi dal poter essere definite (ma lo saranno mai?) "esatte" e che, in ogni caso, debbono tacere se poste di fronte alla certezza del dato storico; il che è maggiormente vero se quest’ultimo è già noto prima dell’indagine scientifica medesima che così riceve dalla storia (verum et factum convertuntur) le proprie conclusioni. Questo "mistero", adesso, lo possiamo più prosaicamente chiamare XX e scusate se è poco! Quanto a XY, cioè quanto a Guglielmo d’Aragona Duca d’Atene e dei Neai Patriai, Marchese di Randazzo e Conte di Calatafimi, figlio di Federico III e fratello del regnante Pietro II, morto il giorno 11 maggio 1338, si ha la certezza che non occupò mai un posto, in verità scomodo, nel sarcofago fridericiano perché per sua volontà testamentaria, ritualmente espressa, dispose di essere sepolto nella Matrice della Capitale iuxta monumentum sacratissimi principis imperatoris Friderici, rivestito dell’abito dei frati Predicatori; dunque sepolto presso il sarcofago, come avvenne, e non nel sarcofago come potrebbe far credere la lettura affrettata del latino della Cronaca di fra Michele da Piazza: ciò fu chiaro a Rosario Gregorio che ne scrisse nel primo volume dei suoi Discorsi intorno alla Sicilia mettendo in evidenza il distico che campiva (e campisce) sul frontale del sarcofago del principe reale in cui sono ripetute ben due volte le tessere del Regno di Sicilia, i pali rossi della Casa di Barcelona con l’inquartato in croce di Sant’Andrea e le aquile dello svevo Manfredi:
Dux Guillelmus erat genitus regis Friderici Qui iacet hic pro quo Christum rogitetis amici.
Quando il padre della storia del Diritto Pubblico siciliano, Rosario Gregorio, scriveva e pubblicava, correva l’anno del Signore 1831; il distico sopra riportato è ancora leggibile sul sarcofago di Guglielmo d’Aragona che, nonostante la distruzione dell’antico cimitero reale nell’ala sud del titolo del tempio gualteriano e il conseguente trasferimento delle tombe reali e imperiali, è sempre iuxta monumentum, presso il sarcofago dell’imperatore Federico, nel muro orientale della seconda cappella della navata meridionale di quella che è pur sempre la Chiesa dell’incoronazione, sacra al riposo eterno dei Sovrani del Regno nel sole: purtroppo per gli amanti del giallo, l’interessante capitolo per individuare dove sia andata a finire et caetera si chiude prima di essere aperto. Eliminato dal sarcofago XY, la ribalta, si fa per dire, resta tutta di XX che è stata sempre tale anche nella coscienza popolare anche se la certezza scientifica la si è conseguita soltanto nel 1781, con un certo anticipo sul primo anno del terzo Millennio e la si è avuta puntualmente documentata fin dal 1784 nello splendido volume di Francesco Daniele I Regali Sepolcri del Duomo di Palermo pubblicato in Napoli, una copia del quale è custodito presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana alla segnatura Bibl. B. C. 3. H. 28. Per inciso sia detto che l’opera del Daniele, supportata discretamente da Rosario Gregorio, soddisfa perfettamente il desiderio di conoscere quanto è successo dopo l’apertura del sarcofago di Federico II nel 1781 e il suo trasferimento nell’attuale area sepolcrale. Val la pena di rileggere la descrizione della disposizione delle auguste salme quale si presentò subito dopo l’apertura del 1781, descrizione contenuta nelle pagine 104 e 105 del citato Daniele: Dischiusa che fu l’arca di questo sepolcro, si presentarono alla prima due corpi, sotto quindi stava il terzo; e quello ch’era al lato destro, si copriva di un manto regale, sebbene fosse tutto cucito in un sacco alla cui estremità verso la testa avea un ricamo di piccole perle che rappresentavano tante aquilette, che formavano corona; di più avea di spada armato il fianco le quali cose tutte ci condussero ad opinare, essere un Re; ed a riconoscerlo per Pietro II d’Aragona ci servì di guida ciocchè di lui lasciò scritto il Surita cioè, ch’essendo egli morto in Calascibetta l’anno del Signore 1342, fu il suo corpo trasportato in Palermo, dove ebbe sepoltura nel Duomo accanto all’Imperatore Federico; e le stesse aquilette ricamate nella parte superiore del sacco il distinguono abbastanza per un principe aragonese. L’altro corpo di minor grandezza, giacea al lato manco, ridotto a nude ossa, avea il braccio diritto disteso sotto Pietro; anche si poté argomentare, essere ivi stato deposto prima di lui. Era questo involto in un logoro drappo, nel quale furono rinvenute due anelli d’oro con pietre di non molto valore; e per quanto si poté dallo scheletro conoscere, dovett’essere di donna, che nel denso buio dell’antichità non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata... Dunque nel sarcofago porfireo (si noti bene a sezione semicircolare) giace Federico sempre augusto che ne occupa tutto il fondo emergendone per un’altezza corrispondente allo spessore del corpo; alla destra di lui (ma sarebbe meglio dire su di lui dalla parte destra), il 18 agosto 1342, venne poggiato il cadavere di Pietro II figlio e successore di Federico III che, a sua volta, era figlio di Pietro I (III) d’Aragona e di Costanza figlia di re Manfredi che finalmente è una Staufer; dunque di sangue reale, ma non discendente diretto di Federico II il cui stipite è Federico von Buren, mentre lo stipite di Pietro è Goffredo el Pilòs conte di Barcelona: i diritti dinastici sul regno di Sicilia ducato di Puglia e principato di Capua vengono trasmessi alla Casa di Barcelona da una donna, da quella Costanza che è tanto determinata da farsi chiamare regina mentre Manfredi ancora vive. Appoggiata su Federico, dalla parte sinistra, giace XX, della quale Daniele scrive, lo si è detto, per quanto si poté dallo scheletro conoscere dovett’essere di donna, che nel denso buio dell’antichità non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata...: dunque lo scheletro, esaminato da un esperto di anatomia rivelò le caratteristiche della natura femminile, anzi quel mistero al femminile - che la scienza consegnò alla... scienza storica perché, torniamo a citare ancora il Daniele, non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata. Rosario La Duca ha creduto di poter attribuire un’identità allo scheletro di XX, formulando una tesi vanificata da presupposti chiaramente erronei concretantisi nell’asserzione secondo cui la sepoltura nella stessa tomba dell’Imperatore e Re presuppone non soltanto il sangue reale, ma anche la discendenza diretta dallo stesso Federico; ma anche nell’adesione all’ipotesi che assegna all’ignota XX un’età fra i 18 e i 25 anni; quanto alla sopradetta asserzione, essa è contraddetta dalla Legge Salica, cioè da uno strumento legislativo di cui tutti parlano senza sapere bene cos’è; a tenore di essa, un sarcofago deve contenere una ed una sola salma regale o meno; quanto all’ipotesi cronologica, c’è da dire che qualsivoglia identità si voglia attribuire a XX, si deve ricorrere a Dumas... venti anni dopo. Seguendo questo che per lui è un doppio filo d’Arianna, Rosario La Duca crede di poter pronunziare il nome di XX: Beatrice figlia di re Manfredi e di Elena, figlia di Michele Doukas Commeno (Angelo) despota d’Epiro, che il figlio prediletto di Federico II aveva sposato, in Trani, il 2 giugno 1259, dopo la morte della prima moglie, Beatrice di Savoia, già vedova di Manfredi III marchese di Saluzzo; la principessa bizantina aveva portato in dote al Re di Sicilia l’isola di Corfù e molte piazzeforti epirote, ma gli darà anche quattro figli Beatrice, Federico, Enrico, e Anzolino. Ovviamente, Rosario La Duca scarta Costanza, sorella di re Manfredi, in quanto figlia dell’Augusto e di Bianca Lancia, imperatrice romana d’Oriente in Nicea, rifugiatasi in Spagna e colà morta; e a fortiori esclude Costanza figlia di Manfredi e di Beatrice di Savoia, nonché sposa di Pietro I (III) d’Aragona, chiamata a regnare in Sicilia dopo il Vespro, morta in Catalogna nel 1302 e sepolta in San Francesco di Barcelona. Esclusa dalla tomba imperiale, Costanza regina di Sicilia occupa un posto notevole nella vita della sorellastra Beatrice, come si vedrà. Intanto, allo scopo di sgombrare il campo da uno, almeno, dei troppi equivoci che funestano questa storia, il buon senso, ma anche la conoscenza del tempo di crisi in cui vissero e morirono i protagonisti, suggerisce che la presenza della salma del re Pietro II e di quella di XX nella tomba di Federico è dovuta al vincolo di uno stato di necessità che si presenta due volte; la prima volta a 91 anni di distanza dalla sepoltura dell’Augusto, l’anno 1342, il 15 di agosto, data della morte pressocchè improvvisa di Pietro II in Calascibetta dove il Sovrano si era fermato nel corso di un’ispezione a occidente. Tre giorni dopo, il 18 di agosto, si hanno i solenni funerali nella Cattedrale di Palermo e la sepoltura della salma reale nella tomba di Federico II suo trisavolo per parte materna, dopo un sommario processo di imbalsamazione. Fra Michele da Piazza nella sua Cronaca così scrive: -Quo mortuo eius corpus fuit honorifice delatum in urbem Panormi et humatum in majori ecclesia, ubi regia corpora solent antiquitus sepeliri et humari (Ediz. Giuffrida, p. 70). L’Anonimo del Chronicon siculum - come già aveva messo in evidenza Corrado Mirto - annota commosso che regis Petri corpus seu cadaver die quo fuit sepultus, ac si viveret redolebat: la fragranza dell’imbalsamazione diviene metafora della bontà del Sovrano siciliano, ma il verbo adoperato dall’Anonimo si presta all’assonanza con quell’altro verbo di ben altro significato doleo, dolebat: Pietro II in morte si duole, come in vita dello stato in cui lascia il Regno: l’Angioino è tornato a sbarcare in Sicilia e assedia Milazzo, mentre stabilisce una testa di ponte in Calabria: la morte del Re scoraggia i difensori di Milazzo e li induce a una resa onorevole, ma altri tristi avvenimenti stanno per scuotere il Regno già provato da cinquant’anni di guerra. La sepoltura di Pietro II nella Capitale dei basileis mediterranei avviene in questa temperie di crisi, anche funeraria: l’apparato statale non ha i mezzi per erigere una tomba degna del sovrano che chiude il tempo degli eroi e così viene aperto il sarcofago porfireo di Federico sempre augusto che è, lo si è detto, nel cimitero dei re, nell’ala meridionale del titolo della Cattedrale panormita, come vuole la tradizione storica e la volontà espressa dello stesso monarca. Ben più amaro era stato il vincolo di necessità da cui era stato astretto lo stesso re Pietro alla morte del padre Federico III; il quale, mossosi da Palermo per passare l’estate ad Enna, si era ammalato gravemente in itinere, a Resuttano ed era morto, il 25 giugno 1337, tra Paternò e Catania. Nicolò Speciale si esprime con accentuata inflessione profetica quando scrive della morte del Sovrano... cantate canticum tenebrarum quoniam venit maesta dies et ineluctabile tempus debitum... amaritudinibus et doloribus Siculorum. Il grande Re nel suo testamento, dettato in Catania il 29 marzo 1334 e pubblicato da G. La Mantia nel 1938, aveva stabilito di esser sepolto in San Francesco di Barcelona vicino ai sepolcri della serenissima et beata domina Costanza madre sua e di suo fratello Alfonso, il re d’Aragona; oltre il luogo Federico aveva prescritto l’assetto della grande tomba in cui voleva giacere in maestà; una tomba delimitata da due altari che guardino verso l’altare maggiore della Chiesa francescana, cioè ad Oriente. Vuole, inoltre, il Sovrano che nelle more del trasporto della sua salma in Catalogna, la stessa salma abbia sepoltura provvisoria nella Cattedrale di Siracusa presso le reliquie di Santa Lucia di cui egli è devotissimo sia perché nel lontano 1273 egli era nato proprio nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, sia perché ritiene di aver ricevuto licet indigni a beata Lucia virgine et martire... innumerabiles gracias. E’ questa una disposizione testamentaria molto sofferta che sembra andare contro lo spirito e la lettera del Capitolo I dello stesso re Federico... nulla ratione vel causa ab ipsis fidelibus nostris Siciliae divertemus; sed quos Deus nobis sua provisione coniunsxit, individua vitae consuetudo tenebit et a persona nostrae coniugio nemo vivens in terris aliquatenus separabit; ma soprattutto sembra andare anche contro la ratio che aveva guidato la vita dell’eroe il quale appare combattuto se nel preambolo del paragrafo delle citate disposizioni funerarie dichiara che la sepoltura, come ogni altro atto sacramentario, è libera per qualsivoglia fedele e che questa libertà non arreca pregiudizio a nessuno, specie quando si sceglie il luogo dove sono sepolti i genitori o i parenti intimi. La disposizione testamentaria dell’eroe del Vespro avrà suscitato grande dispiacere nel Regno e non saranno mancati i tentativi, sia pure rispettosi, di far tornare Federico III sui suoi passi; conseguentemente, il preambolo sopradetto appare come una giustificazione (relativa a una larvata accusa), condotta sul filo della legge canonica. Alla fine, non sappiamo quando ma ne siamo certi, Federico recede dalla disposizione del marzo 1334 e ordina che la sua sepoltura avvenga nella Chiesa dove, l’anno 1296, era stato unto e coronato re di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua, nella Cattedrale di Palermo: neanche in morte, si separerà dai suoi Siciliani, ma la sua volontà avrà parziale attuazione: la sua salma trasportata a Catania, dopo essere stata vegliata nel Castello Ursino, viene sepolta provvisoriamente nell’Abbazia episcopale di Sant’Agata; il re Pietro II, subito dopo i funerali del padre scrive "fidelibus suis universis urbis Panhormi": Licet ad supplicationem vestram et predecessorum regni ordinem imitatus dictus dominus genitor noster elegerit in eadem urbe post eius obitum sepelliri, nihilo minus et loci distantia et aeris intemperie et agendorum inevitabile moltitudine subsistentibus electionem ipsam nequivimus adimplere. Depositum est itaque corpus eius in maiori Cathaniensi ecclesia, quousque nos habilitet dominus ad ea, que idem genitor noster ad huc vivens disposuit, et ideo vestra fidelitas non miretur. La lettera di Pietro II ai Palermitani prova che la disposizione testamentaria sulla sepoltura era stata modificata da Federico III su pressione energica della Capitale che aveva prospettato al Sovrano l’ordo predecessorum Regni, la tradizione che fa legge cui egli avrebbe dovuto conformarsi e a cui, infine, si conforma; ma prova anche la forza del vincolo di necessità: et loci distantia et aeris intemperie. la salma reale viene tumulata in una sepoltura provvisoria in attesa della traslazione a Palermo che non avverrà mai anche e soprattutto perché il regno di Pietro II è un ininterrotto susseguirsi di azioni belliche delle orde degli Angiò contro il Regno insulare che la Curia Romana vuole piegare rigettando ogni tentativo della diplomazia siciliana, di invasioni, anche se assai contenute, del territorio stesso del Regno gravato da interdetto, mentre il Sovrano e i suoi alti collaboratori sono perennemente scomunicati; finché nel 1348, la Sicilia viene flagellata dalla peste nera che il 3 aprile colpisce a morte il Vicario, l’Infante Giovanni duca di Atene e di Neai Patriai. Il quale, morto presso la Chiesa di Sant’Andrea nel bosco di Mascali, viene sepolto a Catania, nell’Abbazia episcopale di Sant’Agata, nello stesso sarcofago del padre, Federico III. Anche questa volta il vincolo dello stato di necessità grava sui vertici del Regno pressati dall’onere ineludibile della difesa del confine nord - orientale e orientale, mentre sta per esplodere l’agitazione inconsulta della feudalità, complicata dall’esistenza di fatto di due governi, quello del reggente in nome del re Ludovico e l’altro della regina Elisabetta di Carinzia, ovviamente sempre in nome del Re. Non rientra nell’economia di questo scritto seguire lo sviluppo di queste vicende, ma non si può non notare che il 17 ottobre 1355 il sarcofago che già custodiva le spoglie di Federico III e dell’infante Giovanni torna ad aprirsi per accogliere la salma del diciassettenne re Ludovico, morto di peste in Aci, alle porte di Catania, il precedente giorno 16: il vincolo di necessità che vanifica l’antico ordo è più che mai stretto e angustiante: il successore di Pietro II viene sepolto fuori della sua capitale e in un sarcofago che già contiene altre due salme: su tre personaggi reali, almeno due sono morti di peste, quella stessa peste nera del 1348 che aveva finito con il costituire una specie di endemia nella Sicilia orientale, cioè nella parte del Regno più esposta alle incursioni angioine. La necessità di sgombrare il campo da illazioni fuorvianti ha fatto si che ci si diffondesse sulla casualità del luogo di sepoltura dei Sovrani e dei personaggi reali determinato dal vincolo di necessità dalla morte di Federico III (1337) in poi, nonostante la istituzionalizzazione della sepoltura dei Sovrani nel luogo medesimo del sacro carisma della regalità, nella Cattedrale della Capitale del Regno (il tentativo splendido di Guglielmo II di impiantare il mausoleo della dinastia fuori delle mura di Palermo, nell’Abbazia di Santa Maria Nuova, sulle pendici del Caputo non avrà che un successo parziale); ma ora bisogna ritornare all’identità di XX sepolta nel tumulo di Federico II. Dice Rosario La Duca: E’ Beatrice di Svevia, figlia di re Manfredi, che avrebbe i requisiti da lui stesso affermati per avere l’onore di essere sepolta nel tumulo imperiale: la discendenza diretta e, quindi, il sangue reale in quanto figlia di Manfredi, l’età giusta. E si deve dire subito che i primi due requisiti sono tanto ovvii quanto generici e parzialmente smentiti dalla presenza nel tumulo di Pietro II che ha sì sangue reale, ma non è discendente diretto dello Svevo; il terzo requisito, l’età, non è posseduto da Beatrice che, peraltro, ha battuto strade ben diverse da quelle che conducono a Palermo; ma seguiamo per un momento, si fa per dire, la famiglia di re Manfredi dopo la battaglia di Benevento: la regina Elena d’Epiro subito dopo la sciagurata rotta fugge a Lucera con i suoi quattro figli che, come si è detto, sono nell’ordine Beatrice, Federico, Enrico e Anzolino; tenta quindi di imbarcarsi a Trani per raggiungere l’Epiro, ma il mare in tempesta la costringe a rifugiarsi nella fortezza il cui castellano tradisce, consegnandola agli Angiò assieme ai figli da cui viene subito separata e per sempre. Morirà non ancora trentenne, nella fortezza di Nocera dei Pagani, nel 1271. Di Beatrice, la figlia maggiore, indiziata di essere XX, si parlerà più sotto. Quanto ai tre figli maschi è certo che vengono rinchiusi in Castel del Monte, il più splendido dei castelli dell’imperatore Federico. Soltanto nel 1297 vengono loro tolti i ferri che portavano dall’età della ragione; fra il 1299 e il 1300, gli sventurati principi vengono portati a Napoli e rinchiusi nel Castello del Santissimo Salvatore a Mare. Qui muore, quasi subito, Anzolino; mentre il seguente anno 1301, Federico riesce a fuggire, dopo ben trentacinque anni di prigionia, vivendo ramingo e misero al punto che il cugino Edoardo d’Inghilterra sentì il bisogno di raccomandarlo a Clemente V perché fosse lenita tanta povertà. Dopo il 1309, il principe arriva in Egitto dove viene raggiunto dai sicari angioini. Enrico, il maggiore dei principi, divenuto cieco negli anni della prigionia, muore il 31 ottobre 1318, a cinquantasei anni, di cui cinquantadue trascorsi in prigione. A quanto sembra, Anzolino ed Enrico vengono sepolti a Canosa di Puglia. Ma si torni a XX; Beatrice? Ritessiamo, per quanto possibile, la trama della vita della principessa sveva. Come i fratelli di cui più sopra si è detto, nasce da Manfredi e da Elena d’Epiro l’anno 1260. A sei anni, dopo la morte del padre a Benevento, cade, assieme alla madre e ai fratelli, nelle mani di Carlo d’Angiò che la rinchiude, sola fra i familiari di re Manfredi, nel castello napoletano del Santissimo Salvatore a Mare, dove resta per ben diciotto anni, fino al 5 giugno 1284, quando la flotta siciliana al comando di Ruggiero di Lauria, violando le acque del golfo di Napoli, sconfigge una flotta angioina condotta da Carlo d’Angiò principe di Salerno che viene catturato: immediata la richiesta e perentoria: si liberi la principessa Beatrice di Svevia e Carlo lo Zoppo avrà salva la vita. La consorte dell’Angioino, Maria d’Ungheria, è così costretta a consegnare Beatrice all’Ammiraglio della flotta siciliana. Questa splendida azione di guerra nel golfo di Napoli ricorda un brano di al-Umari, storico arabo del primo Trecento, messo in evidenza da Geo Pistarino: - I Siciliani sono gente di mare; i loro campi di battaglia non si stendono in terra, né sulle groppe dei cavalli. Ma quando prendono il mare e anneriscono le loro navi con giubbe di pece e seguono docili le redini dei venti, allora si che i primi albori spuntano di nottetempo dalle loro spade. L’armata loro solca il mare a levante ed a ponente; gira lungi e da presso; si ficca di nascosto in ogni luogo, fa perdere il sonno ad ogni nocchiero, sia ch’egli segga su doppio timone, sia che si appoggi ad uno solo; e fa preda d’ogni cosa posseduta da chi solca il mare, rompe ogni ostacolo che le si para innanzi e se vede navi da guerra, si le assalta e le piglia. Il clamore di questa beau geste è enorme; lo stesso Carlo I d’Angiò ne scrive al Pontefice a soli quattro giorni dalla terribile sconfitta, il 9 giugno, Indiz, XII, 1284, chiedendo sussidi in denaro per armare una flotta votata alla liberazione del principe prigioniero; e ancora nel 1288, il 15 marzo, Nicolò IV chiedendo ad Alfonso infante d’Aragona la liberazione di Carlo lo Zoppo, ne definisce la cattura "quasi piratesca", dimentico della "tirannide sconcia e brutale" di Casa d’Angiò. La liberazione di Beatrice e il ritorno della flotta vittoriosa in Messina tamquam portus et porta Siciliae hanno ispirato a Michele Amari una delle più belle e commosse pagine della Storia della Guerra del Vespro: L’Armata volse le prore a Messina. Dove al primo scoprir quelle vele, con susurro e ansietà precipitava il popolo alla Marina... ma visti i segni della vittoria e le galee prese e saputo prigione il principe di Salerno con tanti baroni, inenarrabile allegrezza si destò. Sbarcate le turbe de’ prigioni, proruppe il volgo, come e’ suole in ogni luogo, a insultarli; ricordando a gara la tirannide, l’assedio, le scambievoli offese, e molti le aborrite sembianza de’ baroni stati loro oppressori: onde aprian la calca i più avventati, e feansi a guardarli faccia a faccia, e dir dileggiando: - Chi fuvvi maestro a battaglia di mare? Oh sventura! dar le spade vai a Catalani ignudi, a Siciliani galeotti! Eccovi la seconda fiata trionfanti in Messina! A schivar peggio, il principe sbarcò travestito da soldato catalano. Ma la regina, i figli, i cittadini autorevoli raffrenarono la cieca ira, che già correva a suonar le campane a stormo, coll’antico grido "Morte ai francesi". Nel palagio reale dapprima fu sostenuto il principe; indi nel castel di Metagrifone con Estendard; non incatenati, nota uno istorico, ma sotto gelosa guardia di cittadini e soldati; e vietò la generosa Costanza ai figliuoli, che vedessero in quella misera condizione il figlio di Carlo d’Angiò"... La reina con molte lacrime abbracciava la sorella, campata come per miracolo dalle mani de’ nemici. Beatrice di Sicilia, finalmente libera, entra nel gioco diplomatico del Regno insulare, divenendo cemento di alleanza antiangioina... ovviamente con un matrimonio in terre lontane la cui logica diverrà più chiara seguendo, sia pure per un momento, i tentativi della Casa d’Angiò di stabilire una signoria o, subordinatamente, un potere egemonico che dalla Provenza si irradii nella regione pedemontana. Una analisi puntuale di questa stagione angioina in terra piemontese è stata compiuta da Anna Maria Nada Petrone e da Gabriella Airaldi nel V volume della Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso. Le studiose citate mettono in rilievo la presenza angioina in Piemonte dal 1259, cioè dall’anno in cui la sorda ostilità fra gli Angiò ed Asti sfocia in una guerra aperta. E’ allora che importanti centri pedemontani della zona sud - occidentale fanno atto di dedizione al Conte di Provenza, cioè a Carlo I d’Angiò: la motivazione sta nell’esigenza di superare la depressione economica, ma anche lo schiacciamento da parte della potenza astigiana. Carlo riesce, tuttavia a radicarsi tra le marche aleramiche di Saluzzo e di Monferrato, le terre dei Savoia e quelle di Asti. Dopo il 1265, anno in cui la Chiesa Romana investe il fratello ambiziosissimo di Luigi IX del regno di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua con l’intenzione palese di sradicarvi la Dinastia sveva, razza di vipere, lo splendore e il fascino dell’antica Corona provocano nell’Angiò una caduta di interesse verso la regione pedemontana; tuttavia, il Regnum per antonomasia, che farà di lui uno dei quattro sovrani d’Europa coronati ed unti con il sacro crisma, è soltanto una tappa verso il Palazzo delle Blacherne e verso la sperata apoteosi in Santa Sofia di Costantinopoli. Questa momentanea disaffezione porterà gli Angiò alla perdita dei territori pedemontani e - come ha osservato la Nada-Petrone - la perdita, per oltre venti anni, della capacità di inserirsi come forza attiva nella regione: causa ed effetto insieme della rotta di Roccavione del 10 novembre 1275 subita dai Provenzali ad opera di una vasta coalizione guidata da Guglielmo VII del Monferrato e da Asti. Nella lunga opera di preparazione di questo risonante risultato, Guglielmo VII del Monferrato si mostra capace di attuare un’accorta politica del doppio binario, riuscendo a tenere buoni rapporti con gli Angiò, ma preparando altresì, una solida piattaforma antiprovenzale, alleandosi con Manfredi di Sicilia e con Alfonso di Castiglia e cercando di estendere i propri domini territoriali nel Canavese, su Lauzo e Tortona, allo scopo di equilibrare il sistema turbato dall’espansione angioina che domina le vie verso la Francia del sud. I legami delle Signorie piemontesi con la Sicilia non sono certamente nuovi; mette appena conto di ricordare che Ruggiero I gran conte di Sicilia sposa, già nel sec. XI, Adelaide del Monferrato, l’aleramica che saprà preparare la grandezza del secondo Ruggiero e favorirà l’immigrazione nell’isola di consistenti nuclei "lombardi" per sottrarli alla povertà delle terre d’origine. Lo stesso Federico II imperatore e re, dopo lunghi anni di ostilità più ostentata che effettiva, finisce con il raccogliere i frutti della politica del Barbarossa e dello stesso suo padre Enrico VI: le Signorie piemontesi, i Marchesi di Saluzzo e del Monferrato, fieramente imperiali e ghibellini per lunga pratica, i Conti di Savoia, gli stessi Comuni di Ivrea, Torino ed Alessandria vengono presi, per usare un’espressione di Nada Petrone da una vera e propria frenesia filosveva che si attenuerà alla morte dell’Imperatore e Re, ma non si estinguerà e continuerà a covare come fuoco sotto la cenere che, di quando in quando, esplode in vivida fiammata come avviene per le alleanza sicule e iberiche dei Marchesi di Monferrato, di cui si è detto, lungo quel filo rosso antiangioino e anticuriale che verso la fine del secolo XIII porta l’altro ramo aleramico, quello dei Marchesi di Saluzzo, a ricercare l’alleanza siculo - aragonese. Si è negli anni in cui il subitaneo liberarsi di sopite energie ha scatenato la furia del Vespro che cancella per sempre i progetti imperiali di Carlo I ed è pure il tempo in cui la Dinastia angioina, prendendo coscienza del carattere irreversibile della perdita dell’isola che era stata il centro generatore del Regno, coscienza che si consoliderà dopo Caltabellotta (1302), cerca di riconquistare le posizioni perdute nella regione pedemontana; i centri che dominano le vie verso la Provenza dichiarano la loro dedizione al sovrano provenzale; i diversi rami dei Saluzzo (Manfredi IV, Giovanni Spadalunga, i Marchesi di Ceva, Enrico del Carretto) ma anche Filippo di Savoia - Acaia, fanno atto di omaggio; tuttavia, la politica del doppio binario tiene sempre banco soprattutto con i matrimoni; l’anno 1286, è la volta della figlia superstite dell’ultimo Sovrano svevo, Beatrice di Sicilia liberata due anni prima dal Castello del Santissimo Salvatore a Mare in Napoli e condotta, lo si è detto, in Messina dove a causa della guerra risiede la regina Costanza assieme all’infante Giacomo, i corregnanti di Sicilia. E’ il 1286 una sorta di spartiacque negli anni tempestosi del post Vespro: il 7 gennaio 1285, era morto, a 65 anni, Carlo I lasciando l’erede al trono prigioniero dei Siciliani fin dall’anno precedente; il 10 novembre era mancato nella sua capitale catalana Pietro I (III), a soli 46 anni, mettendo in moto il meccanismo delle sostituzioni: Alfonso, il primogenito, sale sul trono d’Aragona e ove fosse morto senza eredi sarebbe stato surrogato da Giacomo, il secondogenito, che, a sua volta, verificandosi la stessa eventualità, avrebbe avuto come successore il terzogenito infante Federico: è questo lo schema già predisposto a Portfangòs e in esso non rientra il Regno di Sicilia la cui domina è la regina Costanza; i diritti di quest’ultima erano stati riconosciuti dallo stesso re Pietro nelle c.d. deliberazioni di Messina, dettate dal Sovrano all’atto della partenza per il regno avito di Aragona. Così, il 2 febbraio 1286, il Parlamento generale del Regno, riunito in Palermo, riconosce Giacomo I re di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua, affiancandolo alla madre nella serie dei Sovrani del Regno; segue nella Cattedrale dell’urbe panormita, la coronazione dell’infante, nonostante le terribili scomuniche fulminate dai Romani Pontefici. Subito dopo, re Giacomo legifera in seno al Parlamento producendo una bella serie di Capitoli che adeguano la legislazione del Regno ai Capitoli angioini dati nella Piana di San Martino e ispirati dalla Curia romana che vuole dare un volto più umano alla Monarchia provenzale; ma le esigenze militari non possono essere certamente disattese e così Giacomo I arma due flottiglie con base nei porti di Palermo e di Messina. Egli stesso raggiunge Messina dove sviluppa le linee di una strategia volta a terrorizzare le coste occidentali del dominio angioino; dalla Calabria al Golfo di Napoli, più volte violato. Sono attorno a Re Giacomo e alla regina Costanza quanti dissentono dalla politica della Curia romana e in particolare dalla incondizionata protezione accordata alla Casa d’Angiò: fra costoro c’è un personaggio la cui presenza non soltanto non viene enfatizzata, ma è anche sottaciuta dalla pubblicistica sincrona: è questi Manfredi di Saluzzo, discendente del ramo aleramico il cui stipite era stato Bonifacio del Vasto marchese di Savona, figlio di Tommaso I marchese di Saluzzo figlio, a sua volta di Manfredi III e di Beatrice di Savoia che, rimasta vedova, fu sposa di re Manfredi di Sicilia. Come si è detto, in quel tempo, alla Corte aragonese di Sicilia vive Beatrice di Svevia figlia di Manfredi e della sua seconda moglie Elena d’Epiro, e anche questo sia detto, liberata nel 1284, dai ceppi angioini che la astringevano dall’età di sei anni. Manfredi di Saluzzo, che sarà il quarto marchese di questo nome, è lo sposo designato di Beatrice; lo strumento preliminare a quello, matrimoniale viene steso in forma solenne in Cuneo, il 3 luglio 1286 alla presenza si Pietro Sangiorgio di Biandrate, Giacomo, Paseri, Robaudo Braida, Antonio di Romagnano, Guglielmo di Rosseno, Amedeo di Verzuolo e dello stesso Manfredi; il quale viene dichiarato erede del marchesato di Saluzzo dopo la morte del padre e, perché possa mantenersi come vuole il suo stato, gli vengono assegnati i castelli di Centello, Busca, Acceglio, Bodino, Vignolo, Clissene, La Marmora, Pont, Celle, Lec, Paglieri Stroppo, Elva, Sampeire, San Damiano e Canosio. Queste notizie dettagliate si debbono alla diligenza di Delfino Moletti autore delle Memorie storico - diplomatiche appartenenti alla Città e ai Marchesi di Saluzzo, pubblicate da Carlo Moletti tra il 1829 e il 1833. Il citato storico di Saluzzo riferisce che, per quanto riguarda le notizie sul matrimonio del futuro Manfredi IV, egli dipende da una fonte di eccezionale rigore, la Cronaca di Gioffredo della Chiesa in cui è anche possibile leggere che a Madonna Beatrice figlia del fu re Manfredi di Sicilia e sorella di Madonna Costanza regina al presente di Aragona e di Sicilia il Marchese Tommaso padre di Manfredo per accrescimento di dote nel caso rimanga vedova non men che per suo vitalizio godere assegna il Castello e Villa di Scarnafiggi, i luoghi di Piasco, Melle e Castel del Ponte. Gioffredo della Chiesa, che scrive nel 1430 attingendo a più antichi documenti, dà conferma della politica del doppio binario praticata dai reguli pedemontani, spiegando le motivazioni del matrimonio di Manfredo e Beatrice: Et per rispetto che calcaduno potrebe essere admirativo che per cagione ando el marchese praticare questo matrimonio in Aragona la cagion fu che habiendo Don Pietro re tolta la insula di Sicilia al re Carlo di Angiò re di Napoli per il che erano inimichi, essendo al marchese deliberato de rahavere il suo che il re Carlo li tenia fece questa alianza. Et se estima fosse per mezzo del marchese di Monferrato al quale havia la figliola del re di Castella el quale havia a lui dato soccorso e mandato gente d’arme - como habiamo ditto nel 1274. Et similmente questa altra alianza poteva venire al proposito al marchese de Salucio... E’ evidente che Gioffredo della Chiesa si riferisce al contributo dato da Alfonso X, il Savio, suocero di Guglielmo VII del Monferrato, cui aveva dato in moglie la figlia Beatrice, alla citata rotta di Roccarione inflitta agli Angioini appunto nel 1274; ma preme soprattutto al cronista mettere in rilievo come un’alleanza iberica come quella già contratta dal Marchese di Monferrato poteva giovare al Marchese di Saluzzo; tuttavia, c’è da osservare che l’analisi del cronista non è tanto profonda da rilevare che l’alleanza dei Saluzzo con gli Aragona - Sicilia si rafforza con l’antico passante svevo che gli Aleramici del Monferrato avevano usato fin dai tempi di Guglielmo il Vecchio (1140 - 1188) che aveva sposato Sofia figlia di Federico I Barbarossa. Tornando alla vicenda personale di Manfredo e Beatrice, A. Tallone cui si deve il Regesto dei Marchesi di Saluzzo pubblicato a Pinerolo nel 1906, offre altri particolari interessanti che qui si riportano così come ce li trasmette lo studioso citato: (610) - 1286 Luisa, comitissa Salutiarum, uxor Thomae marchionis Salutiarum, consensum praestitit donationi per eundem marchionem eorum filio Mainfredo factae occasione matrimonii eiusdem Mainfredi cum d[omina] Beatrice filia quondam Mainfredi regis Siciliae (Reg. cit. p. 163). Con tutta evidenza questo regesto è da riferirsi all’atto del 3 luglio 1286 di cui si è detto; Luisa figlia del marchese Giorgio di Ceva e consorte di Tommaso I di Saluzzo approva la donazione fatta a Manfredi in occasione del suo matrimonio, donazione volta ad accrescere il prestigio dello sposo nei confronti di una sposa così illustre. A. Tallone cura la menzione di quest’approvazione in G. Della Chiesa, 924 e in Moletti, II, 443. Molto più interessante il regesto del documento relativo al versamento della dote:(623) - 1286, Xe 5; regni Iacobi regis Siciliae I°, ind. 15. Messina (sic). D[ominus] Mainfredus, filius d[omini] Thomae I marchionis Salutiarum, confessus est recepisse a d[omino] Iacobo rege Siciliae "uncias auri duo millia in iocalibus et annexis iuste et legitime extimatis et uncias mille ponderis geniralis" in dotem d[ominae] Beatricis filiae quondam regis Siciliae. Petrus Auselanis (sic) de Messina(sic) et Dicolossus Scypantus de Messina (sic) magnae regiae curiae iudices, Villelmus de Lepantus (sic) et Gofridus de Imperatore iudices Messinae (sic) TT.; Matheus di G..., n. (reg. cit., p. 104). Con la solita diligenza il Tallone appone anche a questo regesto le note d’archivio: il documento ha un’autentica del 1288, riportata al n. 638. del Regesto medesimo; copia cartacea non autentica, moderna, in Archivio di Stato di Torino, Saluzzo Marchesato, Cat. II, m. I, n. 5; inoltre in C. Moletti, II, 450, tratta dai "Regi Archivi". Altro regesto fa inquadrare meglio la situazione patrimoniale degli sposi e, più precisamente, della augusta sposa: l’anno 1287, Luisa di Ceva marchese di Saluzzo dona a Beatrice consorte del figlio Manfredi due mila libre di Asti: (624) - 1287. Aloisia comitissa Salutiarum, Beatrici, uxori filii sui Mainfredi, donationem fecit de duobus milibus librarum astensium. Il regesto è - come suole il Tallone - corredato dalle refluenze bibliografiche della notizia: G. Della Chiesa, 925; Moletti, II, 448. Dunque, l’anno 1287, Manfredi e Beatrice, già sposi dall’anno precedente, risiedono nel Marchesato. Qui, per completezza d’informazione, si riferiscono le voci diffamatorie che, a quanto sembra, corsero sui natali di Beatrice di Sicilia e che il Moletti riporta nella suaStoria di Saluzzo e dei suoi Marchesi, tomo II, 1829, pp. 441 e sg., attingendo a Salvatore Maria Di Blasi e al Moriondo, ma anche a Ludovico della Chiesa e a Francesco d’Agostino; scrive dunque il Moletti: - L’epoca di questo maritaggio è certa, ma egualmente certo non è, se dal primo matrimonio che contrasse il re Manfredi con Beatrice di Savoia, vedova di Manfredo III marchese di Saluzzo, o dal secondo contratto con Elena (da altri appellata Sibilia se pur ambi i nomi non ebbe) figlia di Michele despoto di Romania, sia nata la sposa Beatrice. Del primo sentimento sono il monaco benedettino Salvator Maria di Blasi ed il Moriondo. Il secondo parere tiene Lodovico Della Chiesa e con esso lui va d’accordo monsignor Francesco Agostino, sentenza questa la più probabile, avvegnache informandoci Niceforo Gregoro, istorico greco di quella età, che nell’anno 1260 spedì il re Manfredi le sue truppe in Romania per difesa del despoto suo suocero, veggiamo che a tal tempo già aveva celebrato il suo secondo matrimonio. Quindi quand’anche dir si volesse che la nostra Beatrice nata fosse negli ultimi anni di vita della prima consorte regina Beatrice, converrebbe tuttavia darle un’età attempata e niente confacente ad una sposa di giovine marchese, qual era il nostro Manfredo, la di cui età poteva giungere appena agli anni ventisette. Ma più di tutto mi distoglie dal credere che Beatrice fosse figliuola di primo letto il riflettere che tal figlia unendosi a Manfredo, avrebbe questi sposato chi era sorella uterina del suo padre: per altra parte poi attestandoci Saba Malaspina, scrittore anch’esso contemporaneo, che dalla seconda moglie di nazione greca ebbe il re Manfredi figliuoli e figlie, ma che di tutti una sol figlia sopravvisse, questa io tengo sia Beatrice sposa di Manfredo e sorella consanguinea della regina Costanza, che di lei cura si prese. Come si può constatare, il Moletti finisce con il seguire il Della Chiesa e l’Agostino, respingendo la nascita incestuosa di Beatrice e non soltanto perché gli ripugna credere che Manfredi di Saluzzo abbia sposato la sorella uterina del padre, ma anche sulla base di considerazioni fondate sulla cronologia e sulla testimonianza offertagli da cronisti e storici coevi, fra cui Saba Malaspina. Il coniugio tra Manfredi di Saluzzo e la principessa sveva dura venti anni, densi di eventi, che si inquadrano nella guerra del Vespro di cui si parlerà ancora, anche se brevemente. Intanto val bene rilevare che dal matrimonio fra Manfredi IV di Saluzzo e Beatrice di Svevia nascono due figli, Caterina, sposa di Guglielmo Engauna, Signore di Borge e della Valle di Po e Federico che premuore al padre e nel 1303, tre anni prima della morte della madre sposerà Margarita figlia di Umberto delfino di Vienna. Altre notizie non si hanno, almeno allo stato delle ricerche lodevolmente condotte dal prof. Natale Pasquale, studioso di storia del "natio loco" e non soltanto. La notizia più importante che sfugge all’oblio è quella della morte della principessa sveva che si apprende dal Moletti, tomo III, p. 76; scrive lo studioso citato: - Venne a morte nel dì 19 novembre di quest’anno 1306, Beatrice di Sicilia moglie del nostro Manfredo, e noi ne accertiamo il segnato giorno col mezzo del rituale del Monastero di Revello, nel quale leggesi annotato: 19 novembris anniversarium dominae Beatricis filiae quondam domini Manfredi regis Ceciliae et uxoris domini Manfredi primogeniti domini Thomae Marchionis Saluciarum, quae huic monasterio quingentas untias in suo testamento legarit. Commenta opportunamente Natale Pasquale, Pro manuscripto, Saluzzo 2000: All’epoca, è bene precisare, non v’era un luogo adibito a sepoltura della famiglia marchionale, come invece avverrà dalla fine del 1400 in poi nella Chiesa di San Giovanni, vero gioiello di artisti di scuola borgognona quale Antoine le Moiturier, con preziosismo di Benedetto Briosco o di Hans Clemer. I Marchesi e i familiari maschi eleggevano a loro piacimento il luogo di sepoltura, molto spesso nel monastero cistercense di Staffarda, mentre le donne venivano tumulate nei conventi di Revello o di Rifreddo, eretti dai Signori di Saluzzo per ricoverarvi la moltitudine di figlie femmine legittime e non. L’annotazione contenuta nel Rituale del Monastero di Revello che colloca al 19 novembre 1306 l’anniversarium dominae Beatricis, ci dà il giorno, il mese e l’anno della morte della principessa siciliana, ma certifica anche il luogo della sepoltura e l’età della morte, cioè la durata della vita. Quanto al luogo della sepoltura, non c’è da spendere molte parole: l’annotazione dell’anniversarium e del vistoso lascito pro anima in un documento liturgico solenne come il rituale della Chiesa Abbaziale non possono lasciare dubbi: Beatrice è sepolta a Revello. Quanto al dato cronologico, occorre richiamare alcuni dati ricorrenti in questo studio: Beatrice, nata nel 1260, viene catturata dall’Angioino dopo Benevento (agosto 1266) e rinserrata, ha appena sei anni, nel Castello del Santissimo Salvatore a Mare in Napoli. Dove resta prigioniera per ben 18 anni, cioè fino al suo 24 anno, fino a quel 5 giugno 1284 in cui Ruggiero di Lauria la restituisce alla libertà e all’amore di Madonna Costanza regina di Sicilia e d’Aragona e dei suoi nipoti gli infanti Giacomo e Federico. A due anni dalla liberazione, lo si è già detto, e cioè il 3 luglio 1286 si ha il matrimonio di Beatrice con Manfredi IV di Saluzzo che coincide con il compimento del ventiseiesimo anno della principessa siciliana. Dopo venti anni di matrimonio, il 19 novembre 1306, Beatrice di Sicilia marchesa di Saluzzo muore, a quarantasei anni dalla nascita. Evidentemente, Rosario La Duca scambierebbe una donna pressocchè cinquantenne con una donna che avrebbe un’età oscillante tra i diciotto e i venticinque anni, ma, potrebbe non essere il solo a sbagliare e confondere e tutto per colpa della mancanza di quel saldo impianto storico di cui si è detto. Con tutta evidenza, l’indagine sull’identità del terzo corpo contenuto nel sarcofago di Federico II non può essere ristretta a tre soli personaggi (Costanza sorella di Manfredi, Costanza figlia di Manfredi, Beatrice figlia di secondo letto di Manfredi di Sicilia). C’è un altro personaggio che bussa prepotentemente alla porta con il peso, con tutto il peso della sua presenza. Ma di questo personaggio si parlerà. Anche se la domanda non è pressante, val la pena di tornare a chiedersi dove può essere sepolta Beatrice di Svevia Marchesa di Saluzzo. Natale Pasquale in argomento scrive: - Purtroppo la soppressione dei summenzionati conventi femminili (Revello e Riffredo) e la loro caduta in rovina non permette più il ritrovamento di lapidi tombali. C’è però da dire che il vescovo saluzzese Ottavio Viale, in una visita pastorale effettuata il 28 luglio 1605 al suddetto Monastero ancora in perfetto stato afferma di aver qui rinvenuto i sepolcri dei marchesi di Saluzzo e dei loro familiari. Sepolture certo risalenti dal 1200 al 1300. C’era anche il sacello di Beatrice di Svevia? Dopo quanto si è detto più sopra è certo che ci fu (l’indicativo del verbo essere è intenzionale). Ma si ceda ancora la parola a Natale Pasquale che autorevolmente scrive: - Alla luce di queste premesse, anche se non esiste la certezza del luogo di sepoltura di Beatrice, mi pare altamente verosimile che sia tumulata qui in Piemonte. La prima ragione è che ai cronisti e agli storici non sarebbe sfuggita una notizia così inusuale del trasporto di una salma per più di mille chilometri affrontando pericoli, disagi e dispendio di mezzi; inoltre il denaro, riportato nel suo testamento, al Monastero di Revello, fa presupporre la volontà di essere colà inumata seguendo una consuetudine consolidata per l’aristocrazia femminile locale. Certo non è facile immaginare una duplicazione del corteo funebre di Federico II che si era snodato da Ferentino a Taranto, dove i solenni personaggi della Corte reale e imperiale e la numerosa scorta di armigeri, si era imbarcata per Messina, sostando nella città dello Stretto, quindi a Patti, per arrivare alfine nell’antica Capitale dove il popolo aveva ricevuto la salma imperiale in ginocchio lungo il Cassaro, seguendo la mistica di un potere che si vuole moderno, ma che resta fortemente carismatico, e l’aveva accompagnato in gramaglie nella basilica dove cinquantadue anni prima il quattrenne Federico era stato coronato con il sacro kamelaukion dei basileis mediterranei. Beatrice di Sicilia non si colloca nella serie dei sovrani del "Regno nel sole", quando lei muore, Marchesa di Saluzzo, la stessa concezione del potere muta o, se si vuole, assume nuove connotazioni: un funerale di duemila chilometri non è possibile, non è rituale e non è opportuno per la piccola marchesana. E non sembri strano che Beatrice non sia sepolta vicino a Manfredi IV di Saluzzo. Scrive Pasquale: - Per inciso, il marito Manfredo IV morì alla veneranda età di 81 anni nel 1340 e verrà sepolto a Farigliano, località delle Langhe, fuori del Marchesato, dimenticato da tutti; nel 1353, nella stessa località, verrà sepolta pure la seconda moglie Isabella Doria; costei figlia di Bernabò Doria darà a Manfredo di Saluzzo quattro figli: Manfredo V Signore di Corde e di Carigliano che sposerà Eleonora di Acaia; Teodoro Signore di Scarnefiggi; Bonifacio Signore di Torre San Giorgio; Eleonora che sposerà Oddone di Ceva. Inoltre, nella linea dinastica si inserisce Elinda, probabilmente bastarda di cui non si hanno altre notizie. In ogni modo, la quarantaseienne Beatrice di Sicilia, figlia di Manfredi re, folgorante come solleone al tramonto, non è sepolta nel sarcofago di Federico imperatore dei Romani sempre augusto, siculo, italico, gerosolimitano, borgognone, come si può leggere nella solenne intitolazione del Liber Augustalis. Dopo quanto si è detto, la terza salma del sarcofago fridericiano torna ad essere XX, anonimi cromosomi! Non pare, perché l’augusta signora, ancor oggi, lancia attraverso i secoli, un messaggio forte che non deroga alla solennità regale, un messaggio che parla di un amore venuto da lontano, circondando con il braccio destro proteso sotto i fianchi di Pietro II, il suo sposo. XX non può avere che un nome Elisabetta di Gorz Tirol dei duchi di Carinzia, figlia del duca di Carinzia Ottone e di Eufemia di Slesia: il matrimonio tra Pietro II ed Elisabetta di Carinzia era stato celebrato in Messina il 24 aprile 1323. Questo matrimonio è probabilmente l’unico che, in dieci anni e più di serrata diplomazia che Federico III va tessendo fra la stagione imperiale di Enrico VII di Lussemburgo e l’altra di Ludovico il Bavaro, riesca, al di là di ogni volontà progettuale, ad andare in porto, lungo un filo rosso che percorre tutta la politica del Monarca. Nonostante la dura determinazione che traspare dalla corrispondenza fridericiana, soprattutto con il fratello Giacomo II d’Aragona, le considerazioni assieme alla certezza che, venuta meno la speranza negli uomini, resta quella en notre seyor Gesuu Crist riportano al filo rosso che percorre tutta la vita di re Federico: la profonda religiosità che induce in lui lo scandalo per la frattura terribile che esiste tra la dottrina evangelica e le azioni di coloro che la predicano, tesi alla conquista della potenza terrena. Questo senso di scandalo e, di conseguenza, il suo interesse per i movimenti di riforma che si è soliti definire eterodossi è documentato fin dal 1304; tra quest’anno e il 1309, i due fratelli, il Siciliano e l’Aragonese, sono turbati dal famoso sogno in cui la regina Costanza, defunta, si mostra contristata dalla corruzione della Chiesa e del secolo e consiglia, piuttosto duramente, ai figli di riformare le loro corti e i loro regni.
Nel 1309, Federico III e Arnaldo di Villanova si incontrano a Catania: il Sovrano racconta a questo stranissimo personaggio i sogni, il suo e quello del fratello, esponendogli dubbi e perplessità.
Soprattutto un quesito si presenta alla mente del Re: E’ forse la religione invenzione degli uomini? Altrimenti come spiegare il distacco tra la dottrina e le opere? L’intensità e la veemenza del Dinasta impressionano anche il medico profeta che scrive un libello esegetico e l’Interpretatio facta per magistrum Arnaldum da Villanova de visionibus in somnis dominorum Iacobi II e Friderici tercii regis Sicilie eius fratis (in argomento, v. Marcelino Menendez Pelayo, Historia de los Heterodoxos espanoles, 2 ed., Madrid 1917, III, da pag. 179 e doc. XLIXCXXIX). Da questa operetta si svilupperà il Rahonnament d’Avignon in cui il Villanovano innesterà la sua visione escatologica. L’Interpretatio viene inviata da Federico III a Giacomo II che reagisce ribadendo la sua ortodossia mentre il Siciliano tace e inizia l’opera, mai smessa, di protezione degli Spirituali e degli altri riformatori. Questo, il filo rosso che condurrà Federico prima all’alleanza con Enrico VII, e poi con il Bavaro; proprio l’alleanza con Ludovico IV dimostrerà che la protezione accordata ai riformatori non è una larvata scelta di campo eterodossa operata da Federico III ma una coerente scelta etico - politica che sa di futuro. In questo futuro, emerge Elisabetta regina di Sicilia, duchessa di Atene e di Neai Patriai. Quelle fragili ossa furono di una donna di ferro che ebbe la ventura di generare tutti gli Aragonesi di Sicilia, divenendo la madre della dinastia. Morendo nel 1352, sopravvisse dieci anni a Pietro II. Purtroppo, degli anni di vita di Elisabetta di Carinzia può essere fatto un computo ipotetico ma assai verosimile: la sovrana è figlia di Ottone di Carinzia e di Eufemia di Slesia che aveva sposato il Duca nel 1299. Dato che Elisabetta, figlia primogenita, nasce attorno al 1300 e Pietro II di Sicilia nasce nel luglio del 1305 e muore nell’agosto del 1342, a 37 anni, Elisabetta sopravvivendogli 10 anni, muore fra i 46 e i 47 anni. Con tutta evidenza un personaggio appartenente alla famiglia reale che, attorno al 1352, sia fra i 18 e i 25 anni, e sia di calibro tale da fare aprire il sarcofago imperiale va costruito in laboratorio, senza dimenticare di porgli sulla testa una corona regale. Per concludere, sembra pleonastico ribadire che anche la sepoltura di Elisabetta di Carinzia è astretta dal vincolo di necessità, il medesimo vincolo che aveva provocato la sepoltura del marito Pietro II nell’avello fridericiano.