DIBATTITO SULLA IDENTIFICAZIONE DELLA TERZA SALMA NEL SARCOFAGO PORFIREO DI FEDERICO II di Roberto Patricolo

L’appello di Rosario La Duca "all’apertura di un dibattito che possa fare completa luce" sull’identità della terza salma riposta nel sarcofago porfireo di Federico II merita la massima considerazione, soprattutto perché vi si può leggere, fra le righe, la totale carenza di un saldo impianto storiografico, base necessaria e ineludibile di ogni ulteriore indagine che voglia fruire dell’ausilio di scienze che ancora sono ben lungi dal poter essere definite (ma lo saranno mai?) "esatte" e che, in ogni caso, debbono tacere se poste di fronte alla certezza del dato storico; il che è maggiormente vero se quest’ultimo è già noto prima dell’indagine scientifica medesima che così riceve dalla storia (verum et factum convertuntur) le proprie conclusioni. Questo "mistero", adesso, lo possiamo più prosaicamente chiamare XX e scusate se è poco! Quanto a XY, cioè quanto a Guglielmo d’Aragona Duca d’Atene e dei Neai Patriai, Marchese di Randazzo e Conte di Calatafimi, figlio di Federico III e fratello del regnante Pietro II, morto il giorno 11 maggio 1338, si ha la certezza che non occupò mai un posto, in verità scomodo, nel sarcofago fridericiano perché per sua volontà testamentaria, ritualmente espressa, dispose di essere sepolto nella Matrice della Capitale iuxta monumentum sacratissimi principis imperatoris Friderici, rivestito dell’abito dei frati Predicatori; dunque sepolto presso il sarcofago, come avvenne, e non nel sarcofago come potrebbe far credere la lettura affrettata del latino della Cronaca di fra Michele da Piazza: ciò fu chiaro a Rosario Gregorio che ne scrisse nel primo volume dei suoi Discorsi intorno alla Sicilia mettendo in evidenza il distico che campiva (e campisce) sul frontale del sarcofago del principe reale in cui sono ripetute ben due volte le tessere del Regno di Sicilia, i pali rossi della Casa di Barcelona con l’inquartato in croce di Sant’Andrea e le aquile dello svevo Manfredi:

Dux Guillelmus erat genitus regis Friderici Qui iacet hic pro quo Christum rogitetis amici.

Quando il padre della storia del Diritto Pubblico siciliano, Rosario Gregorio, scriveva e pubblicava, correva l’anno del Signore 1831; il distico sopra riportato è ancora leggibile sul sarcofago di Guglielmo d’Aragona che, nonostante la distruzione dell’antico cimitero reale nell’ala sud del titolo del tempio gualteriano e il conseguente trasferimento delle tombe reali e imperiali, è sempre iuxta monumentum, presso il sarcofago dell’imperatore Federico, nel muro orientale della seconda cappella della navata meridionale di quella che è pur sempre la Chiesa dell’incoronazione, sacra al riposo eterno dei Sovrani del Regno nel sole: purtroppo per gli amanti del giallo, l’interessante capitolo per individuare dove sia andata a finire et caetera si chiude prima di essere aperto. Eliminato dal sarcofago XY, la ribalta, si fa per dire, resta tutta di XX che è stata sempre tale anche nella coscienza popolare anche se la certezza scientifica la si è conseguita soltanto nel 1781, con un certo anticipo sul primo anno del terzo Millennio e la si è avuta puntualmente documentata fin dal 1784 nello splendido volume di Francesco Daniele I Regali Sepolcri del Duomo di Palermo pubblicato in Napoli, una copia del quale è custodito presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana alla segnatura Bibl. B. C. 3. H. 28. Per inciso sia detto che l’opera del Daniele, supportata discretamente da Rosario Gregorio, soddisfa perfettamente il desiderio di conoscere quanto è successo dopo l’apertura del sarcofago di Federico II nel 1781 e il suo trasferimento nell’attuale area sepolcrale. Val la pena di rileggere la descrizione della disposizione delle auguste salme quale si presentò subito dopo l’apertura del 1781, descrizione contenuta nelle pagine 104 e 105 del citato Daniele: Dischiusa che fu l’arca di questo sepolcro, si presentarono alla prima due corpi, sotto quindi stava il terzo; e quello ch’era al lato destro, si copriva di un manto regale, sebbene fosse tutto cucito in un sacco alla cui estremità verso la testa avea un ricamo di piccole perle che rappresentavano tante aquilette, che formavano corona; di più avea di spada armato il fianco le quali cose tutte ci condussero ad opinare, essere un Re; ed a riconoscerlo per Pietro II d’Aragona ci servì di guida ciocchè di lui lasciò scritto il Surita cioè, ch’essendo egli morto in Calascibetta l’anno del Signore 1342, fu il suo corpo trasportato in Palermo, dove ebbe sepoltura nel Duomo accanto all’Imperatore Federico; e le stesse aquilette ricamate nella parte superiore del sacco il distinguono abbastanza per un principe aragonese. L’altro corpo di minor grandezza, giacea al lato manco, ridotto a nude ossa, avea il braccio diritto disteso sotto Pietro; anche si poté argomentare, essere ivi stato deposto prima di lui. Era questo involto in un logoro drappo, nel quale furono rinvenute due anelli d’oro con pietre di non molto valore; e per quanto si poté dallo scheletro conoscere, dovett’essere di donna, che nel denso buio dell’antichità non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata... Dunque nel sarcofago porfireo (si noti bene a sezione semicircolare) giace Federico sempre augusto che ne occupa tutto il fondo emergendone per un’altezza corrispondente allo spessore del corpo; alla destra di lui (ma sarebbe meglio dire su di lui dalla parte destra), il 18 agosto 1342, venne poggiato il cadavere di Pietro II figlio e successore di Federico III che, a sua volta, era figlio di Pietro I (III) d’Aragona e di Costanza figlia di re Manfredi che finalmente è una Staufer; dunque di sangue reale, ma non discendente diretto di Federico II il cui stipite è Federico von Buren, mentre lo stipite di Pietro è Goffredo el Pilòs conte di Barcelona: i diritti dinastici sul regno di Sicilia ducato di Puglia e principato di Capua vengono trasmessi alla Casa di Barcelona da una donna, da quella Costanza che è tanto determinata da farsi chiamare regina mentre Manfredi ancora vive. Appoggiata su Federico, dalla parte sinistra, giace XX, della quale Daniele scrive, lo si è detto, per quanto si poté dallo scheletro conoscere dovett’essere di donna, che nel denso buio dell’antichità non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata...: dunque lo scheletro, esaminato da un esperto di anatomia rivelò le caratteristiche della natura femminile, anzi quel mistero al femminile - che la scienza consegnò alla... scienza storica perché, torniamo a citare ancora il Daniele, non sapremo indovinare chi mai siesi ella stata. Rosario La Duca ha creduto di poter attribuire un’identità allo scheletro di XX, formulando una tesi vanificata da presupposti chiaramente erronei concretantisi nell’asserzione secondo cui la sepoltura nella stessa tomba dell’Imperatore e Re presuppone non soltanto il sangue reale, ma anche la discendenza diretta dallo stesso Federico; ma anche nell’adesione all’ipotesi che assegna all’ignota XX un’età fra i 18 e i 25 anni; quanto alla sopradetta asserzione, essa è contraddetta dalla Legge Salica, cioè da uno strumento legislativo di cui tutti parlano senza sapere bene cos’è; a tenore di essa, un sarcofago deve contenere una ed una sola salma regale o meno; quanto all’ipotesi cronologica, c’è da dire che qualsivoglia identità si voglia attribuire a XX, si deve ricorrere a Dumas... venti anni dopo. Seguendo questo che per lui è un doppio filo d’Arianna, Rosario La Duca crede di poter pronunziare il nome di XX: Beatrice figlia di re Manfredi e di Elena, figlia di Michele Doukas Commeno (Angelo) despota d’Epiro, che il figlio prediletto di Federico II aveva sposato, in Trani, il 2 giugno 1259, dopo la morte della prima moglie, Beatrice di Savoia, già vedova di Manfredi III marchese di Saluzzo; la principessa bizantina aveva portato in dote al Re di Sicilia l’isola di Corfù e molte piazzeforti epirote, ma gli darà anche quattro figli Beatrice, Federico, Enrico, e Anzolino. Ovviamente, Rosario La Duca scarta Costanza, sorella di re Manfredi, in quanto figlia dell’Augusto e di Bianca Lancia, imperatrice romana d’Oriente in Nicea, rifugiatasi in Spagna e colà morta; e a fortiori esclude Costanza figlia di Manfredi e di Beatrice di Savoia, nonché sposa di Pietro I (III) d’Aragona, chiamata a regnare in Sicilia dopo il Vespro, morta in Catalogna nel 1302 e sepolta in San Francesco di Barcelona. Esclusa dalla tomba imperiale, Costanza regina di Sicilia occupa un posto notevole nella vita della sorellastra Beatrice, come si vedrà. Intanto, allo scopo di sgombrare il campo da uno, almeno, dei troppi equivoci che funestano questa storia, il buon senso, ma anche la conoscenza del tempo di crisi in cui vissero e morirono i protagonisti, suggerisce che la presenza della salma del re Pietro II e di quella di XX nella tomba di Federico è dovuta al vincolo di uno stato di necessità che si presenta due volte; la prima volta a 91 anni di distanza dalla sepoltura dell’Augusto, l’anno 1342, il 15 di agosto, data della morte pressocchè improvvisa di Pietro II in Calascibetta dove il Sovrano si era fermato nel corso di un’ispezione a occidente. Tre giorni dopo, il 18 di agosto, si hanno i solenni funerali nella Cattedrale di Palermo e la sepoltura della salma reale nella tomba di Federico II suo trisavolo per parte materna, dopo un sommario processo di imbalsamazione. Fra Michele da Piazza nella sua Cronaca così scrive: -Quo mortuo eius corpus fuit honorifice delatum in urbem Panormi et humatum in majori ecclesia, ubi regia corpora solent antiquitus sepeliri et humari (Ediz. Giuffrida, p. 70). L’Anonimo del Chronicon siculum - come già aveva messo in evidenza Corrado Mirto - annota commosso che regis Petri corpus seu cadaver die quo fuit sepultus, ac si viveret redolebat: la fragranza dell’imbalsamazione diviene metafora della bontà del Sovrano siciliano, ma il verbo adoperato dall’Anonimo si presta all’assonanza con quell’altro verbo di ben altro significato doleo, dolebat: Pietro II in morte si duole, come in vita dello stato in cui lascia il Regno: l’Angioino è tornato a sbarcare in Sicilia e assedia Milazzo, mentre stabilisce una testa di ponte in Calabria: la morte del Re scoraggia i difensori di Milazzo e li induce a una resa onorevole, ma altri tristi avvenimenti stanno per scuotere il Regno già provato da cinquant’anni di guerra. La sepoltura di Pietro II nella Capitale dei basileis mediterranei avviene in questa temperie di crisi, anche funeraria: l’apparato statale non ha i mezzi per erigere una tomba degna del sovrano che chiude il tempo degli eroi e così viene aperto il sarcofago porfireo di Federico sempre augusto che è, lo si è detto, nel cimitero dei re, nell’ala meridionale del titolo della Cattedrale panormita, come vuole la tradizione storica e la volontà espressa dello stesso monarca. Ben più amaro era stato il vincolo di necessità da cui era stato astretto lo stesso re Pietro alla morte del padre Federico III; il quale, mossosi da Palermo per passare l’estate ad Enna, si era ammalato gravemente in itinere, a Resuttano ed era morto, il 25 giugno 1337, tra Paternò e Catania. Nicolò Speciale si esprime con accentuata inflessione profetica quando scrive della morte del Sovrano... cantate canticum tenebrarum quoniam venit maesta dies et ineluctabile tempus debitum... amaritudinibus et doloribus Siculorum. Il grande Re nel suo testamento, dettato in Catania il 29 marzo 1334 e pubblicato da G. La Mantia nel 1938, aveva stabilito di esser sepolto in San Francesco di Barcelona vicino ai sepolcri della serenissima et beata domina Costanza madre sua e di suo fratello Alfonso, il re d’Aragona; oltre il luogo Federico aveva prescritto l’assetto della grande tomba in cui voleva giacere in maestà; una tomba delimitata da due altari che guardino verso l’altare maggiore della Chiesa francescana, cioè ad Oriente. Vuole, inoltre, il Sovrano che nelle more del trasporto della sua salma in Catalogna, la stessa salma abbia sepoltura provvisoria nella Cattedrale di Siracusa presso le reliquie di Santa Lucia di cui egli è devotissimo sia perché nel lontano 1273 egli era nato proprio nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, sia perché ritiene di aver ricevuto licet indigni a beata Lucia virgine et martire... innumerabiles gracias. E’ questa una disposizione testamentaria molto sofferta che sembra andare contro lo spirito e la lettera del Capitolo I dello stesso re Federico... nulla ratione vel causa ab ipsis fidelibus nostris Siciliae divertemus; sed quos Deus nobis sua provisione coniunsxit, individua vitae consuetudo tenebit et a persona nostrae coniugio nemo vivens in terris aliquatenus separabit; ma soprattutto sembra andare anche contro la ratio che aveva guidato la vita dell’eroe il quale appare combattuto se nel preambolo del paragrafo delle citate disposizioni funerarie dichiara che la sepoltura, come ogni altro atto sacramentario, è libera per qualsivoglia fedele e che questa libertà non arreca pregiudizio a nessuno, specie quando si sceglie il luogo dove sono sepolti i genitori o i parenti intimi. La disposizione testamentaria dell’eroe del Vespro avrà suscitato grande dispiacere nel Regno e non saranno mancati i tentativi, sia pure rispettosi, di far tornare Federico III sui suoi passi; conseguentemente, il preambolo sopradetto appare come una giustificazione (relativa a una larvata accusa), condotta sul filo della legge canonica. Alla fine, non sappiamo quando ma ne siamo certi, Federico recede dalla disposizione del marzo 1334 e ordina che la sua sepoltura avvenga nella Chiesa dove, l’anno 1296, era stato unto e coronato re di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua, nella Cattedrale di Palermo: neanche in morte, si separerà dai suoi Siciliani, ma la sua volontà avrà parziale attuazione: la sua salma trasportata a Catania, dopo essere stata vegliata nel Castello Ursino, viene sepolta provvisoriamente nell’Abbazia episcopale di Sant’Agata; il re Pietro II, subito dopo i funerali del padre scrive "fidelibus suis universis urbis Panhormi": Licet ad supplicationem vestram et predecessorum regni ordinem imitatus dictus dominus genitor noster elegerit in eadem urbe post eius obitum sepelliri, nihilo minus et loci distantia et aeris intemperie et agendorum inevitabile moltitudine subsistentibus electionem ipsam nequivimus adimplere. Depositum est itaque corpus eius in maiori Cathaniensi ecclesia, quousque nos habilitet dominus ad ea, que idem genitor noster ad huc vivens disposuit, et ideo vestra fidelitas non miretur. La lettera di Pietro II ai Palermitani prova che la disposizione testamentaria sulla sepoltura era stata modificata da Federico III su pressione energica della Capitale che aveva prospettato al Sovrano l’ordo predecessorum Regni, la tradizione che fa legge cui egli avrebbe dovuto conformarsi e a cui, infine, si conforma; ma prova anche la forza del vincolo di necessità: et loci distantia et aeris intemperie. la salma reale viene tumulata in una sepoltura provvisoria in attesa della traslazione a Palermo che non avverrà mai anche e soprattutto perché il regno di Pietro II è un ininterrotto susseguirsi di azioni belliche delle orde degli Angiò contro il Regno insulare che la Curia Romana vuole piegare rigettando ogni tentativo della diplomazia siciliana, di invasioni, anche se assai contenute, del territorio stesso del Regno gravato da interdetto, mentre il Sovrano e i suoi alti collaboratori sono perennemente scomunicati; finché nel 1348, la Sicilia viene flagellata dalla peste nera che il 3 aprile colpisce a morte il Vicario, l’Infante Giovanni duca di Atene e di Neai Patriai. Il quale, morto presso la Chiesa di Sant’Andrea nel bosco di Mascali, viene sepolto a Catania, nell’Abbazia episcopale di Sant’Agata, nello stesso sarcofago del padre, Federico III. Anche questa volta il vincolo dello stato di necessità grava sui vertici del Regno pressati dall’onere ineludibile della difesa del confine nord - orientale e orientale, mentre sta per esplodere l’agitazione inconsulta della feudalità, complicata dall’esistenza di fatto di due governi, quello del reggente in nome del re Ludovico e l’altro della regina Elisabetta di Carinzia, ovviamente sempre in nome del Re. Non rientra nell’economia di questo scritto seguire lo sviluppo di queste vicende, ma non si può non notare che il 17 ottobre 1355 il sarcofago che già custodiva le spoglie di Federico III e dell’infante Giovanni torna ad aprirsi per accogliere la salma del diciassettenne re Ludovico, morto di peste in Aci, alle porte di Catania, il precedente giorno 16: il vincolo di necessità che vanifica l’antico ordo è più che mai stretto e angustiante: il successore di Pietro II viene sepolto fuori della sua capitale e in un sarcofago che già contiene altre due salme: su tre personaggi reali, almeno due sono morti di peste, quella stessa peste nera del 1348 che aveva finito con il costituire una specie di endemia nella Sicilia orientale, cioè nella parte del Regno più esposta alle incursioni angioine. La necessità di sgombrare il campo da illazioni fuorvianti ha fatto si che ci si diffondesse sulla casualità del luogo di sepoltura dei Sovrani e dei personaggi reali determinato dal vincolo di necessità dalla morte di Federico III (1337) in poi, nonostante la istituzionalizzazione della sepoltura dei Sovrani nel luogo medesimo del sacro carisma della regalità, nella Cattedrale della Capitale del Regno (il tentativo splendido di Guglielmo II di impiantare il mausoleo della dinastia fuori delle mura di Palermo, nell’Abbazia di Santa Maria Nuova, sulle pendici del Caputo non avrà che un successo parziale); ma ora bisogna ritornare all’identità di XX sepolta nel tumulo di Federico II. Dice Rosario La Duca: E’ Beatrice di Svevia, figlia di re Manfredi, che avrebbe i requisiti da lui stesso affermati per avere l’onore di essere sepolta nel tumulo imperiale: la discendenza diretta e, quindi, il sangue reale in quanto figlia di Manfredi, l’età giusta. E si deve dire subito che i primi due requisiti sono tanto ovvii quanto generici e parzialmente smentiti dalla presenza nel tumulo di Pietro II che ha sì sangue reale, ma non è discendente diretto dello Svevo; il terzo requisito, l’età, non è posseduto da Beatrice che, peraltro, ha battuto strade ben diverse da quelle che conducono a Palermo; ma seguiamo per un momento, si fa per dire, la famiglia di re Manfredi dopo la battaglia di Benevento: la regina Elena d’Epiro subito dopo la sciagurata rotta fugge a Lucera con i suoi quattro figli che, come si è detto, sono nell’ordine Beatrice, Federico, Enrico e Anzolino; tenta quindi di imbarcarsi a Trani per raggiungere l’Epiro, ma il mare in tempesta la costringe a rifugiarsi nella fortezza il cui castellano tradisce, consegnandola agli Angiò assieme ai figli da cui viene subito separata e per sempre. Morirà non ancora trentenne, nella fortezza di Nocera dei Pagani, nel 1271. Di Beatrice, la figlia maggiore, indiziata di essere XX, si parlerà più sotto. Quanto ai tre figli maschi è certo che vengono rinchiusi in Castel del Monte, il più splendido dei castelli dell’imperatore Federico. Soltanto nel 1297 vengono loro tolti i ferri che portavano dall’età della ragione; fra il 1299 e il 1300, gli sventurati principi vengono portati a Napoli e rinchiusi nel Castello del Santissimo Salvatore a Mare. Qui muore, quasi subito, Anzolino; mentre il seguente anno 1301, Federico riesce a fuggire, dopo ben trentacinque anni di prigionia, vivendo ramingo e misero al punto che il cugino Edoardo d’Inghilterra sentì il bisogno di raccomandarlo a Clemente V perché fosse lenita tanta povertà. Dopo il 1309, il principe arriva in Egitto dove viene raggiunto dai sicari angioini. Enrico, il maggiore dei principi, divenuto cieco negli anni della prigionia, muore il 31 ottobre 1318, a cinquantasei anni, di cui cinquantadue trascorsi in prigione. A quanto sembra, Anzolino ed Enrico vengono sepolti a Canosa di Puglia. Ma si torni a XX; Beatrice? Ritessiamo, per quanto possibile, la trama della vita della principessa sveva. Come i fratelli di cui più sopra si è detto, nasce da Manfredi e da Elena d’Epiro l’anno 1260. A sei anni, dopo la morte del padre a Benevento, cade, assieme alla madre e ai fratelli, nelle mani di Carlo d’Angiò che la rinchiude, sola fra i familiari di re Manfredi, nel castello napoletano del Santissimo Salvatore a Mare, dove resta per ben diciotto anni, fino al 5 giugno 1284, quando la flotta siciliana al comando di Ruggiero di Lauria, violando le acque del golfo di Napoli, sconfigge una flotta angioina condotta da Carlo d’Angiò principe di Salerno che viene catturato: immediata la richiesta e perentoria: si liberi la principessa Beatrice di Svevia e Carlo lo Zoppo avrà salva la vita. La consorte dell’Angioino, Maria d’Ungheria, è così costretta a consegnare Beatrice all’Ammiraglio della flotta siciliana. Questa splendida azione di guerra nel golfo di Napoli ricorda un brano di al-Umari, storico arabo del primo Trecento, messo in evidenza da Geo Pistarino: - I Siciliani sono gente di mare; i loro campi di battaglia non si stendono in terra, né sulle groppe dei cavalli. Ma quando prendono il mare e anneriscono le loro navi con giubbe di pece e seguono docili le redini dei venti, allora si che i primi albori spuntano di nottetempo dalle loro spade. L’armata loro solca il mare a levante ed a ponente; gira lungi e da presso; si ficca di nascosto in ogni luogo, fa perdere il sonno ad ogni nocchiero, sia ch’egli segga su doppio timone, sia che si appoggi ad uno solo; e fa preda d’ogni cosa posseduta da chi solca il mare, rompe ogni ostacolo che le si para innanzi e se vede navi da guerra, si le assalta e le piglia. Il clamore di questa beau geste è enorme; lo stesso Carlo I d’Angiò ne scrive al Pontefice a soli quattro giorni dalla terribile sconfitta, il 9 giugno, Indiz, XII, 1284, chiedendo sussidi in denaro per armare una flotta votata alla liberazione del principe prigioniero; e ancora nel 1288, il 15 marzo, Nicolò IV chiedendo ad Alfonso infante d’Aragona la liberazione di Carlo lo Zoppo, ne definisce la cattura "quasi piratesca", dimentico della "tirannide sconcia e brutale" di Casa d’Angiò. La liberazione di Beatrice e il ritorno della flotta vittoriosa in Messina tamquam portus et porta Siciliae hanno ispirato a Michele Amari una delle più belle e commosse pagine della Storia della Guerra del Vespro: L’Armata volse le prore a Messina. Dove al primo scoprir quelle vele, con susurro e ansietà precipitava il popolo alla Marina... ma visti i segni della vittoria e le galee prese e saputo prigione il principe di Salerno con tanti baroni, inenarrabile allegrezza si destò. Sbarcate le turbe de’ prigioni, proruppe il volgo, come e’ suole in ogni luogo, a insultarli; ricordando a gara la tirannide, l’assedio, le scambievoli offese, e molti le aborrite sembianza de’ baroni stati loro oppressori: onde aprian la calca i più avventati, e feansi a guardarli faccia a faccia, e dir dileggiando: - Chi fuvvi maestro a battaglia di mare? Oh sventura! dar le spade vai a Catalani ignudi, a Siciliani galeotti! Eccovi la seconda fiata trionfanti in Messina! A schivar peggio, il principe sbarcò travestito da soldato catalano. Ma la regina, i figli, i cittadini autorevoli raffrenarono la cieca ira, che già correva a suonar le campane a stormo, coll’antico grido "Morte ai francesi". Nel palagio reale dapprima fu sostenuto il principe; indi nel castel di Metagrifone con Estendard; non incatenati, nota uno istorico, ma sotto gelosa guardia di cittadini e soldati; e vietò la generosa Costanza ai figliuoli, che vedessero in quella misera condizione il figlio di Carlo d’Angiò"... La reina con molte lacrime abbracciava la sorella, campata come per miracolo dalle mani de’ nemici. Beatrice di Sicilia, finalmente libera, entra nel gioco diplomatico del Regno insulare, divenendo cemento di alleanza antiangioina... ovviamente con un matrimonio in terre lontane la cui logica diverrà più chiara seguendo, sia pure per un momento, i tentativi della Casa d’Angiò di stabilire una signoria o, subordinatamente, un potere egemonico che dalla Provenza si irradii nella regione pedemontana. Una analisi puntuale di questa stagione angioina in terra piemontese è stata compiuta da Anna Maria Nada Petrone e da Gabriella Airaldi nel V volume della Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso. Le studiose citate mettono in rilievo la presenza angioina in Piemonte dal 1259, cioè dall’anno in cui la sorda ostilità fra gli Angiò ed Asti sfocia in una guerra aperta. E’ allora che importanti centri pedemontani della zona sud - occidentale fanno atto di dedizione al Conte di Provenza, cioè a Carlo I d’Angiò: la motivazione sta nell’esigenza di superare la depressione economica, ma anche lo schiacciamento da parte della potenza astigiana. Carlo riesce, tuttavia a radicarsi tra le marche aleramiche di Saluzzo e di Monferrato, le terre dei Savoia e quelle di Asti. Dopo il 1265, anno in cui la Chiesa Romana investe il fratello ambiziosissimo di Luigi IX del regno di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua con l’intenzione palese di sradicarvi la Dinastia sveva, razza di vipere, lo splendore e il fascino dell’antica Corona provocano nell’Angiò una caduta di interesse verso la regione pedemontana; tuttavia, il Regnum per antonomasia, che farà di lui uno dei quattro sovrani d’Europa coronati ed unti con il sacro crisma, è soltanto una tappa verso il Palazzo delle Blacherne e verso la sperata apoteosi in Santa Sofia di Costantinopoli. Questa momentanea disaffezione porterà gli Angiò alla perdita dei territori pedemontani e - come ha osservato la Nada-Petrone - la perdita, per oltre venti anni, della capacità di inserirsi come forza attiva nella regione: causa ed effetto insieme della rotta di Roccavione del 10 novembre 1275 subita dai Provenzali ad opera di una vasta coalizione guidata da Guglielmo VII del Monferrato e da Asti. Nella lunga opera di preparazione di questo risonante risultato, Guglielmo VII del Monferrato si mostra capace di attuare un’accorta politica del doppio binario, riuscendo a tenere buoni rapporti con gli Angiò, ma preparando altresì, una solida piattaforma antiprovenzale, alleandosi con Manfredi di Sicilia e con Alfonso di Castiglia e cercando di estendere i propri domini territoriali nel Canavese, su Lauzo e Tortona, allo scopo di equilibrare il sistema turbato dall’espansione angioina che domina le vie verso la Francia del sud. I legami delle Signorie piemontesi con la Sicilia non sono certamente nuovi; mette appena conto di ricordare che Ruggiero I gran conte di Sicilia sposa, già nel sec. XI, Adelaide del Monferrato, l’aleramica che saprà preparare la grandezza del secondo Ruggiero e favorirà l’immigrazione nell’isola di consistenti nuclei "lombardi" per sottrarli alla povertà delle terre d’origine. Lo stesso Federico II imperatore e re, dopo lunghi anni di ostilità più ostentata che effettiva, finisce con il raccogliere i frutti della politica del Barbarossa e dello stesso suo padre Enrico VI: le Signorie piemontesi, i Marchesi di Saluzzo e del Monferrato, fieramente imperiali e ghibellini per lunga pratica, i Conti di Savoia, gli stessi Comuni di Ivrea, Torino ed Alessandria vengono presi, per usare un’espressione di Nada Petrone da una vera e propria frenesia filosveva che si attenuerà alla morte dell’Imperatore e Re, ma non si estinguerà e continuerà a covare come fuoco sotto la cenere che, di quando in quando, esplode in vivida fiammata come avviene per le alleanza sicule e iberiche dei Marchesi di Monferrato, di cui si è detto, lungo quel filo rosso antiangioino e anticuriale che verso la fine del secolo XIII porta l’altro ramo aleramico, quello dei Marchesi di Saluzzo, a ricercare l’alleanza siculo - aragonese. Si è negli anni in cui il subitaneo liberarsi di sopite energie ha scatenato la furia del Vespro che cancella per sempre i progetti imperiali di Carlo I ed è pure il tempo in cui la Dinastia angioina, prendendo coscienza del carattere irreversibile della perdita dell’isola che era stata il centro generatore del Regno, coscienza che si consoliderà dopo Caltabellotta (1302), cerca di riconquistare le posizioni perdute nella regione pedemontana; i centri che dominano le vie verso la Provenza dichiarano la loro dedizione al sovrano provenzale; i diversi rami dei Saluzzo (Manfredi IV, Giovanni Spadalunga, i Marchesi di Ceva, Enrico del Carretto) ma anche Filippo di Savoia - Acaia, fanno atto di omaggio; tuttavia, la politica del doppio binario tiene sempre banco soprattutto con i matrimoni; l’anno 1286, è la volta della figlia superstite dell’ultimo Sovrano svevo, Beatrice di Sicilia liberata due anni prima dal Castello del Santissimo Salvatore a Mare in Napoli e condotta, lo si è detto, in Messina dove a causa della guerra risiede la regina Costanza assieme all’infante Giacomo, i corregnanti di Sicilia. E’ il 1286 una sorta di spartiacque negli anni tempestosi del post Vespro: il 7 gennaio 1285, era morto, a 65 anni, Carlo I lasciando l’erede al trono prigioniero dei Siciliani fin dall’anno precedente; il 10 novembre era mancato nella sua capitale catalana Pietro I (III), a soli 46 anni, mettendo in moto il meccanismo delle sostituzioni: Alfonso, il primogenito, sale sul trono d’Aragona e ove fosse morto senza eredi sarebbe stato surrogato da Giacomo, il secondogenito, che, a sua volta, verificandosi la stessa eventualità, avrebbe avuto come successore il terzogenito infante Federico: è questo lo schema già predisposto a Portfangòs e in esso non rientra il Regno di Sicilia la cui domina è la regina Costanza; i diritti di quest’ultima erano stati riconosciuti dallo stesso re Pietro nelle c.d. deliberazioni di Messina, dettate dal Sovrano all’atto della partenza per il regno avito di Aragona. Così, il 2 febbraio 1286, il Parlamento generale del Regno, riunito in Palermo, riconosce Giacomo I re di Sicilia del ducato di Puglia e del principato di Capua, affiancandolo alla madre nella serie dei Sovrani del Regno; segue nella Cattedrale dell’urbe panormita, la coronazione dell’infante, nonostante le terribili scomuniche fulminate dai Romani Pontefici. Subito dopo, re Giacomo legifera in seno al Parlamento producendo una bella serie di Capitoli che adeguano la legislazione del Regno ai Capitoli angioini dati nella Piana di San Martino e ispirati dalla Curia romana che vuole dare un volto più umano alla Monarchia provenzale; ma le esigenze militari non possono essere certamente disattese e così Giacomo I arma due flottiglie con base nei porti di Palermo e di Messina. Egli stesso raggiunge Messina dove sviluppa le linee di una strategia volta a terrorizzare le coste occidentali del dominio angioino; dalla Calabria al Golfo di Napoli, più volte violato. Sono attorno a Re Giacomo e alla regina Costanza quanti dissentono dalla politica della Curia romana e in particolare dalla incondizionata protezione accordata alla Casa d’Angiò: fra costoro c’è un personaggio la cui presenza non soltanto non viene enfatizzata, ma è anche sottaciuta dalla pubblicistica sincrona: è questi Manfredi di Saluzzo, discendente del ramo aleramico il cui stipite era stato Bonifacio del Vasto marchese di Savona, figlio di Tommaso I marchese di Saluzzo figlio, a sua volta di Manfredi III e di Beatrice di Savoia che, rimasta vedova, fu sposa di re Manfredi di Sicilia. Come si è detto, in quel tempo, alla Corte aragonese di Sicilia vive Beatrice di Svevia figlia di Manfredi e della sua seconda moglie Elena d’Epiro, e anche questo sia detto, liberata nel 1284, dai ceppi angioini che la astringevano dall’età di sei anni. Manfredi di Saluzzo, che sarà il quarto marchese di questo nome, è lo sposo designato di Beatrice; lo strumento preliminare a quello, matrimoniale viene steso in forma solenne in Cuneo, il 3 luglio 1286 alla presenza si Pietro Sangiorgio di Biandrate, Giacomo, Paseri, Robaudo Braida, Antonio di Romagnano, Guglielmo di Rosseno, Amedeo di Verzuolo e dello stesso Manfredi; il quale viene dichiarato erede del marchesato di Saluzzo dopo la morte del padre e, perché possa mantenersi come vuole il suo stato, gli vengono assegnati i castelli di Centello, Busca, Acceglio, Bodino, Vignolo, Clissene, La Marmora, Pont, Celle, Lec, Paglieri Stroppo, Elva, Sampeire, San Damiano e Canosio. Queste notizie dettagliate si debbono alla diligenza di Delfino Moletti autore delle Memorie storico - diplomatiche appartenenti alla Città e ai Marchesi di Saluzzo, pubblicate da Carlo Moletti tra il 1829 e il 1833. Il citato storico di Saluzzo riferisce che, per quanto riguarda le notizie sul matrimonio del futuro Manfredi IV, egli dipende da una fonte di eccezionale rigore, la Cronaca di Gioffredo della Chiesa in cui è anche possibile leggere che a Madonna Beatrice figlia del fu re Manfredi di Sicilia e sorella di Madonna Costanza regina al presente di Aragona e di Sicilia il Marchese Tommaso padre di Manfredo per accrescimento di dote nel caso rimanga vedova non men che per suo vitalizio godere assegna il Castello e Villa di Scarnafiggi, i luoghi di Piasco, Melle e Castel del Ponte. Gioffredo della Chiesa, che scrive nel 1430 attingendo a più antichi documenti, dà conferma della politica del doppio binario praticata dai reguli pedemontani, spiegando le motivazioni del matrimonio di Manfredo e Beatrice: Et per rispetto che calcaduno potrebe essere admirativo che per cagione ando el marchese praticare questo matrimonio in Aragona la cagion fu che habiendo Don Pietro re tolta la insula di Sicilia al re Carlo di Angiò re di Napoli per il che erano inimichi, essendo al marchese deliberato de rahavere il suo che il re Carlo li tenia fece questa alianza. Et se estima fosse per mezzo del marchese di Monferrato al quale havia la figliola del re di Castella el quale havia a lui dato soccorso e mandato gente d’arme - como habiamo ditto nel 1274. Et similmente questa altra alianza poteva venire al proposito al marchese de Salucio... E’ evidente che Gioffredo della Chiesa si riferisce al contributo dato da Alfonso X, il Savio, suocero di Guglielmo VII del Monferrato, cui aveva dato in moglie la figlia Beatrice, alla citata rotta di Roccarione inflitta agli Angioini appunto nel 1274; ma preme soprattutto al cronista mettere in rilievo come un’alleanza iberica come quella già contratta dal Marchese di Monferrato poteva giovare al Marchese di Saluzzo; tuttavia, c’è da osservare che l’analisi del cronista non è tanto profonda da rilevare che l’alleanza dei Saluzzo con gli Aragona - Sicilia si rafforza con l’antico passante svevo che gli Aleramici del Monferrato avevano usato fin dai tempi di Guglielmo il Vecchio (1140 - 1188) che aveva sposato Sofia figlia di Federico I Barbarossa. Tornando alla vicenda personale di Manfredo e Beatrice, A. Tallone cui si deve il Regesto dei Marchesi di Saluzzo pubblicato a Pinerolo nel 1906, offre altri particolari interessanti che qui si riportano così come ce li trasmette lo studioso citato: (610) - 1286 Luisa, comitissa Salutiarum, uxor Thomae marchionis Salutiarum, consensum praestitit donationi per eundem marchionem eorum filio Mainfredo factae occasione matrimonii eiusdem Mainfredi cum d[omina] Beatrice filia quondam Mainfredi regis Siciliae (Reg. cit. p. 163). Con tutta evidenza questo regesto è da riferirsi all’atto del 3 luglio 1286 di cui si è detto; Luisa figlia del marchese Giorgio di Ceva e consorte di Tommaso I di Saluzzo approva la donazione fatta a Manfredi in occasione del suo matrimonio, donazione volta ad accrescere il prestigio dello sposo nei confronti di una sposa così illustre. A. Tallone cura la menzione di quest’approvazione in G. Della Chiesa, 924 e in Moletti, II, 443. Molto più interessante il regesto del documento relativo al versamento della dote:(623) - 1286, Xe 5; regni Iacobi regis Siciliae I°, ind. 15. Messina (sic). D[ominusMainfredusfilius d[ominiThomae I marchionis Salutiarum, confessus est recepisse a d[ominoIacobo rege Siciliae "uncias auri duo millia in iocalibus et annexis iuste et legitime extimatis et uncias mille ponderis geniralisin dotem d[ominaeBeatricis filiae quondam regis SiciliaePetrus Auselanis (sic) de Messina(sic) et Dicolossus Scypantus de Messina (sic) magnae regiae curiae iudicesVillelmus de Lepantus (sic) et Gofridus de Imperatore iudices Messinae (sic) TT.; Matheus di G..., n. (reg. cit., p. 104). Con la solita diligenza il Tallone appone anche a questo regesto le note d’archivio: il documento ha un’autentica del 1288, riportata al n. 638. del Regesto medesimo; copia cartacea non autentica, moderna, in Archivio di Stato di Torino, Saluzzo Marchesato, Cat. II, m. I, n. 5; inoltre in C. Moletti, II, 450, tratta dai "Regi Archivi". Altro regesto fa inquadrare meglio la situazione patrimoniale degli sposi e, più precisamente, della augusta sposa: l’anno 1287, Luisa di Ceva marchese di Saluzzo dona a Beatrice consorte del figlio Manfredi due mila libre di Asti: (624) - 1287. Aloisia comitissa Salutiarum, Beatrici, uxori filii sui Mainfredi, donationem fecit de duobus milibus librarum astensium. Il regesto è - come suole il Tallone - corredato dalle refluenze bibliografiche della notizia: G. Della Chiesa, 925Moletti, II, 448. Dunque, l’anno 1287, Manfredi e Beatrice, già sposi dall’anno precedente, risiedono nel Marchesato. Qui, per completezza d’informazione, si riferiscono le voci diffamatorie che, a quanto sembra, corsero sui natali di Beatrice di Sicilia e che il Moletti riporta nella suaStoria di Saluzzo e dei suoi Marchesi, tomo II, 1829, pp. 441 e sg., attingendo a Salvatore Maria Di Blasi e al Moriondo, ma anche a Ludovico della Chiesa e a Francesco d’Agostino; scrive dunque il Moletti: - L’epoca di questo maritaggio è certa, ma egualmente certo non è, se dal primo matrimonio che contrasse il re Manfredi con Beatrice di Savoia, vedova di Manfredo III marchese di Saluzzo, o dal secondo contratto con Elena (da altri appellata Sibilia se pur ambi i nomi non ebbe) figlia di Michele despoto di Romania, sia nata la sposa Beatrice. Del primo sentimento sono il monaco benedettino Salvator Maria di Blasi ed il Moriondo. Il secondo parere tiene Lodovico Della Chiesa e con esso lui va d’accordo monsignor Francesco Agostino, sentenza questa la più probabile, avvegnache informandoci Niceforo Gregoro, istorico greco di quella età, che nell’anno 1260 spedì il re Manfredi le sue truppe in Romania per difesa del despoto suo suocero, veggiamo che a tal tempo già aveva celebrato il suo secondo matrimonio. Quindi quand’anche dir si volesse che la nostra Beatrice nata fosse negli ultimi anni di vita della prima consorte regina Beatrice, converrebbe tuttavia darle un’età attempata e niente confacente ad una sposa di giovine marchese, qual era il nostro Manfredo, la di cui età poteva giungere appena agli anni ventisette. Ma più di tutto mi distoglie dal credere che Beatrice fosse figliuola di primo letto il riflettere che tal figlia unendosi a Manfredo, avrebbe questi sposato chi era sorella uterina del suo padre: per altra parte poi attestandoci Saba Malaspina, scrittore anch’esso contemporaneo, che dalla seconda moglie di nazione greca ebbe il re Manfredi figliuoli e figlie, ma che di tutti una sol figlia sopravvisse, questa io tengo sia Beatrice sposa di Manfredo e sorella consanguinea della regina Costanza, che di lei cura si prese. Come si può constatare, il Moletti finisce con il seguire il Della Chiesa e l’Agostino, respingendo la nascita incestuosa di Beatrice e non soltanto perché gli ripugna credere che Manfredi di Saluzzo abbia sposato la sorella uterina del padre, ma anche sulla base di considerazioni fondate sulla cronologia e sulla testimonianza offertagli da cronisti e storici coevi, fra cui Saba Malaspina. Il coniugio tra Manfredi di Saluzzo e la principessa sveva dura venti anni, densi di eventi, che si inquadrano nella guerra del Vespro di cui si parlerà ancora, anche se brevemente. Intanto val bene rilevare che dal matrimonio fra Manfredi IV di Saluzzo e Beatrice di Svevia nascono due figli, Caterina, sposa di Guglielmo Engauna, Signore di Borge e della Valle di Po e Federico che premuore al padre e nel 1303, tre anni prima della morte della madre sposerà Margarita figlia di Umberto delfino di Vienna. Altre notizie non si hanno, almeno allo stato delle ricerche lodevolmente condotte dal prof. Natale Pasquale, studioso di storia del "natio loco" e non soltanto. La notizia più importante che sfugge all’oblio è quella della morte della principessa sveva che si apprende dal Moletti, tomo III, p. 76; scrive lo studioso citato: - Venne a morte nel dì 19 novembre di quest’anno 1306, Beatrice di Sicilia moglie del nostro Manfredo, e noi ne accertiamo il segnato giorno col mezzo del rituale del Monastero di Revello, nel quale leggesi annotato: 19 novembris anniversarium dominae Beatricis filiae quondam domini Manfredi regis Ceciliae et uxoris domini Manfredi primogeniti domini Thomae Marchionis Saluciarum, quae huic monasterio quingentas untias in suo testamento legarit. Commenta opportunamente Natale Pasquale, Pro manuscripto, Saluzzo 2000: All’epoca, è bene precisare, non v’era un luogo adibito a sepoltura della famiglia marchionale, come invece avverrà dalla fine del 1400 in poi nella Chiesa di San Giovanni, vero gioiello di artisti di scuola borgognona quale Antoine le Moiturier, con preziosismo di Benedetto Briosco o di Hans Clemer. I Marchesi e i familiari maschi eleggevano a loro piacimento il luogo di sepoltura, molto spesso nel monastero cistercense di Staffarda, mentre le donne venivano tumulate nei conventi di Revello o di Rifreddo, eretti dai Signori di Saluzzo per ricoverarvi la moltitudine di figlie femmine legittime e non. L’annotazione contenuta nel Rituale del Monastero di Revello che colloca al 19 novembre 1306 l’anniversarium dominae Beatricis, ci dà il giorno, il mese e l’anno della morte della principessa siciliana, ma certifica anche il luogo della sepoltura e l’età della morte, cioè la durata della vita. Quanto al luogo della sepoltura, non c’è da spendere molte parole: l’annotazione dell’anniversarium e del vistoso lascito pro anima in un documento liturgico solenne come il rituale della Chiesa Abbaziale non possono lasciare dubbi: Beatrice è sepolta a Revello. Quanto al dato cronologico, occorre richiamare alcuni dati ricorrenti in questo studio: Beatrice, nata nel 1260, viene catturata dall’Angioino dopo Benevento (agosto 1266) e rinserrata, ha appena sei anni, nel Castello del Santissimo Salvatore a Mare in Napoli. Dove resta prigioniera per ben 18 anni, cioè fino al suo 24 anno, fino a quel 5 giugno 1284 in cui Ruggiero di Lauria la restituisce alla libertà e all’amore di Madonna Costanza regina di Sicilia e d’Aragona e dei suoi nipoti gli infanti Giacomo e Federico. A due anni dalla liberazione, lo si è già detto, e cioè il 3 luglio 1286 si ha il matrimonio di Beatrice con Manfredi IV di Saluzzo che coincide con il compimento del ventiseiesimo anno della principessa siciliana. Dopo venti anni di matrimonio, il 19 novembre 1306, Beatrice di Sicilia marchesa di Saluzzo muore, a quarantasei anni dalla nascita. Evidentemente, Rosario La Duca scambierebbe una donna pressocchè cinquantenne con una donna che avrebbe un’età oscillante tra i diciotto e i venticinque anni, ma, potrebbe non essere il solo a sbagliare e confondere e tutto per colpa della mancanza di quel saldo impianto storico di cui si è detto. Con tutta evidenza, l’indagine sull’identità del terzo corpo contenuto nel sarcofago di Federico II non può essere ristretta a tre soli personaggi (Costanza sorella di Manfredi, Costanza figlia di Manfredi, Beatrice figlia di secondo letto di Manfredi di Sicilia). C’è un altro personaggio che bussa prepotentemente alla porta con il peso, con tutto il peso della sua presenza. Ma di questo personaggio si parlerà. Anche se la domanda non è pressante, val la pena di tornare a chiedersi dove può essere sepolta Beatrice di Svevia Marchesa di Saluzzo. Natale Pasquale in argomento scrive: - Purtroppo la soppressione dei summenzionati conventi femminili (Revello e Riffredo) e la loro caduta in rovina non permette più il ritrovamento di lapidi tombali. C’è però da dire che il vescovo saluzzese Ottavio Viale, in una visita pastorale effettuata il 28 luglio 1605 al suddetto Monastero ancora in perfetto stato afferma di aver qui rinvenuto i sepolcri dei marchesi di Saluzzo e dei loro familiari. Sepolture certo risalenti dal 1200 al 1300. C’era anche il sacello di Beatrice di Svevia? Dopo quanto si è detto più sopra è certo che ci fu (l’indicativo del verbo essere è intenzionale). Ma si ceda ancora la parola a Natale Pasquale che autorevolmente scrive: - Alla luce di queste premesse, anche se non esiste la certezza del luogo di sepoltura di Beatrice, mi pare altamente verosimile che sia tumulata qui in Piemonte. La prima ragione è che ai cronisti e agli storici non sarebbe sfuggita una notizia così inusuale del trasporto di una salma per più di mille chilometri affrontando pericoli, disagi e dispendio di mezzi; inoltre il denaro, riportato nel suo testamento, al Monastero di Revello, fa presupporre la volontà di essere colà inumata seguendo una consuetudine consolidata per l’aristocrazia femminile locale. Certo non è facile immaginare una duplicazione del corteo funebre di Federico II che si era snodato da Ferentino a Taranto, dove i solenni personaggi della Corte reale e imperiale e la numerosa scorta di armigeri, si era imbarcata per Messina, sostando nella città dello Stretto, quindi a Patti, per arrivare alfine nell’antica Capitale dove il popolo aveva ricevuto la salma imperiale in ginocchio lungo il Cassaro, seguendo la mistica di un potere che si vuole moderno, ma che resta fortemente carismatico, e l’aveva accompagnato in gramaglie nella basilica dove cinquantadue anni prima il quattrenne Federico era stato coronato con il sacro kamelaukion dei basileis mediterranei. Beatrice di Sicilia non si colloca nella serie dei sovrani del "Regno nel sole", quando lei muore, Marchesa di Saluzzo, la stessa concezione del potere muta o, se si vuole, assume nuove connotazioni: un funerale di duemila chilometri non è possibile, non è rituale e non è opportuno per la piccola marchesana. E non sembri strano che Beatrice non sia sepolta vicino a Manfredi IV di Saluzzo. Scrive Pasquale: - Per inciso, il marito Manfredo IV morì alla veneranda età di 81 anni nel 1340 e verrà sepolto a Farigliano, località delle Langhe, fuori del Marchesato, dimenticato da tutti; nel 1353, nella stessa località, verrà sepolta pure la seconda moglie Isabella Doria; costei figlia di Bernabò Doria darà a Manfredo di Saluzzo quattro figli: Manfredo V Signore di Corde e di Carigliano che sposerà Eleonora di Acaia; Teodoro Signore di Scarnefiggi; Bonifacio Signore di Torre San Giorgio; Eleonora che sposerà Oddone di Ceva. Inoltre, nella linea dinastica si inserisce Elinda, probabilmente bastarda di cui non si hanno altre notizie. In ogni modo, la quarantaseienne Beatrice di Sicilia, figlia di Manfredi re, folgorante come solleone al tramonto, non è sepolta nel sarcofago di Federico imperatore dei Romani sempre augusto, siculo, italico, gerosolimitano, borgognone, come si può leggere nella solenne intitolazione del Liber Augustalis. Dopo quanto si è detto, la terza salma del sarcofago fridericiano torna ad essere XX, anonimi cromosomi! Non pare, perché l’augusta signora, ancor oggi, lancia attraverso i secoli, un messaggio forte che non deroga alla solennità regale, un messaggio che parla di un amore venuto da lontano, circondando con il braccio destro proteso sotto i fianchi di Pietro II, il suo sposo. XX non può avere che un nome Elisabetta di Gorz Tirol dei duchi di Carinzia, figlia del duca di Carinzia Ottone e di Eufemia di Slesia: il matrimonio tra Pietro II ed Elisabetta di Carinzia era stato celebrato in Messina il 24 aprile 1323. Questo matrimonio è probabilmente l’unico che, in dieci anni e più di serrata diplomazia che Federico III va tessendo fra la stagione imperiale di Enrico VII di Lussemburgo e l’altra di Ludovico il Bavaro, riesca, al di là di ogni volontà progettuale, ad andare in porto, lungo un filo rosso che percorre tutta la politica del Monarca. Nonostante la dura determinazione che traspare dalla corrispondenza fridericiana, soprattutto con il fratello Giacomo II d’Aragona, le considerazioni assieme alla certezza che, venuta meno la speranza negli uomini, resta quella en notre seyor Gesuu Crist riportano al filo rosso che percorre tutta la vita di re Federico: la profonda religiosità che induce in lui lo scandalo per la frattura terribile che esiste tra la dottrina evangelica e le azioni di coloro che la predicano, tesi alla conquista della potenza terrena. Questo senso di scandalo e, di conseguenza, il suo interesse per i movimenti di riforma che si è soliti definire eterodossi è documentato fin dal 1304; tra quest’anno e il 1309, i due fratelli, il Siciliano e l’Aragonese, sono turbati dal famoso sogno in cui la regina Costanza, defunta, si mostra contristata dalla corruzione della Chiesa e del secolo e consiglia, piuttosto duramente, ai figli di riformare le loro corti e i loro regni.

Nel 1309, Federico III e Arnaldo di Villanova si incontrano a Catania: il Sovrano racconta a questo stranissimo personaggio i sogni, il suo e quello del fratello, esponendogli dubbi e perplessità.

Soprattutto un quesito si presenta alla mente del Re: E’ forse la religione invenzione degli uomini? Altrimenti come spiegare il distacco tra la dottrina e le opere? L’intensità e la veemenza del Dinasta impressionano anche il medico profeta che scrive un libello esegetico e l’Interpretatio facta per magistrum Arnaldum da Villanova de visionibus in somnis dominorum Iacobi II e Friderici tercii regis Sicilie eius fratis (in argomento, v. Marcelino Menendez Pelayo, Historia de los Heterodoxos espanoles, 2 ed., Madrid 1917, III, da pag. 179 e doc. XLIXCXXIX). Da questa operetta si svilupperà il Rahonnament d’Avignon in cui il Villanovano innesterà la sua visione escatologica. L’Interpretatio viene inviata da Federico III a Giacomo II che reagisce ribadendo la sua ortodossia mentre il Siciliano tace e inizia l’opera, mai smessa, di protezione degli Spirituali e degli altri riformatori. Questo, il filo rosso che condurrà Federico prima all’alleanza con Enrico VII, e poi con il Bavaro; proprio l’alleanza con Ludovico IV dimostrerà che la protezione accordata ai riformatori non è una larvata scelta di campo eterodossa operata da Federico III ma una coerente scelta etico - politica che sa di futuro. In questo futuro, emerge Elisabetta regina di Sicilia, duchessa di Atene e di Neai Patriai. Quelle fragili ossa furono di una donna di ferro che ebbe la ventura di generare tutti gli Aragonesi di Sicilia, divenendo la madre della dinastia. Morendo nel 1352, sopravvisse dieci anni a Pietro II. Purtroppo, degli anni di vita di Elisabetta di Carinzia può essere fatto un computo ipotetico ma assai verosimile: la sovrana è figlia di Ottone di Carinzia e di Eufemia di Slesia che aveva sposato il Duca nel 1299. Dato che Elisabetta, figlia primogenita, nasce attorno al 1300 e Pietro II di Sicilia nasce nel luglio del 1305 e muore nell’agosto del 1342, a 37 anni, Elisabetta sopravvivendogli 10 anni, muore fra i 46 e i 47 anni. Con tutta evidenza un personaggio appartenente alla famiglia reale che, attorno al 1352, sia fra i 18 e i 25 anni, e sia di calibro tale da fare aprire il sarcofago imperiale va costruito in laboratorio, senza dimenticare di porgli sulla testa una corona regale. Per concludere, sembra pleonastico ribadire che anche la sepoltura di Elisabetta di Carinzia è astretta dal vincolo di necessità, il medesimo vincolo che aveva provocato la sepoltura del marito Pietro II nell’avello fridericiano.

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