Abbiamo già parecchie volte recensito su questa nostra rivista gli scritti di Giovanni Tessitore, prolifico produttore di opere di notevole interesse scientifico - ricordo fra tutti Ruggero II e Il nome e la cosa - il quale, pur non abbandonando mai la visione tecnico giuridica dei problemi trattati, ci è sempre apparso come un giurista prestato alla storia. Le sue opere, infatti, sono tutte improntate sull’indagine e sulla curiosità proprie di chi ama la storia, pur dando il giusto rilievo all’influsso che la legislazione e la giurisprudenza hanno avuto nei secoli nella regolamentazione delle azioni umane.
Nell’ultima fatica letteraria, (Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione, Collana di Diritto e Società, Franco Angeli ed., Milano 2000, pp. 597) il mio buon amico, sembra voler tornare alla sua passione originaria, il diritto, appunto, concludendo quattro anni di minuziose e faticose ricerche sulla legislazione fascista, in tema penale, particolarmente sulla parte del codice Rocco, relativa al ripristino della pena di morte, dopo che la stessa era stata abolita in Italia con il codice Zanardelli nel 1890 e riportando, con pazienza certosina, tutte le sentenze di pena capitale emanate sia dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, in relazione ai delitti politici, sia dalla magistratura ordinaria per i delitti comuni .
Tuttavia l’antica passione per la storia fa continuamente capolino dalle pagine di questo libro che appare, tutto sommato, come una storia del fascismo ed un processo alla sua visione del diritto.
L’autore mette in rilievo la concordia dell’opinione pubblica sul ripristino della pena di morte, opinione pubblica esasperata dai disordini registratisi in Italia nell’immediato dopoguerra e vogliosa, dunque, di maggiore severità e di una dimostrazione di forza da parte dello Stato, conformandosi al parere dei proff. Tranchina e Fiandaca che hanno curato la prefazione in cui arrivano perfino a sostenere che " il ripristino della pena capitale non sconvolse né scandalizzò gli italiani, ma fu sorprendentemente quasi imposto ad un tentennante Mussolini non solo dagli atteggiamenti intransigenti dei duri del regime, ma anche dal coro quasi unanime degli addetti ai lavori, magistrati, docenti e persino avvocati, formatisi culturalmente in periodi in cui del fascismo non potevano avvertirsi nemmeno le più lontane avvisaglie" (p.14).
Tuttavia, nonostante la premessa iniziale, l’autore, poi, con ineccepibili argomentazioni dottrinarie e filosofiche, ricollega il ripristino della pena di morte al carattere autoritario del fascismo, giudicandola una scelta ideologica conforme alla visione hegeliana dello Stato, propria di Mussolini e del suo entourage politico.
Pur ribadendo che la scelta di ripristinare la pena di morte fu dettata "più dall’opportunità di risolvere problemi pratici e di affrontare necessità contingenti, che non da ragioni astratte e di principio" (p. 37), Tessitore, fra le righe, avanza anche l’ipotesi che alcuni degli attentati alla persona del Duce, verificatisi tra il novembre 1925 e l’ottobre 1926, che particolarmente sensibilizzarono l’opinione pubblica sull’argomento, potessero essere stati organizzati o ad arte provocati per ottenere un consenso generalizzato sul varo di una legislazione particolarmente severa e soprattutto sulla creazione di un tribunale speciale col compito di giudicare i soli delitti politici che sarebbero, dunque, stati sottratti alla competenza della magistratura ordinaria, violando uno dei diritti fondamentali e più antichi riconosciuti ai cittadini.
Era appunto il modello di Stato che accomunava nazionalisti e fascisti, destinati ad unificarsi nel 1921 nel PNF, che, al di là di tale concetto, apparivano ideologicamente molto lontani come radici politiche - conservatori i primi, giacobini e rivoluzionari i secondi - ma erano ambedue guidati dalla fede nella eticità dello Stato e nella sua superiorità rispetto alla società e ai singoli cittadini.
D’altra parte il concetto di Stato etico, guida dei cittadini dalla culla alla tomba, ente supremo in cui ciascuno di essi trovasse la sua piena realizzazione, al cui servizio ciascuno fosse posto per garantire il benessere generale, era un concetto comune sia alla destra che alla sinistra di fine Ottocento. Esso derivava dalla sfiducia che i pensatori politici cominciavano ad avere nelle capacità della massa, che ogni giorno di più veniva considerata da destra e da sinistra - vedi Lagardelle, Sorel, Le Bon, Pareto - come qualcosa di amorfo, cui era indispensabile la guida dei più capaci, le élites di Pareto o le avanguardie operaie di Lenin. Parallelamente a tale concetto prendeva sempre più vigore la sfiducia nel parlamento e dunque nelle democrazie parlamentari, ricordiamo il cretinismo parlamentare, frase coniata da Lagardelle e ripresa poi da Mussolini, preparando così il terreno al consolidarsi dei totalitarismi che, dagli anni venti alla seconda guerra mondiale, avrebbero caratterizzato la maggior parte degli stati europei. "La massa - avrebbe confidato Mussolini a Ludwig - ama gli uomini forti. La massa è donna (..) è un gregge di pecore finché non è organizzata (..) Nego che possa governarsi da sé (...) Non deve sapere, ma credere." ( p.165)
Alfredo Rocco, ardente nazionalista che sarebbe poi diventato l’architetto della legislazione penale del regime fascista, ancor prima della formazione dei Fasci di Combattimento, nella rivista Politica, aveva enunciato la sua visione dello Stato come ente onnipotente lontano mille miglia dal concetto di democrazia, dispensatore di quella libertà che non era più considerata diritto originario e inalienabile del cittadino, ma beneficio concesso dallo Stato che avrebbe potuto limitarla o abolirla secondo le circostanze. "Lo Stato fascista - avrebbe dichiarato in Parlamento nel ’26 - è lo Stato veramente sovrano, quello cioè che domina tutto e tutte le forze esistenti nel paese e tutte le sottopone alla sua disciplina. Se, infatti, i fini dello Stato sono superiori, anche i mezzi che esso adopera per realizzarli debbono essere più potenti di ogni altro, la forza di cui esso dispone soverchiante sopra ogni altra forza (...). La sovranità non è del popolo, ma dello Stato." ( p. 132)
All’avvento del fascismo due erano, in campo penalistico, le scuole che s’imponevano per autorità e competenza dottrinaria.
La prima era la scuola classica che appariva come una continuazione delle dottrine illuministiche per il ribaltamento dell’impostazione utilitaristica e per la sostituzione del concetto di utile sociale con una visione metafisica del diritto, era caratterizzata dall’uso del metodo deduttivo e dalla priorità data all’analisi del reato e della pena, rispetto alla studio della personalità del reo.
La seconda, detta scuola positiva o antropologica, si fondava, invece, sul metodo induttivo ponendo al centro dell’analisi criminologica l’uomo delinquente. Un tale tipo di impostazione sembrerebbe privilegiare la pena di morte che avrebbe eliminato il delinquente, inteso come cancro sociale e per il quale non si credeva alla possibilità di redenzione mediante pene a carattere rieducativo. In verità non tutti i positivisti si trovarono d’accordo sulla pena di morte.
Nel primo decennio del ‘900, grazie ad un professore di diritto penale dell’Università di Sassari, Arturo Rocco, fratello del più famoso Alfredo, padre di quel codice penale che, nato in epoca fascista è sopravvissuto fin quasi ai nostri giorni, si delineò una nuova tendenza in campo penalistico che diede luogo ad una nuova scuola che si contrapponeva sia alla classica sia alla positiva: la scuola tecnico-giuridica. Essa sosteneva la crisi della scienza penalistica per il sovrapporsi al diritto della sociologia, dell’antropologia, della psicologia, della statistica e della politica, trascurando, di fatto, la legislazione positiva.
La concomitanza verificatasi tra il sorgere di una nuova scuola penalistica, l’affermarsi del concetto di Stato etico proprio dei nazionalisti e fascisti, i quattro attentati al Duce in un breve lasso di tempo, il desiderio della popolazione di ordine e sicurezza, l’anarchia registratasi nel periodo postbellico e da molti attribuita alla debolezza dello stato liberale, la necessità del regime di consolidarsi dopo la crisi successiva al delitto Matteotti, costituì senz’altro terreno fertile quanto mai per il ripristino della pena di morte che già, all’indomani del penultimo attentato al Duce, era prevista e auspicata, sia negli ambienti giornalistici sia in quelli forensi.
Così il 2 ottobre Rocco, ministro della Giustizia, presentava al Consiglio dei Ministri un disegno di legge che prevedeva il ripristino della pena di morte per gli attentati al re, alla regina, al reggente, al principe ereditario, al capo del Governo e per alcuni gravi reati contro la sicurezza dello Stato. Inaspettatamente Mussolini chiese il rinvio dell’esame del disegno di legge.
Ma il 31 ottobre il Duce subiva, durante una sua visita a Bologna, l’ennesimo attentato da parte di un sedicenne, Anteo Zamboni, che gli sparò un colpo di pistola sfiorandolo solamente. Del corpo del giovanetto fu fatto immediato scempio dalla folla inferocita e ciò infittì il mistero sui veri mandanti dell’attentato. Si pensò ad un gesto isolato del giovane, ma s’ipotizzò anche che il giovane fosse stato indotto al delitto dal padre e dalla zia, ambedue anarchici. L’autore non dimentica la terza più fantasiosa ipotesi secondo la quale il delitto avrebbe avuto origine proprio in ambienti fascisti e i mandanti stessi, per non lasciare prove, avrebbero sommariamente giustiziato il giovane esecutore, prima che qualsiasi indagine potesse essere avviata.
Certo l’attentato di Zamboni riaprì la querelle sulla pena di morte e si sarebbe potuto insinuare che l’attentato fosse servito ai più facinorosi per vincere le ultime esitazioni del duce a riguardo. Di fatto, c’è da dire che il padre e la zia dell’attentatore, ritenuti responsabili per il comportamento del minorenne e per averlo educato secondo principi sovversivi, processati, per i loro reati politici, dal Tribunale Speciale, subito dopo il ripristino della pena di morte, furono condannati a trent’anni di reclusione e, dopo soli sei anni, nel 1932, per intercessione di uno dei più potenti gerarchi fascisti, Arpinati, furono graziati e rimessi in libertà.
Il 5 novembre del 1926, a pochi giorni dell’attentato, il disegno di legge presentato dal ministro Rocco circa un mese prima e accantonato per volere di Mussolini, venne ripreso, esaminato ed approvato dal Consiglio dei ministri col nome di Provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato. La nuova legge, per la durata di cinque anni introduceva la pena di morte per attentato ai sovrani, al reggente, al principe ereditario e al capo del governo e la reclusione da tre a dieci anni per chi ricostituisse i partiti o le associazioni disciolte. La novità maggiore e, insieme il più grave attentato alle garanzie dei cittadini era dato dalla creazione ex novo di un organo giudicante il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, cui veniva devoluta la competenza per i reati politici. Esso sarebbe stato composto da un presidente scelto tra i generali delle Forze armate o della Milizia Volontaria e da cinque giudici scelti tra i consoli della stessa Milizia e da un relatore preso dalla magistratura militare. Il TSDS avrebbe applicato le norme del codice di procedura penale militare e le sue sentenze non sarebbero state soggette ad alcun’impugnativa, salvo la revisione del processo. Esso avrebbe avuto competenza anche per i reati commessi prima della sua costituzione, come, ad esempio gli attentati verificatisi contro il Duce negli ultimi mesi.
Se il provvedimento governativo passò alla Camera senza incidenti di forza, con l’opposizione di soli 12 deputati, al Senato, organo certo meno fascistizzato, la discussione fu più libera e appassionata e si concluse con un numero di voti sfavorevoli al decreto di molto maggiore rispetto all’altro ramo del Parlamento, ben 49. Tuttavia gli interventi di quei senatori che da sempre si erano dimostrati contrari al supplizio supremo, o per motivi ideologici, come il sen. Pais, o per motivi religiosi, come il sen. Crispolti, furono molto prudenti; uno dei pochi che non ebbe paura di esprimere ciò che veramente sentiva fu il sen. Tanassia, il quale si disse scandalizzato, più che per la pena di morte, per la reclusione prevista nei confronti di chi avesse osato ricostituire partiti o associazioni disciolte, chiaro inequivocabile attentato al sacro diritto della libertà di pensiero e di associazione: "Onorevole Capo del Governo io appartengo a quei trentasei milioni d’italiani che non hanno la tessera del partito nazionale, ma però non sono né irosi spodestati, né rassegnati al potere perduto, non ex amici dei sovversivi. Ecc., ecc." (p. 141). Tra l’imbarazzo generale gli fece eco il sen. Stoppato, tra i principali artefici del codice di procedura penale del 1913, dichiarandosi scandalizzato per il fatto che si potessero punire i cittadini con la reclusione per il semplice fatto di professare idee contrarie al governo e per l’assenza di strumenti di impugnativa delle sentenze emanate dal TSDS. Tuttavia, dopo il passaggio in giudicato d’una condanna a morte era sempre ammesso il ricorso straordinario per revisione.
Rocco ribadì che il provvedimento aveva lo scopo di insinuare nel popolo la certezza della forza dello Stato nella prevenzione e nella repressione dei crimini, mentre il relatore sen. Garofalo anticipava che presto la pena capitale sarebbe stata ripristinata anche per i delitti comuni.
Così, come la maggior parte dei senatori avevano accettato il provvedimento, imbarazzati tra una scelta libera e una servile, così pure i giuristi si mostrarono quasi all’unanimità entusiasti del ripristino della pena di morte, anche coloro che da sempre avevano sostenuto nettamente le tesi abolizioniste come, per esempio il grande maestro Enrico Ferri che "compì autentiche acrobazie dialettiche per giustificare il proprio mutato atteggiamento" (p.156). Una delle poche voci dissenzienti fu quella del prof. De Marsico, futuro membro del Gran Consiglio che, nella prolusione letta all’Università di Bari, coraggiosamente si schierò contro il ripristino della pena di morte per i delitti comuni. De Marsico, pur dicendosi d’accordo con i provvedimenti speciali e provvisori varati per la difesa dello Stato, in una fase storica in cui il regime non si era pienamente consolidato, attribuiva l’entusiasmo con cui l’opinione pubblica aveva accolto il ripristino della pena di morte per i reati politici e pareva anche per l’estensione ai reati comuni, alla "assuefazione alla violenza legalizzata e all’omicidio di Stato" (p.162) che le migliaia di condanne a morte comminate dai tribunali militari durante la guerra - 4.098, di cui 750 eseguite, 311 commutate e 2967 pronunciate in contumacia - avevano determinato; "la svalutazione del valore della vita umana è fenomeno che accompagna eventi bellici o situazioni ad essi equiparabili" (p.162).
La pena di morte per i reati comuni di particolare gravità venne introdotta con il varo del nuovo codice penale, appunto il codice Rocco, entrato in vigore il 27 ottobre 1930.
Essa era comminata per i reati la cui pena prevista dal vecchio codice fosse l’ergastolo quando si era in presenza di una o più circostanze aggravanti, per concorso di reati o per cumulo di pene.
Si dichiararono favorevoli al provvedimento la Corte di Cassazione, per bocca del relatore Antonio Marongiu, la maggior parte delle Corti d’Appello e delle facoltà giuridiche del Paese costituite da uomini la cui formazione culturale e politica non aveva niente a che fare col fascismo essendo di molto precedente ad esso.
Sulla introduzione della pena di morte per i reati più efferati, non c’era da meravigliarsi o da collegare il provvedimento al carattere totalitario o violento del regime, visto che stati sulla cui democraticità non c’era da discutere, come l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, contemplavano nei loro codici la pena capitale. Essa, peraltro, secondo il nuovo codice, avrebbe dovuto comminarsi solo in presenza di prove evidenti e rigorosamente accertate e comunque sarebbe intervenuta la clemenza del Re ad evitare qualsiasi errore giudiziario.
Piuttosto ciò che poteva apparire conforme al carattere illiberale e totalitario del regime era il provvedimento con cui si avocava la competenza a giudicare sui reati politici ad un tribunale speciale, togliendola al giudice naturale e non prevedendo impugnative per le sentenze da esso emesse. Peraltro tale tribunale, che per la sua composizione si sarebbe potuto configurare come tribunale militare, se al suo interno non fosse stata prevista anche la presenza degli ufficiali della milizia fascista, cosa che lo rendeva ancora più politicamente dipendente dal regime, non dava, prima facie, alcuna garanzia di obiettività.
A questo validissimo argomento se ne può, tuttavia, contrapporre un altro. Il fascismo con la creazione di un tribunale militare - politico per giudicare i delitti politici, volle evitare di compromettere politicamente la magistratura ordinaria, assicurandone l’assoluta indipendenza a garanzia dei diritti dei cittadini comuni.
Sull’effettivo ricorso alla pena di morte nel periodo fascista Tessitore, con estrema fatica e puntiglioso scrupolo, è riuscito a raccogliere dati sicuramente precisi., almeno fino al 1940. Nel decennio 1867-1876 furono pronunciate ben 614 condanne a morte, ma in seguito all’annullamento da parte della Corte di Cassazione e la conversione nella pena dei lavori forzati a vita, le sentenze di morte irrevocabili si ridussero a 392, delle quali, per l’intervento della grazia sovrana, ne furono eseguite 34. Nel decennio 1931-1940 le condanne a morte per delitti comuni furono 118 di cui 65 eseguite. Dunque se in periodo fascista la pena di morte veniva comminata con maggior circospezione, era tuttavia di molto inferiore al decennio precedentemente esaminato l’incidenza dei provvedimenti di grazia.
Il codice Rocco era ispirato alla prontezza dell’esecuzione della sentenza, sia per rendere meno angosciosa l’attesa del condannato, sia per impedire che nelle more dell’esecuzione, scemasse nell’opinione pubblica il ribrezzo che il delitto, per cui la pena capitale era stata inflitta, aveva suscitato.
Dopo l’introduzione della pena di morte per reati comuni, poté effettivamente registrarsi una vistosa contrazione degli omicidi volontari tentati o consumati, per cui dai 1274 reati di tale tipo registrati in tutta Italia nel 1929, si arrivò nel 1939 a soli 625. Ciò probabilmente anche per il diffuso convincimento che le condanne comminate venivano effettivamente eseguite
L’autore osserva che ai giornali del tempo, ormai non più liberi ma sottoposti alle direttive del regime, veniva vietato di dare troppo spazio la cronaca nera, appunto per dimostrare la bonifica morale che era stata fatta dal fascismo, tant’è che, di contro, veniva dato spazio alla cronaca nera estera. E’ indubbio che il regime cercasse di sorvolare sulla cronaca nera per dimostrare la propria efficienza in tema di sicurezza e la sua capacità educativa sulle giovani generazioni, ma è anche vero che censurare le notizie riguardanti delitti di particolare efferatezza aveva uno scopo pedagogico. Proprio in questi giorni possiamo costatare quanto male facciano ai più giovani, oltre che agli adulti, le notizie fin troppo circostanziate di delitti di particolare gravità come la strage familiare di Novi Ligure, il parricidio di Padova, l’omicidio perpetrato a scuola da un sedicenne nei confronti della fidanzata coetanea e compagna di scuola.
Non sappiamo ancora quale effetto possano avere nella psiche dei più giovani, portati spesso all’emulazione anche delle azioni più sconcertanti, o all’esasperazione di comportamenti anticonformisti, le dettagliate informazioni su delitti che dimostrano la fragilità dell’istituto familiare e l’assoluta assenza di valori in gran parte dei loro coetanei.
Le sentenze emanate dal TSDS per reati contro lo Stato, comportanti pene detentive, furono, dal 1927 al 1943, 2496 con una media di 209 condanne all’anno, media che salì drasticamente nel triennio ‘40 -’43, soprattutto per i frequenti processi contro attività spionistiche. Le condanne a morte comminate furono 65, di cui 53 eseguite. Delle 53 fucilazioni avvenute nel dodicennio, ben 26 furono eseguite tra il ’40 e il ’42, cioè in pieno periodo bellico, dopo l’entrata in vigore della legge del giugno 1940 che aggravava le pene per delitti non politici commessi approfittando delle circostanze di guerra e che divenivano, dunque, competenza del TSDS.
Premesso che anche il sacrificio di una sola vita umana o la limitazione dei suoi diritti per motivi ideologici, è segno d’estrema barbarie, non si può definire particolarmente feroce un regime che in vent’anni comminò 53 pene di morte per motivi politici, di cui la metà in periodo di guerra, in cui il Tribunale Speciale era chiamato a giudicare anche per delitti comuni, come per esempio lo spionaggio, particolarmente pericolosi durante la guerra per la sicurezza dello Stato. E’ da sottolineare inoltre, che la prima condanna a morte per motivi politici fu emanata oltre due anni dopo il ripristino di detta pena e l’istituzione del Tribunale Speciale.
Non possiamo non fare questa considerazione, anche se può apparire cinica, soprattutto se paragoniamo il rigore del regime fascista a quello ben più incisivo dei totalitarismi comunisti e nazisti. In Germania tra il ‘34 e il’44 furono irrogate più di 7000 pene capitali, per non parlare dei milioni di condanne a morte inflitte in URSS nel periodo staliniano o delle fucilazioni in serie, ancor oggi, eseguite nella Cina comunista e di cui, per " correttezza politica" si parla ben poco.
L’autore, a dimostrazione di come il volere del duce condizionasse molti processi, trasformando delitti comuni in delitti politici e dunque di competenza del TSDS, porta come esempio il processo Della Maggiora. Questi era un trentenne bracciante toscano notoriamente comunista che venne accusato di aver ucciso il 12 dicembre 1926 due fascisti e aver tentato di ucciderne un terzo senza riuscirvi per fatti indipendenti dalla sua volontà. Per questo, nell’ottobre del 1928, gli fu comminata la pena di morte. Tessitore afferma che si volle trasformare un episodio di cronaca nera in un delitto politico, sol perché le vittime erano fasciste e il reo comunista, quindi di competenza del Tribunale Speciale che avrebbe potuto irrogare la pena di morte, al contrario dei tribunali ordinari che avrebbero, al massimo, potuto infliggere l’ergastolo, visto che il codice Rocco che estendeva la pena capitale anche ai delitti comuni, non era ancora entrato in vigore.
Certo una forzatura giuridica ci fu, ma nei confronti, comunque, di un pluriomicida che durante il processo confessò che aveva ucciso le due vittime soltanto perché fasciste e che aveva continuato a sparare contro i presenti nel laboratorio di sartoria di una delle vittime e poi all’aperto, colpendo ed uccidendo la seconda vittima.
L’autore sostiene che fu Mussolini a volere un processo politico per poter dare una risposta esemplare all’attentato alla Fiera Campionaria di Milano del 12 aprile 1928, dove alla presenza del Sovrano era esplosa una bomba che aveva provocato ben 20 morti e un’ottantina di feriti. Nonostante le affannose ricerche e indagini, di quella strage non erano stati trovati i colpevoli. Nei primi giorni erano stati arrestati 560 anarchici e comunisti, di cui 300 erano stati immediatamente rilasciati. 32 erano stati deferiti al TSDS che tuttavia li aveva assolti per il reato di strage, comminando pene detentive per attività contro il regime.
L’autore sottolinea quanto Mussolini tenesse a trovare un capro espiatorio per dare all’opinione pubblica il giusto esempio di rigore e per questo si era anche pensato di scegliere a caso tra i comunisti già detenuti come Gramsci o Terracini, ma per la mancanza di prove ci si era astenuti dal proposito per evitare di macchiare l’immagine del regime.
Il mio amico Tessitore tralascia di osservare che un regime dittatoriale che ha paura del giudizio della gente o che si astiene dall’accusare gli avversari politici in mancanza di prove, fa un po’ ridere, soprattutto se pensiamo ai processi farsa, imbastiti in quello stesso periodo a Mosca da Stalin nei confronti dei suoi stessi compagni di partito, come Bucharin, rei di credere in strategie diverse da quelle del capo per il trionfo del comunismo.
Di contro, c’è da sottolineare che nel caso, per esempio, di Innocente Peviani, ventiseienne, camicia nera scelta, condannato a morte per omicidio volontario, fu proprio Mussolini a negare la grazia e la commutazione della condanna in ergastolo, cosa che era stata perorata dal Procuratore generale di Milano Ranelletti.
Non si esitò, peraltro, a comminare la pena di morte ad uno dei capi della ‘ndrangheta calabrese, Francesco Mandalari, fino ad allora ritenuto intoccabile, per violenza carnale e concorso in duplice omicidio, di cui era stato identificato come mandante.
Un particolare rilievo è dato al caso Ferrigno da cui Leonardo Sciascia trasse il romanzo Porte Aperte, in cui si ipotizza che all’imputato fosse stata inflitta la pena di morte poiché una della vittime, Giuseppe Bruno, era presidente del Direttorio e Segretario del Sindacato Fascista Avvocati e Procuratori legali di Palermo.
Sciascia da buon romanziere forzò artatamente la realtà processuale, adombrando la possibilità che si trattasse di un delitto passionale e presentandoci la figura del "piccolo giudice", naturalmente antifascista, tormentato tra la volontà di non giudicare il reo passibile di morte, considerando i tre omicidi di cui si era macchiato, come un unico reato continuato, e le pressioni da parte dei superiori e delle autorità fasciste.
Invero, lo stesso autore lo riconosce, si trattò di un efferato triplice omicidio consumato per motivi di vendetta contro l’avv. Bruno, reo di aver licenziato il Ferrigno, impiegato presso l’ordine forense, perché colpevole di malversazioni contabili, vista la necessità di quest’ultimo di arrotondare lo stipendio per il mantenimento di una seconda famiglia, contro Antonino Speciale, reo di aver preso il posto dell’omicida e contro la moglie Concetta Conigliaro per motivi di disaccordo familiare. Come si vede il motivo politico era inesistente.
D’altra parte nello stesso modo ci si comportò nei confronti di un agente di PS di Padova, un certo Magagna Girolamo, accusato di aver ucciso un uomo a scopo di rapina gettandone poi il cadavere nel fiume Adige. Malgrado si trattasse di un reato meno raccapricciante di quello commesso dal Ferrigno, non si concesse al poliziotto la grazia e la possibilità di commutare la sua condanna a morte in ergastolo.
Neanche nei confronti di due membri della Milizia Volontaria, Tosi e Malagoli, condannati a morte, il primo per omicidio aggravato a scopo di rapina e il secondo per concorso in omicidio e rapina, il duce dimostrò clemenza, anche se il Malagoli non aveva commesso personalmente il delitto, ma aveva spinto l’altro a commetterlo. Fu respinta la domanda di grazia e ambedue furono giustiziati senza che prendesse in considerazione, nemmeno per un secondo, la commutazione della condanna a morte in ergastolo.
In verità non meraviglia il sospetto dell’Autore sulla presunta ingerenza del potere politico nell’ordine giudiziario. Nulla di nuovo egli aggiunge ai sospetti che sempre si sono avuti e si hanno sulle ingerenze in ogni tempo dei poteri politici sugli ordini giudiziari. La storia dei nostri giorni è ricca di tali sospetti non sempre legittimi, ma non sempre infondati. Ciò forse deriva anche dal controllo dell’Esecutivo sul potere giudiziario attraverso l’Organo di autogoverno dei Magistrati, il Consiglio Superiore della Magistratura per la cui composizione la lottizzazione di una parte dei suoi rappresentanti è spesso la proiezione della lottizzazione politica, almeno per i cosiddetti "componenti non togati".
Ma spesso i sospetti sono alimentati anche da iniziative giudiziarie che, per il tempo ed i luoghi in cui sono promosse, appaiono inficiate da una strategia politica che mal si concilia con l’amministrazione della Giustizia.
Tale tesi, tuttavia, come già detto troverebbe scarsa applicazione nel regime fascista che, per sottrarre al proprio giudice naturale cittadini responsabili di specifici reati, avvertì la necessita di istituire un tribunale politico-militare di rigorosa osservanza dell’orientamento politico ben distinto, però, dai Tribunali ordinari che, viceversa, mostravano un’autonomia probabilmente ben più marcata rispetto alle autonomie di Uffici Giudiziari di molte moderne democrazie.
Considerazioni queste, condivise da molti opinionisti, come ad esempio Indro Montanelli, che le rievoca ogni qualvolta avanza sospetti su parte della Magistratura italiana di politicizzazione e di asservimento al potere costituito.
Pregevole il tentativo di Giovanni Tessitore di reperire statistiche attendibili sull’attività degli organi giurisdizionali italiani nei territori coloniali, tentativo non completamente portato a termine per la difficoltà di raccogliere dati sicuri, dovuta alla molteplicità delle Corti d’Assise, operanti nei territori d’oltremare, nonché per lo smarrimento cui i documenti andarono soggetti dopo il crollo dell’Impero coloniale.
Quest’ultima parte dell’opera risulta particolarmente meritoria, poiché nessuno prima d’ora si era interessato a questo campo di ricerca concernente l’amministrazione della giustizia nelle colonie italiane. In esse, nel maggior numero di casi, non si estese la legislazione penale italiana, bensì si fece ricorso, prendendo a pretesto il rispetto degli usi e costumi locali, a una sorta di giustizia differenziale amministrata da una molteplicità di organi fra cui è quasi impossibile orientarsi.
L’autore è riuscito, tuttavia, a rinvenire la documentazione relativa a sei processi, celebrati davanti le Corti d’Assise di Tripoli, Bengasi, Derna e Asmara, che comportarono la condanna a morte per quattro italiani e 10 indigeni. E’ da sottolineare che dei dieci indigeni giustiziati, quattro lo furono in seguito all’accertata colpevolezza in relazione ad omicidi, generalmente a scopo di rapina, nei confronti di loro compatrioti. Sei, invece, appartenenti ad un plotone di soldati coloniali, furono giustiziati per correità nell’omicidio del tenente Ottorino Biondo, perpetrato durante il sonno della vittima a scopo di rapina e per averne occultato il cadavere.
I quattro italiani condannati a morte dalla Corte di Assise di Asmara, erano accusati di aver ucciso, a scopo di rapina, cinque indigeni e di averne ferito altri due.
Appare singolare che, sia per la prima volta che per l’ultima, la pena di morte fu eseguita su condannati siciliani; nel 1931 Mignemi Diego, di Canicattì in provincia di Agrigento, veniva giustiziato perché giudicato colpevole di violenza carnale continuata e aggravata, anche dalla morte della vittima; il 5 marzo 1947 la pena di morte veniva applicata per l’ultima volta nei confronti di Giovanni D’Ignoti, Giovanni Puleio e Francesco La Barbera, tutti e tre siciliani, condannati per omicidio continuato, sequestro di persona e rapina aggravata.