S. Vecchio, La terra del sole, con introduzione e prefazione dell’Autore, Caltanissetta, Terzo millennio editore, voll. 1 e 2, pp. 725
"La terra del sole", opera in due volumi di Salvatore Vecchio, costituita da un testo antologico della cultura siciliana, viene a colmare una lacuna in quanto offre una panoramica, sia pure sintetica, dei fatti, degli avvenimenti, dei personaggi e, soprattutto, degli autori più importanti che hanno caratterizzato ed illustrato la staria della Sicilia.
La metodologia seguita nell’elaborazione di poi ne fa un manuale agevole nella consultazione, puntuale negli approfondimenti, con periodi storici ben scanditi. In altri termini un manuale utile agli addetti ai lavori, ai lettori comuni, alle stesse scolaresche.
Il primo volume va dalle Origini ai Borboni e si articola attraverso i capitoli: Le origini, La Sicilia greca, La denoinazione romana, Il periodo barbaro-bizantino, La Sicilia araba e normanna, Gli Svevi, Dalla Sicilia angioina agli Aragonesi, La Sicilia spagnola, Sabaudi, austriaci e borboni in Sicilia.
Quel che aggiunse interesse all’opera è la elencazione di modi di dire e di proverbi, a conclusione di ciascun capitolo, nonchè la esposizione della derivazione dei vari termini usati.
Il secondo volume continua l’impostazione del primo e va dal Risrgimento ai nostri giorni. I vari capitoli sono: La Sicilia dal Risorgimento alla sfiducia nello stato unitario, La Sicilia della I metà del Secolo. L’autonomia, La II metà del Noveceno. La Sicili dei nostri giorni.
Un aspetto importante è l’inserimento di racconti e di canti popolari.
Naturalmente è facile notare-specie per quanto riguarda gli autori - delle essenze oppure un un rilievo limitato riservato a personalità quali Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Vittorio Emanuele Orlando, Giuseppe Pitrè, Biagio Pace e altri. Ma in raccolte antologiche, che peraltro devono tenere conto degli spazi a disposizione, è ineluttabile che avvenga. Comunque assenze vistose non se ne notano, anzi vengono posti alla ribalta anche autori po conosciuti.
L’opera, che è curata anche nella vese tipografica, si conclude con un prospetto sinottico-cronologico comparato, con una bibliografia essenziale e con gli indici dei nomi e delle illustrazioni.
Al di là degli aspetti formali, delle linee metodiche, è lo spirito di sicilianità che traspare non solo nelle valutazioni degli avvenimenti e degli autori, ma anche nella scelta dei testi. Va reso perciò grande merito a Salvatore Vecchio per averci dato un’opera che sostanzialmente inaugura un filone nuovo, che apre le porte ad una più puntuale interpretazione.
Dino D’Erice
S. MASTELLONE, La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Biblioteca Scientifica, Serie II: Memorie, vol. XLV, Archivio Guido Izzi, 2000, pp. 185.
Il libro di Salvo Mastellone è il primo studio sugli Thoughts upon Democracy (1846-1847) di Mazzini in lingua inglese, senza i rimaneggiamenti a cui egli stesso ricorse dopo il 1848.
Mazzini giunse in Inghilterra nel 1837 dopo aver fondato a Marsiglia la "Giovine Italia" (1831) e a Berna la "Giovine Europa" (1834). Erano gli anni in cui il dibattito sulla democrazia era intenso e guidato dall'Unionism dei lavoratori, all'origine del movimento cartista. Fu allora che Mazzini, nel marzo del 1840, ritenne opportuno creare, sul modello inglese, una democratica Unione degli Operai Italiani e dare vita a un giornale "Apostolato Popolare" le cui pubblicazioni iniziarono il 10 novembre 1840 (p. 18) e furono sospese nel 1843 per mancanza di fondi (p. 154).
Mazzini era convinto che i problemi sociali dovessero essere seguiti da vicino e che non si potessero ignorare i diritti del lavoro (p. 15). Egli riteneva che le condizioni di vita degli operai italiani fossero le peggiori poiché in Italia "non v’è Unità nazionale, e quindi non v’è Patria, fratellanza, non legge comune" (p. 18); non vi erano associazioni di operai che, al contrario, erano ormai radicate in Inghilterra o in Francia.
La fama di Mazzini, però, si diffuse solo quando la stampa inglese rese nota la vicenda "the letter-opening affair": lettere indirizzate all’esule che, per ordine del Segretario di Stato, James Graham, venivano aperte.
Il 3 gennaio 1844 Mazzini aveva preparato un dettagliato Piano per un moto insurrezionale in Italia ritenendo ormai maturi i tempi per l’insurrezione, ma il piano finì nelle mani delle autorità austriache (p. 25). Tra aprile e maggio 1844 cominciò a diffondersi la notizia che il governo di Vienna era stato informato dal governo inglese dei progetti rivoluzionari tramati a Londra da Mazzini. Graham fece sospendere l’ordine di aprire la posta, ma l’esule italiano, che aveva capito cosa si stesse tramando, fece presentare una interpellanza alla Camera dei Comuni dall’esponente dell’opposizione, Thomas Ducombe (p. 28).
Il 13 febbraio 1845 Mazzini pubblicò su "Morning Chronicle" una lettera con la quale accusava il governo di Londra di grave responsabilità nell’uccisione dei fratelli Bandiera e di altri sette cittadini del napoletano (p. 39). A questa lettera ne seguirono altre con le quali Mazzini polemizzò contro la politica estera del Gabinetto inglese richiamandolo alla sua tradizione di libertà, sia per i singoli che per le nazioni (p. 45).
The letter-opening affair si chiuse nell’aprile del 1845 con una dichiarazione che sottolineava le doti intellettuali e morali di Mazzini.
Tra luglio e settembre 1845, il giornale cartista "The Northen Star", pubblicò in otto puntate il volumetto di Mazzini Italy, Austria and the Pope; tutti i brani furono favorevolmente commentati (p. 55) a testimonianza della stima verso l’esule italiano (p. 71).
Il 22 settembre 1844 Karl Schapper, in ricordo dello scrittore comunista Weitling, organizzò un meeting durante il quale si affermò il proposito dei comunisti tedeschi di dar vita a una rivoluzione sociale per ricostruire la società. Tali affermazioni furono raccolte in un opuscolo dal titolo Young Germany. An Account of the Rise, Progress, and Present Position of German Communism. In esso veniva specificato, tra l’altro, che la "Giovane Germania" a differenza della "Giovine Italia" di Mazzini proclamava i principi del comunismo e si batteva a favore dell’emancipazione della classe dei lavoratori, emancipazione che sarebbe giunta attraverso una rivoluzione sociale.
A Londra coesistevano due scuole per operai emigrati: la German School for Instruction e Scuola elementare italiana gratuita aperta da Mazzini (p. 75). Questi, osserva l’autore, per contrastare l’azione ideologica della Young Germany s’impegnò ancor più nell’attività della sua scuola nell’intento di istruire i membri dell’Unione degli operai italiani (p. 72). Egli decise anche di costituire un Fondo per l’Azione Nazionale al fine di rendere efficace l’attività del partito della Giovine Italia. Dinanzi alla forza ideologica della Young Germany Mazzini pensò di "ristrutturare" la Giovine Italia come partito nazionale d’azione. Egli avvertì l'esigenza di "elaborare una dottrina politica ben chiara, precisando i principi sociali ed i criteri associativi, ed anche presentare un programma di governo sul modo di reggere la cosa pubblica" (p. 74).
Nel 1845 il condirettore de "The Northen Star", d'intesa con lo stesso Schapper, diede vita a una società cosmopolita Fraternal Democrats che, a poco a poco, andò configurando una nuova Giovane Europa diversa da quella mazziniana.
Nel dicembre del 1845, si ebbe notizia a Londra di agitazioni in Polonia. Ma il comando austriaco sciolse la guardia nazionale e si ritirò in attesa di rinforzi. A seguito dell'insurrezione di Cracovia, sottomessa all'Austria, il governo provvisorio polacco emanò il Manifesto di Cracovia (22 febbraio 1846) che venne tradotto in tedesco, e pubblicato in lingua inglese su "The Northen Star" (p. 81). Il manifesto creò una spaccatura tra democratici repubblicani (desiderosi di dar vita a una repubblica fondata sul suffragio universale) e democratici comunisti (che auspicavano l’avvento della classe operaia al potere e la conseguente eliminazione delle classi privilegiate). Questi ultimi chiarirono il loro pensiero attraverso un Address, pubblicato sul giornale cartista e firmato da Marx ed Engels. Essi "pensavano, con l'aiuto dei Fraternal Democrats […], e con l'appoggio di Feargus O'Connor, eletto a grande maggioranza dai Cartisti come loro rappresentante, di poter insistere sulla lotta di classe e sui diritti del proletariato, andando oltre il repubblicanesimo alla francese di Lamennais e di Leroux, ed anche di Cooper e di Mazzini" (p. 94).
Una settimana dopo la pubblicazione dell'Address - titolo completo Address of the German Democratic Communists of Brussels to Mr. Feargus O'Connor - Mazzini chiese al direttore del "People’s Journal" di pubblicare una serie di articoli, Thoughts upon Democracy in Europe, con l’intento di rivolgersi ai lettori inglesi e ai sostenitori del movimento democratico per definire la democrazia (p. 103).
L’oggetto della democrazia mazziniana, sottolinea magistralmente Salvo Mastellone, è di carattere etico, è un problema educativo che esclude la violenza e l’uso della forza fisica. Tale finalità etica distingue la democrazia dal sistema comunista nel quale, secondo Mazzini, prevalgono gli intellettuali di partito che nell’esercizio del loro potere, assumeranno "the dictatorship" (p. IX). L’autore rileva che tale termine fu usato da Mazzini prima di Marx per affermare che "con la formazione di un sistema comunista si formerà una casta politica che imporrà la dittatura sulla massa del proletariato" (ivi). La democrazia ha il merito di fare uscire l'uomo dalla solitudine individuale "moltiplicando i nessi con la società nella quale egli vive" (p. 109); e Mazzini "traccia l'ipotesi di una democrazia morale che, educando alla vita civile, migliori, con il rispetto delle libertà, le condizioni di tutti nelle istituzioni comunali, nazionali ed europee" (ivi). Al contrario, egli accusa il comunismo di essere privo di una concezione etica della vita che finisce per negare "la libertà, il progresso e lo sviluppo morale della persona" (p. 133). Mazzini è convinto che solo un'etica altruistica "consapevole dei doveri, possa permettere di superare l'individualismo ed elevare moralmente l'uomo e la società" (p. 119).
Il testo in lingua inglese dei Thoughts, ignorato dagli studiosi prima di Salvo Mastellone, presenta l'esule genovese come uno scrittore politico europeo. L’autore, procedendo attraverso un attento esame a fronte, tra il Das Kommunistische Manifest di Marx ed Engels e i Thoughts di Mazzini, dimostra l’affascinante tesi - già da lui sostenuta nella traduzione in italiano dei Thoughts upon Democracy pubblicati dall'Editrice Feltrinelli - che il Manifesto rappresenta, almeno in parte, una risposta alle accuse mosse al comunismo da Mazzini. Infatti, il secondo capitolo del Manifesto e il sesto articolo dei Thoughts rappresentano, rispettivamente, le risposte di Marx alle domande poste dall’esule genovese nei Thoughts (pp. 168-171).
I Thoughts costituiscono la proposta di democrazia progressista formulata da Mazzini e mostrano il suo progetto di vedere l’Italia libera e unita con un decentramento amministrativo imperniato sui comuni. Il soggiorno in Inghilterra gli aveva dato la possibilità di comprendere l’importanza dell’autonomia locale inglese che consentiva al cittadino – rispetto all’accentramento statale francese – di godere della libertà individuale e dell’uguaglianza civile. Mazzini "si era reso conto – scrive Mastellone – che la vita comunale della nuova Inghilterra, elogiata da Tocqueville, risaliva alla tradizione comunale della vecchia Inghilterra" (p. 50). Ed egli aveva sostenuto che il sistema repubblicano unitario era conciliabile con le libertà comunali e municipali (p. 61).
Mazzini, assertore, a Marsiglia e in Svizzera, della repubblica - come forma di governo adatta a perfezionare la civiltà - subisce in Inghilterra un ripensamento dottrinale: egli pensa alla democrazia come forma di governo: "eguaglianza - osserva l'autore - significa democrazia, ma anche le libertà individuali sono elementi essenziali della democrazia: popolo significa democrazia, ma un popolo non può imporre la propria autorità sugli altri popoli; la repubblica è una forma democratica di governo, ma anche un governo repubblicano deve rispettare nell'esercizio del potere i principi democratici" (p. 102).
I Thoughts dovevano diventare, a suo avviso, il supporto dottrinale della People's of International League perché la nuova Europa doveva essere democratica: "popoli liberi democraticamente governati dai migliori" (p. 180); era questa, osserva Mastellone, la soluzione politica mazziniana che poteva risolvere i conflitti sociali tra classi all’interno di ogni singolo stato e permettere il progressivo perfezionamento della società e dell’individuo.
Claudia Giurintano
AA.VV., Volti e pagine di Sicilia (da Serafino Amabile Guastella a Lara Cardella), presentazione di Nicolò Mineo, a cura di Simona Noto, ritratti di Tina Lo Re, Catania, Prova d'Autore, 2001, pp. 345.
Con questo volume, come ricorda il Presidente Francesco Musotto all'inizio del libro, la Provincia Regionale di Palermo ha voluto rinnovare la propria attenzione alle "espressioni letterarie" siciliane, rivisitando quelle personalità che hanno dato lustro all'Isola.
Si tratta di schede biografiche e passi scelti di critica accompagnati da ritratti disegnati da Tina Lo Re che offrono "un mosaico composito" - come scrive nel suo saluto l'Assessore alla Pubblica Istruzione Tommaso Romano - che non pretende di essere completo ma che ha il merito di far uscire dall'oblio autori isolani accomunati, al di là delle diversità, dalla libertà "che può simbolicamente raffigurarsi in un disegno ricco di sfaccetture eppure molto facilmente identificabile" (p. VIII).
Il procedimento di selezione dei nomi presenti nella raccolta è stato quello di inserire autori che avevano avuto consensi critici non occasionali e che avevano pubblicato su volumi o organi di stampa a diffusione nazionale.
Volti e pagine di Sicilia è diviso in due sezioni: nella prima dal titolo Elisio (dimora eterna di eroi e poeti giusti presso gli antichi greci) sono inseriti ottantadue scrittori ormai scomparsi tra i quali ricordiamo Borgese, Brancati, Bufalino, Buttitta, Capuana, De Roberto, A. Damiani Lanza, Pirandello, Quasimodo, Rosso di San Secondo, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Verga e Vittorini.
La seconda sezione ha il significativo titolo di Lavori in corso poiché raccoglie cinquantasei "operai della parola" - da Alaimo a Camilleri, da Consolo a Perriera, da Quatriglio a Zinna - che ogni giorno, con i loro contributi, testimoniano la grande creatività di scrittori. Le due sezioni, scrive nell’interessante presentazione Nicolò Mineo, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, rappresentano un continuum, in cui l’accostamento dei vivi ai morti dà il senso della durata piuttosto che della precarietà (p. 16). Mineo si pone il problema della "sicilianità" della letteratura nell’Isola giungendo alla conclusione che non c’è [...] una possibilità di individuare un tema o uno stile o una tendenza o una mentalità costanti e comuni nel tempo; egli individua, piuttosto, una costante storica ai livelli intellettuali più alti: la tensione ad adeguarsi alle realtà culturali e letterarie italiane ed europee più avanzate, per riprodurle e, a volte, per realizzarle a un grado più significativo (p. 17).
Volti e pagine di Sicilia, pertanto, ha il pregio di offrire al lettore il mezzo per ripensare la Sicilia attraverso i suoi scrittori; una terra patria di miti e di archetipi, percorsa da presenze di popoli e civiltà, al centro tra Europa e Africa dove il passato ha radici profondamente scavate ma anche sempre verdi e attuali.
Claudia Giurintano
N. BEDDIA, E Dio salì sul mio treno, Napoli, Grafitalica, 2000, pp. 191.
A lettura terminata viene spontaneo domandarsi: cos'è questo libro di Nunzio Beddia? un romanzo? un dialogo tra due amici? una lettera ad un amico sconosciuto? una relazione? una storia autobiografica? un diario?... E già queste domande pongono l'accento sulla sua dimensione tra inquietante e provocatoria, certamente originale nel suo ritmo intrigante. A pensarci bene, questo interiore viaggio dell'anima è un fitto dialogo con un lettore un po' stravagante, dalla faccia sconosciuta, chiamato continuamente in causa con vocativi pieni di affetto; un dialogo dove questo lettore probabile e sempre più interessato alla vicenda appare nelle vesti di confessore e lui, l'autore, in quella umile del penitente.
Appare subito evidente un elemento che lo caratterizza con un assillo autoritario e pungente: il libro è animato da un forte e risentito spirito critico che morde le cose e gli eventi ma soprattutto il tessuto intimo della storia. E' come una crudele discesa agli inferi dentro un passato ribollente e accattivante alla luce dei sensi, ma colmo di struggente malinconia scortato da immagini di rara bellezza come certi scorci di paesaggi, ricordi di città, di paesi, di campagne e di spiagge.
Il viaggio tortuoso di quel treno interiore che più volte sfiora l'abisso, passa dall'esistenza del reale, per il quale la vicenda sembra avere una lunga predilezione e dal quale l'autore vorrebbe staccarsi, comportandosi con l'istinto di un animale braccato con scarsi frammenti di poco valore. L'intimo dell'io narrante corre tra violenze di desideri, propositi buoni e compromessi con Dio, tra l'adesione verbale alla legge e la forza della trasgressione, mentre è attratto misteriosamente dalla sofferenza ma deciso a non ammettere d'essere malato, dentro, per una mescolanza di perversione e di virtù.
La vita diventa, così, una "gabbia di matti, un ingarbuglio contorto, costellato di nodi e di groppi" mentre la testa si "ubriaca di lussuria" e il cuore gli appare "pieno del desiderio di perdersi".
Murato dentro la sua storia, chi avrebbe potuto aiutarlo? - si chiede con angoscia l'autore ed intanto si fa strada l'idea del viaggio: "Io ero fatto per viaggiare, partire"; avrebbe potuto essere forse un "viaggio del cuore dentro il cuore", un percorso della mente per vincere la ragione, ma diviene presto desiderio di fuga, sogno di "romantiche rivoluzioni sociali" ma anche d'arte e di filosofia.
Ed ecco che la storia comincia a virare di bordo per diventare, quasi senza che l'autore se ne avveda, una continua ricerca dell'anima ed infine la scelta, debolissima all'inizio, del cosiddetto "cammino". La ricerca parte in realtà da una domanda chiave e tuttavia esitante e colma di speranze smarrite: "Perché non rinnegavo la mia vita così ingarbugliata e priva di luce e non scendevo dal mio tremo per salire sul treno di Dio?"
Da qui trova inizio una "via dolorosa punteggiata da dubbi, incertezze, pianti, rivolte, adulteri" ma finalmente la vita imbocca un nuovo sentiero. Nunzio Beddia diventa soggetto dell'incredibile evento del richiamo del male ma assiste stupito alla scomparsa della tentazione, per divenire spettatore di un miracolo che è il dono della vita interiore e la conversione del cuore, l'unica strada di accesso per dialogare con Dio. E' come se il cuore avesse finalmente capito e avesse impresso al treno l'unica direzione possibile: passare "dalla scienza del piacere terreno alla scienza dell'alleanza con Dio".
Il libro ha un andamento ondulatorio, quasi a rispecchiare il percorso non lineare, fatto di ripensamenti e di ardori, di slanci e di pause di riflessione e lo stesso autore lo conferma quando si rammarica dell'espressione che potrebbe apparire poco lineare: "non sempre riesco a seguire il discorso sino alla fine". Ma le interruzioni e le digressioni sono la confessione di uno stato d'animo insidiato dall'incertezza e dell'irrisolutezza fino alla solare certezza di Dio.
Osservazioni sul potere, sulla musica, sulla poesia, sulla filosofia attraversano continuamente il racconto-confessione, rivelando una cultura ricca e aggiornata che Beddia chiama umilmente "la mia vana cultura" e che invece costituisce l'esito di letture appassionate specie quelle filosofiche e quelle sui poeti francesi decadenti che ora trovano posto in un libro dallo stile compatto e talvolta angosciato ma sempre proteso ad osservare il suo itinerarium in Deum e perciò dominato da una notevole capacità e sicurezza di scrittura.
Enzo Lauretta
F. e S. GIARRIZZO, Valguarnera Caropepe all’epoca dei cavalieri e dei podestà, Assoro, NovaGraf, 2001.
Questo libro si colloca a pieno titolo nel filone della storiografia locale, su cui, da un quarantennio a questa parte, converge sempre più l’attenzione di studiosi italiani e stranieri. Tale produzione, tanto diffusa, quanto suggestiva, sembra procedere, sebbene in senso inverso, con una fioritura analoga a quella dell’antica e fortunata stagione greca e romana, quando l’attenzione degli storici poteva essere esclusivamente rivolta al territorio in cui essi vivevano e operavano. Allora, come oggi, fare storia locale significava cura del dettaglio, conoscenza vasta e approfondita della realtà o del fatto a cui la ricerca si riferiva. Esiste, tuttavia, una sostanziale divergenza tra le due narrazioni: la prima, in mancanza di una storia generale, era necessariamente circoscritta, limitata, non coordinata ad altre narrazioni; la seconda, invece, come una tessera di un grande mosaico, è integrativa, complementare alla storia universale, anzi assurge spesso al ruolo di verifica di quest’ultima.
La storia locale, oggi, è più "storia nostra" di qualunque altra storia, nel senso che essa rappresenta il primo cerchio – quello più vicino al centro - di una serie di cerchi concentrici. Tale sentimento, tale constatazione ci danno una prima dimensione del suo valore: ci convincono della sua alta carica pedagogica e ci fanno fortemente avvertire l’esigenza di un suo inserimento nei programmi scolastici per una più completa formazione dei nostri ragazzi, per una loro più consapevole collocazione nella comunità d’appartenenza. Certo, tutto ciò richiede che l’elaborazione dei risultati della ricerca sia conforme ai comuni criteri storiografici. È necessario, in altri termini, che la trattazione risponda in pieno ai canoni dell’obbiettività, della chiarezza e dell’organicità. E che, di conseguenza, sia ben documentata e avulsa da spirito di campanile.
Ebbene, a me pare che questa ricerca di Francesco e Silvia Giarrizzo, Valguarnera Caropepe all’epoca dei cavalieri e dei podestà, abbia le carte in regola per essere ufficialmente inserita nella storiografia locale, quella, per intenderci, che ci fa conoscere la nostra terra, ci fa scoprire la nostra identità e ci consente di comprendere meglio la storia nazionale e internazionale.
Il dott. Francesco Giarrizzo non è nuovo a lavori del genere, perché è stato ed è meritoriamente impegnato in un cospicuo programma di ricerca con l’obiettivo di recuperare gran parte della memoria storica di Valguarnera. A tal riguardo sono pregevoli le sue recenti pubblicazioni su Mons. Giacomo Magno: il sacerdote, l’educatore, lo storico; su Valguarnera Caropepe, risonanze del travaglio ideologico del paese sugli eventi politici comunali; e su La formazione ideologica e il messaggio etico-politico di Francesco Lanza.
L’autore - nell’ultimo suo lavoro, Valguarnera Caropepe all’epoca dei cavalieri e dei podestà - si è avvalso della collaborazione della figlia Silvia, dottoressa in lingue e letteratura straniere e moderne, la quale, promossa in campo coautrice, confessa, giovane com’è, d’essersi appassionata all’avvincente microstoria "paesana" via via che andava scoprendo le radici e il patrimonio storico-culturale del suo paese.
L’opera - che, per taluni aspetti, si propone di integrare con riferimenti archivistici le Memorie storiche scritte nel 1928 da mons. Giacomo Magno – riguarda il periodo che va dal 25 dicembre 1893 al 2 giugno 1946, ossia dalla sommossa popolare provocata a Valguarnera, nell’ambito del movimento dei Fasci, da Michelangelo Di Dio, soprannominato "u cuttunari", un vero e proprio Masaniello locale, sino allo svolgimento in Italia del referendum istituzionale che provoca la caduta della Monarchia e la nascita della Repubblica.
Il libro, a mo’ di una movimentata sequenza cinematografica, focalizza fatti e personaggi che, nel corso di 53 anni, hanno occupato lo scenario valguarnerese. I Giarrizzo, attenti a puntare i riflettori sull’intera comunità locale, riportano con pari evidenza gli eventi di cui - direttamente o indirettamente, nel bene come nel male - sono stati protagonisti i poveri e i ricchi, i deboli e i potenti, gli ignoti e i notabili. Ne viene fuori la storia di un popolo, la storia una società che, nelle sue alterne vicende e nel traumatico passaggio da un’amministrazione comunale gestita dai cavalieri all’altra ipotecata dai podestà, appare partecipe al processo politico ed economico nazionale.
Siffatta impostazione dà al libro la valenza di storia strettamente sociologica, che, fra l’altro, non manca delle dovute comparazioni tra una categoria sociale e l’altra, non è priva di pagine statistiche di tipo esplicativo o di tipo riepilogativo, non è carente di documentazione. Anzi, è corredata da una serie di preziose fotografie d’epoca, volte nell’intenzione degli autori a tradurre in immagini il testo scritto.
L’opera, nel suo complesso, rivela l’adozione di un metodo proprio dello storico che, come Francesco Giarrizzo, ha molta familiarità con la Pubblica Amministrazione. L’autore, infatti, non solo predilige - come principali fonti della sua ricerca – le delibere comunali, che, indubbiamente, sono fonti storiche di tutto rispetto, ma, qua e là, dimostra anche di saperle interpretare riportandole nello spirito e nel clima della loro elaborazione o deducendo dalle stesse carte ipotesi e considerazioni difficilmente concepibili dai non addetti ai lavori. A ciò va aggiunto che alcune pagine di questa storia su Valguarnera, andando oltre i limiti cronologici impostisi, assumono un valore di testimonianza diretta perché gli autori – molto di più Francesco che Silvia – finiscono per identificarsi nella comunità da loro analizzata.
Intendo, per esempio, riferirmi alle pagine dedicate alla situazione economica locale trattata sino alle recenti vicende delle miniere di Grottacalda, Floristella e Gallizzi e alla grave crisi agricola degli ultimi decenni con la conseguente ripresa del flusso emigratorio verso il Nord-Italia e verso l’Estero. Di fronte a questi fenomeni i Giarrizzo, marcando il carattere sociologico della loro narrazione, passano dalla storia, quale racconto del passato, alla proposta, quale suggerimento per il presente e per il futuro. E sollecitano gli organi amministrativi locali, anche sull’esempio della florida ditta "Giudice Confezioni" conosciuta in Italia e all’Estero, a "trovare il modo di incentivare le iniziative giovanili per la creazione di cooperative di servizi, nonché di nuove imprese artigianali, specialmente in quei settori di produzione che possono determinare una situazione di reciproco vantaggio per le nuove aziende e per gli stabilimenti industriali esistenti" (p. 172). E ancora gli autori, pensando a un possibile sbocco turistico, fanno opportunamente auspici per "l’istituzione di un Antiquarium in cui poter conservare i reperti archeologici rinvenuti nelle vicine contrade, ove sono stati localizzati i resti di insediamenti greco-ellenistici (Rossomanno) e romani (Dolei e Rocca del Leone) e la presenza di una civiltà del periodo neolitico (contrada Marcato-Sottoconvento)" (p. 175).
Ma questa opera, come ogni storia autentica e autorevole, degna della polibiana definizione di magistra vitae, ci porta alla conoscenza di notizie su fatti e personaggi inediti o sottratti all’oblio del tempo, tramite la cui descrizione c’è sempre molto da apprendere. È un notevole contributo alla nostra erudizione, che, al vaglio del senso critico, si traduce in un sicuro apporto alla nostra cultura anche per l’accennata complementarietà tra le ricerche di storia locale e quelle di storia generale, in cui, appunto, le prime sono in funzione delle seconde o, se si vuole, servono a esercitare un riscontro su quest’ultime.
Per il lettore valguarnerese (ma anche per i comuni lettori) è istruttiva, per esempio, la scoperta di figure come Francesco Lanza e Giacomo Magno. Sul primo, pubblicista di razza, i Giarrizzo giustamente scrivono che "l’élite paesana dell’epoca non capì a quale geniale artista Valguarnera avesse dato i natali; (essa) non comprese l’artista come non comprese l’uomo, che forse disprezzò, non perdonandogli le pagine di satira, letteralmente stupende, sui costumi e sugli atteggiamenti dell’alta borghesia locale" (p.191), mentre del secondo, ‘u patri vicariu, gli autori si soffermano a tratteggiare la poliedrica personalità di educatore, poeta, letterato, musicologo e storico, nonché la sua alta dignità di sacerdote che non scese mai a compromessi con i politici locali, tanto da rifiutarsi, nella Pasqua del 1961, rompendo un’antica tradizione, di accedere con l’Ostensorio nella sede del Comune, allora gestito dai comunisti.
Il sacerdote Giacomo Magno - collega di Angelo Roncalli (il futuro Pontefice Giovanni XXIII) e, successivamente, vice Rettore del seminario, Padre Spirituale, Prefetto degli studi, segretario particolare e Vicario foraneo del Vescovo, mons. Mario Sturzo fratello di Don Luigi - sarebbe stato sicuramente eletto anch’egli Vescovo, se il suo curriculum vitae, negli anni giovanili, non fosse stato offuscato da un episodio di indiscutibile "carità cristiana", ma "considerato e classificato come un atto di tradimento della patria". Niente di tanto grave, in effetti, poiché Giacomo Magno, nel 1916 in servizio militare di leva, si era reso solo responsabile del reato di avere celebrato una messa, e di avere invitato i commilitoni a parteciparvi, in suffragio dell’anima di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re d’Ungheria, ritenuto - anche dopo la morte - nemico dell’Italia. Il prete valguarnerese "provocò per questo – si legge nel libro dei Giarrizzo – l’indignazione dei superiori, i quali interruppero il sacro rito e punirono il coscritto, riprovando l’iniziativa e segnalandola all’autorità governativa". La conseguente annotazione di un così "deplorevole" gesto nel foglio matricolare della recluta Giacomo Magno avrebbe comportato il mancato assenso da parte governativa alla sua elezione a Vescovo.
Nell’opera dei Giarrizzo si incontrano molte altre figure secondarie, ma, certamente, non meno efficaci di Lanza e di Magno nel contesto valguarnerese. Evitando di fare un lungo elenco, ne ricordiamo tre per tutti, senza, con ciò, intendere sottovalutare i rimanenti: Sebastiano Arena, fondatore nel 1882 dell’Ospedale Civico e considerato "un grande benefattore del popolo" (p. 41) ; Salvatore Dell’Aria, proprietario di un mulino e del pastificio "San Giuseppe", il quale, sensibile ai problemi delle classi umili e filosocialista, intuì sin dal 1890 "le trasformazioni industriali in atto nell’Italia del Nord, verso cui anche il Meridione si sarebbe dovuto indirizzare" (p.133); Domenico Minolfi Scovazzo, deputato nazionale e presidente del Consiglio Provinciale di Caltanissetta, esponente della Destra siciliana, sul cui conto – nonostante il Consiglio Comunale avesse esplicitamente deliberato in data 1° marzo 1898, per onorarne la memoria, di porre un busto nella sala consiliare del palazzo municipale, tuttavia perdura, ancora oggi, il giallo della contrastata e mai avvenuta collocazione del monumento (pp. 36-37).
Francesco e Silvia Giarrizzo, fra l’altro, ci informano su tutta una serie di notizie che, andando oltre la forma e il contenuto delle comuni curiosità, ci confermano lo spessore culturale di Valguarnera. E, così, si apprende che il quotidiano "La Sicilia" ha la sua genesi nella coraggiosa imprenditoria del valguarnerese Agostino Serra. Questi, popolare di matrice radicale, dopo avere fondato e finanziato il "Corriere di Catania", cedette la testata a Domenico Sanfilippo, che, a sua volta, ne cambiò la denominazione in quella attuale de "La Sicilia". Si apprende che Valguarnera godette, grazie anche alla sua posizione geografica, della diretta influenza di intellettuali e di politici del calibro del castrogiovannese Napoleone Colajanni, dal quale Francesco Lanza dovette essere certamente indirizzato allo studio del pensiero politico ed economico-sociale di Pierre Proudhon, e del calibro dei calatini Luigi e Mario Sturzo, l’uno politico e politologo di fama internazionale e l’altro filosofo di vaglia, teorico del neo-sintetismo, molto apprezzato da Benedetto Croce.
E, ancora, si scopre che il 1° dicembre 1941 il re Vittorio Emanuele III, dovendo recarsi a Piazza Armerina e a Gela, volle attraversare in autovettura le strade principali di Valguarnera. "Il passaggio avvenne – scrivono gli autori - nelle primissime ore del mattino, ma lungo il percorso si trovarono ugualmente due fitte ali di cittadini festanti i quali riuscirono appena a scorgere la figura del Re, in quanto il corteo reale fu fatto accelerare per il timore suscitato da un gesto del parroco Umberto Longo, la cui massiccia mole - oscura per via dell'abito talare indossato - d'impeto si fece largo tra la folla per lanciare dentro l’autovettura di Vittorio Emanuele III un plico contenente una supplica al sovrano" (p.199).
Nel libro è colto bene dagli autori il processo di maturazione sociale e democratica del popolo di Valguarnera attraverso l’interessante e significativo fenomeno dell’associazionismo, ricordato sia nella sua triplice matrice socialista, cristiana e laica, sia nel suo assetto regionale e nazionale dell’Italia tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX. Tale fenomeno occupa giustamente una posizione di rilevanza in tutta l’opera, tanto da apparire agli occhi del lettore come una storia parallela delle associazioni e delle società locali all’interno della stessa storia di Valguarnera.
Sicché si viene a conoscenza dell’esistenza e dell’attività a Valguarnera, tra il 1887 e il 1907, di associazioni contadine e operaie come: la "Società agricola", una vera e propria affittanza collettiva, ispirata ai principi del socialismo e "con il programma di lavorare insieme una terra presa a fitto e dividere il prodotto tra i soci" (p. 12); la "Società Cooperativa di consumo", anch’essa sensibile alla propaganda socialista, il cui primo presidente fu quel Michelangelo Di Dio divenuto famoso per avere capeggiato la rivolta popolare del Natale del ’93; la "Società Rurale Democratica Cristiana", di chiara matrice sturziana essendo sorta, per volontà del parroco Giuseppe Lomonaco, sulla scia della Rerum novarum come società di mutuo soccorso con una cassa di depositi e prestiti a vantaggio dei contadini e dei braccianti agricoli : suo proposito era quello di eliminare i gabelloti, chiamati da Sturzo "vampiri" perché incalliti strozzini, che lucravano soprattutto sui contratti agrari; la "La Società Operaia San Giuseppe", nella stessa area e con gli stessi scopi della precedente, ma formata esclusivamente da artigiani, ossia da mastri e da apprendisti.
Si trattava, ovviamente, di cooperative non condivise e spesso contrastate da un altro tipo di vita associata che si svolgeva, in pari tempo, all’interno di altre società, come "La Cerere" e "La Previdenza", in mano ai grossi proprietari terrieri del luogo, o come il "Circolo di Compagnia", le cui dorate porte si aprivano soltanto ai cosiddetti galantuomini o civili, che erano soliti trascorrere "le loro giornate giocando a carte, parlando di affari, di donne o di politica" (p.16).
Ebbene - rispetto a tali sodalizi conservatori o ricreativi - l’associazionismo d’ispirazione socialista e d’ispirazione democratica cristiana, operante in forma cooperativistica tra la fine del secolo XIX e il primo ventennio del XX, ha, a mio parere, il grande merito storico di essere stato palestra di democrazia per centinaia di migliaia di contadini e di operai italiani che, sino al 1912, erano rimasti esclusi dalla vita civile e politica della Nazione. Costoro, pur non avendo diritto al voto e pur valendo nulla nell’Italia legale, erano tutto all’interno di quelle associazioni, laddove, per statuto, si autogestivano, partecipavano alle assemblee, discutevano, votavano, e deliberavano su varie materie e, in particolare, sull’indirizzo da dare alla loro attività sociale. Si trattò, insomma, di un valido esercizio, che, oltre a consentire a quei soci di portare avanti le prime rivendicazioni economiche e di avere presto un peso politico, li abituò alla vita associativa che fu praticamente abitudine alla democrazia. Da tali premesse, a Valguarnera e nel resto d’Italia, si pervenne – subito dopo la prima Guerra mondiale – allo sviluppo e all’immediata affermazione dei partiti di massa, del Partito Socialista e del Partito Popolare Italiano. E non può essere capita la ripresa della grande tradizione partitica e democratica italiana, conseguente alla tragica parentesi fascista, se non ci si collega alle lontane radici dell’attività associazionistica dei socialisti e dei cattolici.
Ma proprio al riguardo sento, anche nella mia qualità di studioso di tali specifici problemi, di esprimere il mio personale compiacimento nei confronti di Francesco e Silvia Giarrizzo, perché il loro volume giunge a conferma dei risultati conseguiti dalla storiografia accademica. Anzi questa loro recente opera su Valguarnera, frutto di una dettagliata ricerca su una realtà periferica, è la prova provata di come una seria e pregiata storia locale possa essere un’efficace verifica e un’utile integrazione di molti e fondamentali aspetti della storia generale.
Eugenio Guccione
S. BECUCCI - M.MASSARI, Mafie nostre, Mafie loro. Criminalità organizzata italiana e straniera nel Centro Nord, Torino, Edizione di Comunità, 2001, pp. 204
Questo volume traccia in modo esaustivo il pericolo incombente che la mafia tradizionale e quella di più recente formazione rappresentano per il mercato legale e la democrazia.
Desta pertanto preoccupazione l’infiltrazione e l’intersecarsi delle diverse organizzazioni criminali nel mercato internazionale in un contesto di globalizzazione.
È a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che la presenza mafiosa in regioni non colpite da manifestazioni criminali di una certa entità suscita attenzione da parte dell’opinione pubblica.
L’insediamento di Cosa nostra in Lombardia, ed in particolare nella zona di Milano, minacciava sin dagli anni 50 la Regione, che i boss avevano scelto per meglio gestire mercati redditizi quali il traffico internazionale dei preziosi e il contrabbando di stupefacenti nel nord-Europa.
Negli anni Settanta nella zona di Torino e di Bardonecchia una grossa fetta di operai, provenienti dal Mezzogiorno, veniva soffocata dall’intervento spesso violento di intermediari nella mano d’opera, che da un lato sottraevano congrue percentuali dalle buste – paga dei lavoratori, dall’altro, in cambio di un compenso, consentivano ai datori di lavoro un guadagno attraverso l’evasione dei contributi previdenziali.
La mafia trapiantata nel Nord – Italia sembrava privilegiare, oltre all’intermediazione ricattatoria nell’assunzione della mano d’opera, altri aspetti delinquenziali, quali la gestione del mercato ortofrutticolo e il traffico di stupefacenti.
Tra le cause che spinsero l’emigrazione mafiosa al Nord vi sono state una maggiore facilità di mimetizzazione, l’assenza di strumenti di difesa sociale, caratteristiche delle nuove sedi di approdo, e anche la possibilità di sottrarsi a faide familiari.
Accanto a questa idea di progetto strategico di espansione si è formulata un’altra ipotesi: i soggiorni obbligati, la detenzione di soggetti strettamente legati alla criminalità e l’alterazione nella composizione demografica legata ai flussi migratori lascerebbero pensare a conseguenze più casuali nella diffusione della criminalità nel centro nord. La debolezza dell’autorità giudiziaria attraverso l’impiego del soggiorno obbligato, come misura di prevenzione, viene infatti considerata una delle più importanti cause di espansione della mafia nelle regioni centro – settentrionali.
La creazione di associazioni facenti capo alla medesima organizzazione o a sodalizi differenti è stata realizzata per un duplice scopo: l’esigenza di stabilire un forte dominio sul territorio e l’importanza di gestire traffici di notevoli proporzioni.
In questo contesto la ndrangheta ha tenuto una posizione di monopolio nell’importazione di cocaina in Italia attraverso una chiara individuazione di canali di ingresso e la capacità di stabilire ampi accordi con partner Italiani e stranieri. Si vennero presto a costituire sodalizi tra le mafie tradizionali e infiltrazioni nelle pubbliche amministrazioni.
Suscita vivo interesse a questo punto della trattazione delineare il carattere transnazionale delle mafie attraverso un’attenta osservazione delle dinamiche di sviluppo delle più recenti organizzazioni criminali.
Sia la Puglia che l’Albania occupano una posizione strategica per i traffici illeciti di armi, droga e prostituzione, che dall’area balcanica muovono verso l’Europa.
Non soltanto la criminalità albanese ha rivolto lo sguardo all’immigrazione dei propri connazionali, ma si è distinta soprattutto per la sua capacità nel porsi come agenzia di servizi per conto di altre organizzazioni criminali come quella turca.
La professionalità degli Albanesi nel conoscere i canali di insediamento per i clandestini condusse ad instaurare collegamenti con organizzazioni mafiose cinesi interessate all’immigrazione di cinesi, con la mafia turca interessata all’immigrazione kurda e con quella russa.
Le organizzazioni albanesi si caratterizzano per l’intensa coesione dei diversi clan costituiti su base familiare, vicine pertanto alla prassi seguita dalle consorterie nostrane. La pericolosità di questa organizzazione va ricercata nella ridotta capacità di controllo del territorio da parte della "Sacra corona unita", infiacchita dagli interventi giudiziari, nell’espansione degli spazi liberi nel territorio pugliese e dal consolidamento di organizzazioni locali attraverso alleanze con la criminalità albanese e con altri gruppi che operano nei mercati nazionali.
Una grave minaccia è inoltre costituita dalla gestione monopolistica della prostituzione in alcune regioni del nord – Italia.
Nel corso di una recente indagine svolta dalla Direzione antimafia sono stati arrestati in Emilia Romagna appartenenti ad una organizzazione interamente albanese, che sfruttava donne di diverse nazionalità dell’Est europeo, donne ridotte in schiavitù, che conoscevano ciò a cui andavano incontro, che non si ribellavano al gioco, pur di inviare una piccola somma di denaro alla madre, al padre, ai figli che risiedevano in patria.
Sarebbe importante, pertanto, avvicinarsi a tutte quelle donne che, fiduciose nelle istituzioni, trovano il coraggio di denunciare i loro sfruttatori, donne deboli perché hanno subito una violenza e perché si trovano isolate, a causa di una denuncia, dalla loro stessa comunità etnica.
Gli Autori nella seconda parte del volume raccolgono alcuni tratti tipici della mafia cinese d’oltremare seguendo il percorso storico.
Nell’ambito dell’ampio ventaglio della criminalità cinese si possono individuare tre figure: le Triadi, i Tong e le gang.
Fanno capo al primo gruppo quelle organizzazioni che si riconducono all’associazionismo segreto. Furono i colonialisti inglesi dell’Ottocento che diedero questa denominazione alle logge segrete contrassegnate da un triangolo equilatero raffigurante le tre forze dell’universo: l’uomo, la terra e il cielo. Tali associazioni garantivano protezione e soccorso a coloro che vi aderivano e colmavano una sorta di sfiducia che abbracciava le classi sociali più povere e di insicurezza nei confronti di un potere imperiale autoritario incapace di mantenere l’ordine in un così vasto territorio. Un proverbio cinese recita: "I funzionari derivano il proprio potere dalla legge, il popolo dalle società segrete".
Nella storia cinese l’associazionismo segreto ebbe grande rilevanza sino al 1949, data della proclamazione della Repubblica comunista di Mao –Zedong.
Durante la guerra civile che vide contrapporsi il partito comunista e il Guomindang, comandato da Cheang Kai Shek, quasi la totalità delle società segrete cinesi si schierò a favore di quest’ultimo. In seguito alla sconfitta del Guomindang, le società segrete si allontanarono dalla Cina, stabilendosi nelle zone vicine: Taiwan, Macao, Hong – Kong. Le società segrete, forti del vincolo che legava i propri affiliati, si spinsero verso attività illecite.
Un altro attore criminale cinese è rappresentato dai Tong, il cui termine significa associazione. I Tong nelle Chinatown americane, che raccolgono circa due milioni di cinesi, hanno rappresentato la prima forma di autogoverno delle nascenti comunità, che cominciarono a costituirsi fin dall’Ottocento. La caratteristica dei Tong è quella di presentarsi come associazioni legali, con proprie sedi, elenchi degli aderenti, ma, ahimè, al loro interno si nascondono elementi criminali. I Tong si legano alle gang, alle quali spesso affidano azioni finalizzate a regolamenti di conti, offrendo loro non soltanto luoghi dove rifugiarsi, ma anche una sorta di impunità nei confronti della legge.
Oggi il traffico di eroina delle rinnovate associazioni segrete cinesi fornisce una grande risorsa economica e, di contro, un investimento massiccio in attività lecite e comprende anche la corruzione degli apparati di contrasto. (Arlacchi 1988).
In Italia, più che al traffico di eroina, che dal Sud – Est asiatico si spinge verso New York, la criminalità cinese si occupa del traffico dei clandestini e delle estorsioni.
Nelle Chinatown americane le estorsioni hanno raggiunto notevoli proporzioni e comprendono taglieggiamenti ai danni di esercizi commerciali, obbligo del negoziante di acquistare prodotti ad un prezzo superiore al valore di mercato, e estorsioni in cambio di protezione.
Il traffico dei clandestini in Italia è organizzato da referenti che operano nella madre patria ed è da considerarsi minaccioso per la nostra società.
I luoghi di insediamento dei clandestini cinesi sono prevalentemente Roma, Milano e la Toscana, sedi nelle quali svolgono diversificate attività manifestando una spiccata duttilità professionale.
Per i cinesi la famiglia rappresenta un punto di riferimento e anche centro propulsore nelle attività economiche. I valori, quali la buona reputazione, la solidarietà tra gli individui che provengono dalla medesima città e l’autorevolezza dei più anziani all’interno del gruppo familiare sono alcuni caratteri della cultura cinese.
Per coloro che volessero emigrare, in vista di un sogno che raramente riusciranno a realizzare, intervengono le organizzazioni criminali. Gli organizzatori riscuotono un terzo o la metà del costo del viaggio, che si aggira intorno ai 30 milioni. Quando il clandestino arriverà a destinazione un referente della organizzazione lo tratterrà in luoghi sicuri finché un parente o un amico non estinguerà il debito.
Talvolta accade che qualcosa vada storto: il parente o l’amico si è reso irreperibile; in tal caso il clandestino viene ancora trattenuto.
I clandestini vengono riscattati da parenti o garanti, ma, se costoro non pagheranno la somma stabilita, potranno essere venduti da una organizzazione ad un’altra come se fossero merce.
Quando il clandestino viene riscattato, il garante che pagherà secondo un principio opportunistico, che caratterizza la cultura cinese, vanterà un credito nei confronti di quest’ultimo, che sarà costretto a lavorare senza ricevere alcuna paga fino a quando non avrà estinto il debito.
Parecchio si è discusso se il fenomeno criminale cinese possa accostarsi più a forme gangsteristiche che mafiose, ma, attraverso alcune indagini, si è più propensi a pensare che la criminalità cinese abbia la connotazione di mafia.
L’associazione criminale cinese nei tempi più recenti sta accrescendo la sua pericolosità con la possibilità che si instaurino collegamenti con la criminalità organizzata italiana.
Donne cinesi, giovanissime e molto belle, vengono infatti avviate nel mercato della prostituzione, ed è impossibile che questo accada senza che ci sia un collegamento con altre mafie, albanese, slava o italiana.
Contrariamente alle nostre mafie che operano principalmente nel traffico degli stupefacenti e che non si sono mai dedicate al traffico dei clandestini, perché prive di questa "cultura", il collegamento con la nostra realtà criminale si è basato fino ad ora su contatti saltuari e di poca rilevanza, come la collocazione dei clandestini nella zona di Firenze, attraverso il rilascio di falsi atti amministrativi, altamente retribuiti.
Ma il pericolo di uno stretto legame con le nostre organizzazioni criminali si fa ogni giorno più incombente.
Concludendo, ritengo importante specificare il carattere transnazionale della criminalità organizzata, che non significa che un’associazione criminale sorta in un determinato paese si proietti dal punto di vista operativo in altri contesti geografici oppure che la criminalità organizzata trasferisca beni, come la droga, in altri stati, bensì questo termine vuole significare che diverse etnie cooperano tra di loro, al fine di perseguire i propri interessi.
Assistiamo, pertanto, ad un paradosso: mentre le diversità collegate alle religioni o all’orientamento politico determinano dei conflitti (come il conflitto tra serbi, kosovari, albanesi), nel mercato dell’illecito tutto sembra ricomporsi.
Inoltre gli Autori sottolineano come sia importante che la magistratura e gli apparati di contrasto accolgano contributi di carattere culturale, storico, sociologico, affinché si possa creare una sinergia fra esperienze diverse, per meglio combattere il complesso fenomeno della immigrazione.
Sergio Figlioli
Sulla grande stampa da qualche decennio con cadenza annuale é quasi rituale lanciare l’allarme per l’esplosione, più o meno imminente, della cosiddetta "bomba demografica". In occasione della svolta epocale che ha segnato veramente la chiusura del XX secolo e l’inizio del terzo millennio, sul "Corriere", sono apparsi, a 15 giorni di distanza l’uno dall’altro, due fondi del prof. Giovanni Sartori. Con il primo (31 dic. 2000) sollecitava la scoperta di una pillola antifollia, per arrestare la crescita esponenziale della popolazione mondiale onde evitare la fine del "regno dell’uomo" prevista (dal Sartori) per il 2100; con il secondo (14 gennaio 2001) poneva sotto accusa - oltre la sovrappopolazione - anche la tecnologia che "ci consente di vivere e di sopravvivere in modo innaturale".
Le argomentazioni del prof. Sartori hanno richiamato alla mia memoria la clandestina lettura adolescenziale di un libro di Alfredo Cucco, Amplexus interruptus, che riuscivo, quando era possibile, a sottrarre dalla scrivania di Gaetano Gionfrida, vice federale di Trapani, della cui segreteria facevo parte nel 1941 come avanguardista volontario. Non era il ponderoso volume ad attrarmi, ma il titolo per ciò che faceva presagire. In effetti nella trattazione medico-scientifica della varie sindromi contraccettive c’era poco di scabroso; se non mi fossi soffermato sulla demografia dell’antichità e sulla descrizione della teoria di Malthus, che precedevano la stessa trattazione, non avrei certamente conservato per 60 anni gli appunti sulle parti che più mi piacquero e forse non avrei avuto mai alcuna inclinazione per i problemi demografici.
Ma torniamo al prof. Sartori. Egli afferma che i disastri già in atto nel mondo - che vanno dalla distruzione delle foreste al buco dell’ozono, dalla desertificazione alla progressiva scomparsa delle risorse alimentari e dell’acqua potabile - sono causati in massima parte dalla sovrappopolazione la cui crescita esponenziale é favorita dal progredire della scienza applicata. Questa convinzione lo induce a ritenere più drammatico il fatto che ogni giorno la popolazione del Mondo cresce di più di 230 mila persone e meno tragica la morte di malattie curabili di 30 mila bambini al giorno denunciata dall’Unicef. Questo cinismo lo avvicina all’economista inglese T.R. Malthus, chepur essendo un uomo di chiesa, per frenare la crescita della popolazione proponeva "di sopprimere l’assistenza ai poveri perché incorreggibili procreatori di figli e di miseria". Però mi sembra più stretto il legame con Beniamino Franklin, (illustre scrittore, politologo, scienziato americano inventore del parafulmine) il quale, due secoli e mezzo prima del prof. Sartori, cioé nel 1751, aveva prospettato gli stessi suoi timori circa l’esaurirsi delle risorse disponibili che avrebbero "inabissato gli Stati Uniti d’America non appena avessero oltrepassato un milione di abitanti". Adesso quel milione risulta moltiplicato per 265 volte e gli Usa sono diventati la massima potenza mondiale.
Il dibattito sui problemi demografici non é comunque recente, forse é vecchio quanto il mondo; a parere di molti studiosi il problema della regolamentazione delle nascite é sempre esistito in natura. Dalle lontane epoche del Paleolitico (40 mila anni fa) fino alla IV età del ferro e poi fino a Pasteur, la specie umana aveva avuto una prassi biologica mediante la quale la sua crescita veniva regolata dall’alta mortalità infantile e dalla breve vita adulta, la cui durata media nel Paleolitico, si ritiene non raggiungesse i 30 anni, mentre la mortalità infantile ghermiva 60 bambini su 100 nati vivi. Si possono configurare, come forme di autoregolamentazione consapevole, l’infanticidio rituale e tabuistico, mentre esercitavano, per loro conto, una sorta di freno all’aumento della popolazione le epidemie, le guerre continue,gli incidenti di caccia e di pesca, frequentissimi e mortali, malgrado il genere umano avesse in quelle epoche maggiori poteri di difesa biochimica e umorale ed una maggiore resistenza alle ferite, ai traumi vari e allo sforzo.
Anche nell’antichità si alternarono comportamenti contrastanti, intesi sia ad ostacolare la procreazione, sia ad incentivarla. Per frenarla, pare essersi adoperato un personaggio mitico come re Minosse, che avrebbe autorizzato l’uso di un anticoncezionale per ridurre la popolazione di Cnosso. Il meccanismo innescato, divenuto irreversibile, pare abbia determinato la scomparsa della civiltà cretese. Sodoma, secondo la Bibbia (Genesi 19,24), a causa del vizio contro natura praticato dai suoi abitanti, fu distrutta da una pioggia di fuoco insieme con Gomorra ed altre città della Palestina meridionale. Babilonia che alcuni anni prima della nascita di Cristo contava 2 milioni di abitanti, si spopolò e decadde per le pratiche contraccetive, abortive ed omosessuali. Dal papiro di Leida si apprende che anche la decadenza dell’Egitto é da imputare al venir meno dei figli. Pure in Grecia le città si svuotarono e i campi rimasero incolti perché furono adottate sapienti limitazioni delle nascite.
Polibio, a proposito del declino di Roma, scrive che non furono le armi nemiche a condurre l’Impero allo sfacelo e alla decadenza, ma certe sapienti limitazioni della prole che fecero mancare, al momento giusto, le necessarie braccia romane per impedire le invasioni barbariche. Roma pur essendo portatrice di una cultura superiore dovette soccombere di fronte alle prolifiche tribù nomadi del nord-est europeo che ne cancellarono la civiltà, le città, le strade, la cultura, le tecniche produttive fondamentali, l’agricoltura.
La mitologia antica é tutta un inno alla natalità. Nella nostra antichissima Sicilia si onoravano due divinità: Demetra dea della fecondità e Kora dea della riproduzione. Nella ricorrenza delle loro festività si mangiavano focacce di sesamo impastate con il miele in forme che raffiguravano i genitali umani. In alcuni ancestrali riti siculi si inseminava la terra e contemporaneamente si deponeva il seme umano nel grembo delle future madri.
Nel continente asiatico che oggi é il più popoloso del nostro Pianeta, si dovettero promuovere processi di ripopolamento. In India, prima dell’avvento dell’epoca buddista, la decadenza per l’insufficienza di nascite venne fronteggiata con politiche di incremento demografico rurale cui fecero ricorso - dopo migliaia di anni - ma con scarso successo (come vedremo in seguito) Mussolini in Italia e Stalin in Russia. Anche in Cina, dopo Buddha, si adottarono incentivi per popolare e per redimere dal deserto quell’immenso territorio che nel 1650 contava 100 milioni di abitanti e duecento anni dopo (1850) 420 milioni. Oggi i Cinesi sono oltre 1 miliardo e 320 milioni.
I testi sacri delle grandi religioni, quali la Bibbia, i Vangeli, il Coraro, i Veda, il Canto del Signore (meglio conosciuto come Bhagavad-gita), esaltano la procreazione ed esprimono profondi e maestosi concetti sulle sante felicità della vita. Nei Paesi musulmani, le donne sterili sono facilmente ripudiate dai loro mariti (lo scià di Persia vi ricorse ai nostri giorni con la regina Soraya). Ricordiamoci che le donne bibliche subivano come condanna divina l’impossibilità di concepire. Accadde alla bellissima Sara che, sterile, diede al marito Abramo come concubina la propria schiava Agar perché gli generasse un figlio di cui Sara sarebbe stata madre legale (Genesi 16). Accadde a Rachele che grida a Giacobbe: "Dammi dei figli, altrimenti sono morta!". Non potendoli ottenere nonostante la buona volontà di Giacobbe, fu costretta ad accogliere con gioia i figli che il marito generò con la serva Bilha.
Per assicurare la continuità della famiglia, tra gli Israeliti antichi il fratello superstite doveva sposare la cognata.
E il Cristianesimo non ha come legge fondamentale il comandamento del Creatore: "Siate prolifici, moltiplicatevi e popolate la terra"?
La teologia induista (che trae la sua essenza dal Mahabbarata, un poema epico lungo tre volte la Bibbia), é pervasa da una filosofia che magnifica l’eterno fluire della vita: spezzarne una qualsiasi forma é già delitto perché essa é una nascere e un rinascere ininterrotto che percorre avanti e indietro un arco ideale, passando dal vegetale all’animale, dall’animale all’uomo, da un corpo umano all’altro. Spegnendola in un qualsiasi suo stadio significa negare ad ogni essere vivente il ricongiungersi a Dio.
Nelle legislazioni dell’antico Occidente troviamo che Licurgo fu il primo ad escludere i celibi dai pubblici uffici. A Sparta la sposa del marito sterile doveva accettare la permuta, ossia doveva congiungersi con un estraneo ai fini della procreazione. A Roma Furio Camillo costrinse gli scapoli ad unirsi in matrimonio alle vedove dei caduti: Cesare promulgò una legge che esonerava dal pagamento delle imposte i genitori con più di 3 figli. Le donne che superavano 45 anni senza marito né figli non potevano più ornarsi di gioielli e andare in lettiga. Insomma, tutta la legislazione romana é di incoraggiamento alla natalità. Si arrivò al punto di concedere la grazia ai detenuti che pur avendo commesso gravi delitti avevano numerose prole. Ma le culle rimasero vuote lo stesso: Roma decadde perché mancarono sufficienti braccia romane per difenderne i confini; il ricorso a quelle mercenarie ne accellerò la fine.
La cultura umanistica e rinascimentale allontanandosi dalla morale medievale di rinuncia e di mortificazione, "creatrice di gente musone e sempre timorosa di cadere in fallo", celebra il ritorno gioioso alla natura che schiude orizzonti nuovi, dona vita serena, offre generosa quanto di buono e di bello il Mondo custodisce.
Per la prima volta nella storia sono pensate norme per regolamentare le nascite: avviene agli albori della scienza moderna. Sulla scia di Platone, Tommaso Campanella nella "Città del sole" anticipa il mito nascente della "ragione di stato" e sprona ad amare "la parte più che il tutto". Afferma che eliminando gli oziosi parassiti e gli schiavi, si assicura una razionale divisione del lavoro che permette di produrre il necessario con sole 4 ore lavorative al giorno, detta norme per una procreazione rigorosamente controllata in base alla quale, le donne appartenenti alla comunità, possono prolificare dopo aver compiuto 19 anni, mentre agli uomini é consentito dal 20° al 53° anno; un intervallo di 4 anni, tra una nascita e l’altra, doveva permettere alle donne di assolvere tutti i doveri della maternità compreso quello del primo avviamento educativo della prole.
All’epoca dei Lumi, alcuni celebri fisiocratici quali Montesquieu, Quesnai, Condorcet e Godwin, anticipavano per intuizione quella che divenne più tardi la celebre teoria di Tommaso Malthus, pubblicata nel 1798 - quando la popolazione mondiale era di 978 milioni di abitanti - sotto il titolo "saggio sul principio della popolazione", che suscitò discussioni e polemiche a mai finire.
Malthus, affermava la necessità di controllare la crescita della popolazione al fine di evitare una miseria crescente. Nel suo "Saggio sul principio della popolazione", contestando, come abbiamo visto, l’opportunità di una politica di assistenza ai poveri, aveva formulato una legge secondo la quale quando la popolazione non incontra ostacoli cresce con progressione geometrica, (1,2,4,8,16,32) raddoppiandosi oggi 25 anni, mentre i mezzi di sussistenza, in condizioni normali, aumentano con progressione aritmetica (1,2,3,4,5). Essendo insufficienti i freni repressivi naturali (guerre, epidemie, esodi, genocidi e simili), per prevenire il sovraffollamento del nostro pianeta, raccomandava alcune restrizioni morali: ritardare i tempi del matrimonio in modo che la coppia vi arrivi ben fornita economicamente; contenere consensualmente la procreazione mediante l’assoluta castità pre e post matrimoniale; limitare la prole alle disponibilità economiche della famiglia..
In realtà l’accrescimento della popolazione, specialmente nei paesi ricchi, mostrava un andamento diverso da quello che Malthus aveva prospettato. Se le sue previsioni fossero risultate esatte saremmo stati 256 miliardi a festeggiare il terzo millennio. Invece eravamo "soltanto" 6 miliardi. Questo deve indurci all’ottimismo perché vuol dire che la crescita del livello dei redditi, il progressivo abbandono delle campagne, i processi culturali sempre più estesi influiscono ad abbassare il tasso di crescita della popolazione mondiale. Anche dal punto di vista economico il progresso tecnologico e lo sviluppo industriale hanno garantito una sempre maggiore disponibilità di beni smentendo le catastrofiche previsioni di Malthus.
Ma non significa che il problema non esista: solo che bisogna affrontarlo con maggiore freddezza e senza farsi cogliere dal panico come fa chi teme di perdere parte della sua ricchezza cedendone qualcosa ai nuovi arrivati.
Intanto vediamo qual é stato l’andamento demografico negli ultimi 20 secoli in Europa e nel mondo e come é ricomparso ai nostri giorni il problema del sovraffollamento del pianeta.
"E’ sempre difficile fare calcoli demografici per i millenni passati - scriveva Umberto Eco sul Corriere del 16 maggio 1999 - secondo alcuni l’Europa si era ridotta nel VII secolo d.C. a 14 milioni e mezzo di abitanti, e altri parlano di 17 milioni per l’VIII secolo. Poca gente che coltivava poca terra, poca terra coltivata che nutriva poca gente. Però quando ci appressiamo al millennio, le cifre cambiano, e alcuni parlano di 22 milioni e mezzo nel 950 e altri di 42 milioni nel Mille. Nel XIV secolo la popolazione Europea oscilla ormai tra i 60 e i 70 milioni. In ogni caso, anche se le cifre discordano, su qualcosa tutti sono d’accordo: nel giro di 5 secoli la popolazione raddoppia o triplica e l’ascesa inizia dopo il Mille".
Le radici e le premesse di questa ascesa si trovano nella rinascita dell’agricoltura che, un poco alla volta, si manifesta in tutta l’Europa medievale. Si tratta dell’agricoltura che nasce da un incontro sinergico tra quella intensiva di matrice maditerranea e quella di matrica germanica legata all’allevamento e all’utilizzazione dei terreni incolti. Si afferma così l’equazione: più innovazioni tecniche più specializzazioni produttive = crescita demografica.
E’ impossibile stabilire prima della scoperta dell’America e dell’Oceania il numero, anche approssimativo, degli abitanti della Terra. Soltanto verso la metà del secolo XVIII si riesce a contare il numero degli uomini (ormai presenti in tutti i continenti, ad eccezione dell’Antartide) che era al di sotto di un miliardo (978 milioni) alla fine del 1900. Poi le scoperte della medicina che permisero di debellare le grandi epidemie (vaiolo, peste, colera, ecc.) fecero volgere più rapidamente all’insù il diagramma che rappresenta l’andamento demografico mondiale nel tempo.
Così nel 1927, mio anno di nascita, eravamo 2 miliardi; 3 nel 1960; 4 nel 1974; 5 nel 1987; 6 miliardi nel 2000.
Se si mantiene al 2%, qual’é oggi il tasso di accrescimento, la popolazione mondiale ogni anno si arricchirà (con gioia di papa Wojtyla) o si appesantirà (con costernazione del prof. Sartori) di circa 84 milioni di nuovi individui. All’indice di accrescimento é legato il tempo di raddoppio; se si mantiene stabile l’indice del 2%, il tempo di raddoppio di tutta l’umanità intera sarà di 35 anni. Cosicché nel 2035 dovrebbero esserci sulla Terra 12 miliardi di persone. Se il suddetto indice scenderà dello 0,4/ 0,5% (e questa pare sia la tendenza) il tempo di raddoppio aumenterà a 50 anni; ma secondo l’Onu le nascite diminuiranno più in fretta del previsto: nel 2050 la popolazione della Terra non dovrebbe superare i 9 miliardi.
Gli ultimi dati Eurostat dicono che l’Europa, con i tassi attuali impiegherebbe 120 anni per raddoppiare. Dai 780 milioni di oggi si passerebbe nel 2050 a 810 milioni. Gli aumenti più sostenuti si avrebbero: in Africa che dagli attuali 720 milioni andrebbero oltre il raddoppio (fra 50 anni) a 1 miliardo 530 mila; in Cina che da 1 miliardo 320 milioni passerebbero a 1 miliardo 710 milioni.
Sul finire degli anni sessanta, quando la popolazione si era ormai triplicata, la visione globale dei problemi economici e sociali é tornata al centro di interessi e ricerche: una valutazione delle risorse disponibili, delle potenzialità dello sviluppo tecnico, del grado di inquinamento connesso alla produzione della ricchezza ecc., ha proposto anche la necessità di un controllo della crescita demografica. Secondo Bill Ryan, dirigente del "Population fund" che é un organismo dell’Onu per ridurre le nascite bisogna anche intervenire sul piano dell’istruzione, della sanità, dell’ambiente e del lavoro fornendo agli abitanti dei paesi più poveri le conoscenze e i mezzi per una loro crescita sostenibile in sintonia con le risorse naturali. Ma soprattutto, sostiene Ryan, per una crescita moderata e armonica della popolazione globale, occorrerà elaborare il modello ottimale dei consumi. Il 20 per cento più ricco del Mondo non può continuare a consumare 66 volte tanto le risorse consumate dal 20 per cento più povero. Fra 30 anni, continua Ryan, 5 miliardi di persone vivranno in agglomerati urbani e circa 40 città avranno 10 milioni di abitanti ciascuna. Nel 2050 il 25 per cento dell’umanità "soffrirà di scarsità cronica di acqua potabile", ed é probabile che compaiano nuove epidemie non meno letali dell’Aids "che in 29 stati africani ha già abbassato di 7 anni la durata media della vita che é ora di 18 anni". Tuttavia, Bill Ryan conclude ottimisticamente la sua analisi: nel 2050 le nascite saranno diminuite di due terzi rispetto alle attuali e la crescita annua di 33 milioni di anime sarà sopportabile se i governi sapranno gestire con razionalità i problemi demografici. In ben 61 stati la popolazione dovrebbe continuare a diminuire perché le nascite sono al di sotto della percentuale di sostituzione che é del 2 per cento.
Tuttavia il problema della crescita della popolazione, in rapporto alle risorse alimentari, idriche ed energetiche disponibili, rimane e desta forti preoccupazioni nelle zone più popolose del mondo che sono alle prese con tale crescita, mentre problemi di altra natura affiorano nei Paesi dove, invece, la popolazione diminuisce ed arretra per effetto della denatalità come in Europa in genere e da noi in particolare.
Essendo l’Italia compresa tra i paesi a rapido declino demografico, mi sembra opportuno concludere queste note riassumendo l’andamento demografico italiano dall’unità ad oggi. Nel 1860 la popolazione racchiusa nei confini del Regno sabaudo, era di 22 milioni 122 mila abitanti (corrispondenti a 26 milioni 328 mila entro i confini dell’attuale Repubblica). Nel 1881 aumentava a 30 milioni. Nel quadriennio ‘81-’85 - con 38 nati ogni 1000 abitanti - registrava il massimo coefficiente di natalità, ma al tempo stesso cominciava una discesa lenta e continua. Nel 1900 contava 33 milioni e settecentomila anime; nel 1920 l’indice di natalità si alzava al 31,8 per mille, ma nel 1927, in pieno regime fascista, cominciava il movimento regressivo che segnava il quoziente di 26,9 nati per mille; nel 1928 nascevano 11 mila bambini in meno nei confronti dell’anno prima, con l’aggravante che il crollo si verifica nelle province dell’Italia meridionale da sempre considerate il vivaio demografico della Nazione. La popolazione italiana dal massimo di accrescimento del 15,2 per cento toccato nel 1915, scendeva al 13 nel 1920 e al 9 per cento nel 1929 per ridursi al 4 per cento nel decennio 1932/41. Mussolini preoccupato adotta provvedimenti per il rilancio demografico: tassa il celibato; premia con 700 lire dell’epoca gli operai che si sposano prima dei 25 anni; istituisce in ogni comune la casa della madre e del bambino e l’associazione delle famiglie numerose nella quale si entra con almeno 5 figli per ricevere cospicui aiuti economici; a 2600 coppie che si impegnano di mettere al mondo altrettanti futuri balilla, offre a spese dello Stato il viaggio di nozze gratuito a Roma; elargisce personalmente a Palazzo Venezia la notevole somma di 5 mila lire (si pensi che lo stipendio di 1000 lire mensili faceva sognare in quei tempi anche in termini canori) alle prime cento madri prolifiche che con 14 parti a testa davano all’Italia 1400 figli della lupa.
Proprio nello stesso periodo, 1936, - lo ricordo per inciso - Stalin in Russia, dopo aver fatto assassinare decine di milioni di contadini, concepisce una pianificazione demografica trentacinquennale per fare della Russia sovietica un popolo di 600 milioni al fine di comunistizzare il mondo intero. Alla lunga il piano fallisce: Breznev nel febbraio del 1980 ne confessa il fallimento e lamenta il crollo delle natalità in tutta l’Unione sovietica che in quell’anno aveva appena raggiunto 271 milioni di abitanti.
Nel 1936 l’Italia oltrepassa i 42 milioni di abitanti; la campagna demografica non ha avuto molto successo, il tasso di accrescimento non si discosta dal 4 per cento annuo, anzi dal 1941, anche a causa della guerra, si dimezza. A sei anni dalla fine del conflitto, nel 1951, si contano 47 milioni e 500 italiani che diventano con il censimento del 1961 50 milioni 600. Gli anni sessanta, che coincidono con il boom economico, sono gli ultimi in cui si registra una crescita demografica al di sopra del 9 per cento: con il censimento del 1976 viene raggiunta la cifra di 56.324.722. Nei primi anni ‘80 con 57 milioni di abitanti giunge la crescita zero a cui siamo tuttora fermi, ma con tendenza a decrescere. Se può esserci di conforto diciamo pure che esistono italiani più prolifici: secondo il TG di Rai 3 del 26/1/2001, ore 14,30, ce ne sono 80 milioni sparsi per i vari paesi del Mondo dalle ondate migratorie protrattesi dal 1876 al 1971.
Quando nel 1980 si registrò la sostanziale parità anagrafica tra natalità e mortalità, a Roma si tenne un convegno sul tema: Crisi economica e declino della natalità dove si sostenne che il calo della natalità é provvidenziale per la risoluzione dei più gravi problemi dei paesi industrializzati: disoccupazione, crisi energetica, inquinamento dell’ambiente, tensioni sociali - si disse - rappresentano lo scotto che il mondo paga per il numero esorbitante dei suoi abitanti. Questa tesi di area progressista fu vivacemente contrastata soprattutto dai tradizionalisti cattolici, allarmati per la crescita zero (definita peste bianca) causata dalle pratiche abortive, dall’uso della pillola e dagli altri mezzi anticoncezionali. Altri sostennero invece, cifre alla mano, che l’Italia con i suoi 188 abitanti per Kmq ha una densità di popolazione che é quasi doppia di quella della Cina (105) e che in 57 milioni procuriamo un danno ecologico equivalente all’insieme dei Cinesi e degli Indiani (oltre 2 miliardi). In quell’occasione, il prof. De Marchi disse che le radici della nostra perdurante criasi socio-economica andavano ricercate proprio nel pauroso squilibrio tra popolazione e risorse del territorio e per ristabilire questo equilibrio suggerì alle coppie italiane di mettere al mondo, magari per una sola generazione, un solo figlio. Per trovare lavoro ai 2 milioni di disoccupati del tempo, l’economista Francesco Forte, allora ministro socialista molto autorevole, insistette pure lui sulla positività della deflazione demografica, ma fu incapace di prevedere la negatività del progressivo invecchiamento della popolazione residua che avrebbe reso insicuro per le generazioni successive il sistema pensionistico. E nessuno fece il minimo cenno alle porte che si sarebbero spalancate all’immigrazione più o meno selvaggia degli anni successivi.
Noi siamo un Paese colpito, come si dice oggi, dalla fertility reduction che probabilmente nel 2050, per eccesso strutturale delle morti sulle nascite, si troverà con una popolazione di 20 milioni di persone, per lo più anziane. La stirpe italica fra cento anni potrà diventare una sorta di riserva indiana. Appena 30 anni fa eravamo un Paese di emigranti, oggi con una rapidità incredibile lo siamo diventati di immigrati provenienti dal Sud e dall’Est del Mondo, quest’ultimi attratti soprattutto dalla nostra TV che pubblicizza realtà inesistenti. Ce ne sono già 2 milioni, di cui 500 mila clandestini che creano infiniti problemi. Inutile chiederne (a volte per giustificati motivi) l’allontanamento, essi sono ormai indispensabili per la nostra economia: fanno innanzi tutto lavori rifiutati dai nostri disoccupati locali; spesso hanno inventiva e spirito di iniziativa: parecchi sono diventati piccoli e medi imprenditori. I dati Infocamere aggiornati a luglio 2000 rilevano 122.400 aziende guidate da extracomunitari che occupano tutti gli spazi produttivi che noi lasciamo liberi e i loro contributi alla lunga serviranno per pagare le nostre pensioni. E poi diciamolo senza finzione: nella nostra Penisola c’é stanchezza, anche fisiologica. L’on. Nicola Cristalli, presidente dell’ARS, in un convegno palermitano disse: "I buoni innesti spesso ringiovaniscono i vecchi organismi e li rendono più vivaci. Noi (Siciliani) che di innesti conserviamo positiva memoria genetica, abbiamo vissuto e conviviamo senza paure e pregiudizi con etnie diverse: impariamo presto a conoscerle, ad apprezzarle, ad integrarle e ad integrarci culturalmente" (Mazzara del Vallo, Piana degli Albanesi). Gli Stati Uniti, per i quali é prevista una ulteriore espansione demografica, sono poi la dimostrazione più significativa della vitalità delle società multietniche soprattutto sotto l’aspetto economico e culturale.
Il problema dell’immigrazione non va quindi eccessivamente drammatizzato, ma affrontato con pragmatismo come fanno il Canada, l’Australia, la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, la stessa Svizzera che ospita 1 milione e mezzo di stranieri, la Germania Occidentale, l’Austria e il Belgio che nelle fasi di forte espansione economica, non hanno avuto mai problemi per colmare i vuoti determinati dalla mancanza delle nascite perché hanno aperto le porte all’immigrazione che ha funzionato e funziona come valvola di scarico per i paesi economicamente sottosviluppati che quasi sempre sono anche sovraffollati.I suddetti Paesi dove si registrano fenomeni decrescenti di popolazione sono disposti alla cooperazione pacifica tra residenti ed immigrati allogeni, tant’é che viene favorita l’integrazione culturale, e non impedita quella razziale.
Noi che abitiamo l’emisfero nord della Terra abbiamo avuto la fortuna di essere stati favoriti dalla tecnologia che - dice il prof. Sartori - "ci consente di vivere e di sopravvivere in modo innaturale" (MA ABBASTANZA BENE n.d.r.) perché dovremmo fermarla? Perché negare a quelli dell’emisfero sud igiene, sieroprofilassi, antibiotici, antisepsi, geriatria, diminuzione della mortalità infantile, progressi della medicina e della chirurgia, stabilità di rifornimento alimentari e di sicurezza individuale e collettiva? Per non farli vivere come noi oltre i 75 anni? Perché il numero dei nati morti superi sempre quello dei nati vivi? Il prof. Sartori che é uno scienziato, o quasi, dovrebbe essere meno egoista ed avere più fiducia nella scienza, (che ha già scoperto il genoma del riso, presto sarà la volta del grano, con possibilità nutrizionali impensabili) che avrà la capacità di rendere compatibile alle risorse disponibili l’incremento globale della popolazione modiale nel rispetto assoluto delle norme morali e dei principi religiosi di ciascun popolo.
Salvatore Costanza, già redattore e corsivista de L’Ora, quindi docente universitario di Storia ed Ecostoria, attualmente presidente dell’ISRI di Trapani ed Ispettore onorario della Regione siciliana per i Beni bibliografici, dall’alto di una lunga esperienza di studi, pubblicazioni, insegnamento ed impegno politico, ha voluto ripercorrere, in questa sua ultima fatica letteraria, il suo itinerario intellettuale, dai primi interessi giovanili fino al disincanto della maturità; itinerario che è anche un percorso di vita vissuta nella quale ha sempre coinciso l’impegno culturale con le esigenze della lotta politica.
Al socialismo liberale e, in un certo senso, romantico era stato iniziato dal padre, di cui ricorda l’utopia che coinvolgeva sentimenti e razionalità, l’orgoglio per la fede libertaria mescolata ad una sorta di evangelismo che trovava il suo strumento di persuasione nei comportamenti ispirati ad un profondo senso morale e all’etica del dovere .
D’altronde negli anni tra il ’48 e il ’53, gli anni del centrismo, in cui la DC e la Chiesa apparivano i novelli demiurghi della ricostruzione italiana, imponendo il loro potere anche ai più restii, pronti, poi, una volta fiutata la direzione del vento a " rivoltarsi la giacchetta" per " galleggiare comunque come il sughero", i giovani intellettuali aderirono al marxismo che, attraverso iniziative varie, cineclub, spettacoli d’avanguardia, circoli letterari, cercava di mobilitare gli ambienti più sensibili verso la cultura di sinistra che appariva, peraltro, l’unica capace di costruire un collegamento con la realtà sociale circostante. Infatti fu proprio quello della civiltà contadina il mito vagheggiato in quel periodo dagli intellettuali marxisti.
Lo storico trapanese rivisita pubblicamente le tappe fondamentali della sua vita intellettuale e politica rileggendole alla luce della razionalità data dagli anni e dall’esperienza, nonché all’ombra delle delusioni e della sfiducia determinate dalla cosiddetta caduta delle ideologie che, per i più pessimisti, coinciderebbe con la fine della storia.
Queste pagine, scritte con una penna intinta nell’amarezza delle illusioni perdute, ma anche nella dolce malinconia dei ricordi nostalgici, ci danno il ritratto di un intellettuale laico fedele fino alla fine ad un socialismo liberale, in nome del quale si sottrasse sempre alle lusinghe e alle pressioni di un partito comunista che, ligio alla lezione di Gramsci, quasi un novello Principe, fin dalla fine degli anni ’50, avrebbe voluto dominare tutte le espressioni culturali della sinistra intellettuale italiana.
L’Astuccio siculo nasce come premessa alla Storia di una città mediterranea, da Costanza recentemente pubblicata, premessa che avrebbe avuto la funzione di spiegare al lettore come sarebbe stato difficile svincolare l’opera dalla storia personale dell’autore, essendo essa frutto di un continuo intrecciarsi di esperienze e di idee ed essendo stata segnata dai condizionamenti politici, particolarmente sensibili nella vita pubblica siciliana dell’ultimo cinquantennio.
Una tale spiegazione, tuttavia, occupava tanto spazio che apparve opportuno pubblicarla come un saggio a se stante che è diventato, peraltro, un’autobiografia intellettuale, impreziosita dai disegni di Giovanni Valfrè, che Simone Gatto ha argutamente definito " un artista più propenso a interrogare se stesso che a rivolgersi all’interlocutore".
L’autore denunzia i condizionamenti che alla cultura furono imposti dagli ideologi marx/leninisti, pronti a censurare ogni forma di rivisitazione storica di temi particolarmente cari al partito, come per esempio le problematiche sul movimento contadino, analizzato alla luce delle nuove teorie sociologiche tanto invise allo storicismo marxista.
Fu la violenta repressione sovietica di Budapest a determinare, soprattutto nei più giovani, una forte crisi ideale che spinse alcuni ad abbandonare la sinistra ed altri, fra cui lo stesso autore, a trovare una nuova idea della storia attraverso i dubbi e le incertezze che il dogmatismo marxista aveva determinato.
A tale disordine intellettuale, causato da fatti di portata internazionale, si aggiunse la difficoltà a dover mediare tra l’acceso patriottismo ridestatosi con le celebrazioni del centenario dell’Unità, tra il ’60 e il ’61, la nuova ondata di imponente sicilianismo portata dall’esperienza milazzista in Sicilia e l’analisi, in chiave revisionista e dissacratoria, del Risorgimento, fatta dal grande Maestro Virgilio Titone nel Congresso di Studi celebrato a Palermo nel 1960.
L’autore, in un articolo su L’Ora, intitolato significativamente Le coppole di Garibaldi, mediava fra le opposte interpretazioni del Risorgimento in Sicilia, rifacendosi anche al realismo di Rosario Romeo e, dopo aver prosaicizzato l’epopea risorgimentale, mettendo in evidenza il netto divario tra realtà e aspettative per il popolo siciliano, sottolineava altresì, l’importanza che in quell’occasione ebbe, comunque, la partecipazione popolare: "(...) Sono stati i fattori coincidenti del genio militare di Garibaldi e del favore popolare che permisero alla spedizione partita da Quarto il 5 maggio 1860, di non subire la stessa malaugurata sorte toccata a Carlo Pisacane."(p. 35)
.Anche riguardo alla mafia Costanza enunciò una sua interpretazione che si staccava dagli stereotipi storiografici correnti e che più si avvicinava all’acuta analisi del socialista Simone Gatto. La mafia, secondo tale interpretazione, non era qualcosa di atavico e di genericamente connaturato nel DNA siciliano, era bensì determinata da fattori che "(...) risultano in gran parte contrassegnati dalla mediazione attuata dalla mafia all’interno dei rapporti di proprietà e del sistema di potere instaurato in Sicilia con l’avvento dello Stato unitario.
Appare in tal modo acquisita alla conoscenza del fenomeno mafioso un’interpretazione non arbitraria, di tipo meramente sociologico o, peggio, folcloristico, ma storica e politica, che in Simone si accompagna ad una chiara enucleazione, in chiave dorsiana, del problema meridionale, alla luce del quale va individuato il ruolo della classe dominante" ( p. 38).
La profonda amicizia e devozione che lo legava al socialista Gatto, non impedì tuttavia che il Costanza, proprio per la sua mai sopita indipendenza intellettuale, si trovasse con lui in disaccordo circa l’apertura dei socialisti ai cattolici che riteneva portatori di una sorta di trasformismo, quasi innato alla loro formazione politica.
La fine degli anni cinquanta portò in Sicilia una violenta ventata di novità e di rivalutazione dell’autonomismo, anche se in chiave sicilianista, con l’Operazione Milazzo. Proprio del ruolo assunto dal PCI in tale operazione, Costanza dà un giudizio schietto quanto tagliente, sostenendo che la partecipazione comunista al governo di dissidenti democristiani, missini e monarchici, non fu certo dovuta alla necessità di condividere le stesse cose pur da barricate opposte, come aveva dichiarato Togliatti in un famoso comizio palermitano, bensì ad un’abile strategia politica mirante e ritardare l’accordo tra DC e socialisti che avrebbe portato, con la formula di centrosinistra, all’emarginazione del PCI.
Il fallimento del tentativo di Milazzo e il varo in Sicilia del centrosinistra, secondo le direttive imposte da piazza del Gesù e via del Corso, suscitò polemiche e dibattiti alcuni dei quali si concretizzarono in veri e propri convegni di studi, come quello convocato nel ventennale dello statuto regionale: Incontro degli autonomisti siciliani. In tale occasione l’autore assistette allo scontro tra due uomini della sinistra siciliana, Paolo D’Antoni ispirato al regionalismo sicilianista di Nunzio Nasi e Simone Gatto assertore di un autonomismo che si inserisse nella prospettiva più generale della redenzione economico - sociale del mezzogiorno: "(...) I due uomini politici, da posizioni diverse, rappresentavano la "coscienza critica" di una Sinistra laica e radicale al tramonto. Seguendo i lavori di quel Convegno mi resi conto, infatti, che il bilancio da loro tracciato aveva piuttosto il tono di un epicedio, poiché era ben chiara la consapevolezza che, se la breve stagione milazzista aveva chiuso il periodo delle "consorterie" sicilianiste, ne aveva aperto un altro dei compromessi di palazzo".(p.43)
Il fallito tentativo milazziano di dare maggior vigore all’autonomia, comportò il disincanto di molti intellettuali che in essa avevano creduto e l’esodo degli stessi dall’isola. All’emigrazione operaia e proletaria si accompagnava, dunque, l’emigrazione intellettuale.
Furono quelli gli anni della pubblicazione del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, già stroncato dalla critica marxista, che diede la stura ad una serie di dibattiti e di scritti contro le mistificazioni storiografiche del Risorgimento siciliano, fra cui il saggio di Sciascia Cavalcata di un secolo per la Sicilia letteraria, saggio violentemente polemico, conformemente alla vulgata marxista - leninista, nei confronti dell’interpretazione di Gentile sul Tramonto della cultura siciliana, come conseguenza dell’Unità.
A Sciascia, che sosteneva la tesi del persistere nella storia di un’anima culturale siciliana, Costanza, distanziandosi dalla linea culturale larvatamente sicilianista assunta dal PCI, ribatteva:
"(...) Un dato di fatto da cui non si può certo prescindere, e che dovrebbe almeno indurre all’abbandono di una certa compiaciuta insistenza nel concetto di "nazione siciliana", è nella considerazione della profonda differenza tra una concezione "aristocratica" della vita, propria degli intellettuali siciliani della prima metà dell’Ottocento, e gli altissimi valori umani che esplodono nella stagione letteraria dei Verga e dei Pirandello (...); né si riesce a capire come l’anima della Sicilia sia passata incontaminata attraverso il crogiolo degli anni, laddove è invece evidente riscontrare per essa, e proprio a partire dall’Unificazione, gravi cesure e profonde lacerazioni. In verità un "tramonto" di un certo tipo di cultura, che esprimeva un sentire rimasto estraneo al flusso delle idee e delle aspirazioni degli strati sociali inferiori, indubbiamente ci fu e senza speranza di nuove aurore"(pp. 45-46).
Travolto dall’euforia che negli ambienti di sinistra avevano determinato gli "sconvolgimenti" del ’68, l’autore si fece coinvolgere in un circolo di giovani intellettuali, provenienti anche da esperienze politiche diverse, allo scopo di occuparsi, alla luce dei recenti eventi e delle nuove idee, della politica cittadina. Il gruppo diede vita ad una rivista "Cronache di Sicilia" che immediatamente, tuttavia, incontrò il disappunto di coloro su cui gli intellettuali trapanesi maggiormente contavano per una svolta politica e culturale del comprensorio: i comunisti. Un funzionario di partito bocciò il contenuto di un articolo in cui si stigmatizzava la classe politica siciliana, senza ricordare l’apporto rivoluzionario che in Assemblea avrebbe dato il partito. Le continue critiche dell’apparato comunista convinsero ben presto, anche i più ingenui, di quanto fosse inutile tentare una qualsiasi iniziativa culturale svincolata dalle logiche di partito.
Nel libro passano le immagini vivide di grandi politici ed intellettuali del passato che con Costanza furono spesso a contatto per il comune sentimento ideologico e che ci dimostrano come sempre più raramente in Italia l’onestà intellettuale possa coniugarsi con l’attività politica. Ricordando uno dei suoi maestri, Lelio Basso, la cui scomparsa aveva acuito vieppiù la sua solitudine e lo smarrimento ideologico, l’autore ricorda le sue confidenze sulle lotte da lui sostenute all’interno del partito per svincolarsi da ogni condizionamento: "(...) Tu sai che per anni, imperante lo stalinismo, sono stato costretto quasi completamente al silenzio (scrivevo in riviste straniere) e a tal segno additato all’odio del Partito che persino gli stessi compagni deputati non osavano neppure salutarmi." Ma nonostante tali umiliazioni si diceva sempre pronto a ricominciare la lotta politica anche se, in un paese come l’Italia, essa assumeva la valenza di una vera e propria "tela di Penelope". (p.64)
Dai ricordi balza anche la figura, simile a "un fauno sbalzato dalle cave di Cusa", di Carlo Levi incredibilmente attratto da quella civiltà contadina che avrebbe immortalato nel più famoso dei suoi libri Cristo si è fermato ad Eboli, civiltà da lui considerata come "la forza intatta e prodigiosa di un mondo primitivo che, nella disgregazione sociale della realtà meridionale, ne costituiva l’unica istanza di coesione morale"(p. 66)
Il contatto con Levi e con Luigi Russo, noto critico letterario siciliano, profondo conoscitore della produzione manzoniana, candidatosi al Senato nel ‘48 nel collegio di Trapani nelle file del Fronte Popolare, fece comprendere a Costanza quanto deludenti fossero per la massa i comizi di tali intellettuali, comizi ai quali i più partecipavano esclusivamente per il prestigio del nome. Russo, fortemente raccomandato da Togliatti e piazzato nel collegio di Trapani che, per il tradizionale laicismo della popolazione, appariva pressocchè sicuro, malgrado fosse il rappresentante della cultura umanistica, dello spirito laico e libertario ed apparisse come un crociano discolo e un eretico del marxismo, venne sonoramente sconfitto dal responso delle urne.
Tali intellettuali, infatti, si mantenevano elevati in un mondo fatto di sogni, ideali e poesia, tanto da esprimersi in maniera talmente astratta da apparire agli occhi del popolo, attirato solo dalla concretezza e dall’idea di progresso coniugata con quella di sviluppo economico , quasi dei veri bestemmiatori.
Così avvenne a Bronte, quando Carlo Levi scandalizzò l’uditorio affermando, paradossalmente, che le autostrade "servivano a chiudere in enormi riserve i contadini del Sud, e per questo rassomigliavano un po’ alle muraglie cinesi, costruite però per difendere il popolo della pace celeste dalle incursioni dei mongoli. Un milanese che voglia venire a Catania percorrendo l’autostrada non entrerà mai veramente nella vita e nel tempo delle nostre comunità contadine, perchè nessun rapporto di interesse, nessuna occasione di viaggio lo legherà ad esse" ( p. 69).
Dai ricordi nostalgici del suo percorso politico e del suo impegno sociale, emerge possente anche la figura di Giovanni Falcone con cui forti legami ideali erano nati durante l’attività da quest’ultimo svolta alla Procura di Trapani nella metà degli anni ’70. Di lui l’autore ricorda non solo il comune sentire e il condiviso impegno antimafia, ma la discrezione e la delicatezza dimostrate nel non voler dare l’impressione di usare le conoscenze storiche e locali dell’amico per avvalersene nella sua attività di giudice.
Amareggiato da un mondo che dà sempre meno peso agli ideali ed è sempre più condizionato dalle apparenze, Costanza decide di trovare rifugio e conforto nei suoi studi come gli umanisti trovavano esempio e ragione di vita nella lettura dei classici.
Sprezzante, ma quanto mai rispondente alla realtà, la sua definizione dei club service, impalcature di ipocrita solidarietà sociale che mascherano profondi desideri di rivalsa o di settarismo "curiose ‘accademie d’onore’ formate da professionisti, magistrati, uomini politici e proprietari terrieri, i quali si fregiano di una nomenclatura dai frigidi richiami anglosassoni. Un associazionismo americano e fordista di maniera, consorte ed unanimistico, dissuasivo ed ammiccante, che ha soppiantato i casini dei civili dove conveniva in passato il fior fiore della borghesia paesana. Poiché oggi le rendite non vengono più sugli scudi della nobiltà, ecco che i nuovi civili si adeguano ai bisogni del sottobosco politico disponendosi strategicamente vicino alle fonti da cui emana il potere, nella ricerca del successo o del guadagno, o anche soltanto di uno sterile quietismo ammantato di zelo beneficatorio" (p.147).
Il leit motiv del lavoro di Salvatore Costanza è, a parer mio, la solitudine, solitudine non in senso metafisico e collettivo come in Sciascia che con il suo termine sicilitudine mirava a dipingere l’immagine di tutto un popolo incatenato ai fantasmi del passato e incapace ad adeguarsi al presente. In Costanza la solitudine è il sentimento di isolamento proprio dell’intellettuale che vuole rimanere coerente ai suoi ideali senza subire contaminazioni di carattere politico o compromissioni di qualsiasi genere. Un uomo di tal fatta, dopo aver percorso una vita segnata dalla lotta per imporre la propria libertà, decide, ormai stanco, deluso e sfiduciato, di trovare la sua strada e il suo conforto nello studio di un passato comune a tutti da cui non sempre gli uomini traggono insegnamenti per il presente.
NOTE:
* Un percorso intellettuale tra politica e storia, Società Trapanese per la storia Patria, Trapani, 2001.
"Quale ristrettezza della vita dello spirito in Frazer! Quindi: quale impossibilità di comprendere una vita diversa di quella inglese del suo tempo!"
E’ difficile immaginare un incontro culturale tra due pensatori così diversi per indole e per settore disciplinare: Frazer(1), etnologo e Wittgenstein(2), filosofo del linguaggio. Pur tuttavia, la grandezza di un autore sta non soltanto nella sua specificità, bensì nella capacità di coinvolgere al di là dello specifico in problematiche più vaste.
Il testo di Wittgenstein infatti coinvolge il lettore che si appresta a vivere nel XXI secolo, dimostrando un’impressionante attualità di posizioni sia a livello teorico che, possiamo dire, pragmatico. Per una persona che vive in una società ormai definita "complessa" (interculturale, interrazziale, ipertecnologica ecc.) segnata dalla fine di quelle che Lyotard ha chiamato le "grandi narrazioni" –la fine dei macro saperi totalizzanti, di idee forti quali Ragione, Progresso, Verità, Fondamento- per una persona, dicevamo, che vive in questo contesto, il testo di Wittgenstein aiuta a vivere e a comprendere meglio. In che senso? Esso e come se rispondesse a quella istanza, espressa da Quine, di "carità interpretativa" con la quale invece che rifiutarci di comprendere ciò che ci è estraneo, diverso o totalmente "altro" dal nostro modo di pensare e vedere il mondo, ci disponiamo ad accettare che quello che dice, fa, pensa e scrive l’altro abbia sempre e comunque senso. Cercare di comprendere il senso di cui l’altro è portatore e si intende qui riferirsi, in maniera più forte, ai popoli che non appartengono al contesto europeo, significa riuscire a fare a meno delle coordinate lungo le quali si orientano il nostro modo di pensare e di agire. Significa riuscire ad assumere un punto di vista differente dal proprio liberando anche l’immaginazione. In altre parole accettare "forme di vita" diverse dalla propria è un po’ come essere un vero viaggiatore: quello che non sente mai nostalgia di casa ed è felice solo dello stupore che sempre si rinnova di fronte a nuovi mondi. Ecco perché il testo di Wittgenstein è attuale: esso non si rivolge solo all’antropologo o agli studiosi di antropologia, sebbene questi sembrino i destinatari "naturali", ma all’Uomo e alle sue domande più urgenti.
Forse questo è ciò che si intende dicendo che il senso, il significato di un’opera può superare le aspettative e le intenzioni del suo stesso autore, suscitando nel lettore domande e riflessioni che sono il frutto di tutti i potenziali significati dell’opera stessa.
Dunque per entrare nel merito delle "Note sul Ramo d’oro di Frazer" (che chiameremo d’ora in poi semplicemente Note, edizioni Adelphi, 2000) è utile assumere come chiave interpretativa del testo proprio il punto di vista dello stesso Wittgenstein nei confronti dell’antropologo Frazer: la povertà, la mancanza di immaginazione e dunque la ristrettezza della vita spirituale di questo studioso gli rendono impossibile comprendere "forme di vita"(3)diverse da quella, inglese, del suo tempo.
Frazer così, secondo Wittgenstein, non potrà mai essere un buon antropologo e non lo potranno essere nemmeno quelli che, come lui, si cimentano a compiere delle ricerche scientifiche con la mente piena di pregiudizi.
L’assunzione del punto di vista di Wittgenstein nei confronti di Frazer e, in genere, della comunità scientifica ottocentesca viene qui fatta alla luce delle considerazioni sopra esposte che riguardano il bisogno tanto umano, quanto ormai "sociale", di "carità interpretativa" nel confronto con il diverso, l’altro, il non- identico.
Occorre inoltre fare una precisazione intorno alla struttura formale del testo: esso ci appare come un susseguirsi di frammenti, di "schegge" di antropologia! Periodi brevi o meno brevi, citazioni di brani del " Ramo d’oro", addirittura semplici frasi a volte illuminanti a volte oscure. Mai comunque un paragrafo ha una lunghezza superiore alle tre pagine. Sappiamo che questa era la forma della scrittura di Wittgenstein con un andamento " oscillante" del testo che rifletteva il suo proprio stile di pensiero(4). In più occorre dire che le Note non nascono per essere pubblicate trattandosi appunto, come leggiamo nell’Introduzione, di note e semplici appunti reperiti in pagine dattiloscritte o addirittura in semplici fogli di carta sparsi e scritti in un periodo compreso tra il 1931 e il 1948.
Quindi cosa significa per noi lettori tutto questo? Innanzi tutto che dobbiamo porre una estrema attenzione a ciò che il filosofo intende dire in quanto è come se egli si muovesse costantemente nell’implicito; e poi che dobbiamo sopperire alla apparente non organicità del testo creando dei percorsi tematici o comunque concettuali che ci aiutino ad orientarci. Pare, a tale proposito, che non sia casuale il fatto che Bouveresse, nel saggio "Wittgenstein antropologo" che segue al testo, utilizzi, per la sua interpretazione, alcuni scritti dello stesso Wittgenstein: risulta quasi istintivo appoggiarsi all’autore per articolare, esplicitare la "densità" delle sue affermazioni.
Wittgenstein inizia le sue Note con l’attacco contro i pregiudizi di Frazer i quali sottintendono tutte le concezioni teoriche ed epistemologiche dell’ottimismo scientifico ottocentesco. Dice Wittgenstein (p. 17): "il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori "dunque, dal punto di vista di Frazer, bisogna, dice Wittgenstein, "muovere dall’errore e convincerlo della verità; occorre cioè scoprire la sorgente dell’errore". Infatti lo stesso Frazer ha detto, in un brano del "Ramo d’oro", che la ricerca e la riflessione compiuta – sui "nostri predecessori"- lo hanno convinto che "i loro errori non erano volute stravaganze ma semplicemente ipotesi giustificabili dato il tempo in cui erano proposte…è solamente dopo la successiva prova delle ipotesi e l’eliminazione del falso che può alla fine emergere la verità. Dopo tutto quella che chiamiamo verità è solamente l’ipotesi che si è rilevata più efficace. Perciò nell’esaminare le opinioni e le pratiche delle epoche e delle razze primitive è necessario guardare con indulgenza i loro errori come falli inevitabili fatti nella ricerca della verità".
Questo brano è un "fatto" storico, è la testimonianza dello "spirito" di un’epoca. Esso, infatti, ci mostra che l’idea di "Progresso" informava soprattutto due fondamentali convinzioni teoriche: la prima riguarda proprio la convinzione in un progresso della specie umana che da un’età primitiva (i nostri "predecessori", le razze primitive) evolve, indefinitamente, verso una civiltà che sarà, eliminando ogni aspetto misterioso, pienamente consapevole di tutta la realtà che la circonda; la seconda convinzione, congiunta alla prima, riguarda l’idea stessa della scienza, anch’essa votata ad un progresso tendente all’acquisizione della verità. Questo progresso procede con l’eliminazione degli errori mediante la formulazione di ipotesi che si rivelano sempre più efficaci nell’esplicazione dei fenomeni naturali. Quindi soltanto eliminando il "falso"(cioè le erronee ipotesi esplicative) è possibile fare emergere la verità. Ora, è ovvio, che con questi parametri teorici, le "opinioni" e le "pratiche" delle altre civiltà- perché occorre anche dire che le convinzioni suesposte comportano anche un pregiudizio etnocentrico poichè è stata proprio la cultura europea a formulare e promuovere il "progresso" in tutti i suoi diversi aspetti- appaiono a Frazer come dei "falli inevitabili" sulla strada del progresso, dell’età della Scienza, dovuti dunque proprio all’assenza di precise spiegazioni scientifiche dei fenomeni naturali, assenza che ha determinato le concezioni magiche e religiose delle "razze primitive". Queste concezioni sono quindi le ingenue risposte agli interrogativi che nascono dall’osservazione dei fenomeni che circondano l’uomo (hanno cioè,da questo punto di vista, una funzione pragmatica) e che verranno sostituite non appena l’uomo entrerà nell’età della Ragione.
Di fronte a tutto questo Wittgenstein, acutamente,dimostra l’inadeguatezza proprio del modo di procedere di Frazer, l’immagine sbagliata che esso si forma delle usanze e delle pratiche di popoli da lui, mentalmente, così distanti sia nel tempo che nello spazio (p.18): "Mi sembra già sbagliata l’idea di voler spiegare un’usanza…Frazer non fa altro che renderla plausibile a uomini che la pensano come lui…queste usanze finiscono per esser presentate come sciocchezze.Ma non sarà mai plausibile che degli uomini facciano tutto questo per mera sciocchezza".
Ora Wittgenstein ci spiega perché le osservazioni di Frazer sono inadeguate e comportano un fraintendimento di ciò che costituisce il senso del comportamento e delle usanze di civiltà diverse fino addirittura ad assumere, queste, le sembianze di "mere sciocchezze"(per inciso occorre sottolineare che viene usato il termine "pregiudizio",in questo contesto, proprio nel senso del fraintendimento, ossia tenendo presente la distinzione gadameriana tra pregiudizi veri e quelli falsi con l’ovvia considerazione, però, che un uomo di scienza dovrebbe essere ben consapevole di possederli!).
A conferma di ciò che si sosteneva all’inizio riguardo l’estrema sensibilità ed attualità delle Note di Wittgenstein, questi così si esprime nei riguardi di Frazer (p.28): "…è molto più selvaggio della maggioranza dei suoi selvaggi, perché questi non potranno essere così distanti dalla comprensione di un fatto spirituale quanto lo è un inglese del ventesimo secolo. Le sue spiegazioni delle usanze primitive sono molto più rozze del senso di quelle usanze stesse".
Quindi a Wittgenstein sembra già sbagliata l’idea di voler "spiegare un’usanza" e questo perché? Perché la spiegazione si dimostra assolutamente inutile a spiegare alcunché anzi, occulta proprio il senso, il significato di ciò che intenderebbe spiegare (cfr. p. 22, 25) in quanto pretende di derivare, mediante una connessione logica, causale o anche solo cronologica, un comportamento da un altro, comportamento che però si basa su errori, falsità, dovute, come pensa Frazer, alla assenza di precise conoscenze scientifiche. In altre parole Wittgenstein sostiene che "l’ottusa superstizione" con cui Frazer conduce l’osservazione consiste nel ritenere che certi popoli compiano determinati atti, riti o usanze perché non sono in grado di spiegarsi determinati fenomeni: così l’impressione avuta dall’osservare il fuoco e la sua somiglianza col sole ha causato, per ignoranza, rituali magici che hanno per oggetto, ad esempio, il sole. Tra l’un comportamento e l’altro è stabilito così un principio di causalità o anche un principio storico- evolutivo che dimostra le origini di un comportamento, principio che fa da guida per l’ipotesi esplicativa necessaria a Frazer. Ora però tutto questo non è che un arbitrario modo per rendere plausibili comportamenti che così vengono svuotati di senso, pur permanendo però, dice Wittgenstein, l’impressione originaria da cui sono sorti: l’impressione che desta la somiglianza tra il fuoco e il sole non diminuisce dopo un qualsiasi tipo di "spiegazione"!
Gli atti rituali, magici "non derivano da un’errata concezione della fisica (la magia non è una fisica o una medicina erronee)… piuttosto la caratteristica dell’atto rituale non è una concezione, un’opinione, vera o falsa che sia (pp. 26, 27); l’errore nasce solo quando la magia viene spiegata in termini scientifici (p. 23)". Ma Wittgenstein va ancora più a fondo mostrando come soltanto ad un occhio superficiale magia e scienza si occupino di "cose" diverse (p. 37): "se – i popoli primitivi- mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si distinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra. Solo la loro magia è diversa". Questo è dimostrato dal fatto che in Africa, ad esempio, alcuni popoli si rivolgono alla divinità della pioggia proprio quando si avvicina la stagione delle piogge, il che vuol dire che essi non credono affatto che tale divinità sia in grado di far piovere, perché altrimenti vi si rivolgerebbero nei periodi secchi dell’anno; dunque essi hanno cognizione delle conoscenze fisiche che determinano i fenomeni metereologici. Soltanto avviene che presso tali popoli le concezioni e le pratiche magiche coesistono con esatte conoscenze empiriche: lo stesso selvaggio che colpisce l’immagine del nemico, con l’apparente intenzione di ucciderlo, costruisce realmente una capanna e fabbrica frecce che sono reali non immagini!
Ma dove deriva allora questa esigenza di dover fornire una ipotesi, una spiegazione che crei nessi causali, evolutivi tra i comportamenti umani? Qui Wittgenstein tocca con profondità una questione molto importante. Sembra infatti che ci sia una "superstizione" ancora più radicata nel modo di pensare, e dunque di trovare spiegazioni, dell’uomo moderno ed è quella di cercare sempre e comunque un motivo, una ragione, nel modo di comportarsi dell’uomo, determinati dalla ricerca del concreto vantaggio, dell’utile (principio di utilità). Wittgenstein non ha soltanto mostrato, nei confronti di Frazer, che i rituali magici o le usanze non si fondano su false conoscenze, su "fisiche erronee", ma anche mostrato che non necessariamente i comportamenti umani debbano fondarsi su alcunché (cfr. p. 34: una spiegazione che afferma che il gesto di colpire la terra con un bastone serva a qualcosa è un imbroglio!). Se è certamente vero che quando gli uomini agiscono lo fanno, in genere, per perseguire uno scopo, quindi perché motivati da una ragione, ciò però non significa che debba necessariamente avvenire così (compio un rituale, un sacrificio ad esempio, per ottenere un buon raccolto) perché le azioni umane possono anche non perseguire alcuna utilità, non avere alcuno scopo: ciò non significa che esse siano gratuite. Leggiamo a tale proposito nelle Note: " si potrebbe quasi dire che l’uomo è un animale cerimoniale… vale a dire che si potrebbe cominciare un libro di antropologia nel modo seguente: se si osserva la vita e il comportamento degli uomini si vede che essi, oltre ad azioni che si potrebbero chiamare "animali", quali nutrirsi ecc… svolgono anche azioni che hanno un carattere peculiare e che potremmo chiamare "rituali" (p. 26) –e ancora- "non deve essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata neppure una ragione quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e quella quercia erano unite in una comunità di vita (p. 35)".
Ben oltre il bisogno, che l’uomo condivide con l’animale, di sopravvivere e di conservarsi e rispetto al quale il suo comportamento è senz’altro guidato dal perseguimento di uno scopo, vi sono comportamenti umani che sembrano sovvertire proprio il principio "economico" (e positivistico) dell’utilità. Uno studioso di etnologia, M. Mauss (Saggio sul dono apparso in Francia nel 1924), ha descritto appunto comportamenti di questo genere: oltre al "dono" in sé che, come tale, inteso come l’opposto del baratto, costituisce "l’antieconomico" per antonomasia, Mauss ha mostrato il meccanismo del potlach 5 che è una paradossale lotta in cui il vincitore si impone al vinto mediante la superiorità dei suoi doni.
Ci sono dunque comportamenti "cerimoniali" che manifestano l’inutilità delle loro ragioni (o la mancanza di ragioni) pur non essendo arbitrari o gratuiti. Questi, tuttavia, come abbiamo visto, non possono essere adeguatamente compresi né da una spiegazione scientifica né da quella storico- evolutiva; e allora? Il testo di Wittgenstein non si limita, a questo proposito, ad accusare e demolire la "mitologia" razionalistica ed eurocentristica di Frazer, ma ci invita a rintracciare un originale approccio teorico a queste problematiche che offre anche spunti metodologici che verranno sviluppati dalle Scienze umane nel corso del Novecento.
"La spiegazione storica, come ipotesi di sviluppo è solo un modo di raccogliere i dati… è ugualmente possibile vedere i dati nella loro relazione reciproca e riassumerli in un’immagine generale… una rappresentazione "perspicua"… essa ha un’importanza fondamentale… designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose… essa media la comprensione, che consiste appunto nel vedere le connessioni…" (pp. 28 – 30).
Bisogna porre attenzione: le affermazioni di Wittgenstein non valgono soltanto come possibili "suggerimenti" per condurre un’adeguata osservazione antropologica bensì hanno un profondo legame con quella che intendiamo come la filosofia del II Wittgenstein (dopo il "Tractatus"). In tanto, come leggiamo nella citazione menzionata sopra, Wittgenstein ci dice che il modo in cui procede Frazer è soltanto un modo possibile di raccogliere i dati dell’osservazione, ossia quel modo che procede mediante ipotesi, spiegazioni evolutive tendenti alla dimostrazione dell’idea di Progresso tanto della specie umana che della sua più importante attività, la conoscenza scientifica. Quindi, come poi saremo abituati a pensare grazie agli sviluppi dell’epistemologia novecentesca, l’osservazione con la quale raccolgo i dati non è neutra, non è una mera registrazione di "fatti", ma è sempre informata da concezioni teoriche preassunte.
Allora, dice Wittgenstein, è possibile "vedere" i dati in un altro modo: essi possono essere rappresentati, come dire?, "orizzontalmente" (e non alla maniera "verticale" assunta da Frazer e compagni), come in una sorta di mappa nella quale la totalità dei fatti conosciuti viene organizzata per rendere, tali fatti, intelligibili: tra di essi viene colta la loro relazione reciproca, i loro nessi di somiglianza e differenza. Queste connessioni sono "formali" appunto perché basate sulla comparazione che coglie somiglianze e differenze tra i fatti: non sono cioè connessioni storiche o evolutive per le quali i fatti scaturiscono per derivazione l’uno dall’altro (vedi, emblematicamente la somiglianza tra l’atto di colpire la terra e l’atto di punizione a p. 34).
Basta quindi, dice Wittgenstein, comporre correttamente ciò che già si sa, mediante il raggruppamento del materiale –comportamenti, fatti osservati– senza aggiungervi altro, senza dover trovare una spiegazione che stia nel mezzo, che colleghi ad esempio "la maestà della morte con la cerimonia del re-sacerdote di Nemi (p. 20), perché non solo l’ipotesi non spiegherebbe la cerimonia, ma l’impressione che sempre ci desta "la maestà della morte" non diminuirebbe affatto. Basta, dicevamo, semplicemente cercare le connessioni formali di somiglianza o differenza di ciò che già sappiamo, descrivere il comportamento umano, "perché subito si produca da sé quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione" (p. 19). Notiamo la profondità dimostrata dal filosofo con l’uso del termine "soddisfazione": esso mostra un bisogno pratico, quasi esistenziale, legato alla necessità umana di formulare una spiegazione teorica. Ciò produce, appunto, un senso di soddisfazione: l’essere giunti ad una comprensione che racchiuda un numero indefinito di fatti e che ci basta, in un dato momento (esistenziale, storico) per dire che non abbiamo bisogno di cercare altre spiegazioni, possiamo essere soddisfatti di aver compreso così.
Ora però Wittgenstein dice che per fare questo si può solo "descrivere e dire: così è la vita umana" (p. 19); le scienze umane non devono spiegare la realtà dell’uomo sulla base di pregiudizi o principi che riconducano, riducano ad un’unità coerente e necessaria ciò che rifugge ogni forma di riduzionismo.
Ora, il modo in cui ordiniamo, componiamo e riordiniamo le connessioni possibili, è ciò che Wittgenstein chiama "rappresentazione perspicua", il nostro modo di vedere le cose (una specie di "concezione del mondo"), ciò che media la comprensione della realtà che ci circonda. Comprendiamo la realtà con il nostro modo di vedere le cose e il nostro modo di vedere le cose è ciò che, contingenzialmente e pragmaticamente, dipende dal fatto di trovarci in una "comunità di vita".
Non sembra sia illegittimo ravvisare in queste riflessioni la formulazione del concetto, poi denominato, "forma di vita" (e connesso con l’altro fondamentale concetto wittgensteiniano di "gioco linguistico"). Riprendiamo dunque il brano a p. 35 nel quale Wittgenstein dice che dal fatto che determinate razze umane adorano la quercia si può soltanto trarre la constatazione che esse sono cresciute insieme, non per scelta, in una comunità di vita, come il cane e la pulce: "se le pulci sviluppassero un rito riguarderebbe il cane". Quest’ultima espressione è straordinaria proprio per l’incisività e la chiarezza con cui mostra il punto di vista di Wittgenstein . La "forma di vita", in cui uomo e quercia si trovano a vivere, è tutto l’insieme di abitudini, contesti pragmatici, modi consuetudinari di usare le cose che costituiscono la significatività di un determinato mondo o ambiente culturale. Ciò però avviene non per una qualche ragione a cui la spiegazione scientifica o storica può risalire, ma appunto senza motivo, senza che sia stata compiuta una scelta. Di fronte a tutto ciò possiamo solo limitarci a descrivere e constatare che " così è la vita umana", così imprevedibili e contingenti sono le forme di vita, dunque né razionali né irrazionali, né necessarie né tanto meno gratuite.
"Giusto e interessante (e giusta e interessante dovrebbe essere una buona antropologia) non è dire: questo è nato da quello, ma: questo potrebbe essere nato così" (p. 50). Non c’è un rapporto di derivazione necessaria tra un comportamento umano e un altro, ma semmai la molteplicità delle diverse usanze che possiamo vedere tra i vari popoli sono da intendersi come possibilità: letteralmente ciò che può anche non essere o essere diverso da come è.
Wittgenstein va ancora oltre dicendoci che rintracciare le connessioni reciproche tra la molteplicità dei comportamenti umani ancora non basta, poiché manca ciò che collega questa parte di indagine ai nostri sentimenti e pensieri: questo "dà all’osservazione la sua profondità" (p. 39).
Tenendo presente che Wittgenstein ha dimostrato nei suoi scritti, posteriori al Tractatus, di essere contro ogni forma di essenzialismo, riduzionismo o fondazionismo, non mi pare di poco conto soffermarsi, prima di concludere, su di una considerazione del filosofo che ci trasporta e ci sostiene entro quell’ambito di riflessioni che sono state fatte proprio all’inizio: l’inevitabile e insieme desiderabile contatto con il "diverso", che si crea nella nostra società, determina l’esigenza di comprendere il senso di cui l’altro è portatore. Sembra allora che Wittgenstein dica: ci comprendiamo proprio come esseri umani situati nei molteplici e differenti contesti, anche se questi possono essere distanti nel tempo e nello spazio.
Vediamo nel testo (p. 23) a proposito delle usanze "spiegate" da Frazer: "il principio che regola queste usanze è molto più universale di quel che dichiara Frazer ed è presente nella nostra anima, tant’è vero che noi stessi potremmo escogitarci tutte queste possibilità" (e fa l’esempio del fratello del musicista Schubert). Frazer è così sviato dai suoi pregiudizi da non rendersi conto che noi comprendiamo il senso di riti, usanze, proprio perché è in noi, intimamente, che il senso di tali usanze si trova (e non nella spiegazione, inutile, della loro causa ed origine).
Il fatto di dare significato a ciò che, fin dalle origini, ha impressionato l’uomo -ad esempio la somiglianza del fuoco con il sole- oppure il fatto di avvertire che "qualcosa di terribile" si produce nello svolgimento di una cerimonia o di una festa -cfr.il racconto della festa di Beltane (pagg.39-49)-, tutto questo genere di cose, insomma, ha carattere universale perché il senso di esse è presente nella nostra anima, di esseri umani. Frazer, dice Wittgenstein, non si rende conto che al nostro proprio vocabolario appartengono gli stessi termini "superstiziosi" noti ai "selvaggi" ("anima", "spirito", "ombra"...) e che lui stesso utilizza per descriverne le concezioni: se la sua mentalità fosse stata meno ristretta forse avrebbe potuto capire che "anche in noi qualcosa tende verso il modo di comportamento dei selvaggi", che c’è tra noi e loro una certa affinità, che esiste insomma uno "spirito comune" (p.49).(6)
E’ come se Wittgenstein ci dicesse: se è vero che sono possibili "forme di vita" diverse e molteplici, è pur vero che ne esiste una, ed è quella umana e nella quale ci comprendiamo proprio in virtù di quello che noi "facciamo con il nostro linguaggio", perché condividiamo ciò che di più intimo è nei nostri sentimenti e pensieri.
Per ritornare sugli effetti e sulle riflessioni che il testo di Wittgenstein suscita, è possibile ravvisare in esso un carattere sfidante: l’invito ad utilizzare una facoltà mentale che, forse, nella nostra epoca è quella più mortificata, ossia l’immaginazione ("se la pulce sviluppasse un rito.."). Immaginare significa pensare il "possibile", pensare che ciò che non è potrebbe anche essere e viceversa; significa quindi vedere le cose diversamente, riuscire a passare da un "gioco linguistico" ad un altro, significa "viaggiare" in luoghi in cui si incontra l’ "altro".
Attuale è dunque tanto la necessità di divenire consapevoli dei propri pregiudizi che la sfida di immaginare scenari diversi: realizzare concrete "forme di vita" fondate su di un’autentica convivenza civile nel rispetto delle "alterità".
NOTE:
(1) -J.G.Frazer (1854-1941), etnologo inglese, influenzò la nascente etnologia con le sue opere Il ramo d’oro. Uno studio nella magia e nella religione(1890) e Totemismo e esogamia (1910).
(2) -L. Wittgenstein (1889-1951) è, come è noto, uno dei maggiori filosofi del linguaggio. Tra le sue opere ricordiamo il Tractatus logico-philosophicus(1921) e le Ricerche filosofiche (1953).
(3) -Uso l’espressione "forme di vita" tratta dall’opera Ricerche filosofiche di Wittgenstein malgrado qui egli dica semplicemente "vita diversa"- p. 23 delle Note- anche se, come cercherò di dimostrare è il contenuto stesso delle Note che ci autorizza ad utilizzare questa espressione.
(4) -Infatti leggiamo nella sua Prefazione alle Ricerche filosofiche: "Non appena tenevo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura della stessa ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e largo e in tutte le direzioni". p. 3 ed .Einaudi, 1999.
(5) -Il potlach è un rituale compiuto dagli indiani del nord-ovest americano. Confronta a tale riguardo l’interessante saggio di G. Bataille La nozione di dépense pubblicato nel 1933, in cui Bataille, sulla scorta della conoscenza dell’etnologia di Mauss, demolisce il concetto classico di utilità cui contrappone quello di perdita (dispendio). Questo sarebbe dimostrato dal fatto che gli uomini si trovano costantemente impegnati in attività che richiedono consumi improduttivi, che hanno cioè il loro fine in sé stessi, come sono, secondo Bataille, il lusso, la guerra, il culto, il sacrificio, il gioco, l’arte, l’attività sessuale non subordinata ad un fine riproduttivo. Lo scambio di doni, nelle società primitive, è trattato come perdita suntuaria degli oggetti ceduti, all’opposto dunque del baratto inteso come primitiva operazione economica.
(6) -Cfr. le importantissime pagine di Verità e Metodo di Gadamer in cui il filosofo sostiene, in relazione al significato ermeneutico della "distanza" tra ciò che è da interpretare e l’interpretante, che "il compito dell’ermeneutica consiste nel chiarire questo miracolo della comprensione, che non consiste in una comunione di anime, ma in una partecipazione ad un senso comune". pp.340-350.
1. Origine e definizione.
Il presente scritto è stato sollecitato dal dibattito che attualmente si sta svolgendo in diverse sedi sul principio di sussidiarietà. Proprio l’interdisciplinarietà di cui tale principio è oggetto e l’uso ricorrente che ne viene fatto nei più svariati ambiti - nazionale, internazionale, storico, giuridico - ha fatto sentire l’esigenza di una riflessione complessiva che tenga conto della definizione del concetto, dell’ambito di applicazione e delle modalità con cui concretamente si applica o s’intenderebbe applicare quello che da più parti viene indicato come la chiave di volta degli sviluppi futuri della vita associativa ed istituzionale sia in Italia sia in Europa.
In diversi casi, il dibattito cui ci si riferisce non è incentrato direttamente o esplicitamente sul principio di sussidiarietà, ma sul nuovo modo di intendere e di organizzare i rapporti tra individuo ed istituzioni e tra istituzioni locali e centrali in una fase storica di crisi della centralità dello Stato e di messa in discussione delle sue prerogative e della sua sovranità fortemente sentita ai giorni nostri nella società della vecchia Europa.
Il tentativo di sbloccare la situazione e di cercare prospettive future, ha impegnato autori di diversa matrice, ma anche politici e, più in generale, addetti ai lavori, a riflettere sul principio di sussidiarietà, ciascuno nell’ambito di sua competenza, dando però la sensazione ad un osservatore esterno di trovarsi di fronte a fenomeni diversi indicati con la stessa espressione. In realtà, ad un esame più attento, si giunge alla conclusione che se divergenze di opinione sembrano esservi, queste non si riferiscono ad una generalissima definizione che, a ben vedere, è rintracciabile in tutti gli autori e che li vede unanimemente concordi, ma si riferisce ad un diverso modo di intenderne l’applicazione con conseguenze in prospettiva a volte diametralmente opposte sul funzionamento della società e delle istituzioni che questa si è data.
Ciò che risulta necessario è, quindi, un dibattito aperto ed interdisciplinare tale da rendere possibile un cammino coerente verso soluzioni univoche che consentano il dispiegarsi del principio in tutte le sue potenzialità per un progresso mondiale che non sia utopia.
L’art. 5 del Trattato CE(1), al secondo comma, recita:
"Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario"(2).
Tale articolo è stato introdotto dal Trattato di Maastricht(3) ed è stato oggetto di dibattiti, dichiarazioni e protocolli aggiuntivi volti a delinearne il contenuto e le modalità di applicazione da parte di tutte le istituzioni europee.
Ciò che preme sottolineare è che dal 1992, data di stipula del Trattato di Maastricht, tale principio è entrato formalmente nel novero dei principi cardini della costruzione europea: è, sinteticamente e semplicisticamente, il principio che regola i rapporti tra Stati e istituzioni europee. E’ per questo di fondamentale importanza analizzarne il contenuto. Da un punto di vista etimologico, "il termine ‘sussidiarietà’ deriva dal latino subsidium, che indica le truppe di riserva"(4), ma chiunque si accosti al principio di sussidiarietà, avrà modo di leggere e ascoltare preliminarmente che tale principio ha origine nella Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) e che la sua prima formulazione si ritrova nell’enciclica di Papa Pio XI(5) Quadragesimo Anno del 1931, la quale così afferma:
"Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera supplettiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle"(6).
Ad una ricerca più attenta delle origini del principio di sussidiarietà, quella che possiamo leggere nella Quadragesimo Anno è in realtà citata come "la descrizione divenuta classica"(7) oppure "la definizione classica"(8), per portare solo due esempi.
Viene indicato nel vescovo Ketteler(9) colui che alla fine del XIX secolo
"ben prima della pubblicazione delle encicliche sociali […] ha formulato in maniera pertinente questo principio ed è stato il primo a parlare di ‘diritto sussidiario’. […] ‘Ogni membro inferiore si muove liberamente nella propria sfera e gode del diritto della più libera autodeterminazione e autogoverno. Solo quando il membro inferiore di questo organismo non è più in grado di raggiungere da solo i propri fini o di far fronte da solo al pericolo che minaccia il suo sviluppo, entra in azione in suo favore il membro superiore’ (Kettelers Schriften I, 403; II, 21, 162)"(10).
Ma, a volere andare oltre la Dottrina Sociale della Chiesa, di cui la Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII rappresenta la svolta che apre una nuova pagina(11), chi si è posto il problema delle origini del principio di sussidiarietà ha potuto scrivere, come J. Höffner, che "quanto al contenuto, si tratta di un principio di antichissima sapienza umana"(12). Höffner, a partire dal libro dell’Esodo, cita, in una breve carrellata, alcuni degli autori nei cui scritti è possibile rintracciare riferimenti al principio di sussidiarietà nei termini di un riconoscimento delle pluralità e della diversità di cui bisogna tener conto e che bisogna armonizzare, non soffocare. Tra questi ritroviamo Tommaso d’Aquino quando si richiama ad Aristotele, e Dante nel De Monarchia.(13)
In una trattazione più ampia e specificatamente dedicata al principio di sussidiarietà, C. Millon-Delsol(14), studiosa di filosofia politica, ribadendo che la Chiesa cattolica "ne inventa il vocabolo ma non l’idea"(15), scrive:
"Benché nata nel XIX secolo con la denominazione attuale, l’idea di sussidiarietà nasce alle origini del pensiero politico europeo. Trova il proprio fondamento nello spirito greco, nella filosofia cristiana medievale e nella visione germanica della società"(16) e ancora:
"Il principio di sussidiarietà, anche se si applica concretamente nelle strutture moderne come la struttura federativa e presso delle nazioni oggi alquanto prive di ideali religiosi, non può rinnegare le sue radici tomiste"(17)
Scritta per celebrare i quarant’anni dalla Rerum Novarum, la Quadragesimo Anno mostrando il fallimento sia del capitalismo sia del socialismo e aggiornando il pensiero leonino, ribadisce, in maniera organica, l’esistenza di una ‘terza via’(18) che tenga conto del carattere al tempo stesso individuale e sociale dell’uomo(19).
Elemento fondante di tale via è il principio di sussidiarietà il quale riconosce l’esistenza di diverse entità che, a partire dall’individuo, si identificano nei ‘corpi intermedi’ e nello Stato e che si trovano tra loro in relazione tale che, però, alle entità inferiori (per dimensione e struttura, non per dignità) non venga tolta la possibilità di svolgere quei compiti a cui possono adempiere "con le forze e l’industria propria"(20).
La formulazione di questo principio è, quindi, legata a una precisa visione dell’uomo e della società(21) ma anche alla situazione storica contingente che impone una riflessione dei rapporti tra Stato e società nella sfera economica.
E’ di immediata evidenza che questo principio, nato per regolare i rapporti tra lo Stato e le società inferiori nella sfera economica, venga per estensione applicato a tutte le forme associative, e in tutti i campi, nei confronti dell’individuo. All’individuo deve essere lasciata la più ampia sfera d’azione fin dove da solo raggiunge i suoi obiettivi. Ma "la società non è più in grado di sopravvivere quando ognuno persegue i propri interessi particolari"(22). Compito dello Stato è garantire la "pubblica e privata prosperità"(23). Quindi, sia nella Rerum Novarum che nella Quadragesimo Anno si attribuisce allo Stato il diritto di intervento sulla base della nozione di bene comune(24). Ma, con l’esplicita enunciazione del principio di sussidiarietà, la Quadragesimo Anno associa al diritto-dovere di intervento dello Stato il dovere di non ingerenza del medesimo. Nella stessa enunciazione troviamo la giustificazione e la limitazione dell’azione dello Stato (e, in generale di qualsiasi entità superiore) nei confronti dell’entità inferiore:
"perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera supplettiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle"(25)
Il principio di sussidiarietà è sempre stato affiancato ad espressioni quali ‘bene comune’ e ‘solidarietà’ e tutti i testi richiamati fin qui ne fanno riferimento e oggetto di analisi ogni qualvolta trattano di sussidiarietà.
Dopo la seconda Guerra Mondiale alcuni sociologi cristiani hanno tentato di sintetizzare nel termine sussidiarietà anche i concetti di bene comune e solidarietà(26). Ma le tre espressioni vanno tenute distinte. "Il principio di sussidiarietà presuppone quello di solidarietà e del bene comune, ma non si identifica con essi"(27).
Non vi è nulla di più adatto delle parole di Giovanni XXIII nella Mater et Magistra per definire ‘bene comune’ come:
"l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona"(28)
Esso non è un insieme di beni particolaristici e non si oppone ad essi ma li ingloba e li supera. La sua realizzazione comporta la possibilità per l’uomo, per ogni uomo, di realizzare liberamente i propri fini. Tutto ciò non in un’ottica egoistica ed individualistica ma sociale e solidale. Tutti devono partecipare alla realizzazione del bene legati, come sono, da un vincolo di interdipendenza.
L’uomo, secondo l’ormai famosa definizione di San Tommaso, è un essere sociale e questo vuol dire che nella realizzazione della socialità si ha la realizzazione del suo essere persona. Per far ciò è necessaria la collaborazione di tutti in maniera responsabile. Questo non significa che la società (o lo Stato) diventa il fine dell’agire umano. La società è un mezzo per la realizzazione dell’aspetto sociale dell’uomo e l’ambiente entro il quale si creano le condizioni per la sua libera espressione.
Ciò è espresso e si realizza attraverso il principio di solidarietà la cui applicazione prevede un comportamento responsabile e non egoistico secondo un vincolo di carità fra i singoli in quanto membri della stessa famiglia umana(29).
Questo principio esprime i legami e gli obblighi mutui vigenti tra società e singoli. Soltanto con la consapevolezza dell’interdipendenza si potrà avere consapevolezza della corresponsabilità della dignità umana. Se, esercitando la carità, che è lo strumento del principio di solidarietà, si porranno in essere le condizioni affinché gli altri, tutti fino agli estremi del mondo, abbiano la possibilità di raggiungere la realizzazione di sé, vorrà dire che per me vi sarà la possibilità e le condizioni per la realizzazione piena e totale.
L’impegno solidale per il bene altrui, sacrificando il bene particolaristico di oggi, è l’impegno alla realizzazione del sommo bene, del bene comune.
Il principio di sussidiarietà è strumentale a tutto ciò. Esso dà indicazioni sulla strada migliore da seguire nell’organizzazione sociale per attuare il principio di solidarietà nel cammino verso il bene comune. Esso implica l’intervento dell’entità superiore se l’entità inferiore non è in grado di realizzare i suoi obiettivi con le sue sole forze.(30)
Ma bisogna fare attenzione a non identificare la ‘sussidiarietà’ con la ‘supplenza’, i due termini vanno tenuti ben distinti. E questa distinzione è chiara in Giovanni Paolo II. Egli indica la "funzione di supplenza" una delle funzioni (nonché eventuale) che lo Stato può svolgere nell’esercitare il diritto di intervento(31), ma tale funzione non esaurisce il principio di sussidiarietà.(32)
Il termine ‘supplenza’ richiama l’idea di ‘sostituzione’: l’entità superiore interviene per adempiere ciò che l’entità inferiore non riesce a svolgere con le forze sue proprie, supplisce l’entità inferiore. Ma la supplenza è una modalità accidentale di esercizio della sussidiarietà, circoscritta a particolari circostanze: l’insufficienza dell’entità inferiore(33). Venute meno tali circostanze, l’entità inferiore deve poter riprendere il suo ruolo. L’entità superiore deve metterla nelle condizioni di farlo(34).
La sussidiarietà è molto più del semplice ‘agire al posto di’, che porta con sé i germi e i rischi dell’interventismo abusato, con grave pregiudizio della libertà dell’uomo in quanto singolo e in quanto associato(35). Essa implica sì l’idea di ‘aiuto’, ma di un aiuto anche e il più possibile indiretto. L’intervento dello Stato, però, non si intende ‘eventuale’ o ‘secondario’, lo Stato (l’entità superiore in genere) non interviene solo ‘all’occorrenza’. Esso ha compiti suoi propri che continua ad esercitare pur nella libertà di iniziativa e d’azione del singolo (o dell’entità inferiore in genere). Questi compiti non potrebbero altrimenti essere svolti da altri(36). Al limite, entrando nell’ottica "di un’organizzazione a gradi successivi e ad incastro"(37), tipica del principio di sussidiarietà, tali competenze potrebbero essere esercitate da un’entità superiore se fosse necessario, ma mai da un’entità inferiore. E’ per questo che il principio di sussidiarietà è stato anche definito come "metodo ascendente di decentralizzazione"(38), per cui l’entità inferiore delega alla superiore ciò che non riesce a fare da sé (invertendo la comune idea di decentralizzazione(39), ed è per questo che, in quest’ottica ascendente, potremmo dire che lo Stato ha una ‘competenza originaria’ (in quanto non delegata da nessuno ma, ipoteticamente, delegabile ad entità superiori) su tali funzioni.
Le funzioni su cui lo Stato ha tale competenza sono quelle di stimolo, promozione, organizzazione, supplenza, integrazione, controllo, garanzia di sicurezza e di giustizia, tutti compiti già individuati da Giovanni XXIII e ribaditi, da ultimo, da Giovanni Paolo II(40). Sono, quindi, funzioni essenziali ed insostituibili dello Stato "anche se i gruppi inferiori sono correttamente organizzati e adempiono la loro propria missione"(41). Sono i pre-requisiti, consentono di creare le condizioni, per l’instaurazione di una società basata sulla libera proliferazione dei ‘corpi intermedi’ attraverso cui è poi possibile la piena realizzazione dell’essere persona(42).
‘Corpi intermedi’, ‘società inferiori’, ‘comunità inferiori’, ‘gruppi sociali’, ‘organismi intermedi’, ‘unità sussidiarie’: sono tutte espressioni che ricorrono infallibilmente accanto al termine ‘sussidiarietà; essi sono la logica conseguenza di una visione pluralista della società(43).
A tal proposito si parla anche di ‘dottrina delle società intermedie’(44) o di ‘teoria dei corpi intermedi’(45) ed è direttamente collegata all’idea di socialità dell’uomo, alla natura sociale dell’uomo, per cui l’associarsi, lo stare in gruppo, è un dato antropologicamente assodato(46) e ha lo scopo di soddisfare bisogni a diversi livelli di complessità.(47)
Le società (intese come raggruppamenti di individui più o meno organizzati per un fine comune)(48) preesistono allo Stato ed è perciò che L. Lorenzetti scrive che la teoria dei corpi intermedi in termini antistatalisti ("per rivendicare privilegi, arrogarsi competenze, in contrapposizione col potere statale") è da rivedere:
"La logica da seguire non è quella della difesa di fronte allo stato, quanto piuttosto della costruzione di uno stato come luogo direttivo e unificatore dove il particolare e gli interessi legittimi dei gruppi si aprano obbligatoriamente al bene di tutta la comunità"(49);
"la ragione portante del pluralismo non è l’affermazione astratta di un principio di libertà e tanto meno l’affermazione di un potere di fronte ad un altro potere, ma la coscienza di un migliore servizio all’uomo"(50).
Scrive Papa Giovanni Paolo II:
"Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso"(51).
In quest’ottica lo Stato, ci dice E. Chiavacci:
"vale solo come gradino necessario per l’estensione della carità a raggi sempre più ampi. […] Lo stato è, e deve comprendersi come un momento o un modo contingente di essere della società civile"(52).
Stato, corpi intermedi, individui hanno la stessa dignità e diritto ad esistere e non esauriscono i modi in cui si può svolgere la vita associata per il raggiungimento del bene comune(53).
Nel principio di sussidiarietà è evidente la compresenza di diversi elementi, tra loro opposti che riescono a convivere nella stessa enunciazione.
Si tratta del diritto-dovere dello Stato di intervenire nello svolgersi della vita societaria del singolo in quanto tale e/o in quanto associato.
E’ un diritto in virtù di quelle che qui sono state chiamate competenze originarie. E’ un dovere alla luce del principio di solidarietà quando l’intervento indiretto non è sufficiente a garantire il cammino verso il bene comune con grave pregiudizio della dignità umana(54).
Ma si tratta anche, egualmente e contemporaneamente, del dovere di non intervenire nel momento in cui l’entità inferiore o quella ad essa più prossima trova soluzioni adatte e non pregiudizievoli per il bene comune in virtù della libertà d’autonomia(55).
Lo Stato trova nel principio di sussidiarietà la legittimazione e il limite al suo potere di intervento.
Riguardando alla storia del principio di sussidiarietà e alle circostanze storiche nelle quali la sua organica enunciazione si è andata formando, appare evidente l’evoluzione, e i motivi di tale evoluzione, del contenuto di questo principio. Esso nasce in un contesto liberista come esigenza di responsabilizzare l’autorità statale nei confronti dei più deboli e dei più poveri (il riferimento è a Ketteler per il quale i corpi intermedi sono posti come garanzia dagli abusi) e si sviluppa in un contesto che ha visto i pericoli dell’interventismo statale e gli eccessi del comunismo. Il principio di sussidiarietà diviene così "il principio difensivo del singolo di fronte al potere politico"(56). Dagli anni ’70 in poi il principio di sussidiarietà subisce un ripensamento alla luce della mondializzazione dei problemi, della consapevolezza dell’accresciuta interdipendenza, della crisi delle democrazie occidentali e delle disfunzioni dello stato assistenziale.
La crisi del concetto di Stato va vista, quindi, come esigenza di rivisitazione del suo ruolo e delle sue competenze e, in un’epoca di spinte autonomiste all’interno e spinte federative all’esterno dello Stato stesso, che vede messo in pericolo il tradizionale concetto di sovranità abituato com’era all’idea di doverlo difendere da tutto e tutti e che si trova ad affrontare anche i pericoli della globalizzazione e i processi di frammentazione(57), il principio di sussidiarietà si pone come principio organizzativo universalmente applicabile per le sue caratteristiche di flessibilità e dinamicità.
Occorre precisare che durante tutta la trattazione si sono utilizzati pressoché indifferentemente i termini di Stato, entità superiore, società.
Il motivo sta nel presupposto dal quale parte chi scrive e cioè che il principio di sussidiarietà è, si ribadisce, un principio organizzativo sia sociale che politico e la sua applicazione può avere carattere universale. Come abbiamo avuto modo già di accennare, lo Stato è solo un tassello di un cammino verso una pacifica organizzazione mondiale(58).
2. Il dibattito in Italia.
Il dibattito relativo alla crisi dello Stato sociale, al centralismo, all’inefficienza uniti alle spinte secessioniste del Nord e alle spinte integrative dell’Europa, ha come filo conduttore, in Italia, il costante riconoscimento della necessità della riforma della II Parte della Costituzione presentata come soluzione di tutti i mali della nostra nazione.
Tra i temi trattati, il dibattito che ne è seguito si è acceso sull’art. 56 del testo licenziato dalla Bicamerale volto ad introdurre il principio di sussidiarietà nel testo costituzionale.
Nell’arco di un paio d’anni si susseguono convegni, interventi, dibattiti in varie sedi e ci si chiede cosa sia, a cosa serva, quali conseguenze possa portare con sé l’introduzione di questo principio nel nostro sistema istituzionale(59).
Quel che risulta chiara è l’identificazione di due dimensioni, di una duplice valenza, del principio di sussidiarietà. Si tratta della sussidiarietà in senso verticale relativa all’organizzazione delle competenze tra enti pubblici locali e Stato e la sussidiarietà in senso orizzontale relativa ai rapporti tra pubblici poteri e autonomie private(60).
Mentre c’è chi ritiene che l’articolo licenziato dalla Bicamerale introduca entrambe le dimensioni del principio di sussidiarietà, altri sostengono che esso si riferisca alla sola dimensione verticale, tralasciando quella orizzontale, quella che garantirebbe il riconoscimento dell’autonomia privata(61).
Benché il fallimento della Bicamerale abbia rimandato la questione relativa all’introduzione di tale articolo, resta il fatto che la vaghezza dei termini usati e, in certi casi, l’intento di strumentalizzare tale vaghezza, pone l’osservatore di fronte al contrapporsi di interpretazioni diverse, addirittura opposte.
Non si tratta, però, di riconoscere le due dimensioni del principio di sussidiarietà che, peraltro, già alcuni hanno notato siano difficili da scindere "perché, nell’applicazione concreta, le interferenze tra sussidiarietà orizzontale e verticale sono molte"(62), qui si vuole riaffermare l’originaria e naturale unità del principio. Esso non ha aspetti, non ha dimensioni ed esprime un preciso disegno politico e sociale fondato sull’armonia.
3. In Europa.
La storia dell’Unione Europea, invece, sembra ormai definitivamente improntata al principio di sussidiarietà. Il dibattito collegato a tale principio è giunto ad una fase matura in ragione del fatto che di esso se ne ritrova traccia già a partire dagli anni 80.
In sede di elaborazione del Trattato di Amsterdam, è stato approvato un ‘Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e di proporzionalità’ il quale completa il contenuto dell’art. 5 del Trattato CE formalizzando e recependo integralmente le conclusioni del Consiglio Europeo di Birmingham del 16 ottobre 1992 e quelle del Consiglio Europeo di Edimburgo dell’11 e 12 dicembre 1992(63).
Il problema del principio di sussidiarietà, nonostante l’accordo sui criteri-guida oramai ufficialmente in vigore, resta quello della giustificazione teorica e dell’interpretazione di un principio senza dubbio dinamico ma anche fortemente problematico. Tali interpretazioni possono sinteticamente definirsi come pro-Unione o pro-Stati a seconda della valenza positiva o negativa riconosciuta all’intervento comunitario.
La soluzione adottata dal Protocollo sembra quella di un "criterio neutro per la ripartizione del potere d’agire tra i vari livelli di governo, sul rispetto del quale vigilano le istituzioni comunitarie"(64).
Ciò che ne emerge, però, è un principio di sussidiarietà volto a considerare e a mantenere l’azione comunitaria come secondaria rispetto all’azione dei singoli Stati. Quell’accezione di neutralità precedentemente evidenziata sembrerebbe scemare nei successivi paragrafi del testo. In realtà, quanto descritto non sembra dare adito a nessun tentativo di comprimere o ampliare le competenze dell’uno o dell’altro attore. Quella che ne viene fuori è certamente un’idea di elastico applicata all’azione comunitaria.
Senonché, l’impressione è che venga trattato il solo aspetto relativo al dovere di non-ingerenza, insito nel principio di sussidiarietà, accompagnato da una concezione di intervento secondario con funzione di supplenza tralasciando quel diritto-dovere di intervento caratterizzato da azioni di stimolo, coordinamento, promozione, organizzazione, integrazione, controllo e garanzia di sicurezza che abbiamo visto essere parte integrante della corretta applicazione del principio di sussidiarietà nella sua accezione originaria e che ricade in capo all’entità superiore rispetto alle inferiori.
Il fatto vero è che il principio di sussidiarietà è inserito in un articolo (l’art. 5 del Trattato CE) complesso che annovera altri due principi che, a ben vedere, devono inevitabilmente integrarsi con esso in una visione d’insieme.
Il 1° comma sancisce il principio delle attribuzioni di competenze: l’ambito nel quale la Comunità può esercitare i propri poteri è delimitato dalle competenze conferite e dagli obiettivi assegnati dai Trattati. Sono queste le competenze esclusive.
Il 2° comma sancisce il principio di sussidiarietà mentre il 3° comma esprime il cosiddetto principio di proporzionalità talmente correlato a quello di sussidiarietà che il protocollo sull’applicazione, più volte citato, li considera congiuntamente. Tale comma recita:
"L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato".
Nel suo insieme l’art.5 contiene tutti gli elementi del principio di sussidiarietà nel suo senso originario poiché tra le competenze assegnate vi sono quegli interventi di coordinamento, di stimolo, di integrazione, e così via, di cui dicevamo e che si concretizzano nelle varie politiche previste dal Trattato CE mentre il principio di proporzionalità in sé è già integrato con quello di sussidiarietà, nel senso (parziale) ivi accolto, a motivo della regolamentazione congiunta della loro applicazione e rappresenta l’aspetto limitativo del principio stesso.
4. Conclusioni.
L’etimologia della parola ‘sussidiarietà’, ricollegandosi al significato militare di truppe di riserva, sembra richiamare il concetto di ‘supplenza’. Ma, il nostro principio non è assolutamente riducibile o identificabile con tale termine nel senso di sostituzione, del ‘non agire fino a quando’ in quanto l’entità superiore ha compiti suoi propri che è tenuta ad adempiere a prescindere dalla sufficienza dell’azione dell’entità inferiore.
Forse l’adozione del termine ‘sussidiarietà’ è riconducibile e giustificabile nel più generico significato del termine subsidium ossia ‘aiuto’, sostegno’, ‘rimedio’(65). In questo caso, però, non dovrebbe abbracciarsi uno solo di questi significati ma tutti e tre assieme per avvicinarsi ad un’idea un po’ più completa di ciò che per sussidiarietà si deve intendere.
L’applicazione della sussidiarietà non è riducibile a un mero processo di decentramento. Anche in questo caso i due termini sono concettualmente lontani e l’esperienza europea ci spiega che non sono identificabili: l’entità superiore per decentrare, delegare competenze, deve prima esercitarle e l’Unione, in quanto cantiere aperto, è lontana da questa immagine. Eppure il principio di sussidiarietà è sancito, il suo esercizio è regolamentato e il suo rispetto soggetto a vigilanza.
Inoltre, decentrare significa decidere quali, come e in che misura, assegnare competenze all’entità inferiore. Parafrasando, il decentramento dà l’idea di competenze octroyées. Ma come si ‘concede’ si può anche ‘negare’: una volta ‘accordato’ l’esercizio di una funzione, l’entità superiore è ugualmente legittimata a togliere tali competenze riuscendo sempre ad addurre motivazioni plausibili forte del ruolo delegante in quanto, in questo disegno, la titolarità delle competenze è in capo all’entità superiore che le gestisce con carattere di imperium. "Ogni forma di decentramento, - spiegava Gaspare Ambrosini - anche se è esteso, implica sempre l’idea di delegazione, di trasferimento di poteri dal centro ad enti od istituti della periferia o comunque ad entità non statali, ed implica conseguentemente la facoltà di revocarli"(66).
Tutto ciò contraddice visibilmente quanto stabilisce il principio di sussidiarietà originariamente inteso.
Occorre considerare, inoltre, che parlare esclusivamente di decentramento in tema di sussidiarietà significa limitarsi all’aspetto politico-amministrativo della convivenza umana mentre la sussidiarietà mette in gioco anche e innanzitutto la società civile in un disegno organizzativo che vede i due aspetti imprescindibili. Non a caso la definizione contenuta nella Quadragesimo Anno parla genericamente di "comunità", "maggiore e più alta società" o "minori e inferiori comunità"(67) senza distinguere tra istituzioni politiche e organizzazioni sociali ma è pacifico che si riferisca inequivocabilmente anche, e soprattutto, allo Stato.
A conferma di ciò possiamo leggere, sempre nella Quadragesimo Anno, qualche rigo dopo:
"Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento […] allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità"(68).
L’entità politico-istituzionale dovrebbe ‘rimettere’ anche ad entità tipiche della società civile. E non ‘concedere’ o ‘delegare’ ma ‘rimettere’ nel senso che ‘trasferisce’ ma, può dirsi anche, nel senso che ‘restituisce’. La situazione storico-politica del tempo e la forma prescrittiva della frase in questione sembrano accreditare quest’ultima considerazione.
La ‘sussidiarietà’ non è un concetto di diritto amministrativo, è autonoma rispetto al ‘decentramento’ e, semmai, ne usa le implicazioni giuridiche per giungere alla realizzazione del suo disegno in campo istituzionale. Per implicazioni giuridiche deve intendersi il processo normativo che viene ad instaurarsi per la realizzazione del decentramento amministrativo, genericamente inteso, e che, in una struttura fortemente accentrata, sarebbe un passo verso la realizzazione del progetto che la sussidiarietà presuppone ed implica.
Il termine ‘sussidiarietà’ è ingannevole rispetto al suo contenuto perché pone al centro dell’attenzione l’entità superiore, ciò che può e non può fare inducendo a dibattere perciò sui suoi diritti.
Al contrario, lo scopo è quello di valorizzare e porre al centro la persona, e l’entità inferiore, come soggetto responsabile e creativo che, in quanto singolo e in quanto associato, contribuisce alla realizzazione del bene comune. E’ questo il disegno costruito dalla sussidiarietà.
Proprio per porre fine all’ambiguità terminologica ed eliminare ogni rischio di inganno Eugenio Guccione conia una nuova espressione:
"A tal riguardo saremmo propensi a chiamare principio di autoefficienza questo principio di sussidiarietà. […] "Autoefficienza", a nostro avviso, dice di più. E’ un nome più chiaro, più evidente. Si lascia cogliere subito nella sua essenza"(69).
"Con il termine "autoefficienza", fermo restando il dovere degli enti superiori (e, fra tutti, lo Stato) a "sussidiare" gli inferiori, si vuole mettere maggiormente in rilievo il diritto di ciascun ente ad autogestirsi nei limiti delle proprie risorse e possibilità"(70).
Come il termine ‘sussidiarietà’, quello di ‘autoefficienza’ pone l’accento sui soggetti protagonisti del principio stesso. Solo che, in questo secondo caso, il nuovo nome ha il pregio di riaffermare la centralità e il protagonismo dell’ente inferiore.
Posto che la difficoltà sta proprio nell’identificare un termine che sia sintesi della complessa realtà che il principio costruisce e descrive, si potrebbe proporre un’ipotesi interpretativa di tale nuova denominazione che, estremizzando, si mostri soggetta ad un’applicazione dalle conseguenze anche questa volta distorte del principio stesso. Gli enti inferiori (si può dire gli enti in genere) hanno la tendenza a non riconoscere i "limiti delle proprie risorse e possibilità". Vi è il rischio che l’entità inferiore tenda a non accettare l’aiuto sussidiario non riconoscendo la sua insufficienza con evidenti pericoli di inefficienza della sua azione e conseguenze negative sul raggiungimento del bene comune.
Accogliendo tale nuova denominazione, chi si ponesse ad interpretare il principio sulla base di questa nuova sintetica definizione terminologica (così come è stato possibile fare per ‘sussidiarietà’) potrebbe ravvisarvi un diritto all’autoefficienza che, inteso come assoluto, porterebbe con sé i rischi di un suo esercizio egoistico (come diritto-pretesa ad essere autoefficiente) da parte di entità insofferenti a qualsiasi valutazione di efficienza promossa dall’esterno che vivrebbero come ingerenza. Estremizzando, in un’evoluzione negativa e non auspicabile, viene richiamata l’immagine di una struttura atomizzata, non comunicante, in cui ogni ente potrebbe chiudersi a riccio in un atteggiamento difensivo, non solidale, anziché aprirsi al pluralismo creativo. Sarebbe un’autoefficienza che si traduce in autolimitazione per propria volontà di essere onnicomprensiva. E’, comunque, un’ipotesi che dovrebbe sottoporsi al vaglio di interpretazioni e riflessioni più approfondite.
In una prospettiva diversa, c’è chi, prendendo direttamente spunto dal naturale ambito politico-istituzionale in cui si ritrova meglio realizzata l’applicazione di tale principio (la federazione) ha parlato di ‘principio federativo’.
È il caso di Benjamin Häring che, nel suo già citato Liberi e fedeli in Cristo, intitola un suo paragrafo: Il principio federativo (principio di sussidiarietà) come risposta alla necessità di un’autorità mondiale(71).
Sottolineando che in questo autore tale principio è visto in una più che condivisibile prospettiva mondiale e cosmopolita(72) (che è intrinseca al principio stesso e che la Dottrina Sociale della Chiesa non ha mancato mai di sottolineare)(73) si nota come egli ritiene il principio di sussidiarietà il principio della struttura federativa atta, quest’ultima, ad organizzare l’intera famiglia umana.
Ma anche per Eugenio Guccione:
"federalismo e principio di sussidiarietà procedono di pari passo. Anzi si può dire che costituiscono un binomio, in quanto una federazione non basata sul principio di sussidiarietà sarebbe un organismo senza vita e il principio di sussidiarietà al di fuori di un sistema federale non avrebbe efficacia"(74).
Senonché il richiamo diretto al federalismo rischia di non trovare consensi fra quanti vedono in questa espressione il concretizzarsi di una struttura che divide anziché unire (si pensi a Mazzini).
La denominazione ‘federativo’ richiama immagini e strutture organizzative non accettabili neanche da parte di chi vede la sovranità nazionale in campo internazionale come un bene intangibile e, in questo caso, l’applicazione e lo stesso riconoscimento del principio potrebbero essere soggetti ad ostruzionismo e incontrerebbero non pochi ostacoli e difficoltà.
Infine, si nota che ‘federativo’ è un termine che pone l’accento sull’aspetto istituzionale richiamando alla mente un’organizzazione politica la cui preoccupazione è la divisione di competenze fra i diversi livelli della struttura federale. È ciò che accade al nostro principio in campo europeo o quando si tratta di decentramento: l’attenzione è rivolta a regolamentare quali competenze devono svolgere quali istituzioni. Invece, ribadiamo, il principio di sussidiarietà ingloba e tratta anche dell’organizzazione societaria, è un principio che riguarda l’organizzazione umana in genere.
La ricerca di una denominazione universalmente accettabile e, al contempo, rispettosa della sostanza del principio è impresa ardua.
Sarebbe possibile proporre di spostare l’attenzione sull’oggetto del principio e non sui soggetti e tentare di riflettere sul concetto di competenza.
Luigi Lorenzetti, trattando la voce Sussidiarietà nel Dizionario delle idee politiche, a un certo punto parla di "principio di competenza" come principio in base al quale l’autorità politica svolge il suo ruolo di rispettare e favorire la responsabilità delle persone e dei gruppi intermedi.(75)
La questione che sorge qui è la relazione tra diritto e competenza. I due concetti certo non coincidono. Sia l’entità superiore sia l’entità inferiore hanno il diritto ad esercitare determinate competenze. La distribuzione di tali competenze può variare in base ai luoghi e ai momenti storici proprio in virtù del principio in questione. In questa visione, però, vengono posti sullo stesso piano tutte le entità, non che non lo siano per dignità ma l’idea che viene richiamata è quella della competizione per l’accaparramento e l’esercizio di tali competenze quando, invece, la titolarità di tutte le competenze è in capo alla "persona" che le esercita in forma singola o associata e, in questo secondo caso, è come se ne delegasse l’esercizio all’entità di cui però fa parte o ne determina la costituzione (con la partecipazione attiva, con il voto…).
Si vuole dire che l’esercizio delle competenze da parte dei diversi enti di cui la persona fa parte non è altro che uno dei modi in cui la persona esercita i diritti di cui è titolare. Il disegno del nostro principio è l’armonioso esercizio delle competenze dei diversi enti ai vari livelli in un’ottica collaborativa di corresponsabilità creativa. Spiegare cosa significhi concretamente questo è la maniera di giungere ad una denominazione che possa dirsi più vicina delle altre al senso di tale principio.
Ispirandoci a un testo scritto da Giuseppe Barbaccia e Francesco Conigliaro, La comunità politica(76), possiamo dire che
"la base portante della nostra teoria è il termine-concetto-realtà ‘persona’ come struttura"(77). "Il concetto di ‘persona’ risponde ad un’istanza sintetica e non analitica […] ed è l’unico che possa essere applicato all’essere umano, percepibile solo come ‘sistema’ di totalità e non confrontabile se non con se stesso"(78).
Il concetto di persona porta con sé i concetti corollari di "sussistenza, unità, identità, finitezza, inseità, perseità, automeditazione, razionalità, libertà, finalità, creatività, responsabilità, relazione"(79).
Ed è questo il protagonista del nostro principio che, ponendolo al centro del suo disegno, ne fa il soggetto attivo e creativo della sua applicazione.
Quello che si realizzerebbe è un disegno di organizzazione umana non gerarchizzata in cui la persona può realizzarsi ai vari livelli e nelle più diverse forme in una solidale responsabilità creativa dove i doveri e le responsabilità verso gli altri si coniugano con la creativa realizzazione di sé in un tutto armonioso.
Tutto ciò sembra sintetizzarsi nel nostro principio che, più che un principio regolativo, appare come il disegno di un modus vivendi, di un’organizzazione umana che rispetta e valorizza le diversità, in cui ciascuno (in quanto "sistema") si realizza in diversi ambiti decisionali o meno.
Ed ecco che le istituzioni politiche (strettamente intese) e chi ci è prossimo non vengono più sentite come "altro" ma come "noi" innescando processi di partecipazione responsabile e solidale.
Tutto questo si realizza non in un processo deterministico ma in un divenire volontaristico attraverso la diffusione di valori, di principi posti alla base di strutture democratiche pluralistiche e plurali che garantiscano il confronto, il dialogo a tutti i livelli per la realizzazione della partecipazione responsabile e che garantiscano il libero formarsi di spazi di dialogo per la realizzazione della partecipazione creativa.
Concordando con Paolo Ferrari da Passano(80) per quanto attiene al rifiuto di un’impostazione del problema nei termini statici di una gerarchia di soggetti che riduca il nostro principio alla individuazione delle "precedenze" di intervento(81), specchio di uno schema lineare volto alla sola considerazione e soluzione del rapporto soggetto-bisogno, occorre spostare l’attenzione sul rapporto soggetto-soggetto, che precede il rapporto soggetto-bisogno(82), partendo da una impostazione tridimensionale del principio, "più rispettoso della complessità sociale"(83), che vede il contemporaneo intervento di tutti i soggetti in ruoli diversi nelle varie fasi di soddisfacimento del bisogno stesso: l’entità superiore non è assente nella fase di intervento dell’entità inferiore che è, in prima istanza, protagonista dell’azione; l’entità inferiore non sparisce nella fase di intervento dell’entità superiore ma è presente con un diverso ruolo(84) (non da protagonista dell’azione ma da compartecipe, per esempio, come membro in spazi di dialogo). In ogni stadio, ogni persona e ogni entità svolge il suo ruolo che, rispetto al bisogno, può modificarsi (non è, quindi, statico). In questa visione tridimensionale, si è di fronte ad una sinergia tra ruoli tutti contemporaneamente operanti in misura diversa nelle diverse circostanze.
Universalizzando, si tratta della compartecipazione di tutti nei diversi ruoli, in misura diversa, per la realizzazione del bene comune come bisogno mondiale.
Ciò a cui si pensa è una comunità mondiale in cui la persona è libera di scegliere di realizzarsi in diversi ambiti creando tali ambiti in comunione dialogale con gli altri. In questa maniera ha la possibilità di soddisfare le sue esigenze, da quelle semplici a quelle complesse e, nel recupero dei valori di solidarietà e carità, si sentirà responsabile verso l’altro percepito come "noi" partecipando così alla realizzazione del bene comune.
Spariscono così le ambiguità che lasciano il posto ad un progetto realizzabile perché dinamico e universale in quanto fondato sulla persona.
Il nostro principio, così inteso, ci restituisce l’immagine di un mondo pacificato in cui ciascun individuo crea e partecipa a diverse entità comunionali che si incastrano ed hanno diversa dimensione tenuto conto delle esigenze per le quali vengono create. La partecipazione potrà essere diretta o per rappresentanza, ma anche in questo caso, la persona avrà sempre la possibilità di rappresentare i suoi interessi in quanto singolo o in quanto associato partecipando della vita democratica delle istituzioni politiche, da quelle locali a quelle mondiali.
Se l’ONU fosse un’autorità mondiale democratica per il governo delle questioni di carattere mondiale, nella costruzione del principio di sussidiarietà si dovrebbero avere istituzioni che, oltre a rappresentare i governi nazionali, rappresentassero i popoli e realizzassero canali di dialogo e partecipazione per le organizzazioni di categoria e per quanti fossero accomunati da un interesse da tutelare. Le decisioni verrebbero sempre prese di concerto con la più ampia consultazione e il più ampio accordo. Le procedure potrebbero non risultare snelle ma gli argomenti trattati sarebbero di carattere mondiale necessitando, quindi, del più ampio accordo.
Per questioni circoscritte, che non riguardano la globalità dei popoli, l’ente interessato sarebbe quell’istituzione regionale creata sulla base di affinità storiche, geografiche o economiche. Ci si può riferire al già consolidato esempio degli Stati Uniti d’America o alla costituenda Unione Europea che, intervenendo per le sole questioni di interesse comune, garantirebbe la rappresentanza dei governi nazionali nel Consiglio e dei popoli nel Parlamento europeo. L’Unione sembra strutturata anche per la partecipazione delle rappresentanze locali nell’elaborazione della normativa comune con il Comitato delle Regioni a cui affiancare il confronto con le rappresentanze associative.
Lo stesso schema dovrebbe ovviamente realizzarsi a livello statale con un Parlamento che veda la rappresentanza dei popoli in una camera e degli enti locali in un’altra e un governo che operi di concerto coi governi locali che rappresentano e discutono le proprie problematiche insieme alle associazioni dei cittadini creando così ambiti di dialogo e di concertazione per la soluzione comune di tali problematiche. Ciascuna entità, conservando la sua specificità, la metterebbe al servizio degli altri in un reciproco arricchimento.
E’ così che, a livello comunale, il proliferare dell’associazionismo dovrebbe essere accompagnato dal diffondersi di canali e ambiti di confronto e dialogo in cui tali associazioni possano esprimersi per la soluzione delle problematiche e la realizzazione delle iniziative. Il clima partecipativo darebbe libero sfogo alla creatività e il sentirsi partecipe stimolerebbe la solidarietà in una società sostenuta dal ritrovato valore della dignità umana che, in quanto libera di esprimersi, innescherebbe un processo incrementale in cui la consapevolezza dell’individualità realizzabile nella comunionalità che si arricchisce delle diversità porterebbe alla pacifica convivenza che, a partire dalla famiglia, si espanderebbe nel mondo.
Così, dalla famiglia al mondo, tutti dovrebbero potere esercitare il loro diritto ad esprimersi, a partecipare al governo comune nelle istituzioni che loro stessi creano ai diversi livelli e attraverso le associazioni che volontariamente fondano e utilizzano per l’espressione della loro creatività in una costruzione a incastro nella quale, si ribadisce, la consapevolezza della diversità e la libera espressione di tutte le diversità, come eguale dignità alla partecipazione del governo comune, realizzerebbe quell’unità che sarebbe la pace mondiale.
Il principio di sussidiarietà, quindi, più che un principio è un progetto, è la sintesi di quel progetto che, per potersi realizzare, deve diventare prima "una realtà nella mente, nei cuori e nella volontà di tutti i popoli"(85).
NOTE:
(1) -Trattato che istituisce la Comunità Europea adottato a Roma il 25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958 e ratificato in Italia con L. n.1203/57.
(2) -A. Verilli - S. Minieri, L’integrazione europea dopo Maastricht, Napoli, Edizione Simoni, 1996, p.106.
(3) -Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 e ratificato dall’Italia con L. n.454/92. L’articolo introdotto dal Trattato di Maastricht era l’art. 3B divenuto art. 5 con il Trattato di Amsterdam, firmato il 17 giugno 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999, che all’art. 12 prevede la rinumerazione di tutti gli articoli sia del Trattato CE sia del Trattato sull’Unione Europea.
(4) J. Höffner, La Dottrina Sociale Cristiana, Roma, Paoline, 1986, p.39.
(5) -Cfr. L. Lorenzetti, Sussidiarietà, in E. Berti - G. Campanini (a cura di), Dizionario delle idee politiche, Roma, Editrice Ave, 1993, p.884 dove, tra l’altro, si legge: "Sembra sia stato coniato da G. Gundlach uno dei redattori della Quadragesimo Anno (1931)"; B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, III, Roma, Paoline, 1981, p. 351; G. Mongiardo, Il Pensiero Sociale della Chiesa, Roma Tipografia Poliglotta Vaticana, 1968, p. 552; G. Dalla Torre, Il principio di sussidiarietà e lo sviluppo della società italiana, Prolusione d’inaugurazione del IX Corso della Scuola Diocesana di formazione sociale e politica presso il centro Don Orione, Palermo, 1998. Papa Giovanni XXIII, Mater et Magistra (40), in F. Pierini (a cura di), Le Encicliche Sociali, Milano, Paoline, 1996, p. 210.
(6) -Papa Pio XI, Quadragesimo Anno (80), in F. Pierini (a cura di), Le Encicliche Sociali, Milano, Paoline, 1996, p. 124.
(7) -L. Lorenzetti, Etica Sociale Cristiana, in T. Goffi-G. Piana (a cura di), Corso di Morale, IV, Brescia, Queriniana, 1985.
(8) J. Höffner, op. cit., p. 40.
(9) -Cfr. C. Millon-Delsol, Lo Stato della Sussidiarietà, (trad. R. Sapienza), Gorle, Casa Editrice CEL, 1995, p. 16: "Senza dubbio è stato Monsignor Ketteler che l’ha enunciato per primo, alla fine del XIX secolo e Pio XI gli ha dato la forma attuale nella Quadragesimo Anno nel 1931".
(10) J. Höffner, op. cit., pp. 42-43.
(11) -Cfr. B. Sorge, Introduzione, in R. Baione (a cura di), Il Discorso Sociale della Chiesa da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Brescia, Queriniana, 1988, pp. I-XXV.
(12) J. Höffner, op. cit., p. 41.
(13) -Ivi, pp. 41-42. Cfr, anche E. Guccione, Dal Federalismo mancato al Regionalismo tradito, Torino, Giappichelli Editore, 1998 il quale, parlando di Gioacchino Ventura e di Luigi Sturzo, scrive che il principio di sussidiarietà "sebbene mancasse ancora una sicura definizione, di cui soltanto nel 1931 si occuperà Pio XI con la Quadragesimo Anno, tuttavia era implicito nei loro scritti ed era chiaramente deducibile da essi" (ivi, p. 11).
(14) C. Millon-Delsol, op. cit..
(15) Ivi, p. 15.
(16) Ivi, p. 17.
(17) -Ivi, p. 16. "La sussidiarietà rappresenta […] un’idea politica e sociale specificamente europea, saldamente legata alla nostra tradizione" (Ivi, p. 10).
(18) -Quadragesimo Anno (15), p. 87: "la sola via di una salutare restaurazione [è] la cristiana riforma dei costumi". Cfr. anche ivi, (143), p. 157. Contrario alla concezione di ‘terza via’ si dirà Papa Giovanni Paolo II nella SRS (41), p. 645: "La dottrina sociale della chiesa non è una ‘terza via’ tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. […] essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale".
(19) -Cfr. Ivi, p. 13 e L. Lorenzetti, Sussidiarietà, in E. Berti-G. Campanini (a cura di), op. cit., p. 884; sul concetto di terza via come immagine della società alternativa a quella individualista (individualismo filosofico) e quella organicistica, cfr. C. Millon-Delsol, op. cit., pp. 180-183.
(20) -Quadragesimo Anno (80), in F. Pierini, op. cit., p. 124.
(21) -Per una esposizione sintetica di tale visione cfr. J. Höffner, op. cit., pp. 33-39; cfr. anche C. Millon-Delsol, op. cit., pp. 31-47 per una esposizione dello sviluppo storico di tale visione passando dall’organicismo al personalismo.
(22) J. Höffner, op. cit., p. 38.
(23) Rerum Novarum (26); cfr. anche Quadragesimo Anno (25).
(24) -Cfr. J. Y. Calvez-J. Perrini, Chiesa e società economica, Milano, Centro Studi Sociali, 1964, p. 510.
(25) Quadragesimo Anno (80).
(26) Cfr. J. Höffner, op. cit., p. 40
(27) J. Höffner, op. cit., p. 40; cfr. anche L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 884.
(28) -MM (51), p. 214. Per un’altra definizione si veda Concilio Vaticano II, Gaudium et spes (74), p. 263: "il bene comune si concreta nell’insieme di quelle condizioni di vita sociale che consentono e facilitano agli esseri umani, alle famiglie e alle associazioni il conseguimento più pieno della loro perfezione". Sul concetto di bene comune come legittimazione dello Stato cfr. A. Passerin D’entreves, La dottrina dello Stato, Torino, Giappichelli Editore, 1967, pp. 313-326.
(29) -Cfr. Centesimun Annus (51), p. 759 laddove, in tema di esigenza di ‘corresponsabilità’ che deve abbracciare tutti gli uomini, si legge "Questa esigenza non si ferma ai confini della propria famiglia, e neppure della nazione e dello Stato, ma investe ordinatamente tutta l’umanità, sicché nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente alla sorte di un altro membro della famiglia umana".
(30) -Per quanto fin qui esposto circa la relazione tra i tre principi di sussidiarietà, bene comune e solidarietà e, conseguentemente, il concetto di socialità, cfr.: L. Lorenzetti, Etica…op. cit., pp. 70-72; J. Höffner, op. cit., pp. 35-38; E. Chiavacci, Principi di morale sociale, in Corso di Teologia Morale, Bologna, EDB, 1971, pp. 26-33; J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., pp. 196-198.
(31) -Centesimus Annus (48), p. 754, riportato alla p. 27 di questo capitolo.
(32) -Sul tema sussidiarietà-supplenza e compiti dello Stato cfr. J. Y. Calvez-J. Perrini, op. cit., pp. 195-196, 507-509, 512-513. Cfr. anche C. Millon-Delsol, op, cit., pp. 10-12
(33) -Cfr. ivi, p. 513. Per l’idea di insufficienza della società cfr C. Millon-Delsol, op. cit., che la pone alla base della sua riflessione sul principio di sussidiarietà, e in particolare il cap. I dove ricerca le radici del principio presso gli antichi greci e scrive: "l’idea di non ingerenza significa una ingerenza limitata all’utilità circoscritta dalle insufficienze della società" (p. 28).
(34) -"Qualora […] intervenga l’organizzazione superiore, lo scopo principale dovrebbe essere quello di permettere alla prima di riprendere il suo ruolo il più presto possibile" (L. Lorenzetti, Etica…op. cit., p.71). Cfr. anche, dello stesso autore, Sussidiarietà…op. cit., p. 886.
(35) -Giovanni Paolo II ci mette in guardia a tal proposito: "Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo" per impedire l’ampliamento dell’intervento statale "in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile" e, a tal proposito, si riferisce alle disfunzioni dello Stato assistenziale che provoca la deresponsabilizzazione della società. (Cfr. CA (48), pp. 754-755).
(36) -Pio XI definisce i compiti dell’autorità suprema (direzione, vigilanza…) come "le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle" (Quadragesimo Anno (81), cit.).
(37) -C. Millon-Delsol, op. cit., p. 129.
(38) L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 885.
(39) -Se, però, si sposta il centro dallo Stato all’uomo o, meglio, alla persona (in quanto essere individuale e sociale), ecco che il termine ‘ascendente’ appare superfluo.
(40) -Mater et Magistra (40), pp. 209-210; Centesimus Annus (48), pp. 753-756. Cfr. anche L. Lorenzetti, La società e l’uomo, in L. Lorenzetti (diretto da), Trattato di etica teologica, III, Bologna, EDB, 1981, p. 94.
(41) -J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., p. 513.
(42) -Cfr. E. Chiavacci, op. cit., p. 30.
(43) -Cfr., tra gli altri, G. Mattai, Morale Politica, Bologna, EDB, 1971, pp. 167-168, 182-184: "Nel linguaggio dei documenti ecclesiastici vengono chiamati corpi intermedi e dai giuristi Stato-comunità. […] Gli enti privati con le loro autonomie locali non possono essere soffocati da un eccessivo interventismo statale, ignaro del principio di sussidiarietà e della insostituibile preziosità delle iniziative private e del pluralismo associativo" (p. 183).
(44) -E. Chiavacci, op. cit., p. 27.
(45) -L. Lorenzetti, La società…op. cit., pp. 94-95.
(46) -Cfr., p. es., G. Costanzo, La costruzione dell’uomo (Elementi di antropologia culturale), Roma, Bulzoni Editore, 1970, pp. 27-28.
(47) -Cfr. E. Chiavacci, op. cit., pp. 27-28. Sul tema del pluralismo sociale come modo di rispondere liberamente nelle forme più varie alle esigenze della personalità umana e non come affermazione astratta di un principio di libertà né di un potere di fronte ad un altro potere cfr. L. Lorenzetti, Etica…op. cit., pp. 65-70.
(48) -"uno stesso uomo si trova in una serie di società globali di vario tipo e ampiezza, più o meno coordinate fra di loro" che si propongono "il mutuo aiuto generico, in tutte o in molte situazioni di bisogno" (E. Chiavacci, op. cit., p. 26).
(49) L. Lorenzetti, La società…op. cit., p. 95.
(50) L. Lorenzetti, Etica…op. cit., p. 69.
(51) Ca (48), p. 755.
(52) E. Chiavacci, op. cit., p. 29.
(53) -Cfr. G. Mattai, Morale Internazionale, in Corso di Teologia Morale, Bologna, EDB, 1972, p. 29: "Lo Stato […] non è né la prima né l’ultima forma di politicità; anzi esso rappresenta una specie di logos spermatikòs rispetto a quella più alta modalità della vita sociale e della storia che è la comunità definitiva universale".
(54) Cfr. J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., p. 509.
(55) Cfr. C. Millon-Delsol, op. cit., p. 14.
(56) E. Chiavacci, op. cit., p. 32.
(57) -I riferimenti sono agli Stati occidentali, alla loro cultura e alla loro storia. Per i Paesi in via di sviluppo, organizzazioni statali fragili, sovranità deboli o democrazie inesistenti, il discorso sullo stato sarebbe da rivedere ma non come un passaggio obbligato per il loro sviluppo anzi, per essi potrebbe essere vantaggiosa l’applicazione del principio di sussidiarietà come la si intenderà definire in questo lavoro senza dovere attendere che le loro organizzazioni politiche attraversino le fasi già attraversate dallo Stato occidentale. Sull’idea di organizzazioni politiche senza stato e sulla autonomia del concetto di potere politico rispetto a quello di Stato cfr. G. Pasquino, Introduzione, in G. Pasquino (a cura di), Manuale di scienza della politica, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 14 e 16-17. Cfr. anche A. Panebianco, Burocrazie pubbliche, in ivi, p. 393. Cfr. anche F. Attinà, La politica internazionale contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1989, pp.12-14 e 72-99 per una prospettiva sistemica della storia dello stato fino all’odierno sistema globale. Per il problema frammentazione/globalizzazione cfr. F. Attinà, Tendenze e problemi della globalizzazione e della frammentazione, in AA.VV., Unione Europea e Mediterraneo fra globalizzazione e frammentazione, Bari, Cacucci, 1996, pp. 11-29. Per una riflessione filosofico politica sul concetto di Stato e la sua giustificazione cfr. A. Passerin D’entreves, op. cit., in cui, al cap. III, viene analizzata la genesi del termine ‘Stato’.
(58) -Senza, con questo, cadere nell’evoluzionismo di Spencer e J. Novicow che nel libro La Fédération de l’Europe, Paris, Félix Alcan Editeur, 1901, scrive: "La fédération triomphera un jour, C’est inevitable. Mais quand luira ce jour? Voilà ce que nul mortel ne saurait dire" (p. 729). "La fédération poussera au cosmopolitisme" (p.327). "Par extensions successives, l’aire de la fédération européenne finira par s’étendre sur le globe entier" (p. 757).
(59) -A titolo di esempio si segnalano i cicli di seminari organizzati dall’Università LUISS Guido Carli su temi di carattere costituzionale, tenuti da un gruppo di costituzionalisti romani, i cui resoconti sono consultabili sul sito www.luiss.it/semcost. Il ciclo di seminari 1997/98 ha riguardato proprio l’analisi dei lavori della Bicamerale e il principio di sussidiarietà è stato oggetto specifico di due di questi: Sussidiarietà, autonomie territoriali e sociali del 14/11/1997 e Principio di sussidiarietà, poteri pubblici e autonomia privata del 05/12/1997.
(60) -Cfr. G. Dalla Torre, Il principio di sussidiarietà …op. cit., p.1; G. Vittadini, Un patto nuovo tra Stato e Società, estratto da "La Repubblica" del 26.04.98 e pubblicato sul sitowww.cuneo.net/sussidiarietà, G. Bressa, op. cit., p.1 e C. Mercuri-F. Politi (redatto da), Principio di sussidiarietà, poteri pubblici e autonomia privata, Seminario sulla revisione della Costituzione del 05.12.1997 pubblicato sul sito www.luiss.it/istituti/stugiu/semcost. Cfr. anche P. Ferrari Da Passano, Il principio di sussidiarietà, "La Civiltà Cattolica", II, 1998, pp. 544-546.
(61) -Cfr. A. Chiappetti e G. C. De Martin relatori al seminario Principio di sussidiarietà, poteri pubblici…op. cit., p. 8; G. Vittadini, op. cit., p. 2; P. L. Fornari, Sussidiarietà, associazioni in trincea, "Avvenire" del 01.12.1998, p. 4 : "Come ha scritto l’economista Stefano Zamagni la versione approvata dell’art. 56 recepisce la dimensione verticale della sussidiarietà. Ma nega quella orizzontale".
(62) -Resoconto dell’intervento di P. Ridola al seminario Principio di sussidiarietà …cit.. Cfr. anche P. Ferrari Da Passano, op. cit., p. 552: "le due dimensioni si implicano a vicenda. Secondo noi, se è comprensibile e giustificato tenere distinti i due aspetti, è altrettanto evidente che essi sono interdipendenti".
(63) -Cfr. A. Tizzano, Brevi considerazioni introduttive sul Trattato di Amsterdam, "La Comunità Internazionale", LII, 4/1997, p. 688.
(64) Ibidem.
(65) -Cfr. L. Castiglioli-S. Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Torino, Loescher, 1996, p. 1240.
(66) -Questa spiegazione venne data da Gaspare Ambrosini durante la commemorazione del 30° anniversario della prima seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana in un discorso nel quale egli ribadì la distinzione tra i concetti di ‘decentramento’ e ‘autonomia’. Quest’ultima comporta il riconoscimento alle regioni, a livello costituzionale, di poteri irrevocabili da parte del legislatore ordinario (brano riportato in E. Guccione, Dal Federalismo… op. cit., p. 24).
(67) Quadragesimo Anno (80), in op. cit.
(68) Ivi (81).
(69) E. Guccione, Dal Federalismo…op. cit., pp. 105-106.
(70) Ivi, p. 105, nota 3.
(71) B. Häring, op. cit., p. 481.
(72) -Ivi, p. 442: "Oggi il principio di sussidiarietà e la struttura federativa sono d’importanza vitale, proprio perché è necessario che si stabiliscano organizzazioni mondiali e si instauri una qualche forma di autorità mondiale".
(73) -Circa la concezione della comunità mondiale nella Dottrina Sociale della Chiesa cfr., tra gli altri, i già citati J. Höffner, op. cit., tutta la sezione V (La Comunità dei popoli), pp. 271 ss. e G. Mattai, Morale internazionale, cit., pp. 22-29.
(74) E. Guccione, Dal Federalismo…op. cit., p. 105.
(75) L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 885.
(76) G. Barcaccia-F. Conigliaro, La comunità politica, Palermo, Ila Palma, 1979.
(77) Ivi, p. 8.
(78) Ivi, p. 16.
(79) Ivi, p. 69
(80) Cfr. P. Ferrari Da Passano, op. cit., pp. 546-551.
(81) Cfr. ivi, pp.547-548.
(82) -Cfr. ivi, pp.544-546. "il dare la prevalenza al rapporto tra soggetti piuttosto che a quello con le cose spiega meglio come, per esempio, nella riflessione della dottrina sociale della Chiesa, il principio di sussidiarietà non sia ormai più considerato isolatamente ma sempre in relazione con l’altro – quasi un correttivo – della solidarietà. Quest’ultimo ha proprio lo scopo di ricordare i legami (appunto di solidarietà) che intercorrono tra i vari soggetti" (ivi, p. 546).
(83) Ivi, p. 548.
(84) Cfr. ivi, p. 549.
(85) B. Häring, op. cit., p. 482.
La smisurata fiducia che l’uomo ha riposto nella sua ragione (impegnata in una febbrile attività in vista dell’ambìto conseguimento di sempre nuovi e grandiosi risultati in ogni settore della realtà circostante), ha traghettato l’essere umano ad un grado di civiltà e perfezione inimmaginabili nelle età che hanno preceduto quella odierna. D’altro canto, oggi ognuno può percepire quanto le risultanze di un tale sviluppo abbiano conferito all’uomo dell’epoca tecnologica un illimitato dominio sul mondo naturale, che sotto le forme di una razionalità dominante in realtà traina l’umanità presente e futura verso conseguenze non interamente prevedibili e tanto meno agevolmente gestibili.
Da ciò deriva per l’uomo occidentale l’urgenza di doversi confrontare con una tumultuosa e crescente quantità di problemi: inquinamento, ecologia, sovrappopolazione, guerre, crimini di guerra, immigrazioni incontrollate da parte di coloro che si lasciano abbagliare dalla luce del benessere, secolarizzazione, narcisismo, relativizzazione delle culture, droga, rischio di catastrofi nucleari, eclissi del sacro, convivenza-tolleranza oppure conflittualità tra gli uomini.
Sotto questo profilo, ci sembra che i problemi summenzionati siano riassumibili in due aspetti principali. In primo luogo, il quesito dell’intercultura, suscitato dallo sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione dei processi economici. In secondo luogo, si tratterà di considerare in più ampio e ulteriore contesto gli effetti derivanti dalla eccessiva incidenza dei progressi scientifici e tecnologici sulla condizione umana e su quella dell’ambiente.
Pertanto, in questa seconda parte, si potrà constatare come la comprensione delle difficoltà di affrontare e gestire l’intercultura (determinate da una prospettiva troppo tradizionale, focalizzata esclusivamente su di una deontologia che risulta meramente predicativa) trovino un’apprezzabile soluzione nell’analisi che il filosofo Hans Jonas* ha formulato sulle ripercussioni dell’esagerato sviluppo della tecnica. Nel logico sviluppo di queste trattazioni cercheremo poi di seguire la prospettiva del filosofo tedesco, relativa alla definizione del concetto di etica della responsabilità, con particolare riguardo nei confronti delle diverse istanze culturali, e soprattutto delle generazioni future, anche alla luce di un coerente sistema didattico-educativo, nella famiglia e principalmente nello Stato.
1. Il problema dei processi interculturali nella società contemporanea. La razionalità verso l’alterità sociale come esperienza educativa della personalità.
L’analisi, sia pure superficiale, delle condizioni culturali delle società più avanzate sulla via del progresso economico-tecnologico pone immediatamente in risalto la necessità di un’interpretazione basata sulla categoria della complessità. La dimensione esistenziale dell’epoca tecnologica, quella dell’Homo faber, è solo in parte riconducibile al tradizionale contesto dell’Homo sapiens. Si tratta certamente anche qui di una società complessa, gradualmente strutturata dalle facoltà demiurgiche dell’uomo, ma adesso sempre più dominata da una febbrile ricerca di continuo progresso.
Sotto gli occhi di tutti c’è l’incessante sviluppo delle conoscenze in ogni ambito del sapere, l’organizzazione socio-politica ispirata ai principi di libertà e di pacifica convivenza, l’alto livello di produzioni economiche, l’effetto della comunicazione telematica che insieme a quello della crescita dei trasporti (soprattutto aerei), hanno permesso l’accorciarsi delle distanze planetarie da un punto di vista fisico-spaziale, oltreché psicologico-conoscitivo.
D’altra parte, tutto questo ha determinato per i diversi popoli, nazioni, stati ed etnie il dissolvimento non solo dei confini politici ma anche di quelli relativi alle proprie culture, ai propri costumi e ai propri linguaggi, con il risultato che la società complessa tende a caratterizzarsi come multiculturale e plurietnica, presentando come suo tratto peculiare la "compresenza, in una stessa area geografica, di persone o gruppi con radici etniche e culturali diverse"(1).
Questo incontro tra costumi, credenze e valori differenti può dar luogo a conflitti che convergono in conseguenze molto gravi, e tali da imporre l’urgente acquisizione di un’appropriata "mentalità interculturale"(2).
Ma in che modo e quando deve aver luogo l’assunzione del suddetto modo di ragionare? In età scolare, in età adulta? Sembrerebbe che una simile acquisizione debba avvenire in entrambi i periodi, visto che le novità della società contemporanea risultano scandite da un ritmo più rapido di quello assimilabile nell’arco di un’educazione meramente scolare. Allora, oggetto della formazione interculturale è l’uomo in quanto tale, e "perciò occorre ricercare un modello teoretico di pedagogia interculturale che dovrà essere sviluppato sia per l’educazione dei ragazzi nella scuola , sia per l’educazione degli adulti"(3).
Risulta chiaro quanto sia di vitale importanza, nella realizzazione del progetto di una società interculturale, la formazione in tale direzione non solo dei bambini e dei ragazzi ma anche degli adulti e dei genitori, in quanto i primi devono trovare sia negli adulti che nelle diverse istituzioni operanti nella società quei punti di riferimento essenziali per fondare la loro maturazione nel sunnominato senso.
Ma quanto detto non basta, poiché nuovi dubbi si presentano alla nostra mente spingendoci a riconoscere altri basilari quesiti. Intanto, che cos’è la pedagogia interculturale? Di cosa si occupa? Quale è il fine che si propone di realizzare?
Sulla base di quanto detto, dobbiamo convenire che "la pedagogia interculturale non va intesa come sistema pedagogico da aggiungere ai sistemi formativi tradizionali"(4), ma "è la pedagogia stessa, come disciplina rivolta a tutti gli uomini, che va intesa come interculturale"(5).
In tale contesto risulta molto importante non tralasciare di considerare il prefisso inter, giacché "indica la relazione, lo scambio, lo scontro, l’insieme dei flussi dinamici che caratterizzano gli incontri fra persone provenienti da culture diverse"(6). Questo fattore inter dunque si configura come una unificazione tra diverse culture che si stimolano reciprocamente, cosicché la pedagogia interculturale ha lo scopo di rendere manifesta "la scoperta dell’alterità come rapporto; è la realizzazione dei diritti dell’uomo; è la lotta contro tutte le forze di discriminazione"(7).
La pedagogia interculturale implica l’impegno a progettare una società nuova, più umana, intendendo per società la società globale, universale. Infatti, dato che l’individuo è in relazione con gli altri individui, suo dovere primario è quello di non cercare di esimersi dal prestare ascolto all’alterità, che costituisce per ogni uomo un altro se stesso anche se nel contempo è qualcosa di altro da sé.
L’individuo deve confrontarsi, rispettare i diritti degli altri individui. E pertanto nessuno può abbandonarsi all’egoistico rifiuto della diversità, contrapponendole la chiusura nel proprio io. Infatti, ciò che si presenta come diverso da noi non è sempre detto che ci sia di per sé contrario o ostile. Al contrario, può invece arricchire la nostra personalità. E non solo facendoci scoprire altri codici simbolici, altri valori propri di differenti culture, ma persino aiutandoci a scorgere quanto oggi abbiamo riposto nell’oblio a causa della frenesia della vita contemporanea. Proprio per questo "in ordine al nostro problema, si può dunque nominare l’alterità come categoria capace di costituire il fondamento della relazione interculturale"(8).
Solo agendo in tale prospettiva possiamo attendere alla costruzione di una società priva di confini. Una società in cui sono messi all’indice la discriminazione razziale, le guerre, le separazioni tra gli uomini. Una società in cui invece del conflitto e dell’antagonismo vengano promossi rapporti migliori e più durevoli, cioè trans-nazionali, trans-culturali, al di sopra delle singole individualità ed identità (9).
É qui in gioco la realizzazione di un’unità ecumenica, nella quale Dio creatore sia davvero l’unico Padre nostro, che benevolmente ci conduca a superare l’egoismo per diventare tutti con lui una sola cosa. Ma per giungere a tanto bisogna superare la fobia dell’estraneità in quanto è necessario comprendere che "le ripercussioni negative sulla comprensione ed accettazione reciproca sono da attribuirsi all’impreparazione al confronto interetnico che caratterizza un po’ tutte le culture"(10). Questo avviene per il fatto che tutto quello che si presenta come nuovo raramente viene recepito come qualcosa degno della necessaria attenzione, e meno ancora come "una risorsa da valorizzare", piuttosto che come "una minaccia ad equilibri consolidati"(11).
É invece opportuno porsi in atteggiamento di attesa nei confronti del diverso. Bisogna valorizzarne la diversità, ma soprattutto riconoscervi un riflesso di quel "mistero dell’essere" che si manifesta in ogni persona (12). Per cui la conoscenza di quanto ci appare come diverso va ricercata e conseguita non con un rapporto fondato sul dominio, ma sull’amore per l’alterità, sul rispetto delle peculiarità di ciascuno. Da qui la consapevolezza che una vera "pedagogia interculturale" si articola nei termini di un sostanziale rapporto interpersonale tra l’Io e il Tu, soprattutto quando il Tu è latore di "differenze accentuate"(13).
Non si deve mai scordare che dove l’Io non si apra autenticamente all’altro, non si istituisce un dialogo reale, ma dietro l’apparenza del dialogo, sotto la forma fittizia di uno scambio interattivo, in realtà si svolge un monologo con se stessi, nel quale l’altro è semplicemente ridotto ad uno specchio per l’esercizio narcisistico del proprio Io(14).
Un’altra tipologia di una tale disposizione sostanzialmente ostile risulta anche quando l’altro viene sentito come simile (in quanto appartenente alla medesima comunità, o comunque interessato al possesso dei medesimi beni) ma appunto per questo vi si vede un concorrente ed un antagonista, e pertanto lo si fa oggetto di diffidenza e di antagonismo(15).
Nella maggioranza dei casi, proprio nelle società più tecnologicamente evolute o economicamente opulente gli individui sono trincerati in se stessi, in un ripiegamento che è all’origine di molte conflittualità altrimenti inesistenti. E fra queste, l’incomprensione di quanto la presenza dell’altro possa essere l’occasione per condividere nuovi orizzonti di speranza. L’alterità è in ogni caso un termine su cui misurarsi, sia nella solitudine più disperante che nella più esaltante pienezza di potenzialità(16).
Ecco dunque la rilevanza dell’alterità, della diversità, per perfezionare la nostra stessa personalità, ciò che ci impone di doversi confrontare, riflettere e ripensare la nostra identità, il nostro stile di vita, le nostre credenze. Indubbiamente la scoperta del diverso implica prima di ogni altra cosa la messa in discussione di se stessi, il ridimensionamento di certe nostre ybris, delle nostre tracotanze, solo presuntuosamente indiscutibili. La considerazione in positivo del diverso da sé comporta l’allargamento di orizzonti spirituali e delle capacità di comprensione della complessità della realtà umana(17). Infatti l’alterità è parte di noi, e non una sorta di optional che possiamo accettare/acquisire solo se e in quanto lo vogliamo; solo se ed in quanto siamo intenzionati a sentirci moderni, o disponibili. "... Non è neppure qualcosa che possiamo/dobbiamo tollerare.... É invece una componente essenziale e necessaria del nostro esser-uomini e del nostro essere-individui"(18).
Dunque, nell’alterità troviamo l’origine del rapporto interpersonale senza cui non esisterebbe l’umanità intera. L’alterità va pertanto collocata al suo vero livello di fondamentale rilevanza per l’essere uomini. Qualcosa che deve andar oltre la mera curiosità dei sensi o della ragione, come oltre le finalità meramente scientifico-tecnologiche, economiche, potestative. La considerazione in positivo del valore etico-formativo che ha per noi la diversità di carattere, di valori, di modelli culturali, costituisce il preliminare, il preambolo per entrare nel tempio dell’alterità che si identifica con un irriducibile etico, con un mistero, un assoluto da rispettare e servire(19).
L’amicizia rappresenta a livello ottimale questo tipo di rapporto nei confronti dell’alterità(20). "... Sebbene l’amicizia racchiuda in se moltissimi e grandissimi vantaggi, essa supera di certo ogni cosa, perché fa risplendere le buone speranze per l’avvenire e non permette che gli animi si avviliscano e vengano meno. Chi osserva un vero amico, osserva come un’immagine di se stesso"(21).
D’altro canto, se il valore dell’uomo non risiede nell’isolamento egoistico o utilitaristico, tuttavia non è nemmeno compatibile con una sorta di annientamento dell’individualità, nella diluizione anonima e impersonale nella massa o in un’astratta dimensione strutturalistica della società o della politica(22).
Affinché vi sia un vero riconoscimento dell’alterità sociale, ci vuole un’individualità responsabile ed attiva. "Non è possibile l’Io senza il Tu e viceversa. I due termini, a modo di endiadi, sono inscindibili e l’uno è costitutivo dell’altro. Quindi, sul piano pratico il rapporto deve essere esente da manipolazioni, da violenze, da dominî, da ingiustizie, per poter giungere invece ad un incontro arricchente. La persona ritrova se stessa, nella reciprocità della giustizia, del rispetto, del dono e dell’amore. Il desiderio profondo dell’uomo espresso nel suo cammino esistenziale-filosofico, è un movimento ininterrotto verso l’altro da sé, in una ricerca continua, che trascende l’Io sino all’infinito"(23).
Tutto questo discorso, ci porta a riflettere sulla questione relativa alla tolleranza che senza dubbio si presenta strettamente connessa al problema dell’apertura nei confronti dell’altro, di ciò che è diverso da noi. Ed il problema della tolleranza è anzitutto un problema sociale e politico. Il tema della tolleranza si pone davvero quando interviene un conflitto tra opinioni, più o meno elaborate e sistemate in forma di opinioni collettive, tendenzialmente incompatibili tra di loro. Per cui la tolleranza si rivela nella disponibilità al riconoscimento reciproco delle rispettive diversità(24).
D’altro canto, la tolleranza per l’alterità non deve essere fondata sull’indulgenza, sul tornaconto, sulla debolezza, ma sul riconoscimento della pluralità dei diversi atteggiamenti filosofici, delle opinioni, delle convinzioni, delle azioni, dei costumi. In una parola, sulla necessità di conciliare nell’ambito di un medesimo ordine civile e politico le rispettive irriducibilità ed incompatibilità.
Una simile reciprocità di riconoscimenti riposa sulla legittimità delle differenze e, in ultima analisi, "sulla fede nella libertà come principio di esistenza dell’uomo, sotto le forme indefinitamente diverse che egli inventa attraverso le opere indefinitamente diverse che è capace di creare"(25).
Proprio perché la pari dignità delle persone umane è il fulcro di ogni vera socialità, il primo dovere dell’uomo responsabile è di rendersi disponibile nei confronti dell’altro se stesso che è l’alterità sociale. Ogni nostro simile è uguale a noi, ha i nostri stessi diritti, i nostri stessi doveri in ragione del fatto che tutti gli esseri in quanto umani sono liberi e uguali.
Per questi motivi non devono mai essere fatte discriminazioni relative al sesso, alla lingua, alla razza, alla religione, tutte comunque lesive della dignità della persona umana.
Aprirsi all’altro deve significare anche per l’uomo occidentale di ospitare chi è straniero, al quale si deve garantire la libertà di pensiero, di coscienza, di proprietà e di cittadinanza.
Pertanto vanno superati quei pregiudizi che inevitabilmente sfociano nell’emarginazione. Termine, questo, relativo ad una serie di diverse situazioni di svantaggio sociale, prodotte da indebite limitazioni alla partecipazione sociale, civile, politica e culturale di quanti ne sarebbero invece perfettamente capaci. Gli emarginati possono essere i soggetti appartenenti sia a minoranze linguistiche, religiose, politiche e nazionali, sia a categorie come gli anziani, gli emigrati, gli handicappati(26).
Inoltre, del pari incompatibile con la tolleranza ed il riconoscimento dell’alterità umana è il modo di ragionare e di agire in base a pregiudizi che ci inducano ad un contesto relazionale estremamente rarefatto, in cui cioè si è disposti ad accettare soltanto coloro che risultano culturalmente simili, e a rifiutare tutti coloro che risultino dissimili culturalmente(27).
In questa evenienza ci si ritrova nell’ottica dell’etnocentrismo, cioè in una concezione secondo cui il proprio gruppo viene considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto ad esso. Qui ogni gruppo ritiene che i propri costumi siano gli unici giusti ed è naturalmente portato a considerare gli altri con disprezzo. L’uomo animato da simili pregiudizi è colpito da una sorta di malattia sociale, tanto più insidiosa in quanto chi ne è affetto difficilmente riesce ad avvertirla. Sopravvalutando il patrimonio sociale in cui si è immersi, si finisce per entrare nel meccanismo di etichettazione del diverso e di stigmatizzazione delle altre culture. In tal modo si "categorizzano" le persone, si attribuisce loro pregiudizialmente una identità sociale, un ruolo ed un comportamento stereotipi(28).
Si arriva così all’estremo dell’utilizzazione di schemi classificatori preconcetti, per cui l’arrivo dello straniero viene vissuto come una minaccia all’ecosistema in cui viviamo e che faticosamente ci siamo costruiti, e di cui temiamo l’invasione. Si scatenano così i timori ancestrali che istintivamente proviamo per tutto quello che ci è estraneo(29).
In una sua fase estrema l’etnocentrismo diventa il carattere specifico della cultura occidentale, ed ormai si può parlare di eurocentrismo.
Il pregiudizio eurocentrico consiste nel considerare il modello di vita dell’Europa occidentale come il termine normativo fondamentale, come il culmine di tutto il processo storico evolutivo dell’umanità, per cui ogni altra cultura viene considerata solo come precultura, incultura o cultura, alla fin fine, del tutto apparente. In questo senso, questa sopravvalutazione eurocentrica impedisce di capire gli altri, e si costituisce come cultura autoconsapevole contro le altre. "É una cultura a parte, fiera della propria peculiarità, una peculiarità che non tarda a porsi come motivo e supporto di indimostrata superiorità"(30).
La pretesa superiorità della propria cultura ha legittimato in passato il dominio degli occidentali su ogni altra razza e nazione con cui venivano a contatto. Ne è risultato un radicale fraintendimento, per cui, ad esempio, gli europei non hanno compreso dei popoli amerindi altro che quello che corrispondeva in qualche misura alla cultura occidentale.
L’errore di questo modo di vedere si è concretato nel considerare quello occidentale il più alto livello di incivilimento, nel contempo classificando le altre culture come non produttive, statiche, inerti, mentre in realtà erano soltanto fondate su valori, simboli, miti e criteri differenti dai nostri(31). Da qui, poi, quell’atteggiamento di assoluta tolleranza che non è altro se non un riconoscimento meramente formale, a fronte di una totale indifferenza, quando non si accompagni addirittura alla pretesa di assimilazione culturale(32).
Un esempio degli effetti devianti di una simile pretesa si può oggi vedere (ben più che in precedenza, a motivo del fenomeno demografico) nel convincimento di una subalternità culturale degli immigrati, e della creduta necessità di un loro adeguamento agli standard di comportamento del gruppo etnico/culturale egemone(33).
Al contrario, il principale merito di un’educazione interculturale è di prefiggersi lo scopo di una convivenza che sia realmente costruttiva, tra individui differenti tra loro per lingua, cultura, valori(34). É questo è quanto indicavano filosofi e pedagogisti come Kant, Comenio, Pestalozzi, che si sono cimentati con la teorizzazione di questioni che oggi possiamo ricondurre alla dimensione interculturale.
Nel suo Progetto per una pace perpetua, Kant, nel 1795, proprio mentre più intenso era il conflitto fra le nazioni europee, delineava l’immagine dell’unica alternativa possibile ai disastri dell’epoca contemporanea in una federazione universale degli Stati, che avrebbe finalmente permesso la convivenza nel reciproco rispetto delle proprie individualità culturali ed esistenziali. Ma al tempo stesso Kant dimostrava quanto difficile fosse il compimento di un simile proposito, sia per la pretesa di assoluta indipendenza degli Stati, sia per la presenza di religioni differenti, sia infine per l’assenza di una lingua universale.
Emblematico, in riferimento a quest’ultimo aspetto, fu il disegno educativo pansofico di Comenio, cioè di una formazione aperta a tutti e valida universalmente, antefatto dell’attuale prospettiva educativa interculturale(35).
Un altro grande pedagogista, Pestalozzi, poneva invece l’accento sull’importanza di una formazione da realizzare per gradi, a partire dalla famiglia, poi attraverso la scuola, l’ambiente di lavoro, progressivamente da espandere a tutto il popolo, informandone lo Stato ed infine l’umanità intera.
In realtà, però, tutte queste teorie pedagogiche possono risultare solo un avvicinamento teorico al nucleo di un problema ben più ampio. Più esattamente, tali teorizzazioni possono rivelarsi solo come un mero antefatto logico-programmatico per cercare di affrontare e risolvere le complesse questioni del mondo contemporaneo, caratterizzato dall’esigenza di un confronto non antagonistico fra diverse etnie, culture, livelli di sviluppo. Ma anche questa fase preliminare di definizione del contesto ci impone problemi non del tutto risolti. Intanto, che c’è alla base della disordinata soprapposizione fra le culture? In sostanza, il crescente sviluppo tecnologico e quindi una costante trasformazione tecnologica che non riusciamo a controllare. Molti dei conflitti attuali sono innescati da errati criteri di produzione economica e di scambio, che interagendo con la diversità dei contesti culturali hanno determinato un problematico movimento di popolazioni, legittimate alla ricerca di migliori condizioni di esistenza. Si delinea dunque in tutta la sua drammatica impellenza la necessità di una tempestiva ed esauriente definizione concettuale e programmatica delle linee di intervento da seguire, se si vuole cercare di porre un argine a processi scientifico-tecnologici in parte fuori controllo, e tali da minacciare di compromettere l’eco-sistema del pianeta, l’equilibrio demografico e la stessa sopravvivenza dell’umanità.
2. La ricerca e la definizione di una nuova eticità dell’azione umana, appropriata alla dimensione della società tecnologica.
Il dibattito filosofico contemporaneo è sempre più incentrato sulle tematiche concernenti l’azione demiurgica, radicalmente innovativa, che l’uomo svolge con crescente intensità nei confronti della realtà che lo circonda. La speculazione filosofica contemporanea denuncia come correlata a questa dinamica della modificazione dell’ambiente l’eclissi nell’uomo contemporaneo di ogni senso del limite, la sopravvalutazione della propria ragione, ormai considerata infallibilmente orientata al conseguimento di ritrovati tecnologici che assicurino il benessere, quale che ne sia il costo, fosse anche quello della completa distruzione della natura e del genere umano.
Sotto questo profilo, lo sfruttamento illimitato delle ricchezze naturali risulta alla fine sinonimo di un’autodistruzione inconsapevole, quale è stata quella che nell’ultimo quarto di secolo ha visto una crescita esponenziale dei problemi legati all’incompatibilità tra lo sviluppo di una comunità mondiale sempre più legata alle tecnologie avanzate e l’impatto sia con culture più elementari, sia con gli stessi limiti dell’ambiente fisico del pianeta(36).
L’attuare sviluppo economico-tecnologico illimitato costringe inesorabilmente l’ecosistema verso l’impossibilità di riprodurre le basi biologiche per l’esistenza umana. Siamo ormai di fronte, pertanto, ad un pericoloso modo di gestire il nostro rapporto con la natura.
La difficoltà dell’uomo contemporaneo di intendere quanto stretto sia il legame con la natura è poi il risultato di una peculiare forma mentis, di una nozione di razionalità maturata nell’ambito della società industriale dei secoli XVIII-XX, ma fortemente persistente anche nell’odierna società post-industriale. Si tratta di una mentalità improntata anzitutto al riduzionismo meccanicistico proprio della fisica galileiano-newtoniana, per cui ci si immagina una natura sostanzialmente passiva, soggetta a leggi deterministiche, che possono essere conosciute completamente dall’uomo e quindi legittimamente oggetto di un suo indefinito potere di intervento(37).
Non è certamente qui in questione l’utilità della scienza e della tecnica, quanto i pericoli di una loro sopravvalutazione da parte dell’uomo contemporaneo. Una tale eventualità del fraintendimento del valore della scienza e della tecnica si ha quando, come oggi accade, l’uomo entra in relazione con le conquiste della scienza e ne dispone senza avere maturato un’adeguata coscienza e mentalità scientifica. E questo si è reso possibile a motivo della carenza di basi metafisiche nell’educazione, correlata ad un’esuberanza di prospettive radicalmente nuove ed inusitate(38).
Lo strapotere della tecnica narcotizza l’uomo portandolo a voler dominare e sfruttare la realtà e a chiudersi in se stessi vivendo il presente senza pensare a coloro che verranno in futuro. E questo nuovo sentimento della vita è una forma di narcisistico avvitamento del soggetto su se stesso, quale estremo rifugio di un’identità che non sa più aprirsi all’alterità(39).
Al livello più profondo questa narcisistica auto-contemplazione dell’uomo moderno nasce appunto dal traumatico distacco dal fondamento metafisico della vita, dalla presunzione dell’uomo di poter prescindere da Dio (40). Da questo rivoluzionario distacco dagli antichi fondamenti dell’esistenza si germina l’homo oeconomicus, il cui riflesso sociale-comportamentale è il possesso di notevoli mezzi finanziari, ostentati e motivo di riconosciuto primato(41).
Per inciso, qui l’homo oeconomicus si configurerebbe pertanto come l’estrema degenerazione dell’homo faber, che a sua volta risultava già un’estraneazione troppo recisa rispetto all’homo sapiens, archetipo di un misurato ed equilibrato intervento della nostra azione nella natura.
Per tornare al processo di radicale estraneazione dell’uomo dal suo vero contesto, alla base di questo distacco c’è in sostanza l’aspirazione irrazionale ad un dominio assoluto del mondo. Ecco quello che ha disorientato l’uomo, ponendolo poi in contrapposizione con la natura stessa, rendendolo artefice del più rapace sfruttamento (che risulta tale a confronto di ogni altra specie biologica, che non è mai riuscita a distruggerne così tante altre ed a mutare in modo irreparabile la situazione biologica del pianeta)(42).
Da qui si, inoltre, trae origine una crisi ecologica tale da poter essere commisurata solo ed unicamente come un’incombente minaccia di disastro planetario, antefatto di un vero e proprio biocidio(43). In questa prospettiva di una catastrofe tutt’altro che remota, di grande attualità risulta il richiamo di Jonas all’urgenza di responsabilizzarsi, iniziando un cammino esistenziale tale da garantire non solo per il presente, ma addirittura per i posteri, quindi nel futuro, il mantenimento dell’esistenza umana e quello della natura. Su questi argomenti si incentra la formazione della coscienza ecologica indispensabile alla nostra epoca, la progressiva acquisizione di un principio di responsabilità, di un’etica adatta alla civiltà tecnologica, capace cioè di "una reazione forte ai pericoli oggettivi che lo snaturamento scientifico dell’esperienza ha moltiplicato per l’umanità"(44).
Come è noto, il tema dei limiti agli eccessivi poteri dell’uomo tecnologico viene affrontato da Hans Jonas(45) nella fase matura della sua riflessione (con The Phenomenon of Life. Towards a Philosophical Biology, New York, Harper & Row, 1966) sui disastri della guerra, resi ancor più catastrofici dai potenti apparati tecnologici messi in campo.
Successivamente, Jonas focalizza ancor meglio la sua riflessione sulle problematiche concernenti la tecnologia e le conseguenze delle sue applicazioni. In un primo momento (come ricorda nel 1974, con Philosophical Essays. From Ancient Creed to Technological Man, Chigago, University Press), Jonas si era dimostrato favorevole allo sviluppo della tecnologia e della scienza, in quanto ritiene che sconfitto definitivamente il principale nemico dell’umanità, la guerra, l’uomo avrebbe potuto finalmente occuparsi di cose migliori. "Ricordo ancora in modo molto vivido una conversazione con Karl Jaspers, poco dopo l’esplosione delle prime bombe atomiche, in cui io accennai a quella che ritenevo una svolta che l’uso pacifico dell’energia atomica avrebbe determinato negli affari umani"(46).
In seguito Jonas aveva compreso che il potere tecnologico non è suscettibile solo di produrre benessere per l’umanità, ma oltre un certo limite può riuscire addirittura letale. "Gli anni ‘60 di questo nostro fatidico secolo hanno visto l’emergere della crisi più acuta, la crisi interna dell’ideale baconiano"(47). Ora gli appare chiaro che la pretesa di Bacone di un primato della scienza sulla filosofia e la sapienza si è progressivamente sviluppato in troppo possenti sfide lanciate dalla tecnologia alla natura, che pertanto necessitano adesso di un deciso intervento per essere circoscritte ed a loro volta dominate. Solo un’etica appropriata a questo scopo riequlibrativo doveva e poteva assumersi tale compito. Con tale constatazione si inaugurava la terza fase della riflessione teoretica di Jonas, in un finale approdo ad una "filosofia pratica", frutto di una sorta di shock in lui provocato da questa presa di coscienza delle "potenzialità distruttive della tecnica"(48).
Da qui l’opera intitolata Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologisache Zivilization (Frankfurt-am-Main, 1979) - tradotta in italiano nel 1990 con il titolo Il principio di responsabilità - che ha ormai assunto un posto centrale nel dibattito culturale contemporaneo, in quanto affronta da vicino i grandi fatti storici del nostro tempo(49).
Nella prefazione Jonas pone subito in risalto come la minaccia rappresentata dalla dimensione moderna della tecnica moderna, tale da coinvolgere sia il mondo fisico che la stessa natura umana, ci impongano l’urgente recupero di limiti etici a questo demiurgismo. "Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo"(50). Oggi infatti l’attività dell’uomo tecnologico non può essere paragonata a quella del passato. Si rende quindi evidente che l’etica tradizionale è inadeguata a far fronte alle nuove circostanze. Ormai nessuna etica tradizionale ci può guidare alla comprensione dei termini del tutto nuovi del Bene e del Male.
Questo significa prendere atto dell’inversione del rapporto fra uomo e natura. Se nel passato era l’uomo che doveva guardarsi dai pericoli di una natura ostile, adesso è la natura che subisce dall’uomo i più mortali attentati. É un vero paradosso che dobbiamo responsabilmente affrontare. Ad esempio, oggi non siamo tanto noi che dobbiamo difenderci dall’oceano, ma è questo che deve essere protetto dal nostro sfrenato attivismo.
"Siamo diventati il nostro maggior pericolo proprio per la straordinaria capacità di dominare le cose. Noi siamo il pericolo da cui ora siamo circondati - contro cui d’ora in poi dovremo lottare"(51).
La tecnologia moderna pone l’etica a confronto con una tipologia di azioni mai considerate fino ad oggi e dischiude per l’uomo nuovi orizzonti di comportamento che confluiscono nel concetto di responsabilità nei confronti dell’intero pianeta e della sopravvivenza della specie umana.
Pertanto, nell’epoca attuale si impone non solo la sostituzione dell’etica tradizionale, inadeguata a fronteggiare l’uomo prometeico, ma anche l’etica individualista contemporanea, espressione di una mentalità che non si cura che dell’interiorità della propria coscienza, senza considerare la sorte e le istanze dell’alterità sociale ed umana (52).
Ci vuole dunque un nuovo tipo di etica, che potremmo definire post-nichilistica, un’etica della preservazione, che appunto Jonas intende orientata a localizzare obbligazioni alla sopravvivenza del nostro pianeta, prima ancora che quella della nostra specie. "Le nuove forme e le nuove dimensioni dell’agire esigono un’etica della previsione e della responsabilità in qualche modo proporzionale, altrettanto nuova quanto le eventualità con cui essa ha a che fare"(55).
In questa prospettiva vanno riviste vecchie e nuove categorie morali. Se l’imperativo kantiano imponeva di operare al fine di far diventare la propria massima una legge universale, oggi "un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe press’a poco così: Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra"(56).
In questa angolazione, la riflessione jonasiana fa capo all’imperativo di scelte prioritarie, tali da evitare il sommo male dell’auto-distruzione dell’uomo(57). Tale imperativo nasce dal timore di una fine incombente. Si tratta dunque di un’euristica della paura, nozione che però non significa in Jonas un non agire, un rinchiuderci in un timoroso nascondiglio di inazione e rassegnazione. Tutt’altro. La consapevolezza di un male da evitare, il timore di questa catastrofe prodotta dallo strapotere tecnologico sono per Jonas un motivo in più per spingerci ad agire per mantenere intatta l’esistenza della vita dell’uomo e della natura.
"La previsione di sventura sufficientemente fondata risulta in effetti più decisiva della previsione di salvezza"(58). L’euristica della paura ha il suo sguardo rivolto al futuro, tende a salvaguardare l’esistenza della vita nella sua globalità(59).
Sui contenuti della responsabilità Jonas sottolinea la centralità della conservazione, della prevenzione contro i pericoli che minacciano l’umanità(60), e la contrappone al progresso esasperato ed alla perfezione assoluta(61). Le condizioni di esistenza dell’uomo esigono un minimalismo programmatico(62) che scorge nella sopravvivenza, anziché nella perfezione, il suo obiettivo primario. Da qui la serrata critica di Jonas allo sfrenato incedere del progresso scientifico e tecnologico, i cui fattori genetici individua appunto in quella sorta di utopismo prometeico dell’Occidente che si identifica inizialmente nello scientismo di Bacone e poi nel primato della prassi di Marx. L’etica della responsabilità contrasta con questa come con ogni altra delle moderne utopie del progresso crescente.
Quindi Jonas indica nel marxismo il perfezionamento dell’ideale baconiano di un totale dominio umano sulla natura. In questa direzione, l’utopia marxista del progresso integra la già pericolosa utopia di Bacone. Al postulato che il sapere è potere, e che ogni aumento delle conoscenze scientifiche umane corrisponde ad un positivo incremento di dominio sulla natura, il marxismo aggiunge il progetto di una radicale trasformazione della società in senso economico e politico-istituzionale(63). Ma Jonas rileva che esistono delle difficoltà sia estrinseche che intrinseche all’attuazione di questo nuovo e più ambizioso progetto.
Le difficoltà esterne resistono alla pretesa di ricostruire attraverso la tecnologia il nostro pianeta. Solo l’utopia prometeica, il preteso demiurgismo illimitato, può presupporre un’abbondanza di beni e di risorse, per il cui reperimento l’umanità attuale è costretta ad inseguire il mito di un’accelerazione e radicalizzazione della tecnica. Ma l’utopismo prometico non tiene conto che la natura ha delle soglie di sfruttamento non superabili. Pensiamo per esempio alle materie prime, al surriscaldamento dell’ambiente. Bisogna quindi prendere coscienza esatta di quella sorta di schizofrenia che governa i comportamenti dell’uomo del XX secolo, costantemente diretti a uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse della terra(64), nella convinzione più o meno tacita che esse siano illimitate o comunque tali da assicurare una sopravvivenza indefinita della vita umana.
Le difficoltà interne invece sono riscontrabili negli ideali messianici più radicali, quali: il sogno di un paradiso del tempo libero (che si fonda sulla falsa ipotesi di un regno delle libertà, al di là di quello della necessità); oppure il definitivo superamento della penuria dei beni essenziali, tramite il libero mercato; o ancora il superamento di ogni condizione di miseria e di sfruttamento, grazie al comunismo(65).
Tuttavia, l’ineliminabile contestualità di egoismo e solidarietà, costantemente presenti nella società umana, impediscono - secondo Jonas - di ritenere che fra capitalismo e comunismo la scelta sia univoca e definitiva. Proprio perché riconosce pregi e difetti dei due estremi modelli economico-sociologici, Jonas evita di pronunciarsi esplicitamente a favore di uno dei sistemi contrapposti. A proposito di questi due giganti tecnologici, Jonas a tratti esprime il convincimento della possibilità di un loro sforzo collaborativo. Del resto, il filosofo americano-tedesco considera che i nuovi doveri dell’uomo tecnologico non si possono ancora sussumere sotto un compiuto sistema, poiché al contrario dei nuovi dati di fatto della prassi tecnologica questi nuovi confini dell’etica cominciano appena ora ad essere percepiti, per cui necessitano ancora di essere individuati compiutamente, analizzati, classificati, prima di poter essere sistemati ed infine divulgati come oggetto di educazione.
In definitiva, Jonas è molto esplicito nel dichiarare che non saranno i filosofi a determinare la sopravvivenza dell’umanità mediante un’enunciazione dei doveri dell’uomo contemporaneo. Per definirli compiutamente è necessaria una collaborazione fra ecologisti, chimici, biologi, geologi, ingegneri, economisti, matematici, oltre a moralisti e sacerdoti. E per renderla operativa una tale etica della responsabilità si richiede l’attuazione di accordi politici ed economici a livello internazionale.
Solo una tale concertazione di sforzi può arginare le conseguenze delle ferite inferte al pianeta dalla sfrenatezza di Prometeo. A chi esalta invece queste facoltà demiurgiche illimitate, Jonas obietta che noi non siamo "autorizzati a compiere o a permettere che avvenga il suicidio della nostra specie"(66). L’etica della responsabilità è intesa a prevenire queste tentazioni faustiane che ormai sarebbero un vero suicidio. Una filosofia orientata a diffondere questo imperativo morale potrebbe improntare di sé i destini non solo dell’umanità, ma dell’intera natura(67).
3. Le dimensioni per l’esperienza etica della responsabilità nelle specificità della famiglia e dello Stato. La responsabilità come continuità.
L’attuale sviluppo tecnologico e scientifico ha dato vita da un lato alla diffusione del benessere e dall’altro all’insorgenza di grandi problemi ai quali molto spesso l’uomo stesso non riesce a dare soluzioni adeguate. Fra questi una grande importanza hanno le relazioni fra le diverse culture, che nell’età post-industriale ancora rimangono improntati al dominio ed allo sfruttamento. Il discorso sull’etica della responsabilità coinvolge anche la riflessione sulla natura di queste relazioni interculturali.
Ora, proprio Jonas pone l’accento sul fatto che l’uomo non è responsabile solo verso se stesso ma anche verso gli altri suoi simili, intesi in senso globale, indistintamente, ossia di qualsiasi razza, sesso, religione. In tale prospettiva si chiede all’uomo di esercitare un definito impegno etico-morale che si traduce nel rispetto del valore e della dignità degli altri. Certo questo non può significare per l’individuo perdere la propria identità e differenza. Riconoscere e valorizzare l’alterità, costruire relazioni interumane dove la differenza è assunta quale principio regolativo per attuare l’unità e l’unione, non implica alcun disconoscimento utopico delle diversità.
Nella costruzione di un’etica della responsabilità verso l’alterità sociale ed umana è indispensabile fare costante riferimento riferimento anche alla categoria della differenza, che non va intesa in senso egemonico e marginalizzante l’alterità, ma come inalienabile diritto ad attuarsi e ad espandersi in tutta la propria originale pienezza. É appena il caso di avvertire quanto la difesa del diritto alla differenza sia sottesa alla costituzione e al tirocinio di una liberante intersoggettività, la quale trova i suoi nuclei fondativi nella valorizzazione e nella comprensione della singolarità di ciascuna persona, nel sostegno della sua autonomia e iniziativa, nella gratificazione di esigenze di sicurezza affettiva e di autostima, per quanto nell’adozione di uno stile relazionale dialogicamente caratterizzato(68).
Al fine di poter costruire una mentalità davvero interculturale è basilare il rafforzamento dell’auto-identità. Il modo di trascendere l’Io è quello di cominciare con l’avere una forte identità(69). E’ utile rammentare, pertanto, che quello che si richiede all’uomo contemporaneo, allo scopo di attuare comportamenti solidali e tolleranti nei confronti del diverso, è anzitutto la stima della propria assieme a quella dell’altrui identità, in quanto solo in tal modo risulta possibile coniugare diversità ed uguaglianza, e costruire contestualmente una cultura della differenza ed una cultura del vincolo(70).
Precisato questo, si capisce come si debbano evitare tutte quelle situazioni in cui l’avvicinamento del diverso, dell’altro, possa configurarsi come un’eccessiva invadenza dei confini del proprio sé. In questi casi, l’approssimarsi, la vicinanza da parte dell’estraneo, dell’altro, può risultare come un’incontrollabile minaccia al proprio sistema di riferimento (lingua, cultura, economia, sistema sociale). Qui si finisce per sentirsi autorizzati a reagire con l’intolleranza, a respingere con la violenza il pericolo temuto ed avvistato(71).
Pertanto l’appropriato comportamento dell’uomo occidentale verso la diversità deve riposare sull’incontro, sullo scambio, sull’ascolto e sull’interazione con il diverso, in modo tale che da ambo le parti vi sia chi dà e chi riceve. L’educazione interculturale non vuole infatti l’integrazione assimilativa. La storia ha già scritto infauste pagine di colonizzazione, di deportazione in un’altra cultura, di cancellazione, di superba relegazione in un ghetto di culture diverse e considerate deboli. L’integrazione non può essere intesa come operazione di svuotamento di alcuni contenuti e forme di sapere autoctone, e di riempimento surrogatorio e compensativo di contenuti alloctoni.
L’educazione interculturale è per la coesistenza di radici folckloriche, di esistenze diversamente colorate, raccontate, espresse, vissute. L’intercultura valorizza l’incontro fra valori e costumi diversi, facilitando le occasioni che permettano nuove forme di vita dal concerto di quelle preesistenti. L’interazione è una mescolanza che arricchisce reciprocamente, che feconda, che scambia alla pari, che interagisce senza schiacciare né predominare(72).
Comunque, se è ormai fuori discussione l’inesaurienza di trinceramenti staticizzanti e conservativi dietro lo schermo della pretesa monoculturalità, indifendibile in un’era di grandi cambiamenti come la nostra, nondimeno è altrettanto evidente la difficoltà di accettare l’altro, di accoglierlo con atteggiamento di grande disponibilità. Nella realtà risulta sempre difficile riscontrare ad un livello diffuso questa disponibilità al Tu, da parte di un Io completamente libero da paure(73).
Su queste sono le difficoltà di stabilire un livello di relazioni interculturali, quale è la proposta di Jonas per superarle? Intanto, c’è l’invito perentorio che l’uomo contemporaneo sia apra alla disponibilità, alla solidarietà nei confronti degli altri. Non solo verso i membri della propria famiglia o comunità, ma dell’umanità nel suo complesso, fino a comprendere anche il destino delle generazioni future. Il problema è quindi vedere come si possano convincere le generazioni presenti a sacrificarsi per un’umanità futura che non ha voce per parlarci, pur essendo evidentemente soggetta all’arbitrio del nostro potere.
Ora, Jonas è consapevole che non basta una generica asserzione che i diritti degli altri devono essere rispettati. Si tratta infatti di convincere l’uomo contemporaneo che la sua piena realizzazione implica anche un’assunzione di responsabilità anche per la sorte degli altri.
"Ciò che contrassegna l’uomo, e cioè che soltanto lui può avere una responsabilità, significa contemporaneamente che egli la deve avere anche per i suoi simili, essi stessi soggetti potenziali di responsabilità, e che, in un modo o nell’altro, già la possiede: la capacità di averla è la condizione sufficiente della sua attualizzazione"(74).
Il modello archetipo di consimile responsabilità (inscindibilmente connessa con la preservazione della proprio individualità e contestualmente legata al riconoscimento della fondante relazione con l’alterità) è da Jonas indicato nella famiglia. Dal rapporto di distinzione individuale-interazione comunitaria fra i genitori ed i figli si originano quei caratteri quei comportamenti che indirizzeranno poi l’atteggiamento dell’uomo in società, la responsabilità del cittadino e della statista verso la collettività e l’umanità.
D’altra parte, resta indiscutibile che se l’educazione nella famiglia (dimensione elementare della socialità), con l’espletamento della responsabilità dei genitori verso i figli prefigura già la cura che il cittadino ed l’uomo di governo devono avere per l’alterità sociale, comunque "responsabilità dei genitori e responsabilità politica differiscono macroscopicamente nel loro relazionarsi nel futuro2 (75).
I genitori infatti si occupano dei figli nel corso di fasi importanti e complesse, ma definite nel tempo, in un processo che si conclude nel raggiungimento della maturità, delimitando così il loro impegno. Invece, l’uomo di Stato deve riuscire a garantire innanzitutto il continuare ad esistere della collettività umana, ciò che costituisce il vero fine della politica(76).
Una tale distinzione riduce di molto la validità dell’imputazione rivolta a Jonas di una sorta di un paternalismo, che consisterebbe nella riproposta di tradizionali modelli di gerarchizzazione e di asfittica tutela nei rapporti, che condizionerebbero negativamente questo primo ambito della formazione dell’individuo, cui sarebbe pertanto impedita una vera educazione alla responsabilità(77).
In tale contesto, la riflessione di Jonas risulta invece pienamente riconducibile alla più avanzate teorie concernenti l’importanza della formazione sia familiare che sociale-statuale nel processo di avvicinamento-apprendimento dei problemi dell’altro, nella prospettiva della solidarietà sia nei rapporti intersoggettivi all’interno dei singoli Stati, sia nell’ambito delle interculture del pianeta.
La famiglia deve misurarsi, oggi, con le nuove dimensioni di multiculturalità, che richiedono non già l’annullamento della propria cultura, ma il riconoscimento dell’interazione con le altre. Nella famiglia come nella società e nell’umanità, si richiede oggi più che mai un recupero di identità, preliminare imprescindibile per proporsi agli altri in un dialogo sempre più esteso, in una crescente reciprocità fra distinti(78).
Nelle ambizioni di una fase nuova dell’umanità, spinte sino ad una prospettiva di nuovo umanesimo (inteso a costruire nel dialogo e nel confronto fra diversi le possibilità di pacifica convivenza, di giustizia e di di verità), vi sono compiti educativi ai quali la famiglia, come luogo primo dell’educazione, non può sottrarsi. Si tratta peraltro di doveri e compiti al tempo stesso antichi e nuovi, individuabili ad almeno tre livelli: in primo luogo, appunto nella famiglia, luogo primario dell’educazione alla convivenza pacifica; in secondo luogo, nella partecipazione responsabile e produttiva nella vita della propria comunità; infine, nel sentimento di attiva partecipazione e di appartenenza solidale alla società umana, come complesso di interculture.
I tre livelli interagiscono reciprocamente. Nella società interculturale la famiglia, mentre vive dinamiche interne di relazione interpersonale, si deve riconnettere a spazi esterni di partecipazione e di servizio, ossia alla dimensione sociale-statuale, nella quale la famiglia stessa possa concorre a creare nuove categorie concettuali per la convivenza, nuovi strumenti operativi per la collaborazione pacifica, nuovi valori per il futuro della solidarietà umana(79).
Luogo di educazione primaria, la famiglia viene a sua volta educata alla realizzazione politica di un’intercultura che non nega le individualità, ma anzi - come deve appunto verificarsi nell’ambito di una giusta educazione familiare - le perfeziona e le amplia. In tale dialettica fra famiglia, società e Stato, nasce la radice di nuova civiltà umana. La pace universale, la comunità degli uomini, la società fraterna non sono più soltanto utopie(80). Sono infatti riferimenti di valore che corrispondono alle aspirazioni profonde della natura umana e conducono la famiglia, cristiana e non, ad incontrare, scoprire e capire sempre più il lungo cammino delle culture e delle civiltà umane.
La fede condivisa in un futuro di interdipendenza e di solidarietà, nella reciproca conferma delle identità e dei valori, può rendere possibile la convivenza pacifica di ogni persona con l’altro da sé; di ogni famiglia con le altre istituzioni; di ogni cultura con la diversità; di ogni civiltà con la storia comune degli uomini e con il loro progetto futuro(81).
Nessuno può esimersi dall’essere partecipe di quello che è il compito di responsabilità nei confronti di se stesso, degli altri, dell’umanità. Un tale compito richiede un forte impegno etico, che non può consistere su mere considerazioni di un opportunismo utilitaristico, sia individuale che sociale, ma si edifica solo dal porsi dell’uomo, con la totalità del suo essere, di fronte al bene(82). E questo bene è appunto il sentimento e la concreta assunzione di responsabilità che proviamo per coloro che ci sono affidati(83) e la cui sorte futura dipende dalla nostra azione in vista della loro conservazione e protezione(84).
Da parte sua, Jonas giustamente localizza nella responsabilità un’esigenza di continuità. La responsabilità etica piena e totale ci conduce a considerare che la sua enorme potenzialità non si ferma in un determinato contesto e periodo storico. Non si tratta, ad esempio, del caso di un capitano di una nave la cui responsabilità verso i passeggeri consiste nel portarli sani e salvi da un luogo ad un altro. Il nostro tipo di responsabilità dice Jonas "deve procedere storicamente, abbracciare il proprio oggetto nella sua storicità; questo è il senso autentico di ciò che designiamo con la nozione di "continuità"(85).
A ciò si lega la necessità di comunicare con tutto quanto costituisce la "tradizione collettiva", grazie alla quale si può realizzare l’estensione della continuità. E nel tempo - ossia al futuro - deve essere indirizzata la responsabilità nei confronti di noi stessi e degli altri perchè è proprio al superamento dell’hic et nunc immediato che deve rivolgersi la responsabilità. "... Questo inserimento scontato del domani nella cura dell’oggi, dettato dalla temporalità stessa, acquisisce una dimensione e una qualità completamente diverse nel contesto qui preso in considerazione della responsabilità totale"(86).
Ogni nostra singola azione deve avere come oggetto questa responsabilità totale, nel senso dell’agire responsabilmente, tale da garantire l’esistenza futura dell’altro, al di là di ogni riconoscimento e gratificazione. L’alterità umana qui si configura come un bambino appena nato, "il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un devi all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui"(87).
Una simile responsabilità verso un’alterità così considerata è il vero paradigma fondamentale della moralità. L’esempio dell’immediata e perentoria domanda di intervento che si avverte in noi di fronte ad un bambino bisognoso d’aiuto è l’archetipo del tipo di solidarietà e di responsabilità totale(88).
Tutelare l’alterità umana come quel bambino, sorreggere la sua esistenza, rendergli possibile la vita, farlo diventare un futuro partner di discorso è per Jonas la più genuina forma di obbligazione morale. Pertanto, Jonas precisa che "l’essere di un ente, sul semplice piano ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri"(89).
Tuttavia, ad un livello superiore a quello della formazione educativa della famiglia, una piena realizzazione di una prospettiva interculturale può stabilirsi solo nella dimensione politica, vero luogo di aggregazione della reponsabilità verso l’alterità sociale ed umana, attuale e futura. Si tratta ora di vedere come Jonas specifichi la responsabilità dell’uomo di Stato verso la comunità umana, a partire dalla sua definizione di una vera e propria arte di governo (concetto aristotelico della politica come techne), che consiste "nel far sì che la politica futura continui ad essere possibile"(90).
Nei termini della complessità della dimensione sociale e dei requisiti di continuità nelle finalità di governo, la funzione politica assume i veri caratteri di una responsabilità totale, tale da garantire la persistenza delle condizioni per cui anche in futuro sia possibile l’esistenza dell’essere umano. Ma si detto anche come Jonas riconosca una precisa interdipendenza fra la responsabilità fra famiglia, comunità e Stato.
Per questo il compito dell’uomo di Stato è quello di non opporsi a quanto di buono la comunità possa offrire al progetto globale di una politica orientata nel senso dell’agire responsabile in vista della realizzazione del bene comune. Dovere dei governi è dunque di operare "non ostruendo la fonte indispensabile della spontaneità del collettivo da cui si debbono reclutare i futuri uomini di Stato"(91).
Del resto, oggi c’è una profonda differenza fra i compiti di governo dell’epoca contemporanea rispetto al passato. Adesso lo statista, a differenza del legislatore o dell’uomo di governo antico, non deve soltanto provvedere a preservare saggiamente dalla furia delle passioni la sua creatura, la polis, in un contesto tecnologico che era sostanzialmente statico. Nell’epoca attuale tutti i problemi di equilibrio e di continuità sono aggravati e compromessi dal ritmo incalzante dello sviluppo tecnologico. E pertanto vanno rafforzati quei vincoli che rendono coesiva la compagine sociale, a partire appunto dai legami familiari, sui quali va esemplato il vincolo sociale, in una dialettica fra funzioni distinte ed interagenti. Anche nello Stato vi deve essere quella responsabilità globale che caratterizza i rapporti nella famiglia. Nello Stato si richiede che questa responsabilità globale dal contesto familiare(92) si ampli e perfezioni a comprendere tutta la società e la sua continuazione nel futuro.
É pur vero che in questa proiezione dalla responsabilità globale nella famiglia alla responsabilità totale nello Stato si corre il rischio di un esito totalitario. Di questo Jonas è consapevole, e configura questa evenienza come un esito estremo di un comunismo radicale.
"... Nel caso della collettivizzazione estrema, la totalità sul versante pubblico può spingersi così avanti da subentrare completamente a quella privata eliminando, insieme al potere dei genitori, anche la loro responsabilità. Questo rappresenterebbe l’estremo opposto rispetto a quel primo stadio dello sviluppo in cui il potere parentale o familiare era assoluto... resterebbe ancora da vedere quel che la soppressione della famiglia, come forma fondamentale della convivenza umana che trascende le generazioni... potrebbe a lunga scadenza significare per l’uomo. Certamente ne risulterebbe un’enorme restrizione della sfera privata..., praticamente l’abolizione della distinzione fra sfera privata e sfera pubblica. L’uomo di Stato dovrebbe allora preoccuparsi di tutto. Questa è un’accezione di totalitarismo che, a rigore, sembra inseparabile dal comunismo radicale"(93).
Al di là di questa estremizzazione del problema, Jonas insiste sulla solo relativa identificabilità e quindi sulla sostanziale diversità fra il tipo di responsabilità familiare e statuale, anche se "queste due particolarità così diverse si compenetrano in modo singolare ai poli estremi della massima particolarità [nella famiglia] e della massima generalità [nello Stato]"(94). Particolarmente nella sfera educativa si constata come "la responsabilità dei genitori e quella dello Stato - la più privata e la più pubblica, la più intima e la più generale .- interferiscano (e si integrino reciprocamente) proprio in virtù del carattere totalizzante del loro rispettivo oggetto"(95).
4. L’incombente catastrofe ecologico-tecnologica impone all’uomo contemporaneo un compito auto-educativo fondato sul riconoscimento dei limiti posti dalla natura e dalla responsabilità come compimento del proprio Io nell’alterità attuale e futura.
Del resto, Jonas finisce per focalizzare l’argomentazione soprattutto sulla specifica tipologia della responsabilità che grava sul politico contemporaneo, definita appunto dalla dimensione attuale della tecnica, il cui sviluppo illimitato rende problematiche le condizioni di esistenza a quanti lo abitano oggi, ed estremamente incerte quelle per coloro che abiteranno il pianeta nel futuro.
Indubbiamente un motivo di questa focalizzazione è la preoccupata attenzione che in Jonas giustamente suscita l’odierna evoluzione incontrollata della tecnologia e dei suoi strumenti di progresso, sostenuta e stimolata incessantemente dalla logica economica fondata sulla regola esclusiva del profitto, e che sembra poter conferire all’uomo poteri e traguardi illimitati(96). "Nell’era della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, onnipotente l’uomo è diventato un pericolo non soltanto per se stesso ma per l’intera biosfera"(97).
La colpa dell’uomo contemporaneo è di aver cessato di prendersi cura della natura e di averla anzi sfruttata in modo abnorme, fino al punto di mettere in pericolo la sua stessa vita. Simili propositi di impoderato sfruttamento ad oltranza si sono basati sull’abbaglio di ritenere che si scopriranno sempre nuove "fonti energetiche... oppure riserve ignote di fonti già note e, in generale, che le gradite sorprese del progresso non avranno mai fine e che l’una o l’altra di queste sorprese ci trarrà comunque per tempo d’impaccio"(98). Almeno dal secolo scorso, si continua a credere ciecamente a coloro che predicano il continuo progredire della tecnica e della scienza, convincimento che è "perlomeno tanto irresponsabile quanto affidarsi all’ignoto"(99).
L’agire in tal modo comporta il mettere a repentaglio la vita della natura e con essa quella dell’umanità. É un sintomo emblematico della nostra attuale chiusura nei confronti della vita futura oltre che di quella presente. C’è nel nostro atteggiamento una colpevole dimenticanza che siamo pur sempre debitori verso la natura, e "la totalità a noi prossima delle sue creature"(100).
Uno dei riflessi immediati di questo delirio di onnipotenza si ha nello smisurato incremento che la tecnica ha dato alle attività militari. Oggi, se forse non è più il pericolo di un’imminente catastrofe nucleare a minacciarci, certo vi è la situazione di un endemico e ostante ricorso alla guerra, che sia pure su scala regionale o locale non per questo è meno micidiale.
Tematiche queste che, in Jonas, vengono affrontate senza utilizzare temi patetici o moralistici, ma in una prospettiva di grande realismo. Al di là di ogni retorica pacifista (che ha spesso trasformato in disputa di opinioni la riflessione controversa sui passi adeguati per assicurare la pace), Jonas comprende come il conservare la pace non sia una questione di semplice buona volontà. Si tratta infatti di capire che la guerra è il volto nascosto di un’ambizione di potere illimitato, un delirio che si avvale degli strumenti tecnologici come di quelli bellici.
Peraltro, ormai è chiaro che anche solo in termini puramente egoistici, sia la tecnologia che la guerra mostrano una loro utilità decrescente. Alla fine si tratta pur sempre dell’errore di fondo dell’epoca contemporanea. L’utopia di progresso continuo ed il conseguente tentativo di superare radicalmente la normalità della condizione umana, ci portano a distruggere le condizioni di quella normalità che si chiama vita.
La premessa comune del miraggio tecnocratico e dell’ideologia radical-emancipatoria è la crescita esponenziale illimitata e il definitivo superamento della penuria. Quei panegirici marxisti di una natura trasformata ed umanizzata e alla fine di una natura dell’uomo anch’essa trasformata, forse non del tutto obsoleti, erano del resto un riflesso dell’utopia fondamentale della civiltà tecnico-scientifica, ossia dell’illusione di trasformare la realtà umana e planetaria sulla base di una science fiction. Una tale finzione di demiurgismo assoluto rende l’uomo, nel senso originale del termine, utopico, cioè privo di luogo, perché lo estrae violentemente dalla nicchia ecologica in cui si trova situato ogni vivente(101).
L’empietà di questo ottimismo utopico è ben chiara a Jonas nei suoi esiti nihilistici. Senza voler contestare la validità del progresso, è un fatto che ormai si sono persi di vista i costi di uno sviluppo illimitato. Intanto la vita stessa comincia a diventare il prezzo per l’ulteriore espansione consumistica dell’umanità europeo-americana(102).
É più difficile (di quanto non lo sia scorgere il misfatto sicuro ed unico della guerra) cogliere esattamente il pericolo mortale per l’umanità che può risultare dallo sviluppo incondizionato della tecnica. Qui ci è negata la scelta di un atteggiamento operativo semplice. Infatti noi siamo obbligati ad andare avanti con lo sfruttamento tecnico della natura(103).
"Dall’euforia del sogno faustiano ci siamo destati nel freddo bagliore della paura. Il panico apocalittico non potrà mai farci dimenticare che la tecnica è un’opera della libertà umana. Al punto in cui ci troviamo oggi, ci hanno condotto gli atti di questa libertà. Saranno azioni di questa stessa libertà - che rimane tale anche se essa stessa si è creata una costrizione a proseguire sul cammino intrapreso - a decidere il futuro globale che per la prima volta si trova nelle nostre mani"(104).
Siamo giunti al momento in cui la specie umana ha voluto prendere il sopravvento sulla natura. "La superiorità unilaterale delle sue armi, non più naturali ma artificiali, ha staccato l’uomo dall’ambito dell’equilibrio simbiotico. Egli stermina dove finora la lotta aveva stabilito solo dei limiti. Non restituisce più in forma utile quanto ha preso dal tutto. In questo modo ne abusa"(105).
A differenza della tecnica del passato, quella odierna è penetrata nella sfera molecolare, con la possibilità di manipolarla, ricavandovi materie che prima erano inesistenti, mutando forme vitali e liberando nuove forze. "Mai prima l’arte era arrivata al cuore della natura, nei suoi elementi. Ora essa dirige dal di sotto ciò che si trova di sopra; dal più piccolo ciò che è più grande. Questa attività creatrice nella sfera del nucleo comporta, insieme ad un nuovo potere, nuovi pericoli. Uno di questi è il sovraccaricare l’ambiente con sostanze che il suo metabolismo non riesce a tenere sotto controllo. Alla devastazione meccanica si aggiunge l’inquinamento chimico e radioattivo. E nella biologia molecolare si fa strada la tentazione prometeica di pasticciare la nostra propria immagine, migliorandone il nucleo"(106).
Volendo predominare e sottomettere la natura, l’uomo ha dimenticato che ha il dovere di salvaguardare la vita dell’essere umano e quindi della natura stessa. L’uomo e la natura hanno in comune il loro destino e lo si scopre quando ci si rende conto del fatto che entrambi sono in pericolo, appunto per il prevalere di un criterio puramente strumentale-utilitaristico (107).
Il rispetto della natura, del suo esistere, dei suoi diritti, corripsonde al principale dovere su cui deve fondarsi l’agire dell’uomo, che non può continuare a sfruttare barbaramente il mondo circostante, sempre più vulnerabile. Tale vulnerabilità è risultata solo da quando si sono verificati i primi gravi danni che hanno contribuito anche alla nascita dell’ecologia. Questa nuova scienza ci ha fatto finalmente comprendere che a causa del suo sconsiderato modo di agire l’uomo tecnologico ha sulle proprie spalle, oggi, il peso della responsabilità dei diritti della biosfera.
D’altro canto, l’incremento del potere dell’uomo sulla natura ha aumentato anche le nostre conoscenze, per cui oggi potremmo benissimo calcolarne gli effetti globali e futuri dello sviluppo tecnologico. "Dopo aver così aperto gli occhi, la libertà deve riconoscere di essere essa stessa a mettere in gioco il tutto ed esserne la sola responsabile"(108). In questo nuovo rapporto con la realtà, nel mondo dominato dalla tecnica la libertà ha pertanto dei nuovi doveri, implica cioè una nostra responsabilità a livello platenario, e tale da coinvolgere anche il futuro stesso dell’uomo.
"Di pari passo con le azioni del nostro potere, il nostro dovere si estende ora su tutta la terra e raggiunge il futuro lontano. É un dovere che ci tocca tutti, poiché tutti abbiamo parte nelle azioni e godiamo dei vantaggi del potere collettivo. Qui ed ora, così ci prescrive il dovere, dobbiamo imbrigliare il nostro potere, quindi limitare il nostro piacere, per una umanità futura che i nostri occhi non vedranno più"(109).
Nelle società industriali la libertà ha creato un sistema di sfruttamento planetario, un consumismo che minaccia di estinguere le risorse ed il futuro stesso dell’umanità.
"Noi del cosiddetto occidente abbiamo creato il colosso e l’abbiamo liberato nel mondo; siamo noi, inoltre, i principali consumatori dei suoi frutti e quindi i principali peccatori contro la terra. Dobbiamo quindi aspettarci una limitazione della nostra opulenza. Sarebbe osceno predicare agli uomini affamati della parte più povera del mondo di curare l’ambiente in vista di un futuro migliore, magari globale"(110).
Da qui l’urgenza di un’educazione della coscienza universale, che spetta a coloro che, qualificati da conoscenze specifiche dei singoli problemi, dovranno mettersi alla guida di un radicale cambiamento di prospettiva. "La loro qualifica è... la conoscenza specifica, ed essi devono mettersi insieme perché solo riunendo il sapere di molti specialisti si può sperare di far fronte all’enorme dispersione dei problemi. L’instancabile chiarificazione da parte di questi rappresentanti può produrre una pressione dell’opinione pubblica a cui anche chi si oppone deve piegarsi"(111).
5. Le "risposte evanescenti" di Jonas al quesito politico contemporaneo fra élitismo scientifico-tecnologico, dittatura e democrazia.
In conclusione non resta che far cenno agli aspetti problematici di questa filosofia della responsabilità formulata da Jonas. Rilevanti perplessità hanno suscitato le sue tesi sulla necessità che l’opera di formazione dell’umanità futura all’etica della responsabilità debba essere individuata in un’élite, titolare di una funzione autoritaria-coattiva nei confronti degli altri membri della società, i quali non spontaneamente, o in modo autonomo, saprebbero sottrarsi al prometismo-attivistico della nostra epoca tecnologica.
Qui Jonas sostiene l’idea di un ricorso inevitabile ad una sorta di dittatura instaurativa di rapporti improntati all’etica della responsabilità, un’eco-dittatura in vista della salute pubblica che la normale prassi di vita democratica non saprebbe garantire.
A questo riguardo, molto opportunamente Joachim Landkammer ha osservato che sono proprio le considerazioni specificamente politiche di Jonas a suscitare qualche perplessità sul complessivo significato del suo messaggio, quantunque confermino un’attuale visione critica della stessa democrazia (112).
É un fatto che Jonas non nasconde il convincimento che le nuove dimensioni del potere tecnologico umano non possano essere controllate attraverso le forme istituzionali attuali, da considerare inadeguate ed obsolescenti.
"Un ulteriore aspetto della nuova indispensabile etica della responsabilità per un futuro lontano, e della sua legittimazione, merita di essere menzionato: il dubbio che il governo rappresentativo possa bastare a soddisfare, in base ai suoi principî e con i suoi procedimenti normali, le nuove richieste. Infatti, in conformità a questi..., soltanto gli interessi presenti acquistano voce, facendo valere il proprio peso ed esigendo considerazione"(113). Inoltre, il vuoto etico dell’epoca attuale, ereditato dalla distruzione dell’etica tradizionale ad opera dell’illuminismo (che ha lasciato la politica priva di quei principî che le necessitano), ci costringe a trovare un’etica nuova e farne il criterio di azione per quei pochi che dovranno orientare la società all’edicazione verso la reponsabilità. E qui Jonas, nel superamento di ogni religiosità tradizionale (ivi compresa quella ebraica) cerca in sostanza un surrogato di questa eticità in una dimensione tutta laica dell’esistenza, appunto dalla presa di coscienza della consustanzialità che ogni essere umano ha con l’alterità sociale, contemporanea e futura.
"... La questione è se, senza ristabilire la categoria del sacro che fu distrutta nel modo più radicale dall’illuminismo scientifico, possiamo disporre di un’etica che sia in grado di imbrigliare le forze estreme che oggi possediamo e, quasi coattivamente, continuiamo ad acquisire e a esercitare senza posa... Ma una religione che non c’è non può sgravare l’etica dal suo compito; e mentre si può dire di quella, in quanto dato di fatto che determina l’uomo, che esiste o meno, l’etica si trova nella necessità di esistere. E deve esistere perché gli uomini agiscono e l’etica mette ordine nelle azioni e regola il potere di agire... Perciò le nuove potenzialità dell’agire esigono nuove regole dell’etica e forse persino una nuova etica..."(114).
In tale prospettiva si è non senza fondamento riconosciuta in Jonas la traccia di una concezione "tradizionalista-conservatrice" della politica, che contrasta con il postulato futurista, radicalmente innovatore, ma evocando una sacralità sconnessa da qualsiasi religiosità finisce per lasciare senza fondamento la sua teoria della responsabilità, o quantomeno per postulare un’etica laica dai contorni se non totalitari certo organicistici.
Da qui il carattere di evanescenza delle risposte da Jonas fornisce alle domande estreme che pure ha il merito inequivocabile di porre. A tale riguardo, Landkammer afferma che intenzionalmente Jonas mantiene celate le sue intenzioni politiche(115). Tuttavia, il medesimo Landkammer non può esimersi dal far cenno(116) a dichiarazioni che rivelano nel filosofo tedesco-americano una qualche residuale suggestione che più che tradizionale o conservatrice definiremmo autoritaria e dispotica.
Il presupposto di fondo che anima questa parte della riflessione Jonas è che una politica orientata alla responsabile rinuncia allo sviluppo illimitato (allo strapotere tecnologico che minaccia di cancellare per sempre dalla faccia della terra l’umanità) non possa nascere dalla spontaneità di individui e gruppi sociali che come quelli attuali sembrano assillati solo dalla ricerca di sempre nuove acquisizioni di benessere e di potere, a qualsiasi costo, e col sacrificio di chiunque, anche della proria posterità.
"... Le cose starebbero diversamente se tra le alternative si trovasse la democrazia, dal momento che, se il popolo elegge i propri rappresentanti, sottoponendoli periodicamente alla rielezione, li può anche controllare. Ma nelle pagine precedenti si era già tacitamente supposto che nella morsa futura di una politica di rinuncia responsabile, la democrazia (nella quale hanno necessariamente la preminenza gli interessi contingenti) è, perlomeno temporaneamente, inadeguata. La nostra scelta ponderata deve orientarsi oggi, sia pure controvoglia, tra forme diverse di tirannide. E qui il socialismo, come credo ufficiale di stato, persino in presenza di una prassi imperfetta e a maggior ragione naturalmente in presenza di una prassi in qualche modo corrispondente a quel credo, garantisce la disponibilità - innegabile dal punto di vista psicologico - del popolo ad accettare un regime di rinunce imposte"(117).
La democrazia contemporanea sarebbe allora il luogo di germinazione di questo prometismo attivistico che minaccia la catastrofe ecologico-demografica, se non più quella nucleare? Parrebbe di sì, se si volesse trovare nel discorso di Jonas una risposta non evanescente, del resto irreperibile in un’argomentazione che si rivela a tratti persino ambigua. Sì, perché non si vede come il socialismo marxista potrebbe costituire davvero un’alternativa migliore della democrazia, nel senso cioè di garantire la salvaguardia, la tutela-responsabilità verso gli interessi meno immediati e contingenti, e cioè quelli futuri, quale appunto il riordino ecologico-demografico del mondo in condizioni compatibili con la sopravvivenza dell’umanità futura. Eppure a questa ipotetica potenzialità del marxismo Jonas dedica buona parte di questa ricerca sul principio di responsabilità, edita alla fine di quegli anni Settanta, quando del resto nessuno poteva seriamente immaginare che il comunismo non fosse l’alternativa con cui l’occidente si doveva ancora misurare. Allora non pochi potevano continuare a pensare che un limite al prometismo febbrile, identificato tutto nel sistema capitalistico, potesse essere trovato nel ruolo di contro-veleno del comunismo marxista.
Ma quanto credeva veramente nel marxismo Jonas in quel 1979 della prima edizione tedesca di Das Prinzip Verantwortung? Forse è nel giusto Portinaro, laddove nella prefazione alla traduzione italiana di questa opera, del 1990, indica nell’opzione per la via di mezzo il vero significato di Das Prinzip Verantvortung. Una via di mezzo suscettibile, intanto, di determinare nella riflessione di Jonas una sorta di equidistanza dal Prinzip Hoffnung (= Il principio della speranza) di Ernst Bloch e dal principio di disperazione che caratterizza la filosofia di Günther Anders(118).
Ma si tratta soprattutto di una netta contrapposizione al principio della speranza, al quale - come luogo di una letale utopia (che opervade lo stesso marxismo) - Jonas, sin dal titolo, intende opporsi in nome di un modello unitario di interpretazione del mondo e dell’attività umana, tale da poter coniugare etica universalista e realismo politico(119).
Certo è che l’opzione verso la via di mezzo la si coglie con difficoltà nella lunga trattazione dedicata da Jonas al capitalismo contrapposto al marxismo. Vale la pena di riconsiderare alcuni passi dei sopra ricordati capitoli V e VI del PR. Nel capitolo V (nel paragrafo II. 1), Jonas in sostanza afferma che la minaccia di una futura catastrofe proviene dal successo smisurato dell’ideale baconiano di dominio sulla natura ad opera della tecnica scientifica(120). Un tale successo determina appunto la smisurata crescita economica e con questa la stessa crescita esponenziale demografica, che quindi interagiscono rendendo irrefrenabile e micidiale il regime di sfuttamento delle risorse e quindi di impoverimento del pianeta. Precisato poi che si tratta di reperire un potere capace di controllare questo strapotere scientifico-tecnologico (la definisce come ricerca del potere sul potere), Jonas ritiene di identificarlo nel marxismo piuttosto che nel capitalismo (anche se, si è visto, li considera entrambi delle espressioni essenziali del prometismo demiurgico).
"Dal momento che l’economia libera delle società industriali occidentali è proprio il focolaio della dinamica che spinge verso il pericolo mortale, lo sguardo si rivolge naturalmente all’alternativa del comunismo. É in grado di fornire il rimedio necessario? É orientato in questa direzione?"(121).
Ma davvero il filosofo dell’opzione verso la via media non riesce, come qui parrebbe, a distinguere fra liberismo e liberalismo, fra società capitalista (fondata sul primato dell’economia liberista) e società comunista (fondata anch’essa sul primato economico, ma qui collettivista, coattivo anziché liberista)? Qui Jonas manifesta una certa incoerenza rispetto al suo postulato base del principio di responsabilità, quanto meno non indicando sempre con chiarezza la via media fra due estremizzazioni del ruolo dell’economia, e pertanto perdendo di vista che solo una società civile basata sulla gerarchia dei valori etico-politici, rispetto alla prassi scientifico-tecnologica ed all’esperienza economica assolutizzata, può davvero educare alla responsabilità, al senso del limite.
"... Lo sguardo - continua Jonas nel punto sopra citato - si rivolge al marxismo, che si distingue per il suo interessamento al futuro dell’impresa umana nella sua globalità (parla infatti di rivoluzione mondiale), e nel perseguirla si spinge fino ad addossare al presente qualsiasi sacrificio, riuscendo anche, nei paesi in cui è al potere, a ottenerli coattivamente... Fin qui è chiaro: soltanto un massimo di disciplina sociale politicamente imposta è in grado di realizzare la subordinazione del vantaggio presente alle esigenze a lunga scadenza del futuro"(122).
Dopo questa dichiarazione, Jonas si affretta a considerare (nel par. III) se più del capitalismo il marxismo sia in grado di affrontare il pericolo della catastrofe ecologico-democrafica e di prevenirla, disciplinando coattivamente le pulsioni demiurgiche.
vero è che Jonas riconosce che lo stesso marxismo è alla fin fine un esecutore dell’ideale baconiano del primato della scienza sulla natura. Da qui, non diversamente dal capitalismo, anche la sua fede cieca nell’industrializzazione(123). Anzi, il marxismo è un esecutore migliore di questo ideale, in quanto più efficace nel realizzarlo. "... Resta da verificare se esso sappia" padroneggiare meglio la "rivoluzione baconiana"(124).
Al riguardo Jonas prospetta una "risposta provvisoria" (che meglio definiremmo una risposta condizionata che sconfina nell’asserzione dogmatica, nel senso di opinione indiscutibile). Il marxismo padroneggerà meglio la rivoluzione baconiana se rinuncerà al suo ruolo soteriologico, abbandonando ciò che ne fa una forza storica, l’utopia verso il futuro, e realizzando qui ed ora le condizioni per una società senza classi. Questa andrebbe infatti configurata non più come qualcosa di escatologico, di finale, o di deontologico, da realizzare nel futuro, ma qualcosa da costruire adesso, come condizione essenziale perché l’umanità possa avere un futuro.
"... Si tratterebbe di un marxismo molto diverso, quasi irriconoscibile, a prescindere dal suo principio organizzativo esteriore. L’ideale ispiratore svanirebbe... la società senza classi non si presenterebbe più come realizzazione di un sogno dell’umanità, ma molto sobriamente come condizione della sua sopravvivenza nell’imminente crisi epocale"(125).
Sorge qui comunque anche il dubbio di trovarsi di fronte ad un’altra risposta evanescente ad un’altra domanda estrema da parte di Jonas. Sino a che punto è sostenibile la tesi che in vista di evitare il pericolo futuro di una catastrofe ecologico-demografica sia davvero da ricercarne il correttivo nel "vantaggio" che offre un potere governativo totalitario, nel particolare quello di un sistema marxista senza classi e quindi senza ambizioni di appropriazione dei beni altrui e delle risorse del pianeta?
"... Alle opportunità, tutto sommato migliori, dello spirito di razionalità nella società socialista, si aggiunge poi il potere maggiore di farlo valere nella prassi, imponendolo anche con misure impopolari. Il lato oscuro del potere centralizzato è stato menzionato, prendiamone ora in considerazione i vantaggi: sono anzitutto i vantaggi dell’autocrazia..., le decisioni del vertice, che possono essere prese senza il preventivo consenso dal basso, non incontrano alcuna resistenza (eccetto forse una resistenza passiva) nel corpo sociale e possono, nel caso l’apparato esecutivo sia in certa misura affidabile, contare sulla loro attuazione. Incluse risultano anche quelle misure che l’interesse specifico dei cittadini coinvolti non si sarebbe imposto spontaneamente e che di conseguenza, se riguardano la maggioranza, potrebbero essere deliberate con difficoltà nel processo democratico. Ma queste misure sono proprio quel che la minaccia del futuro esige ed esigerà sempre di più"(126).
Sembra qui che Jonas dimentichi completamente la sua opzione verso la via media, in una vera e propria apologia delle forme di eco-dittatura.
Un’impronta, anche qui, di un’indelebile riflesso delle teorie nihiliste, della prospettiva gnostica, della radicale riduzione del mondo a due princìpi in contrasto non mediabile?
A tratti sembrerebbe proprio questa l’impressione di certe formulazioni di Jonas, che pertanto reagirebbe sì al clima di una retorica buonista, alle professioni di pacifismo, - ma cadrebbe poi in un’impostazione radicalizzante, "filosoficizzando fino all’estremo i quesiti da cui muove(127). Da qui poi la sua paradossale apologia delle dittature, sia pure a fini ecologici di sopravvivenza. Per cui il suo è un discorso valido più nella pars destruens della critica al prometismo contemporaneo che non nella pars construens delle soluzioni da trovare(128), soluzioni predicate sì lungo la via media della distinzione-distanziazione dagli estremi, ma spesso incentrate solo su alcune polarità, quali appunto la libertà assoluta dell’uomo prometico-baconiano e l’eco-dittatura, oppure il capitalismo ed il marxismo.
"... Fin qui si tratta quindi dei vantaggi governativi di ogni tirannide che, nel nostro contesto, deve essere una tirannide benintenzionata, beninformata e animata da giuste convinzioni. La questione sarà allora se tale tirannide debba provenire da sinistra oppure da destra (e specialmente, in questo caso, se il suo esecutivo si possa con qualche probabilità reclutare nell’apparato del partito comunista). Per il momento intendiamo lasciare in sospeso questo interrogativo. Ma poiché la tirannide comunista esiste già, costituendo in certo senso una prima e finora unica opportunità, possiamo dire che essa, sul piano della tecnica del potere, sembra essere più idonea ad attuare i nostri ardui scopi rispetto alle possibilità offerte dal complesso capitalistico-liberale-democratico"(129).
C’è da chiedersi se la postulata critica dell’utopicità non si traduca in Jonas in una sorta di corto-circuito, quello appunto di un ritorno all’utopia. Come pure c’è da chiedersi se il suo superamento della dicotomia gnostica fra Bene e Male, fra due princìpi unici, polarizzanti tutta la vita umana, politica e sociale, non risulti più un predicato che qualcosa di coerentemente ricercato e conseguito.
E se davvero la sua grande capacità di evocare questioni fondamentali dell’umanità si perde sempre nell’evanescenza di risposte allusive-elusive, per un apocalittico convincimento volutamente interiorizzato e dichiaratamente non rivelabile?
Oppure, si tratti davvero di una nuova forma di élitismo indifferente alle diverse forme istituzionali, purché siano gli ottimi (e resterebbe da vedere in quale capacità o tipo di talento politico eccellenti, se non sempre nelle virtù) a governare? E sino a che punto si tratterà sempre di ottimi, nel senso degli unici a capire la gravità del pericolo di catastrofe ecologico-demografica, i soli in grado di trovare la giusta decisione unica per arrestare la folle corsa dell’uomo prometico?
"... Il problema reale - continua Jonas, nel punto sopra citato - è il seguente: se, come riteniamo, soltanto un’élite è in grado di assumersi dal punto di vista etico ed intellettuale la responsabilità verso il futuro da noi prospettata, come sarà creata un’élite simile e come sarà fornita del potere necessario per esercitarla? Per il momento ci soffermeremo soltanto su quell’aspetto di questo duplice problema che è relativo al potere"(130).
Ecco un’altra risposta evanescente ad una domanda estrema. Ma poi subito dopo questa risposta, Jonas, si formula comunque una serie di altre domande. Quale è "il vantaggio di una morale ascetica sulle masse" e quale la questione della sua durata nel comunismo"?(131). L’entusiasmo per l’utopia, con la quale i marxismo è in grado di animare i suoi seguaci, si può trasformare "in entusiasmo per l’austerità"(132)? E le risposte sono anche qui evanescenti. Anzitutto, nel senso dell’asserzione del "vantaggio dell’uguaglianza per la disponibilità ai sacrifici", e del conclusivo bilancio a vantaggio del comunismo rispetto al capitalismo(133).
Ma soprattutto risposte evanescenti in quanto nel par. IV di questo capitolo V, Jonas precisa che il marxismo sin lì considerato va inteso solo come una categoria astratta, mentre si deve valutare il marxismo concreto, quello dei regimi e partiti comunisti concreti. Nello Stato nazionale comunista, nella Russia sovietica, dominano - non meno che in ogni altra moderna società industriale - sia la motivazione del profitto che gli altri incentivi alla massimizzazione. Inoltre, il comunismo mondiale non costituisce una difesa contro l’egoismo economico localizzato in specifiche regioni del mondo. Del resto, c’è nei sistemi comunistici realizzati un evidente culto della tecnica(134).
Pertanto Jonas si chiede se al di là dei sistemi comunistici concreti resti valido lo schema di una società senza classi, quale condizione per l’avvento di un’umanità autentica. Ma anche dopo questa domanda risponde con l’evanescenza di altri due quesiti dilaceranti la validità stessa dei postulati dell’intera sua riflessione, ossia affermando la presuntiva validità della predicata polarizzazione, che diremmo gnostica, fra capitalismo e marxismo.
Fino a che punto è asseribile la "superiorità culturale della società senza classi?"(135). Sino a che punto si può sostenere "la superiorità morale dei cittadini" di una simile società?(136). Le risposte negative ad entrambi i quesiti (ossia che niente assicura la superiorità culturale o morale di una società senza classi) ci confermano come l’evanescenza delle risposte sia una sorta di coerente esito dell’occasionalità delle stesse domande.
In effetti, in maniera occasionalistica Jonas si riferisce alla contingente rilevanza delle due polarizzazioni attraverso cui l’epoca presente si riconosce in un medesimo attivismo (appunto il capitalismo ed il comunismo).
Ma dietro questa sostanziale indifferenza per gli attuali sistemi produttivi ed istituzionali si cela in Jonas una effettiva ricerca lungo la via media fra questi due estremi?
In altre parole, al di là di incertezze (e di inquietanti ambiguità sulle risposte dittatoriali da dare all’incapacità della democrazia a controllare lo sviluppo economico-tecnologico), Jonas riesce o no a collocare il suo uomo nuovo, la sua profezia del mondo da salvaguardare contro l’incombente minaccia di auto-distruzione?
Non sarebbe forse sbagliato vedere nella gravità dei quesiti che Jonas si pone e nella stessa evanescenza delle risposte che si dà, un’intima consapevolezza dell’insolubilità del problema di fondo dell’umanità contemporanea, stante l’attuale predominio (almeno apparentemente irrefrenabile) dei criteri di godimento immediato, esclusivo, istantaneo, che animano la società occidentale non meno di quelle meno avanzate sulla via del progresso.
Alla fine, per questa apparente dicotomia capitalismo-comunismo (in realtà le due facce di una stessa riduzione dell’esistenza umana al potere economico-tecnologico), l’evanescenza delle sue risposte date alla gravità del quesito estremo della sopravvivenza dell’umanità attuale potrebbe anche essere un inconsapevole ritorno di Jonas all’iniziale contesto esistenzialista della sua formazione alla scuola di Martin Heidegger e di Rudolf Bultmann(137).
Da lì era partito nella sua giovinezza, cercando poi una spiegazione dell’inveramento del superamento esistenzialista del nihilismo(138), nella dicotomia gnostica fra due princìpi e due forze insanabilmente opposte e non mediabili, se non nel conflitto fra due princìpi e valori diversi. Nella maturità, poi, lungo una via media intuita ed indimostrabile, non ultimo per l’eclissi del sacro, Jonas perpetua questa sua ricerca del fondamento positivo dell’esistenza appunto nella formulazione delle domande estreme formulate nella teoria dell’etica della responsabilità, non altrimenti localizzabili ed espresse se non nell’apparente evanescenza delle risposte.
NOTE:
(1) -C. Laneve, La città interculturale come progetto pedagogico, in: AA.VV., Pedagogia interculturale. Problemi e concetti. Atti di Scholé. XXX convegno, Brescia, La Scuola, 1991, p. 172.
(2) -G. Di Raimondo Giani, Proposte per una didattica di educazione interculturale, in: Ibidem, p. 144.
(3) -L. Secco, Pedagogia interculturale: problemi e concetti, in: Ibidem, pp. 33-34.
(4) Ibidem, p. 8.
(5) -Ibidem.
(6) -F. Rizzi, Educazione e società interculturale, Brescia, La Scuola, 1992, p. 55.
(7) Ibidem.
(8) A. Erbetta, Alla ricerca dell’altro, in: AA.VV., Pedagogia interculturale..., cit., p. 150.
(9) G. Formizzi, Intercultura come "terra comune", in: Ibidem, p. 153.
(10) -R. Piazza, Un percorso metodologico di didattica interculturale, in: AA.VV., Progettare la formazione. teoria e pratica dell’intervento educativo. A cura di V. Sarracino. Lecce, Pensa multimedia, 1997, p. 185.
(11) Ibidem.
(12) -P. Roveda, Pedagogia interculturale come intuizione del Tu, Pedagogia e Vita, LIII, 1995, n. 6 (nov.-dic.), p. 57.
(13) Ibidem.
(14) -A. Poma, Somiglianza e diversità dell’altro: lo straniero il momento ideale nel rapporto interpersonale, Idee, XII, 1997, n. 34/35 (gen.-ago.), p. 38.
(15) Ibidem, l.c.
(16) -A. Rigobello, Intersoggettività e comunità personalistica, ib., pp. 27-28.
(17) -S. Moravia, Identità e interculturalità, in AA.VV., Verso un’educazione interculturale. A cura di S.S. Macchietti, Firenze, IRRSAE Toscana, 1992, p. 17.
(18) Ibidem, p. 18.
(19) P. Roveda, Pedagogia interculturale..., cit., p. 58.
(20) -M. Baldini, L’amicizia secondo i filosofi, Città Nuova Editrice, Roma 1998, p. 6.
(21) -M.T. Cicero, L’amicizia. A cura di E.M. Gigliozzi, Roma, Newton Compton, 1994, p. 33.
(22) P. Roveda, Pedagogia interculturale..., cit., p. 58.
(23) Ibidem.
(24) -R. Polin, Le libertà del nostro tempo. A cura di L. Lippolis, Lecce, Milella, 1995, p. 107.
(25) Ibidem, p. 115.
(26) S. Colonna, Diritto allo studio e scuola per la persona, Roma, Euroma, 1990, p. 50.
(27) Ibidem, p. 59.
(28) Ibidem, p. 64.
(29) R. Piazza, Un percorso metodologico..., cit., p. 184.
(30) F. Ferrarrotti, Oltre il razzismo, Armando, Roma 1989, p. 47.
(31) -C. Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia. A cura di P. Caruso, Torino, Einaudi, 1967, p. 120.
(32) -F. Frabboni-F. P. Minerva, Manuale di pedagogia generale, Bari, Laterza, 1994, p. 563.
(33) R. Piazza, Un percorso metodologico..., cit., pp. 191-192.
(34) Ibidem, p. 191.
(35) -G. Formizzi, Intercultura come "terra comune", in: AA.VV., Pedagogia interculturale, cit., p. 155.
(36) -A. Gabbianelli, Le culture verdi nel villaggio globale: l’ecologismo come pluralismo culturale, Arché. Rivista di Filosofia, I, 1998, n. 1 (gen.-apr.). A cura di S. Ciurlia, p. 123.
(37) Ibidem, p. 125.
(38) -G. Vico, I fini dell’educazione, Brescia, La Scuola, 1995, p. 22.
(39) G. Mari, Educare dopo l’ideologia, Brescia, La Scuola, 1996, p. 92.
(40) G. Vico, I fini dell’educazione, cit., p. 15.
(41) -H. A. Cavallera, L’immagine allo specchio. Il problema della natura del reale dopo l’attualismo, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 77-78.
(42) V. Höesle, Filosofia della crisi ecologica, Torino, Einaudi, 1992, p. 41.
(43) -G. Fornero, Jonas: la responsabilitç verso le generazioni future, in: N. Abbagnano, Storia della filosofia, X, Milano, Tea, 1996, p. 115.
(44) -A. Dal Lago, Responsabilità. A proposito di Hans Jonas, Aut-aut, 1990, n. 237-238 (mag.-ago.), p. 94.
(45) -Hans Jonas nasce a Mönchengladbach il 10 maggio 1903 da famiglia ebrea. Studia negli anni 20 filosofia, teologia e storia dell’arte a Friburgo con Husserl, ed a Berlino, Heidelberg e Marburgo con Heidegger e Bultmann. Successivamente dà inizio al suo cammino di studioso occupandosi del pensiero protocristiano e della tarda antichità classica. "L’argomento del mio primo libro era S. Agostino e il problema del libero arbitrio nell’epoca del pelagianismo; in seguito, per molti anni, tutta la mia energia speculativa è stata assorbita dal fenomeno dello gnosticismo e del suo ruolo nel mondo della tarda antichità"(H. JONAS, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 27). La sua opera fondamentale è però quella dedicata allo gnosticismo (con il titolo Gnosis und spätantiker Geist), di cui nel 1934 viene pubblicato il primo dei due volumi, mentre solo nel 1954 vedrà la luce il secondo. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, nel 1933, Jonas lascia la Germania per recarsi in Inghilterra come volontario dell’esercito britannico. "Cinque anni di servizio militare nell’esercito inglese, nella guerra contro Hitler, inaugurarono la seconda fase della mia vita teoretica"(ID., Dalla fede antica..., cit., p. 28). La disastrosa situazione in cui versava il mondo durante la guerra, la minaccia della morte, determinano in Jonas un orientamento verso la riflessione filosofica sul significato della nostra esistenza, dedicandosi specificamente al tema della biologia filosofica, da cui nel 1966 l’opera dal titolo Il fenomeno della vita. Verso una biologia filosofica. "Fino alla metà degli anni ‘60, la fase centrale dei miei sforzi speculativi fu occupata dall’elaborazione delle intuizioni o delle acquisizioni degli anni della guerra; il tema unificante di tali sforzi fu l’Organismo"(Ib., p. 31). Dopo la guerra Jonas è in Palestina e dal 1949 presta attività di insegnamento in diverse università americane. Presso la New School for Social Research si cimenta nell’elaborazione della filosofia della natura, del mondo organico, e in quella dell’ecologia.
(46) Ibidem, p. 32.
(47) Ibidem, p. 33.
(48) G. Fornero, Jonas..., cit., p. 115.
(49) -A. Dal Lago, Introduzione all’edizione italiana di: H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 9. Sull’analisi della nozione di responsabilità in Jonas, si vedano: P. Pellegrino, Il principio responsabilità di Hans Jonas nel conflitto delle interpretazioni, Idee, IX, 1994, n. 26/27 (mag.-dic.), p. 69; G. Sansonetti, Un’etica della responsabilità: Hans Jonas, Humanitas, XLVII, 1992, n. 4 (ago.), p. 478.
(50) -H. Jonas, Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1990 [da qui in poi: PR], p. XXVII.
(51) -ID., Tecnica, libertà e dovere, Humanitas, XLIV, 1989, n. 1 (feb.), p. 236 [lo stesso testo con non rilevanti varianti in: Rivista di teologia morale, XX, 1988, n. 77 (gen.-mar.) p. 27]. Lo stesso concetto in: ID., PR, cit., p. 8.
(52) -E. Berti, L’etica alla ricerca della persona, Il Mulino, XL, 1991, n. 336 (lug.-ago.), p. 581.
(53) -C. Galli, Modernità della paura. Jonas e la responsabilità, ib., n. 334 (mar.-apr.), p. 189.
(54) -G. Fornero, Jonas..., cit., p. 116; M. Signore, Questioni di etica e di filosofia pratica, Lecce, Milella, 1995, p. 74; M.G. Pinsart, Prefazione a: AA.VV., Hans Jonas..., cit., p. 65.
(55) Jonas, PR, p. 24.
(56) Ibidem, p. 16.
(57) -R. Bodei, La speranza dopo il tramonto delle speranze, Il Mulino, XL, 1991, n. 333 (gen.-feb.), pp. 11-12.
(58) Jonas, PR, p. 43.
(59) -J. Rohls, Storia dell’etica, ed. Il Mulino, Bologna 1995, pp. 47, 541-542; R. Bodei, Principio speranza/Principio responsabilità, Iride, 1991, n. 6 (gen.-giu.), pp. 232-233.
(60) Jonas, PR, p. 125.
(61) Ibidem, pp. 136, 147.
(62) -E. Berti, Il neo-aristotelismo di H. Jonas, Iride, 1991, n. 6 (gen.-giu.), p. 230; R. Bodei, Principio speranza/Principio responsabilità, cit., p. 233; J. Rohls, Storia dell’etica, cit., p. 541. 62
(63) G. Fornero, Op.cit., p. 120.
(64) G. Sansonetti, Op.cit., p. 479.
(65) G. Fornero, Op.cit., pp. 121-122.
(66) -Jonas, Etica della responsabilità [intervista rilasciata a V. Höesle, trad. di Fiorinda Li Vigni], in: AA.VV., Viaggio tra i filosofi. A cura dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici [ ad integrazione di N. Abbagnano - G. Fornero, Filosofi e filosofie nella storia], Paravia, Torino 1995.
(67) -M. Signore, Questioni di etica e di filosofia pratica, cit., p. 77; Jonas, La filosofia alle soglie del Duemila. Una diagnosi e una prognosi. A cura di C. Angelino. Genova, Il melangolo, 1994, p. 52.
(68) B. Rossi, Identità e differenza, La Scuola, Brescia 1994, pp. 8-10.
(69) A.H. Maslow, Motivazione e personalità, Armando, Roma 1973, p. 319.
(70) B. Rossi, Identità e differenza, cit., p. 19.
(71) -A.M. Santo, Educazione didattica interculturale, in AA.VV., Pedagogia interculturale e dimensione europea dell’educazione. A cura di A. Perucca. Lecce, Edinova, 1996, p. 117-118.
(72) Ibidem, p. 119.
(73) -G. Milan, Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Roma, Città Nuova, 1994, p. 95.
(74) Jonas, PR, p. 125.
(75) Ibidem, p. 136.
(76) Ibidem, p. 147.
(77) -"Ora, la responsabilità politica dell’uomo di Stato, descritta da Jonas in termini di totalità, continuità e proiezione nel futuro, rassomiglia per certi aspetti esteriori alla responsabilità del pater familias, tanto che qualcuno potrebbe superficialmente accusarlo di proporre alla politica un’etica maschile tradizionalmente paternalistica (con l’ecologismo quale nuovo alibi dell’autoritarismo: pericolo di cui lo stesso Jonas appare consapevole quando per primo mette in guardia contro il rischio di dittature ecologiche). Ma in realtà la responsabilit politica descritta e auspicata da Jonas non corrisponde affatto a un paradigma genericamente parentale (mancanza di reciprocità), tanto meno a un paradigma specificamente paterno; bensì corrisponde a un paradigma specificamente materno"(S. Caruso, H. Jonas: gli equivoci della responsabilità, "Iride", 1991, n. 6 (gen.-giu.), p. 239.
(78) -A. Perucca, Educazione, sviluppo, intercultura, Lecce, Pensa Multimedia, 1998, pp. 191-192.
(79) Ibidem, p. 204.
(80) Ibidem, p. 206.
(81) Ibidem,
(82) G. Milan, Educare all’incontro..., cit., p. 32.
(83) M. Buber, L’eclissi di Dio, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, p. 103.
(84) -In tal senso, Buber afferma: "... Una concretezza del mondo appena creata ci è stata posta tra le braccia: ne assumiamo la responsabilità. Un cane ti ha guardato: sei responsabile del suo sguardo; un bimbo ha afferrato la tua mano: sei responsabile del suo contatto; una schiera di uomini si agita intorno a te: sei responsabile della loro indigenza"(M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, San Paolo, 1993, p. 203). Sulla definizione di responsabilità si veda dove Buber precisa che questa "presuppone uno che mi appella primariamente, da una regione indipendente da me, al quale io debbo rendere conto. Egli mi parla di qualcosa che mi ha affidato e mi chiede di prenderne cura. Egli mi appella a partire dalla sua fiducia e io rispondo nella mia fedeltà, oppure nella mia infedeltà nego la risposta, o ancora, dopo essere caduto nell’infedeltà, me ne libero con la fedeltà della risposta. Questa è la realtà della responsabilità: rendere conto di qualcosa che ci è stato affidato, a un essere che ci dà fiducia, in modo tale che fedeltà e infedeltà vengano alla luce, ma non con uguali diritti, perché ora la fedeltà appena rinata può vincere l’infedeltà. Dove nessun appello primario mi può toccare, perché tutto è mia proprietà, la responsabilità è diventata un’ombra. E contemporaneamente si dissolve il carattere reciproco della vita. Chi non dà più risposta, non percepisce più la parola"(Ib., p. 234).
(85) Jonas, PR, p. 134.
(86) Ibidem, p. 135.
(87) Ibidem, p. 163.
(88) -R. Mordacci, La responsabilità per la vita in Hans Jonas, cit., pp. 286-287; R. Spaemann, L’empietà dell’ottimismo utopico. Laudatio di Hans Jonas, Rivista di Teologia Morale, 1988, n. 77, (gen.-mar.), pp. 20-21.
(89) Jonas, PR, p. 163.
(90) Ibidem, p. 147.
(91) Ibidem,
(92) -E. Vitale, Il politico secondo Jonas: un genitore quasi perfetto, Teoria politica, VI, 1990, n. 2, p. 149.
(93) Jonas, PR, p. 130.
(94) -Ibidem, p. 129. Ma si vedano: Vitale, Op.cit., p. 149; P. Dell’Acquila, Dalla fede antica all’uomo tecnologico: l’etica in Hans Jonas, Nuova Civiltà delle Macchine, XII, 1994, n. 1 (45), pp. 223-224.
(95) Jonas, PR, pp.. 130.
(96) -G. Crinella, L’antiutopia di Hans Jonas, Hermeneutica, 1990-1991, p. 165; M.C. Pietavolo, Hans Jonas: un’etica per la civiltà tecnologica, Il Politico, LV, 1990, n. 2 (apr.-giu.), p. 342.
(97) Jonas, PR, p. 175.
(98) Ibidem, p. 151.
(99) Ibidem.
(100) Ibidem.
(101) R. Spaemann, L’empietà dell’ottimismo utopico..., cit., p. 17.
(102) Ibidem.
(103) -H. Jonas, Tecnica, libertà e dovere, Rivista di Teologia Morale, cit., p. 26, Humanita, cit., p. 236.
(104) Ibidem.
(105) Ibidem, p. 237, Rivista di teologia morale, cit., p. 29.
(106) -ID., Tecnica, libertà e dovere, Rivista di Teologia Morale, cit., p. 29, Humanitas, cit., p. 238.
(107) ID., PR, p. 176.
(108) -ID., Tecnica, libertà e dovere, Humanitas, cit. p. 239, Rivista di teologia morale, cit., p. 29.
(109) -Ibidem, Rivista di teologia morale, cit., p. 30.
(110) Ibidem, p. 240, Rivista di teologia morale, cit., p. 31.
(111) Ibidem, pp. 241-242, Rivista di teologia morale, cit., p. 32.
(112) -J. Landkammer, Le domande estreme e le risposte evanescenti di Hans Jonas, Filosofia politica, IV, 1990, n. 2 (dic.), p. 427.
(113) -Jonas, PR, p. 30.
(114) -Ibidem, p. 31.
(115) Lankammer, pp. 427-428.
(116) Ibidem, p. 428.
(117) Jonas, PV, pp. 192-193.
(118) Pier Paolo Portinaro, Introduzione a: Jonas, PR, p. xxiii.
(119) Ibidem.
(120) Jonas, PR, pp. 179-180.
(121) Ibidem, p. 182.
(122) Ibidem.
(123) Ibidem, pp. 182-184.
(124) Ibidem, p. 185.
(125) Ibidem, l.c.
(126) Ibidem, pp. 187-188.
(127) Landkammer, p. 425.
(128) Ibidem.
(129) Jonas, PR, p. 188.
(130) Ibidem.
(131) Ibidem, pp. 188-190.
(132) Ibidem, pp. 190-191.
(133) Ibidem, pp. 192-193.
(134) Ibidem, pp. 194-201.
(135) Ibidem, pp. 202-203.
(136) Ibidem, pp. 203-204.
(137) Portinaro, pp. xvii-xviii.
(138) Ibidem, p. xix.
L’influsso esercitato da Luigi Pirandello (1867-1936) sulla cultura contemporanea, italiana, europea, mondiale, è stato talmente profondo che per limitarci al teatro, egli è uno degli autori più rappresentati in tutto il mondo, segnatamente in Francia dove, come ha scritto significativamente Alfred Mortier: "Lo si recita contemporaneamente in tre teatri, fatto senza precedenti per uno straniero, è un furore, un’infatuazione, una moda, una mania". E Pirandello, in una lettera a Marta Abba, da Parigi, datata 02/02/1931, così si confiderà con l’amica: "D’Altronde la Società degli Autori francesi mi ha invitato a far parte, come socio effettivo, della Società, con tutti i diritti degli autori francesi: e anche questo è un atto di distinzione assolutamente unico, non concesso ancora a nessuno degli autori stranieri, che sono solo soci aderenti".
La carriera letteraria, diciamo così, di Pirandello iniziò presto perché - dopo il ritorno dalla Germania, dove si era laureato nel 1891 - si stabilì subito a Roma dove con l’aiuto di Luigi Capuana si inserì negli ambienti culturali della capitale. Sempre quì iniziò a collaborare alle riviste del tempo - come, ad esempio, "La Nuova Antologia", "La Tribuna", "La fiera letteraria" ed altre - e sempre qui e in altre città cominciò a dare alle stampe le prime opere. Non è superfluo, a questo punto, ricordare che dal 1897 il giovane scrittore aveva ottenuto la cattedra di letteratura italiana presso la facoltà di Magistero femminile dell’Università di Roma e che alcuni anni prima aveva pubblicato i principali volumi di poesia come, ad esempio, "Mal giocondo" (1889), "Pasqua di Gea" (1891), "Elegia Renana" (1895), per limitarci solo ad alcuni.
La collaborazione di Pirandello alle varie riviste e giornali dell’epoca lo portò a scrivere novelle, genere nel quale era particolarmente versato e, non a caso, la critica più accreditata tende a conferire ad esse grande attenzione tant’è che, per Corrado Simioni; "le novelle conobbero un largo e incondizionato successo di pubblico" negli ultimi anni di vita dell’Autore. Ancora oggi, esse godono di notevole considerazione per il non comune realismo che, foscolianamente, "le governa" e la semplicità che le contraddistingue. Giustamente Massimo Bontempelli, uno dei maggiori rappresentanti del "realismo magico" del Novecento, ha osservato, per un verso, che Pirandello "ha messo le mani in mezzo a un groviglio di gente e ha tirato su come con le reti, uomini e donne a grappoli. Era quella la piccola borghesia di fine Ottocento, e, per l’altro, che "se voi leggete specialmente i primi volumi dei racconti, quel mondo di stanzucce, scialletti, lettini di ferro, spalle strette, finestre sul vicolo, luci stentate, anime chine, piccole croci, vi pare un mondo già pronto per l’ultimo respiro".
Le novelle, in definitiva, raccolte in quindici volumi col suggestivo titolo, appunto, di "Novelle per un anno" costituiscono sicuramente la parte più e attuale della vasta produzione dell’Autore, anche perché dalle stesse egli ricavò i motivi fondamentali dei suoi drammi; drammi in cui la condizione umana è messa a nudo con singolare perizia, ma pure con implacabile spietatezza, sicché ha ragione il citato Bontempelli allorquando scrive che al mondo pirandelliano "senza spostare niente basti un piccolo tocco per farne un cimitero".
Ma se le novelle hanno goduto e godono di notevole fortuna, anche i romanzi hanno avuto ed hanno grande valenza letteraria ad iniziare da "L’esclusa" (1901) - situazione in cui una donna, Marta Ajala, viene, prima, "esclusa" per una colpa non commessa e, poi, riammessa nella società dopo aver commesso il fallo - per finire a "Uno, nessuno e centomila" (1924) dove il cosiddetto ‘pirandellismo’ raggiunge il massimo dell’arte e del parossismo. Senza dimenticare, naturalmente, "Il Turno" (1902), "Il fu Mattia Pascal" (1904), "I vecchi e i giovani" (1909), e gli altri.
Per quanto riguarda "Il fu Mattia Pascal", esso se, da una parte, rimane ancora oggi uno dei libri più venduti e letti del drammaturgo, dall’altra, al contrario, si conferma come l’opera più seducente ed inquietante insieme; anche per la presenza in esso di quei riferimenti, teosofici, filosofici ed esistenziali che in così larga misura appassionarono l’Autore. La vicenda è nota, con tutte le implicazioni grottesche in cui viene, ad un certo punto, a trovarsi Mattia Pascal - Adriano Meis il quale, dopo tante peripezie, si accorge che senza documenti - il famoso stato civile - non può né denunziare un furto subito, né innamorarsi di Adriana né, infine, prolungare la propria permanenza in una città, Roma, che pure l’ha accolto con tanta simpatia. Al protagonista non resta altro che la messinscena del suicidio, il ritorno a Miragno e, qui, la scoperta della verità con la moglie risposata e la lapide al cimitero con la scritta: ‘Mattia Pascal’. Nota, al riguardo, un esperto dell’opera pirandelliana, Giovanni Croci: "La sua esistenza rimarrà fissa all’esperienza del momento in cui egli ‘morì’, ad una sorta di lucida, emblematica, ironica, filosofica, pazzia".
Ma se la produzione letteraria di Pirandello è notevole sul piano delle novelle e dei romanzi, non meno considerevole risulta il suo impegno nella drammaturgia; impegno che fa di lui uno dei pochi autori contemporanei che possono reggere il confronto con i sommi tragici greci. Tale confronto l’Agrigentino lo può reggere anche con la critica visti i due importanti saggi "Umorismo" ed "Arte e scienza", entrambi del 1908.Con questi, opponendosi ai canoni della critica crociana, egli rivendica vigorosamente, in polemica con l’equazione "intuizione = espressione", che "l’idea non può essere assente dall’opera d’arte, ma dev’essere sempre, tutt’intera in quell’emozione feconda, ond’è creata".
La produzione teatrale di Pirandello è, com’è noto, amplissima, sicché basta solo l’analisi dei due capolavori, "I sei personaggi" (1921) e "L’Enrico IV" (1922) per avere la percezione della grandezza di Pirandello drammaturgo. La prima opera, anche ciò è notorio, non godé, all’inizio, i favori della critica - troppo innovativa ed impegnativa, chiarisce sempre Corrado Simioni, "la rottura con la forma teatrale com’era intesa tradizionalmente" - mentre la seconda si affermò subito.Anche queste due dolorisissime storie sono note. La prima, perché, rompendo, appunto, con la tradizione, sciorinava un intreccio in cui la tragedia di una famiglia - il Padre, la Madre, il Figlio - si incrociava con la situazione non meno pietosa di un’altra famiglia formata, appunto, dalla stessa Madre, dal Segretario del Padre e dai tre figli dei primi due, vale a dire la Figliastra, il Giovanotto e la Bambina, la seconda, perché il protagonista, nelle vesti di Enrico IV di Franconia, cadendo da cavallo restava "fissato" per diciotto anni nella condizione di pazzo a causa del trauma subito. "I sei personaggi" vogliono vivere e cercano un autore, mentre "Enrico IV" mette in opera una micidiale vendetta uccidendo Belcredi, il vero responsabile della caduta da cavallo dell’amico - rivale. Da qui, l’assurda e diabolica decisione di chi impersona l’imperatore, di restare per sempre "fisso" nella sedicente pazzia. In ambedue i drammi, che Pirandello chiama commedie, torna il celebre motivo della dialettica "vita - forma" con quella che rappresenta l’istintività, la schiettezza, l’autenticità e con questa che costituisce l’immobilità, la cristallizzazione, la morte.
Sintomaticamente queste parole dell’Agrigentino tratte dalla celebre Prefazione ai "Sei personaggi": "Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale". E più avanti, ribadendo le affermazioni precedenti: "Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e perciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunti vive per sempre, in quanto è forma". Da qui, la grandezza di Pirandello, ma da qui, anche, la dimostrazione, egli resta uno dei maggiori testimoni di questo, dice Luigi Russo, "cruciato Novecento".
Grandissimo esponente del decadentismo europeo, lo scrittore siciliano incarna - con autori del calibro di Kafka, Svevo, Schinitzler, Zweig ed altri - l’intero malessere del XX secolo anche, e soprattutto, perché la sua analisi, sempre lucide e spietate, trovano nei motivi coscienti, subcoscienti, teosofici, metafisici, mistici e simbolici, l’"humus" più fertile e fecondo. Non a caso, egli ha redatto un saggio sull’umorismo e ha scritto, sono sue parole, che "il mondo, lui (l’umorista) lo vede, se non propriamente nudo, per così dire in camicia: in camicia il re, che vi così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino", e, non a caso, ancora, il narratore ha definito il cosiddetto "sentimento del contrario". Sentimento del contrario che scaturisce dall’umorismo; e questo perché, egli osserva, "l’umorismo nega il comico, lo supera attraverso il comico stesso; penetra nel suo contrario (nel contrario appunto del comico) e ne acquista tanto il sentimento, che attraverso la rappresentazione di esso comico, te lo distrugge". Insomma, conclude lo scrittore, nell’ironia, nella satira e nell’epigramma non abbiamo il sentimento del contrario, bensì un avvertimento del contrario, vale a dire, son sue parole, "un avvertimento che non penetra fino a farti ‘sentire’ il no come il sì, per modo che tu non possa più e non sappia da parte tenere, e t’è impedito il riso come il pianto. Il sentimento del contrario è presente in molte opere pirandelliane ed ecco il classico esempio che troviamo nel libro ‘l’Umorismo: "Vedo una vecchia signora, coi i capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere (...).Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere (...)" e lo fa soltanto per ingraziarsi "l’amore del marito molto più giovane di lei (...), ecco che io non posso più riderne come prima e "da quel primo ‘avvertimento del contrario’ mi ha fatto passare a questo ‘sentimento del contrario’.
Ma Pirandello fu pure un autore espressionista visto che egli assorbì tali tematiche durante il soggiorno a Bonn dove ebbe familiarità con autori del calibro di Simmel, Dilthey, Lipps ed altri; autori, da lui, tra l’altro, citati nei due saggi critici già ricordati, ‘L’Umorismo’ ed ‘Arte e scienza’, senza dimenticare il Binet ed altri psicologi ivi compresi - innanzitutto Bergson - gli stessi psicoanalisti.I motivi di fondo sono sempre quelli esistenziali ossia la condizione dell’uomo nel mondo e il senso tragico della vita.
Condizione così efficacemente sintetizzata nel saggio postumo ‘Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra’ in cui leggiamo: "Potrà anche darsi che appena privo di sensi (...) io debba finire in aria come quell’impercettibile spruzzolino in cui d’improvviso s’estingua una bolla di sapone: luce, forma, colori: tutto, via d’un soffio come niente; e silenzio". Altrove, in una lirica, il poeta precisò la situazione dell’individuo in questo mondo: "vado dove la mia sorte / mi conduce. /Senza luce / corro anch’io verso la morte". Ecco perché il drammaturgo deve essere, a buon diritto, considerato la coscienza critica del Novecento per la capacità, tutta sua, di essere riuscito ad impersonare la crisi di quei valori su cui si reggeva la società tradizionale; società che Pirandello, da grande patologo dell’anima ha collocato sul tavolo anatomico ed ha ispezionaato fino alle profondità più recesse. Con l’Agrigentino deve, in ultima analisi, fare i conti chi voglia comprendere con maggiore chiarezza il dramma, prima, e la tragedia, dopo, dell’uomo contemporaneo.
Nell’estrema provincia della Sicilia occidentale, nel 1875, nasce Giovanni Gentile astro fulgido del pensiero filosofico europeo. Il quale contribuisce fortemente a restituire all’Italia quella dignità che la sua frammentazione politica sembrava avere offuscata, sminuendone il rispetto al mondo della cultura che egli invece rinnovava con la sua originale concezione della vita che poneva il valore dell’uomo nella pienezza della sua attività spirituale. Quando egli, a Palermo, cominciò il suo magistero accademico, si trovò accanto colleghi legati ancora alle dottrine positivistiche che stancamente richiamavano formule di un illuminismo superato dagli eventi e dal pensiero dell’idealismo tedesco. Giovanni Gentile, nella sua città natia, fece presto sentire alla sua terra "della sua gran virtuale alcun conforto", pubblicando nel 1896, ancora studente universitario, sul giornale locale "Helios" due scritti letterari che lo spunto polemico apriva già alla speculazione filosofica; e, nel 1911 su "Il risveglio" il giornale che succede a "Helios" una lettera che testimonia la sua maturazione civica quando si interessò alle vicende politiche del suo paese che voleva ispirate ai suoi interessi ideali risorgimentali nella elaborazione di un pensiero che investiva tutta quanta la sua umanità, il sentimento, l’anima, la volontà. Era già la sua vita che egli cercava di imporre ai sodali del Circolo che lo ospitavano nel loro giornale, organo che propugnava la battaglia di una esistenza cittadina "in pace, sobria e pudica". Un sogno che non catturava il giovane se esso frenava l’esuberanza dell’età, insorgente dal suo spirito che non avvertiva il bisogno di pause borghesemente riposanti, ma si protendeva continuamente verso la scoperta della infinità del suo mondo; un sogno che, tuttavia, diventava come la siepe leopardiana che gli apriva nel pensiero "interminati spazi e sovrumani silenzi". A Palermo doveva imbattersi in un’altra siepe più intricata e fitta di problemi nella persona di un sacerdote dimesso e modesto, padre Onofrio Trippodo con cui non cessò mai di confondersi umilmente nelle conversazioni peripatetiche che dall’università si protraevano fino alla Biblioteca Filosofica, dove assumevano il tono di una discussione più animata e scientifica. Un interlocutore, il sacerdote Onofrio Trippodo che il Gentile non seppe sostituire che nessun altro se egli si legò con tutto il sentimento umano di un affetto che valse più dei vantaggi che ne traeva il suo intelletto nel loro filosofico dialogo tanto che, nello slancio più sincero dell’uomo, egli lo indicò come il testimone inconfutabile del suo cristianesimo e del suo cattolicesimo: "Oh" La tua voce ancora non s’è spenta dentro al mio cuore; e nel riudirla mi domando se sono sempre degno di te. Tu conoscevi e riconoscevi il mio cristianesimo e il mio cattolicesimo e mi rincoravi contro i giudici malevoli o corrivi: poiché la tua affettuosa stima, la tua paterna compagnia nella via che insieme si faceva coi giovani che ci venivano intorno, mi metteva nel cuore tanta fede e tanta certezza" (La mia religione). Nella sua figura ieratica egli ritrovava sicuramente l’immagine santa di sua madre che gli aveva dato il primo cibo dell’anima quasi come il seme fecondo del suo pensiero: "Non credo di avere tradito il primo insegnamento religioso che mi venne impartito da mia madre (la cui voce ancora e sempre dentro mi suona" (Ibidem).
Affetti, sentimenti, ricordi paesani che non arrestano mai lo sviluppo del suo pensiero a raggiungere sempre nuovi e più lontani traguardi. Affetti, sentimenti e ricordi che egli coltivò sempre nel cuore come la sua stessa forza più intima che arricchiva di propaggini rigogliose il suo spirito a vincere le resistenze materiali della realtà quotidiana; la siepe più grande che, dai cespugli del paese si allungava nei tentacoli di una società che lo ghermiva in una convivenza superficiale o, quanto meno, artificiosa. Egli la scavalcava con l’impeto di un novello Ulisse che, proprio la dolcezza di figlio, "la pietà" del vecchio padre ed ogni altro "debito amore" sospingeva a salire sempre più in alto nell’esercizio di una dialettica che la stessa realtà nel suo continuo divenire identificava col suo pensiero e la parola assumeva subito al suo ritmo creativo. Era come se quel pensiero nascesse alla parola, fosse la parola stessa che in sé racchiude la verità e che il suo intelletto voleva conoscere non nei parametri fissi della sua struttura, ma nella tensione dello spirito che gliene faceva scoprire l’essenza universale. Quel pensiero conteneva già la visione di un mondo non costruito alla logica dell’intelletto, ma creato alla fruizione di una cultura che avrebbe restituito il cittadino alla sua umanità integrale.
A Palermo, Giovanni Gentile trovò nella Biblioteca Filosofica la pedana di lancio delle sue idee che dovevano dissequestrare definitivamente la cultura siciliana dal lungo isolamento cui era stata costretta durante il Regno delle due Sicilie, quasi una liberazione che fu come preludio del dissequestro che egli stesso avrebbe operato delle cultura italiana quando la scoperse sotto l’egemonia del Croce che era quella di un razionalismo a scapito del sentimento e della fantasia, privilegiando essa l’élite della intellettualità, come bandiera della opposizione del suo sostenitore carismatico a un regime, nel quel, se Gentile si integrava socraticamente il Croce si degnava di fare qualche comparsa concessiva del suo alto consiglio di saggio pontificante!
Così, tra le due culture non ci fu confronto, ma scontro, uno scontro che doveva determinare la fine di un sodalizio nella impietosa speculazione dei mestatori politici. Giovanni Gentile, invece, non tradì mai il sentimento dell’amicizia che, per il siciliano autentico, è il più sacro dopo quello per la madre, se non reagì, corrivo astioso, ai colpi duri del Croce, professandogli sempre umilmente e immutabilmente legato, ignorando ogni pregiudizio politico e le stesse divergenze teoriche. Egli lanciava agli italiani, ancora, la lezione della sua cultura con l’autorità del suo pensiero e la potenza della sua parola e la diffondeva dalla cattedra della scuola, dagli organi statali del potere politico, di cui egli gestì il dicastero più moralmente impegnato, attraverso anche i convegni degli istituti culturali fondati o patrocinati da quel regime che non riuscì a imbavagliarlo: chè dal suo insegnamento (cioè dalla sua parola sempre viva, sia quella parlata che quella scritta) egli non licenziò mai pappagalli della sua cultura, ma uomini, anzi promesse di uomini nuovi, che fossero soprattutto se stessi, cioè liberi, perché, in ogni suo atto, faceva soltanto cultura, non propaganda ideologica settaria; era egli stesso la cultura dello spirito, non dello o della ragione o della volontà, cioè di quei "distinti" crociani che frizionavano l’indivisibile come un oggetto, ma di tutto l’uomo che poteva sempre ritrovare se stesso in se stesso, come dire sentirsi veramente libero, nella tonalità e unicità della vita spirituale che il Gentile non predicò soltanto, ma praticò fino al sacrificio di sé e per il riscatto del suo popolo in una Patria grande e immortale. Postilla: A proposito della parola di Giovanni Gentile "che non fu mai per latro, se non per se stessa" e che A. Asor Rosa relegò nella morta gora del proprio paludamento accademico, abbiamo testimonianze autorevoli che lo richiamano alla sua inesausta vitalità. Ne indico soltanto tre, tre nomi che mi sono familiari e che rispondono a Pietro Mignosi, Giuseppe Maggiore e Michele Federico Sciacca, tutti siciliani che onorano, per altezza d’ingegno e profondità di pensiero la nostra terra. La virtù prima di quella parola era stata (ed è) di rendere spiritualmente libero chi l’ascoltava (o la legge) anche una sola volta! Non, infatti, il fascino dell’oratore, ma la potenza evocativa della sua parola suscitava improvvisi mutamenti interiori che svegliano la coscienza dell’uomo alla libertà dello spirito. Pietro Mignosi subì la suggestione anche del pensiero in essa avanzato e che, per un momento lo allontanò quasi dalla parola Verbo incarnato! Ma, se ne ritraesse presto cime da una eresia che gli faceva rimordere la coscienza, ma non cancellò la gratitudine per il dono che ne aveva ricevuto di una insospettata crescita, l’uomo il pensatore e il poeta! Giuseppe Maggiore fu anche catturato da quella parola e dal pensiero che la muoveva alla fruizione del mondo. Un pensiero che lo nutrì nella formazione dell’intellettuale e del cittadino come il verbo assoluto del regime dal quale si scosse quando venne trafitto dal raggio della Grande Luce evangelica che lo restituì alla sua prima libertà appresa dalla parola di colui che egli riconobbe come "l’ultimo e il più grande dei suoi maestri" ("La vita di nessuno"). Michele Federico Sciacca ascoltò una sola volta, a Roma, la parola di Giovanni Gentile e gli bastò per dichiararsi "gentiliano", nonostante fosse stato e si fosse professato discepolo di Antonio Aliotta, il suo maestro di filosofia dell’Università di Napoli che egli preferì frequentare. La dialettica del suo pensiero, però, non ridiceva linfa nuova dalla logica lucida dell’Aliotta, ma dalla passione che nel suo spirito aveva impresso la parola del Gentile (che sempre dentro gli suonò) e che fu il seme delle originalità del suo "idealismo oggettivo", una filosofia che celebra la dignità dell’uomo al parametro della sua origine divina. In questa chiave Giovanni Gentile si pone come la stella da cui traggono luce tanti studiosi del pensiero europeo contemporaneo.
Nato a San Giuseppe Jato, il 31 gennaio 1864, da Francesco e Maria Ajello. Presso il Seminario di Monreale frequentò i corsi del ginnasio inferiore e superiore, avendo la guida di ottimi docenti del campo degli studi umanistici, secondo la felice tradizione di quel tempo: i professori Vaglica, Polizzi, Fiorenza, Marotta, Giordano. Gli fu anche vigile e affettuoso custode lo zio sacerdote, Padre Salvatore Riccobono, fratello del suo genitore, solitamente chiamato Padri Turi, ovvero Padre Vicario, venuto a mancare in San Giuseppe Jato il 14 maggio 1931 presso l’Istituto di Suore del Boccone del Povero, di fronte la Chiesa Madre: tale Istituto era stato realizzato dal Sacerdote Padre Pasquale Riccobono, mentre l’altro Istituto, detto delle Orfanelle, con annesso Ospedale, retto dalle Suore di San Vincenzo, era stato voluto e costruito per opera di Padre Francesco Riccobono. Due istituzioni, queste, che da oltre un secolo si sono rivelate preziose per le esigenze religiose, etiche, culturali, sociali della popolazione jatina, e permangono ancora oggi vitali. A vent’anni il giovane Salvatore Riccobono prestò servizio militare nell’arma di Artiglieria e col grado di sottotenente fu in forza nella Caserma del 22° Reggimento di Artiglieria da campagna, sita in Corso Calatafimi, a Palermo (il 22° Reggimento rimase sino alla fine del secondo conflitto mondiale). Del periodo trascorso sotto le armi il Riccobono trasse preziosi ammaestramenti di esperienza, di disciplina, di vita severa. Conseguì la laurea in giurisprudenza nella Università di Palermo nel 1889, discutendo una tesi sull’istituto del Possesso, tesi preparata in una casa rurale presso l’odierno Poggio San Francesco, vicina a Portella della Paglia (contrada Strasatto). E dopo la laurea seguì il consiglio lungimirante del prof. Giuseppe Gugino, suo docente di diritto romano a Palermo, di andare in Germania per continuare a perfezionare gli studi giuridici. Fu così che il Riccobono si recò in Germania, ove rimase ininterrottamente per quattro anni, ascoltando Maestri insigni nelle Università di Monaco di Baviera, Lipsia, Berlino, Strasburgo. La lunga permanenza in Germania fu per il Riccobono come la scoperta di un nuovo mondo, onde soleva egli ripetere che la Germania era stata la sua seconda patria. Difatti la Germania del secolo XIX poteva vantare le migliori Università e Centri di studio e di ricerca tra tutte le nazioni d’Europa e del mondo. La formazione scientifica del Riccobono avvenne con l’ascolto di grandi Maestri, come Ernst Eck, Heinrich Dernburg, Lewin Goldschmidt, Alfred Pernice, Otto Lenel, Otto Gradewitz, Bernard Windscheid. E fu proprio il Windscheid, che si incise più profondamente nella mente e nell’animo del Riccobono, durante il corso di pandette alla Università di Lipsia (1890-91), e che fu decisivo per la scelta della sua carriera futura. Il Windscheid, autore del progetto del Codice Civile tedesco, entrato in vigore in Germania all’alba del 1900, rilasciò il 31 luglio 1891 un attestato al discepolo Riccobono, ove dichiarava di non avere mai incontrato durante la sua lunga esperienza universitaria un giovane così attento, capace come il Dr. Riccobono, di cui previde la luminosa carriera scientifica. Tornato in Italia nel 1893, il Riccobono ebbe la ventura di incontrare a Roma un altro grande maestro, Vittorio Scialoja, che lo avrebbe in breve tempo portato alla cattedra. Divenuto professore nella Università di Camerino (18965-96), dal febbraio professore ordinario nella università di Sassari, il Riccobono si trasferì nell’ottobre dello stesso anno 1897 alla cattedra di istituzioni di Diritto Romano a Palermo, ove rimase sino alla fine del 1931, per oltre trent’anni. A Palermo rivestì la carica di Rettore dell’università nel triennio 1908 - 1911; di Preside della Facoltà di Giurisprudenza dal 1921 al 1931. Fu Pro-Sindaco della città di Palermo nel 1917-18; Presidente della Provincia di Palermo dal 1928 al 1929. Fece parte di vari pubblici uffici nel lungo periodo di permanenza nel capoluogo della Sicilia. Chiamato a Roma, dopo il ritiro del Maestro Vittorio Scialoja, nel 1932, insegnò alla Facoltà della Sapienza la materia a lui congeniale: Esegesi delle Fonti del diritto romano. E dal 1932 tenne anche l’insegnamento di Storia del diritto e di Esegesi presso l’Istituto pontificio Apollinare, che poi divenne il pontificio Ateneo Lateranense, ove rimase ad insegnare sino alla fine del 1955. All’Ateneo del Laterano il Riccobono fece dono della parte migliore della sua biblioteca (1939).
Socio di numerose Accademie italiane e straniere, il 29 maggio 1932 entrò a far parte della Reale Accademia d’Italia. Nel 1924 tenne un corso di conferenze alla Università di Londra ed una lezione alla Università di Oxford, ove venne insignito del titolo di Doctor honoris causa of Civil Law. Nel 1929 fu a Washington per un corso di lezioni nella Catholic University of America, ove fu fondato il Riccobono Seminar of Roman Law ed egli nominato Magister ad vitam.
Ma la vera vocazione del Riccobono per tutta la vita fu l’insegnamento, che rese prestigioso nel mondo il Seminario di diritto romano della Università di Palermo, una Scuola viva, un vero vivaio di germogli, che ancora oggi fiorisce. Dalle lezioni di Esegesi delle Fonti del diritto romano, tenute nel Seminario che ora porta il suo nome, ebbero origine le opere di Riccobono, scritte durante il silenzio della notte tra le ore 22 della sera e le ore 2 o 3 del mattino. E viva resta ancora oggi la figura di Salvatore Riccobono, scomparso a Roma il 5 aprile 1958 a causa della naturale fragilità umana, ma non scomparso dal cuore e dall’effetto di chi lo conobbe e le ebbe guida, amico, vero Maestro. Uomo semplice, sobrio nel vitto, parsimonioso in ossequio alle avite consuetudini della civiltà contadina, il Riccobono rimase sempre legato alla sua terra natia, al suo paesello, alla campagna paterna dei Mortilli, alla quale soleva tornare ogni anno per sostare all’ombra degli alberi di ulivo o di pergola di zibibbo, di cui era ghiotto, che circondavano la sua fanciullezza, l’affetto verso il padre, la particolare sensibilità e intuizione della madre, che presentì l’affermazione del figlio Turi nel campo degli studi, l’affetto verso la numerosa famiglia, cui venne sempre incontro secondo le sue possibilità. Fu l’amore verso la campagna, che rese Turi forte per tutta la vita: ogni giorno, in condizioni di tempo buono o cattivo, percorreva con passo regolare e cadenzato non meno di otto o dieci chilometri a piedi, ma durante la vacanza ne faceva molti di più. Così, in estate, era solito percorrere a Palermo dalla casa di Corso Calatafimi, 777 (presso Villa Tasca) i cinque chilometri sino alla Marina per godere i mirabili tramonti sul mare e la visione di Monte Pellegrino; e a Roma andava dalla casa di via Carlo Tavolacci, 5 (Viale Trastevere, presso il Ministro della Pubblica Istruzione) sino al Pincio, ove sostava nella splendida casa Valadier, in vista della Cupola di S. Pietro. Così era solito ricordare con nostalgia i suoi giovanili vagabondaggi in Germania, da una città all’altra, da un villaggio all’altro attraverso foreste pianure e colline, sempre instancabile, alla scoperta di nuovi panorami e di nuovi pensieri. E soleva spesso ripetere: "U sceccu zoppu si godi la vita", valendo con ciò significare che oggi con le macchine veloci ci si privasse della contemplazione di orizzonti sconfinati, della interiore meditazione dello spirito. Tutto questo costituì il segreto della sua giovanile longevità, della sua ferrea salute, fisica e intellettuale, della sua ininterrotta attività scientifica. Mens sana in corpore sano. Nutrì sempre una particolare tenerezza vero i bambini, soffrendo del fatto di non averne avuto di propri. Gli si illuminavano gli occhi cerulei, quando ascoltava il cinguettio dei più piccoli e osservava il misterioso, progressivo sviluppo della loro intelligenza, il loro aprirsi al mondo, la ingenua spontaneità delle prime parole, dei primi "Perché?" Novantenne visse ore deliziose e felici con i piccoli pronipoti nella casa romana. Una ulteriore prova dell’attaccamento di Salvatore Riccobono alla sua terra si ritrova nella lunga, appassionata relazione tenuta a Palermo, in occasione del Congresso Agrario Siciliano nel Settembre 1918, sul tema: "la colonizzazione interna della Sicilia e la viabilità rurale", congresso che vide riuniti uomini di fede e sensibilità profonde, tra i quali Luigi Sturzo, mentre stava per chiudersi la tragedia della prima guerra mondiale (1914 - 1918) e bisognava preoccuparsi ad affrontare i gravi problemi del dopoguerra. Il vincolo di affettuosa devozione alla propria terra non abbandonò mai Salvatore Riccobono nel corso dei suoi 94 anni di vita. Il binomio studio - campagna costituì la poesia, l’armonia della sua vita: vita intensamente, coerentemente, nobilmente vissuta con uno stile che da della sua esistenza una mirabile opera d’arte, ispirata ad antica saggezza.
Il regno di Federico d’Aragona segna una svolta fondamentale nella storia siciliana. Enna ricopre un ruolo di grande importanza in questo lasso di tempo, durante il quale l’isola sognò l’indipendenza e si profilò un chiaro segnale di rinnovamento dopo il Vespro.
Vincenzo Littara, storico netino del secolo XVI, racconta nella sua "Historia Hennensis" che Federico era solito "estivare" ad Enna, alloggiando nel famoso Castello che si ergeva maestoso sulla rocca. Si tratta del Castello di Lombardia. Egli continua dicendo che Federico si sentiva al sicuro dentro quella città in posizione fortificata, equidistante dalle coste siciliane; da qui infatti si poteva raggiungere facilmente ogni punto della costa, senza dover percorrere lunghissimi tragitti e dominare nello stesso tempo per lungo raggio tutte le valli circostanti.
Quando Federico viene incoronato re di Sicilia a Palermo il 25 marzo del 1296, Paolo Vetri storico ennese del secolo scorso, riferisce di un’usanza che forse risale proprio a quel tempo. Questa costumanza si giustifica anche per il fatto che Enna in inverno, data l’altitudine, è spesso coperta di neve, e il clima rigido di montagna invita a trascorrere le serate di freddo e di gelo in casa. Scrive testualmente:
"La classe del popolo, quasi immediata creatura della gleba, la quale vive col lavoro agricolo in un ambiente tutto proprio, quando infuriano i venti, e piogge si scaricano a catinelle, quando i campi sono coperti di neve ed è costretta al riposo, nelle sere di quei giorni di costernazione per confortarsi nella comune miseria, per distrurre le prime ore di quelle notti lunghe e noiose, si riunisce in qualche suo umile e famigliare ritrovo e tratta dei giuochi, i quali chiudonsi con quello che si dice "Santo Papa". Uno della comitiva, parato pontificalmente, si asside in un seggiolone, i convenuti a vicenda vi si accostano sommessi e riverenti; gli fanno ogni rimostranza di rispetto, lo incensano con polvere tratta dai focolari, gli baciano il piede, gli esplodono i bisogni e ne invocano grazie e favori. Il finto papa, maestosamente atteggiato, seriamente cupo, ascolta, non risponde indi sfiora sulle labbra un riso, così gli adoratori, accorgendosi che di lor non cura, lo mettono bruscamente giù dal soglio, gli strappano la tiara, e con espansiva allegria si applaude. Il papa, beffeggiato, da tutti respinto, fugge per nascondersi, e la rustica compagnia si scioglie".
Il riferimento al papa Bonifacio VIII è chiara, ed il sarcasmo dello scherzo scenografico è un modo di farsi beffe dell’autorità papale in barba agli ammonimenti da parte dei più potenti, quale poteva essere la Chiesa. Questo dimostra come il popolo siciliano in quel momento fosse vicino al re e cosciente di difendere fino al sacrificio l’indipendenza di una piccola monarchia costituzionale, ma esempio di illuminata autogestione.
I momenti più significativi in cui Enna viene esplicitamente nominata da storici, documenti del tempo, proclami, sono molti.
Federico dopo la sconfitta di Capo d’Orlando, per prudenza, nel luglio del 1299, si ritirò ad Enna, da dove poteva controllare la situazione generale, poiché qui, come testimonia Nicolò Speciale nella sua "Historia Sicula", vi era ricchezza di acque, e la fortezza era considerata inespugnabile. Da lì si poteva raggiungere abbastanza presto qualsiasi parte dell’isola, in caso il nemico si facesse vivo.
Il 2 ottobre di quell’anno Federico si trovava appunto là (secondo un privilegio ristampato da cui attingono sia il Littara, sia Speciale).
Quando Carlo II nonostante il parere contrario del papa, decise di assalire il Val di Mazara, ad Enna si tenne un consiglio di guerra per prendere rapidissime decisioni, e si stabilì che il re a capo dell’esercito avrebbe affrontato il nemico a Trapani. Ad Enna rimase di guardia Guglielmo Calcerando con poche forze. Da lì, come testimonia anche Miche Amari, Federico si mosse con tutto il grosso dell’esercito di cui facevano parte molti ennesi, e la popolazione uscì dalla città per accompagnare il re. Nella pianura di Falconaria fra Trapani e Marsala, avvenne una battaglia decisiva da cui i siciliani, nonostante Federico rimanesse ferito, riportarono una grande vittoria.
Il Fazello, storico del cinquecento, nella sua Storia di Sicilia, riporta l’entrata trionfale del re ad Enna, dove fu accolto con "somma allegrezza", come afferma Littara.
La città fu sempre fedele a Federico; un altro momento molto importante per l’apporto dell’aiuto degli ennesi, si presentò quando fu allestita la flotta da inviare nel golfo di Napoli per cercare di fermare il nemico ed evitare un’altra invasione delle coste siciliane. Il 14 giugno del 1300 la flotta siciliana subì una triste sconfitta nelle acque vicino l’isola di Ponza, con gravi perdite di uomini e di navi.
Nell’agosto del 1300 Assoro e Realgiovanni, nella valle dell’ennese, si ribellarono, ma Federico, che si trovava ad Enna, come ogni estate, riuscì a domare la rivolta.
Gli Angioini cercavano di forzare il fronte ed espugnare la fortezza ennese, attraverso tradimenti trasversali, e di impadronirsi dei feudi attorno al territorio, così si impossessarono, tramite corruzione, di un castello vicino Leonforte, chiamato Taba. Questi tentativi riusciti parzialmente, non piegarono mai la fedeltà al re di Sicilia degli abitanti di Enna. L’aiuto della città fu di fondamentale importanza nel corso di tutto il periodo di guerra che ha preceduto la pace di Caltabellotta.
Un aiuto sostanziale da parte di Enna fu dato alla città di Messina assediata da Ruggero Lauria nell’estate del 1301. Non avendo un’entroterra fertile, difficile per la presenza di sentieri di montagna disagiati, la carestia aveva raggiunto proporzioni incredibili, per cui Federico, da Enna portò viveri e vettovaglie, e da Messina guidò la popolazione in un esodo verso le zone del centro per cercare di salvare quanta più gente possibile.
La pace di Caltabellotta segnò un momento fondamentale di tregua per tutta l’isola. Passeranno ben dieci anni durante i quali anche Enna godrà di grossi vantaggi. Federico sposerà Eleonora, figlia di Carlo II d’Angiò, nel maggio del 1303.
Inizia così un periodo di relativa calma e di ripresa economica, anche nel campo dell’edilizia religiosa. Eleonora promuove la costruzione del Duomo di Enna, la città si arricchisce di costruzioni, di torri.
Il primo problema che si presentò fu la smobilitazione delle forze militari. Infatti pose grossi problemi la presenza di molti soldati mercenari, che rimasero senza possibilità di lavoro. Una guerra contro i Turchi che minacciavano l’impero sul fronte orientale, permise di inviare all’imperatore bizantino Andronico II tutti i mercenari, che in seguito formarono la famosa Compagnia catalana, efficentissima militarmente, ma anche autrice di efferate crudeltà, conquistatrice a favore di Federico del ducato di Atene e di Neopatria.
La Sicilia divenne una confederazione di città e di signorie feudali sotto la reggenza del re. Le città avevano un’autonomia governativa composta da magistrati elettivi, con un proprio bilancio e truppe per resistere in caso di attacco. Enna, per la sua importanza strategica e militare aveva un presidio ben equipaggiato, anche per la ripetuta presenza della famiglia reale, che era solita alloggiare nel Castello arroccato in alto e munito di un grande numero di torri fortificate. L’impianto medievale ben si adattava alla città posta su un altopiano e scoscesa. Una rete di torri militari e di avvistamento circondava tutto l’abitato. Molte di queste sono state inglobate successivamente nelle chiese a mo’ di campanile, ma molte di esse sono riconoscibili per la struttura stessa architettonica e per la posizione. Enna era ricca di acque, di boschi, di cereali (non bisogna dimenticare che la città fin dalla notte dei tempi fu la sede del culto di Demetra-Cerere, dea delle messi). La pastorizia era largamente praticata, con il vantaggio della ricca produzione di latte e derivati (cacio, ricotta), nonché la lana, le pelli, la carne. Il pane, la "pagnotta", era uno degli alimenti base, realizzata con farina di frumento o anche di segale, di cereali misti; i legumi, quali lenticchie ceci, fave, erano molto diffusi. La minestra d’orzo o di farro, di cavoli, o verdure in genere, era uno dei cibi base di tutte le famiglie. La carne rimane l’alimento più importante per il nutrimento di tutta la popolazione. Ad Enna, era comune trovare cinghiali, pesci d’acqua dolce, per la presenza del famoso lago di Pergusa, ma anche di torrenti e corsi d’acqua, e del fiume Salso.Le case erano fatte anche di mattoni misti a copertura di paglia specialmente negli agglomerati agricoli, nelle aree a valle della città.Le grotte, di cui Enna è ricca, furono ampiamente abitate anche in periodo medievale, e servivano per alloggiare anche gli animali.
L’agiatezza, la circolazione monetaria, l’importazione e l’esportazione dei prodotti locali, incluso il legame, permisero anche un maggiore benessere nei ceti medi e contadini.Si indossavano abiti realizzati con lane importate colorate, e non più ruvidi indumenti monocolori di orbace, un tessuto fatto di lana poco lavorata, rustica, pesante ed impermeabilizzata per le intemperie invernali. Si portavano ornamenti costosi, alle feste, agli spettacoli, negli incontri mondani. Le vie di comunicazione erano costituite da sentieri polverosi, percorsi a dorso di mulo e di animali da soma, che trasportavano derrate alimentari, merci, prodotti vari. Il mare era la via di comunicazione più seguita. Il Salso che era stato una strada di transito attraverso cui si esportava il grano verso i porti caricatori fino al periodo tardo-bizantino, era poco battuto, forse perché la presenza delle masserie accanto ai castelli, che spesso si trovavano lungo il percorso dall’entroterra alle coste, permetteva soste ai viaggiatori che preferivano ai fiumi, le strade, e le mulattiere, più frequentate, avendo così modo di fermarsi per rifocillare animali ed uomini.
La presenza degli Aragonesi ad Enna è largamente attestata dai ritrovamenti di ceramica medievale. Al Castello di Lombardia, durante tre campagne di scavo seguite da me, di saggi di scavo nei vari cortili interni, e durante l’apertura di uno degli ingressi che dall’esterno conduceva direttamente alla parte centrale dell’intero complesso, in mezzo alla enorme quantità di terreno di riporto estratto, sono state ritrovate moltissimi resti ceramici del periodo aragonese.Si tratta di ceramica raffinata, dipinta, con la presenza dello scudo crociato, sono vasi frantumati di varie dimensioni, piatti a vernice lucida con disegni a strisce su fondi bianchi, gialli, grigi, molti di essi con motivi ornamentali pregevoli, di spirali, volute, che comunque lasciano larghi spazi tra un decoro e l’altro.
Le monete ritrovate sono in bronzo, sottili, di fattura non perfetta per il conio impreciso, con lo scudo crociato su una faccia, mentre sull’altra si intravvede o la testa regale o il re seduto.
Di recente, meno di un anno fa, durante i lavori di restauro del Castello da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali di Enna, sono state ritrovate una torre interrata, mura di fortificazione risalenti al XIV secolo, alcune delle quali del periodo aragonese.
A metà costa, nel centro urbano, ai margini dell’abitato in pieno centro storico, sotto la chiesetta di S.Paolo del ‘500, abbandonata da moltissimi anni, è stata rinvenuta una grande cisterna interamente riempita di pregevolissima ceramica normanna, aragonese, e tardo medievale, che fa comprendere come la città godesse del favore del ceto elevato, della corte stessa, che spesso abitava in loco, così come testimoniano gli storici. La ricchezza, e la magnifica fattura dei piatti, dei vasi, delle suppellettili, fa supporre che molto ancora c’è da scoprire della città medievale, che però è interamente inglobata nella città odierna.
Federico si fermava spesso adEnna nel Castello detto di Lombardia, con la moglie e i figli. Ma la situazione di stallo non sarebbe durata a lungo. La discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo, con il quale Federico si allea per cercare di mantenere per sè e i suoi discendenti la Sicilia, e non consegnarla alla sua morte agli Angioini, secondo gli accordi di Caltabellotta, poco servì alla causa siciliana.La morte di Enrico, cambiava tutto: Roberto d’Angiò riacquistava potere: Federico, riunito il parlamento a Messina nel giugno del 1314, otteneva la proclamazione del figlio Pietro quale erede, ed assumeva il titolo di re di Sicilia. Da Enna il 9 agosto dello stesso anno indirizzava una lettera a Palermo dove esortava i siciliani a resistere, esordendo così: "Fridericus, Dei gratia, rex Siciliae..." questo era l’appellativo di cui si fregiava il re. Era salito intanto al soglio di Pietro, Pietro Giacomo di Cahors, che prendeva il nome di Giovanni XXII, il quale sostenne le parti di Roberto. Per tre anni si stipulò una pace precaria ad opera del papa. Federico, fu costretto a toccare le rendite ecclesiastiche, per motivi di necessità, per la difesa del regno, viste le pessime condizioni delle finanze. Questo fu molto sgradito al papa che nel 1321 colpì la Sicilia con l’interdetto che sarebbe stato revocato nel 1334.
Nel 1324, riunito il parlamento ad Enna, emanava, quei capitoli che prevedevano pene severe per i banditi, regolavano i diritti e i doveri dei poteri feudali, segregavano gli Ebrei dalla comunità cristiana.
Nel 1334 venne revocato l’interdetto da parte di papa Giovanni XXII, per l’occasione furono celebrate m olte solennità in tutta la Sicilia ed in particolare ad Enna: tutte le cerimonie vengono descritte in un inno in latino incolto: "Audiant cuncti, et letentur novum factum, et mirentur quod evenit nunc cristicolis, generaliter et siculis...".
In un diploma del 28 settembre 1336 (ricordato in un altro del 1350), Federico si trovava ad Enna, già afflitto dalla gotta, e pieno di malanni.
Il 25 giugno del 1337 egli spirava all’età di 65 anni e veniva sepolto nella cattedrale di Catania.
Scrive Nicola Speciale: "...È venuto il giorno della mestizia, il tempo del lutto,...lo scudo della vostra difesa è infranto... Il vostro sole s’oscurò nell’eclissi, e la vostra terra s’è ravvolta nelle tenebre".
Egli fu come una stella cadente, che lasciò però nel passaggio un grande solco luminoso.
"Nell’anno del Signore 1538 alcuni devoti christiani vedendo molti poueri, li quali, o per luogo, doue morivano il più delle volte non erano sepolti in luogo sacro, o vero restauano senza sepoltura, e forse cibo di animali, mossi da zelo di carità e pietà instituirono in Roma una compagnia sotto il titolo della Morte, la quale per particolare istituto facesse questa opera di misericordia tanto pia, e tanto grata alla divina Maestà, di seppellire i poveri morti, deliberarono ancora di fare una volta il mese l’Oratione continua per spatio di quara(n)ta hore, in memoria delle hore, che il Signor N(ost)ro Iesu Christo dopo la sua morte fu posto nel sepolcro sino alla sua Resurrezione, le quali opere, si per la tepidezza delle persone, come anche per la qualità di quelle tempi non havevano preso molto vigore, occorse che nell’Anno del Signore 1551 predicando nella Chiesa di Sancto Lorenzo in Damaso di Roma nel tempo del Advento di Christo un frate cappuccino cercava detto frate con molta efficacia mostrare quanto fosse devota e utile cosa la continua Oratione il che inteso da quelli della Compagnia pregono il detto frate che volesse aiutare questo loro proposito, il quale laudando molto il loro pio e buono desiderio, e ringraziandone la Divina M(aes)tà operò tanto con esortare il Popolo che in pochi giorni si accrebbe detta Compagnia in numero di fratelli e sorelle onde il giorno della Natività di Nostro Sancto Iesu Christo dell’istesso anno nella detta chiesa nella Cappella della Concettione si fece l’Oratione delle quarant’hore con molta sodisfatione del popolo, le quali opere tanto di seppellire gli morti, quanto della detta Oratione, si sono continuate e si esercitano con tanto fervore che per la Dio gratia detta Compagnia, essendo poi stata eletta in Archiconfraternita e capo di tutte le compagnie, che si aggregarano a esta, è cresciuta di numero di fratelli, e sorelle, e ogni giorno va prendendo augmento e vigore, la quale perciò si è chiamata Archiconfraternita sin qui gli "Statuti della Vener(abile) Archiconfraternita della Morte et Oratione", approvati e riconfermati dalli superiori" (Roma, Paulo Blado "imprestore comunale", 1590, pp. 3-4).
Capo e guida dell’Archiconfraternita il Cardinale Federico Borromeo, non di manzoniana memoria. E la nostra "struttura" termitana è ad essa collegata.
Conosciuta anche come "Compagnia della Morte" e, più ancora, come "Compagnia di S. Orsola", ha nell’omonima stupenda chiesa sede e punto essenziale di riferimento.
La Chiesa, già mirabilmente descritta da Giovanni Corrieri (La Chiesa di Sant’Orsola in Termini Imerese. Contributo alla conoscenza del Barocco siciliano, ed. del Cancro, Termini Imerese 1972), il quale nel 1968 lanciò un grido di allarme per la sua salvaguardia, è stata praticamente costruita tra i secoli XV e XVI. Presenta due strutture sovrapposte: l’inferiore di m 11x5, che poggia su roccia viva e che ha il suo ingresso nel quartiere Rocchicelle, fu anche trasformata in catacombe della Compagnia. E alla catacombe è legata la leggenda di "Santu Baddaru" - il sacerdote Impallaria.Nella nicchia dove si trova il suo corpo venivano poste assieme a fiori e lumi anche delle scarpe. "Santu Baddaru", secondo una leggenda consumava le sue scarpe perché di notte andava in giro in cerca di poveri da soccorrere.Ogni anno nella ricorrenza dell’anniversario della sua morte, le scarpe consumate dal suo peregrinare venivano ritrovate.
La struttura superiore è a pianta rettangolare ed è coperta da una volta a botte di m 12,5 x 24, con ingresso in via S. Orsola. Per la sua costruzione furono anche utilizzate la torre dei Saccari ed il basamento di una torre greco-normanna, risalente, secondo un’altra leggenda, ai tempi di Himera. Importante il corredo artistico che, però, per ragioni di sicurezza, è stato trasferito altrove. Tra gli affreschi la parte più significativa della decorazione che ricopre la volta a botte del coro oltre alle sue pareti. Notevole l’affresco "Madonna della lettera". Tra i pittori il termitano Tommaso Pollaci e Mattia Preti, una cui tela raffigura San Benedetto che risuscita un monaco dello stesso ordine, ma anche pannelli dipinti, tra il 1763 ed il 1765, da Alessio Geraci.
L’"archivio" recuperato da un gruppo di lavoro della Sovrintendenza Archivistica ed inventariato è attualmente sistemato in un locale della Chiesa di Maria SS. della Consolazione.
Costituito da circa 1009 unità archivistiche, alcune delle quali, purtroppo, in pessime condizioni, è in larghissima parte inerente l’attività della Compagnia, con la quale non ci si trova di fronte a un fenomeno esclusivamente ecclesiale, ma ad una puntuale risposta a precise esigenze delle persone e della società civile termitana, ad un’aggregazione solidaristica, volta a tutelare interessi comuni ed il culto dei morti.
Anche la "Compagnia" di Termini Imerese, come tante confraternite del Palermitano, è strutturata e retta da un proprio statuto che prescrive precisi diritti e doveri degli associati, la presenza di un superiore, "guardiano", dotato di autorità, l’esercizio della solidarietà, il funzionamento di meccanismi previdenziali e di sicurezza sociale e sanitaria.
I confrati, più o meno ricchi nobili, si preoccupano della loro sede, la Chiesa di S. Orsola, appunto, che rendono sempre più bella e funzionale, e si adoperano per l’ottimizzazione del loro incarico. Ciò è possibile per gli apporti personali, lasciti e donazioni, contributi di ogni genere. Ci si trova di fronte a vari "legati" per "messe cotidiane", a lasciti che dovevano essere utilizzati per "celebrare" messa nella festività di S. Anna", per "cera; olio per il Divinissimo", per "giogali e luminaria", per "sollennizzarsi un giorno di Novena del S.Natale", per "limosine", "per consumo di cera", per "cera e olio", ma soprattutto per "messe".Molte le "messe a circolo", che "peraltro sono di peso a celebranti perché legate a tempo, a luogo ed ora oltrepassino il numero di quei lasciati dai testatori".
La plurisecolare attività della "Compagnia", all’interno della quale operano anche due "congiunti", un canciliero, due maestri di novizi, un tesoriero, due visitatori d’infermi, due sacrastani e due nuntii, inizia "ali sei de febraro xij indictionis 1569" quando "si congregarono molte anime de homine e si deliberarono. Primo con la gratia dell’onnipotente Iddio fondare la presente compagnia sotto l’insegna della Orazione sub l’ordine de nigri conforme ed admitatione del nostro e noi come suoi membri della venerabile confraternita fondata nella felice città di Palermo.
Ma passiamo ad un’esemplificazione del materiale. Si tratta naturalmente di una campionatura essenziale, ma significativa.
Un "assento grande del luogo in Brucato" del 1663-1664 in realtà riguarda un curioso "exito di denari e pesi in prezzo di ricattito di christiani" e si ricollega indirettamente all’azione della "Congregazione per il riscatto dei cattivi", operante principalmente a Palermo presso la Chiesa di Santa Maria la Nova.Apprendiamo, tra l’altro, che "a 29 (febbraio 1664) pezzi trecento di otto reali di Spagna" furono pagati per "ricattito di Vincenzo Giardina della città di Termine" (f. 1); nel mese di maggio "pezzi trecento di otto reali di Spagna" pagati "per ricattito di Leonardo Branchetta della città di Termine" (f.3).
Un estratto del codicillo del fu Sac. D. Vincenzo Impallaria del 1699,26 gennaro,Notar Giovanni Dominici Impallaria "Commissario ordinario del Santo Offitio della Inq(uisizio)ne in questa Spl(endidissi)ma e fidele città di Termine" detta alcune disposizioni: "Voglio-sottoscrive- che il mio cadavero si seppellisca nella Chiesa di S. Orsola di questa città di Termini et alli piedi dell’altare maggiore di essa stante la potestà e concessione fattami dall’off(icia)li di essa confirmata e ratificata da Monsig(nor) Ill(ustrissi)mo Arcivescovo di Palermo per l’atti di Notar Giovanni Dominici sotto li 12 gennaro 2.a ind(ictione) 1694). Dichiara, inoltre, di "havere concorso nella spesa in parte dello stucco e pittura del tambuso di essa chiesa di S.Orsola" e di lasciare e legare alla Chiesa "il quatro con l’Imagine di S(ant) a Rosalia con cornice dorata che è nella mia camera e suddetto quatro si dovrà stare esposto in un luoco della suddetta chiesa".
Da un "riscontro" a un "questionario per la confraternita" si apprende che "mancano documenti per sapere l’epoca della fondazione, abbiamo i Capitoli approvati da Francesco Borbone (1829) con firma del Segretario di Stato (Marchese) Favara... "abito che vestivano i fratelli era la cappa nera, oggi abolita... I confrati non pagano veruna somma, quindi, hanno l’onore dell’accompagnamento alla Croce. Vi è un Cappellano Beneficiale stipendiato con L.150 come cappellano e L. 6 come beneficiale, esso è rispettato dai superiori e dai fratelli... Non si fanno questue in chiesa ne fuori...".
Un "ruolo dei confrati" del 10 novembre 1910, ne annovera 67.
Un "ordine del giorno" per discutersi domenica 6 gennaro 1912" verte sui seguenti articoli:
"Art. 1 - Tutti i confrati restano da oggi innanzi obligati, avvenuta la morte di un fratello ad accompagnare la salma al Campo Santo preceduto dalla Croce col teschio che è il nostro vessillo.
Art.2 - I Confrati della nostra compagnia eligeranno un cassiere tra i confrati, al quale ogni fratello verserà, previa ricevuta, quella somma annuale che crederà possibile e a lui conveniente; quale somma resterà a beneficio individuale di colui che la paga per averne celebrate tante messe a L. 2 ciascuna nel giorno che cesserà di vivere, a vantaggio dell’anima propria.
Art.3 - Tutti coloro che sopportano di malanimo di appartenere alla nostra Compagnia potranno liberarsene presentando a questa Amministrazione formale rinunzia per iscritto.
Tra il materiale documentario (secc. XVI-XX) particolare interesse riveste quello concernente l’Amministrazione della Compagnia e della Chiesa di S. Orsola, con gli atti delle eredità Pace, Geraci, Impallaria, Gerardi, l’amministrazione dei piccoli legati nella Chiesa di S. Orsola, poi Opera Pia compagnia dei Neri, e, tra la documentazione più recente, "Giornali e libri di messe", i "Conti dell’opera dell’Unione del grano delle anime del Purgatorio", i "Verbali della Compagnia dei Neri".
La Compagnia dei Neri, come le altre intimamente legata ed assoggettata al clero, di cui è tributaria e da cui riceve perciò protezione assurge ad un ruolo fondamentale "nel tentativo di modulare spiritualmente, secondo canoni religiosi ortodossi, la comunità civile" termitana nella quale opera efficacemente. In un contensto favorevole occupa spazi sempre più vasti fin quando sul finire del XVIII secolo, ad opera del Viceré Domenico Caracciolo, viene attuata una completa revisione delle norme statutarie "che regolamentano quelle associazioni spontanee di cittadini insinuando sospetti, interferendo nelle loro attività e sottoponendoli a divieti e costrizioni". Tale situazione si mantiene costante fino all’Ottocento quando il mondo delle confraternite ritrova un nuovo ruolo ed una nuova collocazione.
1. Cenni introduttivi
La "terra" di Gangi, secondo una consolidata tradizione, sarebbe sorta tra il XIII ed il XIV secolo, in seguito alla distruzione di un originario nucleo abitato posto a poche miglia da questa e denominato Gangivecchio. Non mancano però pareri discordi e contrari verso tale tesi. Demograficamente Gangi in età moderna ha conosciuto un processo di lenta ma continua crescita. Infatti, dai 977 fuochi (3200 abitanti circa) della prima metà del Cinquecento si passò alle 9352 anime del 1798(1). Tra Cinquecento e Seicento il suo sviluppo demografico fu frenato da alcuni fattori, primo fra i quali le ricorrenti epidemie di peste. Tre sono state le principali famiglie signorili, marchionali che ne hanno detenuto il titolo in età medievale e moderna (Ventimiglia, Graffeo, Valguarnera).L’economia locale a lungo è stata fondata sullo sfruttamento delle risorse agricole del territorio in esame. Pastorizia e cerealicoltura hanno costituito le principali fonti di ricchezza per la popolazione di tale centro, specie in età moderna e per gran parte dell’età contemporanea. Antiche modalità contrattuali hanno regolamentato per secoli i rapporti agrari tra detentori della proprietà del suolo, affittuari (gabelloti) e coloni. Rapporti vigenti nelle contrade e nel latifondo, di origine feudale, di Gangi in età medievale e sopravvissuti fino al XX secolo pressoché inalterati nella loro natura e regime. Utile e prezioso a tale scopo si rivela l’effettuare un’attenta ricognizione di carattere storico-giuridico sul consistente materiale documentario costituito dagli Atti dei Notai Defunti conservati presso il locale Archivio Storico Comunale. Si tratta di fonti costituite da registri notarili non ancora catalogati e non sottoposti a criteri razionali di classificazione e sistemazione onde agevolarne la consultazione ad opera degli studiosi e ricercatori che oggi, come nel passato, ne hanno inteso consultare il prezioso contenuto. Nel realizzare la nostra ricerca, concentrata cronologicamente tra Cinquecento e Settecento, abbiamo avuto modo di consultare i registri notarili dei notai: De Salvo , H. Errante, Citati (per il periodo che va dal XVI al XVII secolo), e A. Li Destri ( bastardelli del 1690-91 e del 1725).In essi, come è ovvio, si trova un’ampia messe di informazioni economiche e giuridiche su patti e rapporti agrari locali. In particolare abbiamo concentrato la nostra attenzione sui contratti di affitto del suolo intesi nelle loro varie articolazioni (gabella e terraggio), sulle forme di compartecipazione agricola (mezzadria) e sui rapporti di lavoro dipendente e precario esistenti nell’agro di Gangi in età moderna.
2.Terraggio e mezzadria
I proprietari del latifondo feudale o di ridotte estensioni di terra di natura non feudale, e cioè allodiale (burgensatici), avevano a disposizione diverse modalità di concessione del suolo a fini di sfruttamento agricolo dettate da antichi usi e consuetudini locali. Una delle forme di sfruttamento consisteva nel concedere a terzi l’area coltivabile a condizione che il concessionario dovesse corrispondere al proprietario una certa quantità di prodotto (ad esempio, grano), in rapporto all’estensione a lui assegnata, per fini produttivi. Quindi, si stabiliva che la terra dovesse essere concessa ad uno o più terraggi. Nei grandi feudi il gabelloto spesso diveniva intermediario tra i baroni proprietari ed i coloni. Per cui su di esso orbitavano diversi contadini o "terraggeri" che, in virtù della mediazione e dell’intervento dei soprastanti (che rivestivano ruoli e funzioni di organizzazione e gestione delle attività agricole nelle grandi aziende feudali) e seguendo criteri arbitrari e clientelari, si vedevano attribuiti ( pro capite) uno o più lotti di terra da coltivare. Tale tipo di rapporto poteva, come detto, essere applicato a fondi terrieri di modesta o media estensione(clausura, terra vacua, burgensatico) appartenenti a piccoli o medi proprietari o alla Chiesa. Analizziamo, dunque, alcuni particolari contratti in modo da ricavare delle indicazioni sulla natura ed articolazione tipiche delle concessioni "a terraggio" nella Gangi d’Ancien Régime. Il 7 settembre 1690 il sacerdote Dongarrà, vicario della Chiesa di questa Università (Comune), concedeva alla famiglia Paradiso una chiusa (nella fonte :"clausura") sita in contrada Spirito Santo(2). Da notare che già allora si stava sviluppando attorno al paese un’area fondiaria franca e libera da oneri feudali . La piccola e media borghesia agraria cercava di controllare le terre dell’Università ed originariamente appartenenti al potente baronato che faceva capo ai Ventimiglia e poi (nel corso del Seicento e del Settecento) ad altre famiglie signorili (Graffeo tra 1625 e 1676, Valguarnera, 1677-1812) . La concessione era fatta dal Sacerdote a tre terraggi, vale a dire per ogni salma coltivata il terraggere doveva corrispondere tre salme di prodotto o derrate agricole al momento del raccolto dell’anno seguente. La durata di tale contratto era fissata in due anni. Degli oneri potevano gravare sui concessionari (terraggeri), come nel caso ora analizzato . Infatti, alla famiglia Paradiso fu imposto di chiudere ("murari") "li passi di d(ict)a chiusa giorni dui l’anno in tutti li tre anni li sud(dett)i q(on)d(utto)ri overo incollo overo con li loro sumeri a loro elet.(io)ne". Era fatto divieto ai conduttori della chiusa di tagliare alcun tipo di legname o alberi ivi presenti: " non possano muzzari nessuna sorte di legname seu arbori e(xisten)ti in d(ic)ta chiusa". I frutti arborei dovevano essere appannaggio o dovevano andare ai conduttori, mentre quelli delle tre "sorbe" ivi esistenti dovevano essere divisi tra proprietario e coltivatori. Dal tenore e contenuto dell’atto notarile, sappiamo che la suddetta "chiusa" doveva ospitare delle colture arboricole insieme a quella granaria. Una specifica clausola contrattuale prevedeva che nel caso i terraggeri non avessero maggesato il suolo entro il mese di maggio, il proprietario aveva diritto e facoltà di provvedere in tal senso. Dal concedente i terraggeri avevano diritto di ricevere la semente o l’equivalente in danaro ("iure succursus") che bisognava successivamente restituire o ripagare. In genere, i contratti di tal natura a Gangi variavano da due a tre terraggi, a seconda della fertilità della terra coltivata. Gli Atti dei Notai defunti di Gangi ci consentono pure di apprendere gli usi agrari, naturalmente, riguardanti le campagne (contrade) di quel centro e quelle dei feudi e territori delle Università circostanti, viciniori. Esaminiamo adesso il contratto agrario del 23 settembre del 1690, concernente una "terra vacua" (vuota, incolta) di un "burgensatico", appartenente al famoso e potente Monastero di Gangivecchio e sita nel feudo Cavaliere( poco distante da Gangi), ed una chiusa sita in contrada Rainò(3). La terra incolta doveva essere sottoposta a "novalizzazione"o maggese. La stessa operazione agricola doveva essere eseguita a Rainò. Ivi erano presenti le stoppie ("ristucci"), segno evidente di una precedente coltivazione granaria. Tale fondo doveva essere seminato ad orzo dai due fratelli concessionari, i quali apparivano intrattenere fra loro un rapporto di mezzadria. Infatti, la fonte notarile specifica che nella "chiusa da seminarsi in comune c’ hanno da mettere le semenze tanto di formento q(uan)to d’orgio in comune e tutti le spesi che ci vorranno in comune con metterci in (…) necessario nel seminare tanti d(icti) maijsi q(uan)to d(ict)a chiusa". Ricordiamo che il conduttore era tale Ignazio Migliazzo, il quale trovò un collaboratore nelle relative operazioni colturali nel fratello Blasi. Le perdite ed i guadagni dovevano essere divisi tra i due in parti uguali ("pro equis partibus"). Blasi doveva consegnare al conduttore ( e cioè al fratello) il prodotto agricolo dei relativi fondi assegnati a 3 terraggi o a metà ("sive med.(ieta)te").
Altro contratto che andiamo ad esaminare è quello stipulato alla fine del novembre del 1690 tra Cataldo Seminara (terraggere ) con il proprietario di un’altra clausura, il notaio don Nicolò De Maria(4). Questo rapporto contrattuale costituiva un tipico caso di concessione a terraggio del suolo coltivabile. Un’invalsa consuetudine prevedeva (e questo fino al XX secolo) che il terraggere o colono prendesse in prestito dal padrone tutta la quantità di grano utile alle operazioni colturali per poi saldare il proprio debito, in natura o in denaro, al momento del raccolto. Infatti, anche in questo caso, il terraggere Cataldo acquistava 12 tumoli di grano dal notaio De Maria, conservati nel magazzino di questi, al fine di servirsene in occasione della semina nella citata chiusa("ei servisse pro semine illius clausure"). Il relativo prezzo doveva essere pagato in natura al valore del grano fissato dalla meta imposta dai magnifici giurati (amministratori comunali del tempo) nel mese di maggio dell’anno seguente. Inoltre, al proprietario del fondo doveva essere corrisposto il consueto canone in terraggio. Quindi, al proprietario del terreno andava il rimborso dei soccorsi in grano (maggiorato dagli interessi), più il prezzo dell’affitto(terraggio). Mentre nei rapporti di mezzadria, e questa è una differenza tipica, le spese ed i frutti del raccolto venivano divisi fra le parti (concedente e colono) in "parti uguali" (in realtà al coltivatore spettava una quota inferiore quella percepita dal padrone del suolo coltivabile).
Altro rapporto contrattuale di natura analoga era quello stipulato nel 1691 dal Muccio e dal De Pane che acquisirono la conduzione di un "burgensatico" appartenente ai beni patrimoniali del Monastero delle Moniali di San Benedetto, sito in contrada monte della grutta(5). Gli affittuari vendettero (subaffittarono) a Joseph Ferraro un pezzo di terra da sottoporre a maggese. Essi dovevano far preparare la terra a maggese e farla seminare nell’anno successivo dal subaffittuario. Era inoltre previsto che quest’ultimo potesse esercitare la facoltà di acquisto di "giomenti d’aratro", utili queste ultime all’effettuazione dei relativi lavori agricoli, in numero da definirsi in base alle necessità del caso, e cioè in seguito ad apprezzamento discrezionale del concessionario. Era altresì previsto un diritto di avviso da esercitare almeno 4 giorni prima dall’inizio dei lavori. La concessione del fondo era fissata in due terraggi. Il prezzo dei maggesi era stato pattuito o concordato nella somma di onze 4 per ciascuna salma.
Sempre in quei giorni il citato notaio don Nicolò De Maria, gabelloto del feudo Terrati, provvedeva a redistribuirne il suolo coltivabile in lotti da affittare ai vari contadini di Gangi (secondo una consolidata usanza, riguardante pure il latifondo feudale e non solo le terre di minori estensioni ed importanza)(6). Modalità e contenuti contrattuali erano uguali a quelli su citati. Discorso analogo va fatto per il clerico Ventimiglia che concedeva a terraggio della terra, sita nel feudo Montededero, alfine di farvi "novales" (maggesi) "in anno p(resen)te" e di seminarla l’anno seguente. Il chierico si impegnava a dare 12 tumuli di frumento nel mese di gennaio dell’anno agrario in corso al terraggere che doveva ripagare il debito in natura con la corrispondente quantità di frumento pari al prezzo corrente fissato dalla meta giuratoria. In questi casi si innescavano dei veri e propri meccanismi usurai che gravavano pesantemente sui concessionari. Inoltre, il conduttore riceveva dal concedente i citati 12 tumoli di grano per "diritto di successione" gravante sulla terra in questione .
Il rapporto di mezzadria poteva riguardare anche i vigneti. Sempre nel 1690 i De Pane ed un certo Zaffora concedevano a mezzadria, ossia ad med.(ieta)tem, una vigna ubicata in contrada Pirato ( pochi chilometri a nord della "terra" di Gangi)(7). Il contratto prevedeva una durata di tre anni del rapporto fra le parti. Il concessionario o mezzadro, tale De Anna, era obbligato a "conciare et cultivare" la vigna nei modi consueti ("sicut solitum et consuetum est"). Nel corso dei tre anni le parti dovevano "dividere pro equis portionibus" la pertinente produzione vitivinicola. Il mezzadro era obbligato a "piantare il pezzo del terreno ex(isten)te in d(ic)ta vigna… concessa et cultivarlo ogni anno di conzi et cultivationi". Il "conciare" consisteva nell’effettuare una triplice zappatura da parte del mezzadro. Viceversa, il relativo accordo contrattuale imponeva al concedente di pagare ogni anno, in occasione della vendemmia, 4 tarì in moneta contante.
Esaminiamo adesso un altro contratto stipulato nello stesso periodo sempre a Gangi da Vincenzo Sparaino procuratore di don Andrea De Agostino con un mezzadro della zona. L’oggetto era rappresentato dalla concessione a mezzadria di una vigna sita in una delle aree o contrade più floride del territorio di Gangi in relazione alla produzione di uva e vino, e cioè Nocita. La durata del contratto stavolta era fissata in anni 5. L’efficacia dell’accordo fra le parti decorreva dalla caduta delle foglie delle viti in avanti ( e cioè da novembre in poi):" ut d(icitu)r dalla cascata della pampina in anthea et pro quinque vindimijs". Anche in questo caso ritroviamo l’obbligo imposto al mezzadro di coltivare e riparare il vigneto . Questi doveva provvedere, a proprie spese, alla propagginazione ed a caricare l’uva dal luogo di produzione fino al palmento. Mentre il pigiare l’uva doveva essere pagato in comune (insieme ad altre ed eventuali spese ). L’addetto alla potatura ("putatore") doveva essere scelto annualmente a discrezione del concedente. Sul conduttore, vale a dire il mezzadro, incombeva , nel periodo in cui l’uva giungeva a maturazione, l’obbligo di provvedere alla guardianìa del vigneto: "Item che dicto q(ondutto)r in tempo di racina ogn’ anno dee guardare d(ict)a vigna". Era possibile per i terraggeri subaffittare, sempre con la stesse modalità e tipologia contrattuali, i lotti di terra loro assegnati. Dagli atti di notar Li Destri (anno 1725) estrapoliamo un contratto che possiamo definire di sub-terraggio che vedeva impegnati, da una parte, Giuseppe Nasello e Santo Blasco, dall’altra. Il primo aveva avuto in concessione (a terraggio) 8 tumoli di terra da don Franco Li Destri, quest’ultimo era espressione di un’influente famiglia emergente ed avviata ormai sulla via della definitiva nobilitazione. Il terraggere Nasello decise di subaffittare, sempre a terraggio, il lotto, di cui era concessionario, al Blasco al fine di "novalizzarlo". Come era consueto, l’affitto era stato fissato in un canone di tre terraggi. Per volontà ed "ordine" del conduttore concedente, il subconduttore aveva l’obbligo di consegnare al Li Destri (padrone del fondo) il frumento raccolto nell’anno seguente. Quest’ultimo doveva ricevere una certa somma per l’acquisto della semente (diciamo "per diritto di soccorso"). Si trattava di un prestito da restituire al proprietario del suolo.
Innocenzo Picone di Nicosia, curatolo e procuratore di un barone nicosiano (La Via), l’1-10-1690 affittava al sacerdote don Giovanni Centineo diverse estensioni di terra con lo scopo di sottoporle a maggese(8). Ciascuna di queste era dalle altre separata e ben distinta tramite particolari segni di riconoscimento o divisori ("staccati et inzingati"). Il venditore, o meglio, il concedente doveva fornire "quella quantità di giumento d’aratro che dicto di Centineo comp(rato)re havirà di bisogno p(er) seminare tanto li maisi quanto li infrascritti restucci". Il curatolo si impegnava a consegnare al sacerdote dei buoi su richiesta dello stesso per lo svolgimento dei relativi lavori colturali. I "soccorsi" in grano venivano concessi e poi restituiti al prezzo fissato in base all’ annuale meta giuratoria. Sul prestito granario o cerealicolo pesava un interesse pari a tumoli 1 per salma concessa. E ciò per "raggione di cernitura". In altri termini, circa 1/16 del raccolto doveva, quindi, essere erogato per pagare il costo di crivellatura o "scrematura", "pulizia" del grano. L’affitto era fatto a tre terraggi. Il prezzo dei "novales" (maggesi) era stato fissato in 5 onze per salma affittata. Ovviamente le giornate destinate all’aratura dovevano essere economicamente soddisfatte dal Centineo. Il grano utile alla semina era nella fattispecie ammassato e conservato in una grotta esistente nel feudo Santa Venera ( al confine tra i territori di Gangi e Nicosia). Infatti:" cum patto che d(ict)o di Picone …sia obligato a d(ict)o di Cintineo darci la semenza necessaria p(er) seminare d(ict)i maijsi et d(ict)e ristucci in tanto frum(en)to bono posto nella grutta di d(icto) fego"(9).
Sul concessionario gravava l’obbligo di pagare il proprio debito in grano sull’aia, al momento del raccolto. Difatti, nel contratto era menzionata la clausola che doveva essere rispettata dal Centineo, il quale aveva contratto l’obbligazione di " restituirci (NdA, il grano anticipato) in d(ict)a aera di d(ict)o fego". Sempre in quell’anno e nella stessa stagione in cui fu stipulato il precedente contratto ne venne rogato un altro tra i contraenti Salamone e Ferraro. Il preparare a maggese un determinato suolo veniva detto "ammaijsari". Infatti, in questo caso bisognava "ammaijsari tumina quattro di terre" in un feudo posto nelle vicinanze di Gangi. Il terraggere Ferraro doveva iniziare i lavori "a richiesta". Il presente contratto specifica anche la tipologia degli interventi colturali di tal natura. Il concessionario doveva "sciaccare, rifondere e intrizzare" il suolo . In altri termini ad una prima operazione, consistente nell’aratura , ne dovevano seguire altre tese fondamentalmente a ripulire il terreno dalle erbacce che via via nascevano sullo stesso.
In altro contratto(10) il notabile Vincenzo Matta assegnava ai Nasello una sua "clausura" e vari pezzi di terra incolti col sistema del terraggio allo scopo di farvi "novales" e di seminarvi. In questo contratto si specifica il tipo di coltura alternativa, nell’ambito del maggese, che si intendeva praticare:"seminari in d(ict)i terri nell’anno p(rese)nte tumina una et dui di favi " ed altri due di ceci ("ciciri"). Altro aspetto originale (rispetto ai contratti in quest’ambito analizzati) era l’adozione della formula contrattuale, espressa in volgare ("vulgari eloquio"), circa il fatto che i "soccorsi" in grano dovessero essere restituiti in conformità agli usi e alle consuetudini adottate nei grandi feudi baronali, e cioè era necessario" restituirci (NdA,"la semenza") ad uso di semina como fanno li fegatari". Il richiamo espresso a questa formula probabilmente va riferito (anche ) al desiderio di nobilitazione nutrito da uno dei contraenti (appunto il Matta), che intendeva assimilarsi in tutto al baronato locale. In un altro contratto coevo si fa espresso richiamo al "diritto di strazzatura" (jure straczature) gravante sull’obbligo di restituzione dei "soccorsi "concessi ad un terraggere dal barone Natoli. Il contadino non disponeva della somma necessaria per cui dovette ricorrere ad un ulteriore prestito di natura fideiussoria erogato da due suoi concittadini, forse capostipiti o progenitori della futura ricca e potente famiglia aristocratica dei Bongiorno.
3. Contratti salariali
Nell’età moderna ed in quella contemporanea l’enorme pauperismo e la precarietà economica dei ceti subalterni agrari faceva sì che mezzadri e terraggeri fornissero ai proprietari locali la propria manodopera per lo svolgimento di periodici o saltuari lavori agricoli. Nelle grandi aziende feudali si avevano lavoratori fissi e distinti da quelli precari. Tra questi ultimi citiamo i cosiddetti "jurnatara". In particolare in tali categoria socio-economica possiamo inserire gli zappatori, i mietitori ecc. . Andiamo ad analizzare alcuni contratti salariali tipici. La durata di un contratto salariale poteva variare. Poteva essere fissata su base giornaliera, mensile, annuale. Di conseguenza il prestatore d’opera veniva chiamato "jurnataro", "mesaloro", o "annaloro". Questi poteva prestare la propria opera nelle masserie, nelle aziende zootecniche ("marcati"), nei poderi di piccola o media estensione( vigne, chiuse, "burgensatici"). Ogni anno, nei mesi di luglio ed agosto, le consuete operazioni di trebbiatura richiamavano sui grandi latifondi squadre di mietitori, le cui prestazioni venivano commisurate "a giornata".
Citiamo ora dei contratti pertinenti. Nel 1690, alcuni mesi prima del raccolto, cinque braccianti di Gangi (i fratelli Vazzano, un Virga, un Duca ed un Vaccaro) "si obbligavano" con la famiglia Ferraro a "metersi e ligari allo staglio li loro seminati di formento et orgio ex(isten)ti nel fego Grassa e nel fego Mag(azze)no"(11). E’ bene chiarire cosa fosse lo "staglio". L’area coltivata a cereali, da sottoporre a mietitura, veniva suddivisa dai lavoratori in diverse parti (tramite solchi o, più precisamente, con il tracciare delle delimitazioni del lotto o parte da mietere) al fine di razionalizzarne il lavoro. Possiamo, quindi, affermare che si trattasse di una sorta di tecnica lavorativa cui facevano ricorso i braccianti. Su richiesta del proprietario i giornalieri dovevano "incomminciare a metere e ligare"". La "ligatura" consisteva nel raggruppare in covoni o fasci le spighe tagliate (con i relativi steli). Una clausola imponeva che due giorni prima dell’inizio dei lavori agricoli i jurnatari dovessero preavvisare il contraente della loro volontà di rendere esecutivi i contenuti dell’accordo. Ogni contratto di tal natura fissava anche il valore monetario della prestazione d’opera. La relativa corresponsione poteva essere fatta anche in natura. Nella fattispecie in esame, il proprietario o il gabelloto del campo o fondo doveva inoltre versare 2 tumoli di farina per salma di terra coltivata più 4 "langelli" di vino, 4 di carne (vaccina e di bue), tre "mustazzoli di vino cotto". E ciò a titolo di companatico: "pro ragg.(iu)ni di companaggio di scammaro". Esistevano però analoghe tipologie contrattuali aventi la stessa causa o oggetto che però non prevedevano l’obbligo di vitto per il proprietario, e perciò venivano dette "alla scarsa". Inoltre, il datore di lavoro doveva dare ai mietitori tutto "l’oglio et aceto che sarà necessario". Tutti questi impegni o obblighi venivano codificati nella espressione contrattuale detta:"de pacto", vale a dire in base agli accordi presi. Il salario era fissato in onze 1 e tarì 15. Nel caso in cui necessitasse della manodopera aggiuntiva, supplementare vigeva l’obbligo sul prestatore d’opera originario di provvedere, e cioè questi doveva "allogare (affittare o meglio ingaggiare, NdA) più genti metitori" a proprie spese.
Circa mezzo secolo prima (nel 1636) una decina di braccianti si impegnavano a mietere per conto della famiglia Muccio nel feudo Alleri et Bulfara(12). Stavolta il datore di lavoro doveva erogare, in base alle disposizioni contrattuali, 2 tumoli di farina, 4 di vino, 4 rotoli di carne, una forma ("pezza") di formaggio, olio ed aceto a sufficienza ("di modo che ci basta"). Inoltre, il contratto fissava il valore della prestazione ( 3 onze ). Altro contratto rogato e stipulato al cospetto del notaio gangitano Antonio Li Destri era, fra gli altri, quello tra il Restivo ed il sacerdote Centineo. Il primo nelle vesti di prestatore d’opera e l’altro in quelle di datore di lavoro. Come di prammatica i contratti salariali, dopo l’individuazione dei contraenti o delle parti interessate, ne esplicitavano l’oggetto. In questo come in altri casi analoghi se ne specificava causa ed (appunto) oggetto anche facendo ricorso ad espressioni dialettali o in volgare. E ciò per ovvie ragioni, vista la condizione di analfabetismo o comunque di ignoranza del linguaggio giuridico e notarile di allora (espresso in latino) diffusa, imperante e presente nei borghi e comunità rurali siciliani. Nelle masserie si faceva un frequente ricorso alle prestazioni di salariati (più o meno precari). Infatti nel contratto tra il Li Destri ed il Centineo si diceva che quest’ultimo si obbligava a : "ut d(icitu)r servirlo nella sua massaria di suo officio di lavoratore e tutti servitis di giornataro ad elett(io)ne et in q(ue)llo che vorria di Centineo ad uso di mesaloro". Stavolta l’obbligo di comunicazione dell’inizio dell’attività lavorativa era fissato nel giorno prima della data prestabilita. Era previsto, da una clausola contrattuale, che, se si fosse reso necessario, il mesaloro potesse "locare una persona", cioè ingaggiare un altro salariato "a tutti danni spesi et interessi di d(ict)o obligato escluso per il tempo di malatìa"". Ci par di capire che in caso di assenza dal lavoro, dovuta a motivi di forza maggiore (ad esempio, per ragioni di salute) da parte del prestatore d’opera, a quest’ultimo non sarebbe stato consentito di farsi sostituire da terzi. E da ciò sembrerebbe poterne derivare la conseguenza giuridica della risoluzione del contratto per inadempimento o per impossibilità sopravvenuta. Il contratto salariale prevedeva che accanto alla remunerazione monetaria (fissata in onze 1) il datore dovesse corrispondere, o meglio, assicurare quotidianamente al lavoratore il vitto. E ciò in base alle consuetudini che regolavano i rapporti salariali di allora. In tal senso esplicita era la relativa formula contrattuale:" sicut solitum est", che ad una traduzione non strettamente letterale suona "così come è consueto" o "cosi come si è soliti fare". La manodopera rurale era costituita anche da salariati forestieri, oltre che da braccia autoctone, che provenivano dai paesi del circondario o da più lontano (Nicosia, Geraci, Casteldilucio, Tusa ecc). Era il caso, ad esempio, del nicosiano Antonio Scardino che nell’autunno 1691 si impegnava con il sacerdote Centineo a "servirlo nella sua massaria di sua persona ad uso di mesaloro per lavoratore et altri servitij di suo officio"(13). Come si vede nel contratto veniva specificato il ruolo del salariato ed in più si aggiungeva la facoltà del datore di lavoro di far svolgere altri e non meglio precisati "servitij" che rendevano poco chiara e mal definita la natura dei doveri che gravavano sul salariato. Questa clausola generica era o poteva costituire l’anticamera o l’avallo legale allo sfruttamento dei lavoratori della terra. Scrive, a conferma di ciò, Orazio Cancila: "l’anello più debole della catena… era costituito dai salariati"(14). In particolare, il mesaloro nicosiano era stato richiesto di svolgere dei lavori connessi alle attività colturali di tipo cerealicolo. Infatti, nell’atto, fissando l’obbligo di preavviso dell’inizio del rapporto lavorativo, se ne specificava la durata: "per insino che finirà di seminare nell’anno presente". Il contratto salariale in questione fissava anche l’ammontare della retribuzione (1 onza al mese). Un altro lavorante, Ignazio Barbuza, si obbligava con il citato sacerdote "a tutti usi et servitij", percependo un salario fissato in onze 1,15 più il vitto quotidiano e i calzari ("scarpis")(15). Nel determinare la quantità e la natura del vitto il contratto è piuttosto lacunoso (a differenza di altri). C’è un aggettivo, "necessario", che ci fa capire che tale fattispecie contrattuale potesse o si prestasse ad essere interpretata ed applicata in termini restrittivi, e cioè sicuramente non a favore del lavoratore. Quindi, possiamo dedurne ed affermare che si elargiva il minimo indispensabile, in termini di alimenti (vitto), al lavoratore. Il Barbuzza era obbligato a "taglia partuta con tenere la mastra di d(icto) Centineo".
I contratti salariali potevano avere la durata di un anno, come abbiamo già avuto modo di dire. Antonio Doccula sempre nel 1691 si impegnava a servire un massaro del luogo come "garzone annaloro". Oltre alla mercede veniva anche prevista la solita fornitura di scarpe, specificandone anche la natura. Infatti queste dovevano essere di "pilo".
Un’altra tipologia contrattuale riguardava salariati ed apprendisti di bottega. Citiamo il contratto che legava Aloisio Castagna al "magister ferraris" (fabbro ferraio) Vaccaro ed al collega di questi di nome Campo. Le condizioni salariali e gli obblighi gravanti sul prestatore d’opera(Castagna) non sembravano essere più agevoli o meno aspri di quelli fissati nei contratti dei suoi colleghi che lavoravano in campagna. Era stato pattuito fra le parti un salario ammontante a grana 10. Il lavorante doveva "stari in dicta bottega tanto di festa quanto di lavorante". Quindi, c’erano delle condizioni ed obblighi lavorativi che oggi farebbero inorridire qualsiasi sindacato di categoria. Ma allora erano, è proprio il caso di dirlo, altri tempi. Non era, dunque, previsto nemmeno un giorno di riposo. L’ orario lavorativo non veniva specificato nella sua durata, come allora si era soliti fare, che presumiamo essere piuttosto lungo e gravoso. Inoltre, il già magro salario del garzone doveva servirgli a pagarsi gli alimenti in quanto l’accordo era stato fatto "alla scarsa". Clausola che riscontriamo in alcuni contratti relativi al precariato rurale del tempo e dei secoli a noi più vicini. Tra gli annalori si potevano annoverare i bordonari, i guardiani di porci (porcari), i campieri(16). Questi ultimi potevano svolgere servizio di guardiania insieme ad altri servizi leciti (come si specificava nei coevi contratti: "et ad alia servitia licita") in feudi e fondi dal vario regime giuridico. Nei contratti del tempo più che il termine "campiere" si usava quello di "guardiano". Compiti di guardiania che erano affidati talvolta ai mezzadri delle vigne. Ad esempio nel 1633, per citare un contratto-tipo, Jacobo Licorini si obbligava con Don Francesco Graffeo a servirlo come guardiano nella baronia Buzzetta per un anno al salario di onze 12.Talora il servizio poteva riguardare ed essere attivato dalle stesse Università.
4. Le gabelle
La rendita ha rappresentato una delle principali, se non la principale, forma di sfruttamento economico praticato nel corso della storia della Sicilia. Molti contratti d’affitto relativi a grandi estensioni terriere si possono inscrivere in tale quadro. Infatti, il potente baronato siciliano per secoli ha preferito ricavare una certa somma di danaro (sotto forma di rendita) dal concedere in gabella le proprie terre a facoltosi e spregiudicati affittuari borghesi o a membri della sua stessa classe. E’ evidente che la forma più tipica di questa economia della rendita è stata rappresentata dalla riscossione di canoni censuari provenienti dallo sfruttamento agricolo. Il caso Gangi non rappresentava un’eccezione a tale regola. Il Monheim, che fra gli anni Sessanta e Settanta ha condotto in questo centro una ricerca di carattere storico- sociale e storico-economico, ha definito il sistema della rendita come : "L’assorbimento di importanti quote della produzione senza una controprestazione economica"(17). Inoltre ha tenuto a far propria la definizione data dal Bobek adottata nel corso di uno studio sul Vicino Oriente:" Per rendita si intendono tutte le quote della produzione prelevate a titolo diverso sulla produzione dei contadini…"(18). I contratti di affitto del feudo avevano una durata pluriennale che faceva sì che i baroni ed i ricchi agrari si contentassero di percepire annualmente o periodicamente una certa somma in danaro disinteressandosi ovviamente della produzione e di effettuare degli investimenti significativi nelle aziende feudali. Interesse che, secondo alcuni studiosi, non era granché nutrito dai grossi affittuari (gabelloti)proprio per il fatto di amministrare fondi non di loro proprietà(19). Infatti, in essi non poteva abitualmente albergare l’interesse alla realizzazione di grandi ed incisivi investimenti in terre non detenute in proprietà e gestite per un arco di tempo limitato. A questo schema analitico classico hanno fatto seguito più recenti interpretazioni storiografiche, le quali ne hanno in parte mitigato o ridimensionato le conclusioni. Infatti, accanto al barone di città che assumeva atteggiamenti economici parassitari ne esistevano altri che mostravano degli spiccati interessi e propensioni produttivi moderni e di tipo capitalistico sia pur nell’ambito del sistema generale della rendita. Fatta questa premessa andiamo ad analizzare alcune tipologie contrattuali della concessione in gabella del latifondo feudale ubicato nell’agro gangitano. Prendiamo, quindi, in considerazione l’atto notarile stipulato nel settembre del 1602 dal procuratore del barone di Capuano ed Albuchia (affittatoris) della terra di Gangi(20). L’atto si apriva , more solito, descrivendo e specificando chi fossero le parti o contraenti. Si richiamava o si rimandava ad un ulteriore atto che legittimava ed autorizzava il procuratore a rappresentare legalmente il ricco mandante( il barone Gianforte Natoli). Infatti, si fa riferimento all’ actus procurationis di cui era titolare il Picardo (appunto il procuratore del barone). Poi si specificava l’oggetto del contratto rappresentato dall’ingabbellamento o affitto in favore del nicosiano De Randazzo, a sua volta rappresentante degli interessi dei De Falco, assenti all’atto della stipula del contratto ("absencium"), dai quali il Randazzo disse di aver ricevuto particolare mandato:" a quibus dixit ad hec hab: mandatum". Inoltre, il momento perfezionativo dell’accordo, da parte dei De Falco, era esplicitamente indicato e consistente nel dover comunicare l’accettazione dell’accordo entro 4 giorni alla controparte, a partire dal giorno in cui ne erano stati fissati i contenuti dai due procuratori. In altre parole, l’adempimento dell’obbligo di ratifica doveva realizzarsi entro tale termine . Nel contratto si specificavano anche le modalità di sfruttamento e la destinazione economica del latifondo ingabbellato, e cioè "ad usum (…) ut d(icitu)r di massaria" ed a pascolo. Quindi, appare evidente l’effettuazione della consueta rotazione colturale cereali-pascolo-maggese. Il prezzo dell’affitto era stato fissato in onze 14 e tarì 11 per ogni "aratato"(corrispondente a circa 9 salme di terra). Per un totale di circa 222 onze. Nel computo totale veniva precisato che alla somma pattuita bisognasse aggiungere un quintale di caciocavallo per ciascun anno. La durata complessiva del contratto era fissata in 5 anni. Inoltre, venivano precisate modalità e termini di pagamento. Metà della somma doveva essere versata al barone nella festa di Pasqua (in festo pascatis). Sull’ "ingabellator" gravava l’obbligo di difendere e tutelare il feudo preso in affitto contro ogni molestia (fiscale, creditizia ecc.). Il proprietario del latifondo si riservava il diritto di inviare algozinii, commissari, procuratori contro il gabelloto ed i suoi subconduttori, coloni (inquilini) in caso di pertinenti crediti non soddisfatti e relativi al prezzo dell’affitto(debent de prectio preditte gabelle). La tutela riguardava anche la possibilità di difesa legale dalle pretese di eventuali creditori gravanti sul latifondo in questione. Tale importante clausola veniva scritta oltre che con le formule di rito anche in volgare, per ovvi motivi. Nell’ultimo caso, e cioè nell’eventualità di debiti pregressi gravanti sul feudo o sull’ingabellante, il gabelloto era tenuto ad avvisare quest’ultimo. Se ne specificavano pure le modalità: oralmente (tramite un garzone) o tramite lettera ("missiva").
Un particolare ruolo veniva affidato al garzuni nelle fattispecie in esame: "il quali garzuni possa dari la sua relac(tio)ni (NdA, che) habbia ogni fortezza et riguri". In altri termini, la testimonianza di quest’ultimo presso un magistrato aveva piena rilevanza giuridica ergo processuale.
Citiamo ora i contenuti di un altro contratto relativo all’affitto di un feudo da parte del citato barone Natoli in favore di un altro affittuario o gabelloto, Bartolomeo Pilligrino.
La durata del contratto era fissata in 5 anni. La destinazione o sfruttamento agrario del fondo affittato era stabilita: "ad usum massariam come d’herbaij" . Era naturalmente fissato il compenso o prezzo dell’affitto in base all’estensione del latifondo (e cioè 14 onze pro aratato). Simili ai casi precedenti, erano tempi e modalità fissati per il pagamento che doveva avvenire in due rate (a Pasqua ed a ferragosto di ogni anno). Il contratto stabiliva che le parti dovessero impegnarsi a prestare "juramentum in margine presentis vel per actum pubblicum vel privatu", e cioè a margine del presente atto notarile o per atto pubblico o privato. Le altre clausole sono simili alle prime. Come si noterà dalla lettura dei passi citati, le formule in lingua latina adottate dai notai di allora non sempre seguivano un’organizzazione sintattica e grammaticale fedele al latino classico.
Citiamo ora altri contratti di gabella che vedevano protagonista, fra le parti interessate, la Chiesa locale. Risaliamo a qualche anno prima. Nell’ottobre del 1588 il monastero di Gangivecchio gabellava al notaio Joseph Bellhos di Calascibetta ed al "magnifico" Longo di Castelluccio un feudo chiamato Li Sauselli o Canneto. Esso si trovava ai piedi del centro abitato(21). L’affitto aveva la durata di tre anni. Un terzo della superficie affittata andava al primo affittuario e i 2/3 al socio di questi. L’affitto era stato curato e pattuito da don Silvestro de Florentia legittimo rappresentante e procuratore del menzionato monastero. Ritroviamo anche la precisazione di come dovesse essere sfruttato il relativo suolo, e cioè a pascolo (herbagiorum tam ut dicitur vacantis et restuchi). Le rendite, le potestà e le pertinenze del feudo erano concesse in toto senza alcuna eccezione. Si trattava di un feudo "ingabellato con tutte le sue singole giurisdizioni, emolumenti, tuguri, comodità, trazzere (NdA, vie) e marcati (NdA, azienda zootecnica tradizionale)".
Inoltre, i conduttori(gabelloti) si obbligavano a corrispondere al Monastero 32 onze più un certo quantitativo di formaggio per il primo anno, e successivamente 120 onze annuali integrate da formaggio e carne da macello (carnaggii).
Nel corso dei tre anni incombeva il divieto sul Monastero di Gangivecchio il divieto di xaccari, e cioè lavorare o coltivare il feudo. Infatti, il suolo doveva rimanere "vacanti", cioè incolto da parte dei monaci. Mentre era permesso ai gabelloti (liceat dictis conduttoribus) di poterne seminare, a scelta, una parte: "di canna ad una punta benvisto a dictis condutturi". Nell’anno in cui veniva stipulato il contratto era fatto divieto ai conduttori di introdurre animali (bovini, ovini ecc.) nel feudo e di espellere i massari ivi presenti. Tale clausola era valida fino al giorno di Natale. Inoltre, un’altra clausola regolava e disciplinava i rapporti tra le parti in relazione ai pertinenti diritti di natura giurisdizionale e di tipo feudale. Si trattava dei diritti di dogana e di erranteria. Altro diritto che poteva essere esercitato era quello di sprisagliatura. Si trattava di una sorta di diritto al trasporto di beni o cose. Quindi, ai due soci era consentito di far caricare o scaricare le bestie da soma alfine di trasportare derrate, attrezzi agricoli e quant’altro da e per il feudo locato. Inoltre, i due gabelloti erano autorizzati a far vigilare il feudo da un guardiano o campiere.
Citiamo un contratto di subconduzione o subaffitto del feudo Albuchia risalente al 1580. Il feudo fu riconcesso "ad usum massariam" ed a pascolo, secondo una formula allora vigente e che abbiamo già avuto modo di riferire. La durata e la validità del contratto di subgabella erano fissati in due anni. Il prezzo ammontava ad onze 100, cui bisognava aggiungere il solito diritto di carnaggio, e cioè un pagamento aggiuntivo fatto in natura (mediante ovini o bovini da sottoporre a macellazione).
Oggetto di concessione in gabella non erano solo i grandi feudi ma anche estensioni terriere di più ridotte dimensioni come le chiuse, i burgensatici, le vigne di poche migliaia di viti.
Nel 1617 il Rev.mo Padre don Gregorio Cammarata, cellerario del Monastero di Gangivecchio, ingabellò un burgensatico sito in contrada Leco ( Equila, oggi popolarmente chiamata Lico) con le sue pertinenze ed i diritti reali connessi: "con suo celso et casa actionibus, lucris, emolumentis…"(22). Formula adottata pure per le gabelle dei latifondi feudali. Secondo alcuni usi e consuetudini seguiti, osservati dal clero locale, la relativa remunerazione poteva essere fatta in natura (come ad esempio accadeva anche per le gabelle dei mulini appartenenti a chiese e monasteri gangitani). Nella fattispecie in esame era stabilita in 4 salme di frumento ed in 8 salme di orzo.
Nel 1690 Cataldo Ciappina ingabellava una sua vigna ("unam eius vineam") ubicata nel feudo San Giaime(23). Infatti, la concessione fondiaria, come ci dice il relativo contratto, era fatta "ad gabellam" . Quest’ultimo precisa l’estensione della vigna (comprendeva circa un migliaio di viti), il termine, il prezzo (a ragione di tarì 15 da versare annualmente) e gli oneri gravanti sull’affittuario (che doveva conciare et reparare dictam vineam) .
Le gabelle di beni patrimoniali appartenenti a chiese, all’Università, e (talora) a privati(era il caso di terre sottoposte a procedure fallimentari, come diremmo oggi, o di beni ereditari spettanti a minori sprovvisti o non aventi giuridicamente piena capacità d’agire) venivano espletate mediante asta pubblica.
Ad esempio, nel 1690 il procuratore della Chiesa dello Spirito Santo, don Vincenzo Matta, ingabellava delle chiuse (clausure) con asta pubblica tenuta in pubblica piazza "uti ultimo dicitore et plus offerenti"(24). In genere questo tipo di affitti veniva assegnato, seguendo il metodo della candela accesa (candela accensa) all’ultimo e migliore offerente.
5. Contratti pastorali
Passiamo adesso ad analizzare alcuni contratti-tipo riguardanti l’allevamento di animali e, dunque, il settore zootecnico tradizionale. Utilizziamo ai fini del nostro lavoro il bastardello notarile redatto da notar Li Destri alla fine del Seicento. Questo notaio nel 1690 si trovò a registrare un accordo contrattuale tra il sacerdote Mirabella ed i fratelli Mocciaro. L’oggetto del contratto riguardava la soccida di una vacca e del suo vitellino ("sequace"). Il termine giuridico che inquadrava il rapporto contrattuale e, quindi, la causa dell’accordo era indicato dall’espressione "societas". Quindi, si aveva un rapporto societario, di cooperazione o di compartecipazione tra le parti. L’atto notarile indicava che la titolarità ed il reddito connessi ai due bovini era da dividere a metà fra i contraenti. Infatti, si specificava che ai conduttori spettasse "una integra medietas" sull’animale, e cioè i soci erano titolari di diritti reali da vantare ed esercitare nei termini ora indicati sul bovino e sul suo sequace . I concessionari obbligavano il Sacerdote nel sopportare o partecipare ai costi dell’allevamento. Costi e valore dei bovini determinati da due esperti designati, nominati consensualmente dalle parti, le quali :" apprezziari debeant per comunes expertos eligendos"". Andiamo alle obbligazioni contratte dai concessionari. Essi si impegnavano a custodire e pascolare gli animali seguendo i criteri di buona fede, evitando di "commmittere fraude, negligentiam". L’oggetto dell’atto e, quindi, dell’accordo fra le parti riguardava il diritto di pascolo che poteva essere esercitato dai soccidari sulle terre del soccidante (da questi detenute in proprietà o in affitto). I proventi della soccida ed i costi dovevano gravare su entrambe le parti. Dal tenore del contratto deduciamo che esso possa essere ascritto nella categoria giuridica di soccida semplice (oggi disciplinato dal nostro Codice Civile agli articoli 2171 e ss.). Vediamo qualche altro contratto di soccida per definirne meglio i contorni. Riferiamo dell’atto stipulato presso notar Citati il 1° settembre 1631 tra il "magister" Pinello ed il "bestiamaro" Bartulo Vecchio. Causa ed oggetto del contratto, secondo la formula di rito, venivano così indicati dal notaio : "ad soccidam seu a mitati(…)unam equam(…) ad usum bestiamarij". Il De Vecchio si obbligava a pascolare, custodire ed allevare l’animale: " pascere et custodire jus herbagij".Solitamente era molto limitato il numero di bestie (cavalli, muli, asini) concessi in soccida. Ma, naturalmente, esistevano esempi di affidamento secondo tale tipologia giuridica di più di 1 o 2 animali. Era il caso di Lorenzo Siragusa che nel 1630 dava " amitati" a tale Giuseppe lo Presti un "genchus", et "quattuor vaccas ".Era inclusa una clausola che prevedeva che in caso di malattia o infermità fisica degli animali, il soccidario potesse venderli o trasferirne la proprietà a terzi, facendo rogare un regolare contratto presso un notaio. Il soccidante aveva il diritto di prelevare dal patrimonio animale societario una "vacca gratis per seminari". Alcuni degli elementi pattizi e contrattuali in materia di soccida ora enunciati ce li ritroviamo nell’attuale codificazione in materia (vedi , ad esempio, gli articoli 2171 e 2174 del Codice Civile).
Alla pastorizia era legato il mercato di prodotti lattiero-caseari e della lana. In quest’ultimo caso i contratti dell’epoca potevano specificare la qualità ed il tipo di lana venduta. Sempre nel 1690 Giuseppe Vaccaro vendeva a Gregorio Barbieri (o Barberi) due quintali di lana (cantarea due lane).L’oggetto del contratto era rappresentato dall’alienazione di una partita di lana che per metà doveva essere bianca e per l’altra metà nera(lana grossa nigra). Il venditore si obbligava a consegnarla nel "marcato" di Casalgiordano entro il termine pattuito, e cioè al momento della tosatura ("in tempo di tondere"). Questi doveva inoltre impegnarsi al trasporto od alla consegna al compratore della merce usando le proprie bestie da soma: " Laudato ch’abbia da portare l’integra di detta lana ad com(prato)ri con li soi cavalcaturi". In base alla tipologia di beni fondiari ingabellati, il gabelloto era tenuto a consegnare alla locale Corte giuratoria determinate quantità di formaggio. In genere si trattava di quintali di formaggio di cui volta per volta se ne specificava in sede contrattuale la tipologia (pecorino, caciocavallo ecc.). Si trattava di modalità di pagamento in natura integrative di quelle monetarie, consuete nei contratti di gabella. I giorni delle feste principali venivano prescelti a tal uopo (Natale, Carnevale, Pasqua). L’onere ed i rischi del trasporto del formaggio dal luogo di produzione e conservazione al domicilio dell’acquirente gravava interamente su quest’ultimo. La valutazione del valore di mercato di bovini ed ovini era fatta tramite esperti detti "prezziamari". Costoro potevano essere chiamati ad emettere il loro parere tecnico dai borgesi, cioè contadini relativamente benestanti con qualche facoltà (immobiliare o mobiliare), e dai ricchi allevatori e proprietari della zona. . Ad esempio, i burgenses Domina, Mocciaro e Barreca, su richiesta del notabile gangitano don Francesco Li Destri, definito dalla fonte ("patronis mandre vaccarium"), nell’Anno Domini 1725 erano stati incaricati di stimare ed apprezzare venticinque bovini(25). Nel contratto se ne specificava la tipologia. La mandria era infatti composta da mucche, tori (vitellacios) dalla eterogenea tipologia cromatica del manto (diversorum pilorum). I prezziamari convocati o designati per l’occasione pare provenissero dalla vicina Geraci.
Nello scorso paragrafo abbiamo visto alcune forme di accordo connesse all’affidamento in gabella di piccoli, medi e grandi fondi terrieri. Ma non solo le proprietà immobiliari (e quindi anche case, mulini ecc.) potevano essere gestite e temporaneamente sfruttate ed alienate in tale modo ma anche quelle mobiliari potevano essere oggetto e sottoposte a tale regime giuridico-economico. Ad esempio, gli ovini detenuti da privati, o da confraternite, chiese venivano concessi in affitto ad allevatori e pastori della zona. Nel 1690 il rev. Don Mario Li Destri, in rappresentanza o mandatario della Comunia del clero locale, ingabellava alla famiglia Domina ed al socio di questa, Vaccaro, 100 ovini. Il termine fissato per la scadenza del presente contratto era fissato nel terzo anno successivo alla stipula o rogazione dello stesso. Le modalità di assegnazione in gabella erano determinate dallo svolgimento di un’ asta pubblica (uti ultimis dicitoris et plus offerenti).
I grandi proprietari di armenti e mandrie di bovini prendevano in affitto delle estensioni di terra, spesso di natura feudale o baronale, non disponendo di propri fondi o non avendo terra a sufficienza per farvi pascolare i propri animali. Accadeva anche che i gabelloti delle terre baronali vendessero i diritti di pascolo dei feudi, presi in affitto, a grossi proprietari di bovini, ovini, suini. Si trattava spesso di ricchi borghesi o "magnifici", e di altri nobili titolati. Questi ultimi solevano incaricare dei propri rappresentanti, in termini giuridici moderni li possiamo definire"mandatari", incarnati dai propri "curatoli", a capo dell’organizzazione delle attività zoo-tecniche e lattiero-casearie(e cioè atte alla produzione di latte e formaggio).
Facciamo un esempio, desumendolo dalla vasta massa di informazioni di tal natura conservata nell’archivio notarile locale.
Il gabelloto o conduttore di un feudo gangitano nel febbraio 1690 vendeva l’erba pascolativa di una porzione di suolo incolto e le stoppie di altra parte del latifondo in esame al curatolo di Ferdinando Pardo(26). Sul conduttore (Vincenzo Domina) gravava l’obbligo di seminare tutta l’area adibita alla coltivazione del grano, sottoposta a trebbiatura ed a conseguente destinazione pascolativa : "Item de patto che d(ict)o D ‘homina s’have da seminare tutti li ristucci delli terri di d(ict)o fego che sono seminati in anno p(rese)nte con lasciari salmi cinque di terre vacanti di strasatto nel cindo del marcato di d(ict)o fego".
Come si è visto i patto agrari vigenti nell’agro di Gangi in età moderna ricalcavano per grandi linee quelli vigenti in altri territori ed agro madoniti, in particolare, siciliani , più in generale, pur non rinunziando a varianti e specificità consuetudinarie tipiche del luogo.
NOTE:
(1) -Per le notizie di carattere demografico vedi: S. Naselli, Engio e Gangi, Palermo, Kefagrafica- Lo Giudice, 1982; O. Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palermo, Palumbo,1989, pp. 198-199. Inoltre, per le notizie economiche e sociali su Gangi si consulti il fondamentale saggio sul tema di M.: Aymard, Un bourg de Sicile entre XVI et XVII siécle: Gangi, in: Conjuncture économique structures sociales, Paris. Inoltre si veda, sempre in ambito storico-sociale ed economico, il mio volume: Il grano ovvero la preziosa derrata (produzione, produttori, speculatori granari in un mercato locale siciliano tra XVI e XVII secolo), Leonforte, Lancillotto e Ginevra Ed., 1998; ed anche la mia ricerca pubblicata nel volume: Economia, Chiesa e società a Gangi tra due secoli, Leonforte, Lancillotto Ed., 1999. A livello di studi generali sul tema citiamo: C.A: Garufi, Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia, in "Archivio Storico per la Sicilia", serie III, vol. I, Palemo, 1947, ed anche :L. Genuardi, Terre comuni ed usi civici in Sicilia, Palermo , 1911. Sulla persistenza e sopravvivenza di patti e consuetudini agrarie in Sicilia, fra i vari testi che si possono indicare citiamo: E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, Einaudi 1977; e per i loro riflessi sociali e politici nella prima metà del Novecento, vedi l’interessante raccolta di saggi di G.C. Marino pubblicata nel volume dal titolo: Il maligno orizzonte e l’utopia, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia Editore, 1998.
* -Il presente testo è frutto di una mia ricerca riassunta in una relazione presentata presso l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri di Gangi nel mese di aprile del 2001 nell’ambito di un programma di studi scolastici sul tema della riforma e dei patti agrari sulle Alte Madonie.
(2) -Archivio Storico del Comune di Gangi (d’ora in poi, ASCG), Notar A. Li Destri (bastardello), reg. 1688-92, atto del 7-6-1690 .
(3) -Ibidem, atto del 23-11-1690, f. 88.
(4) Ibidem, atto del 23-11-1690, f.93.
(5) Atti notar Li Destri (bastardello), a. 1691, f.197
(6) Ibidem, f.219
(7) Documento tratto ancora da: Notar Li Destri (bastardello), reg. 1688-92, a. 1690, f.60
(8) Ibidem, atto dell’1-10-1690
(9) Ibidem.
(10) Notar Li Destri (bastardelli), a. 1690, f.75
(11) Notar Li Destri (bastardelli), atto del febbraio 1690, f.139 .
(12) -Notar Citati, a.1636, f.144. Sul problema vedi: M. Siragusa, Il grano ovvero la preziosa derrata, op. cit., pp. 44-45.
(13) Notar Li Destri. (bastardelli 1688-92), f.24, a.1691.
(14) O. Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palermo, Palumbo, 1989.
(15) Notar LI Destri (bastardelli degli anni 1688-92), f. 28 , a.1691.
(16) -vedi : ASCG, passim; S. Naselli, Economia e società in Gangi nei secoli XVI e XVII, Palermo, 1978.
(17) -R. Monheim, La città rurale nella struttura dell’insediamento della Sicilia centrale, in: Annali del Mezzogiorno, voll. XII-XIII, 1972.
(18) -Ibidem.
(19) -Su tale problematica di carattere generale citiamo: M. Aymard, La transizione dal feudalesimo al capitalismo, in: Storia d’Italia. Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978; O. Cancila, Impresa, redditi, mercato nella Sicilia moderna, Roma-Bari, Laterza,1980; H.Bresc, Un monde mediterraéen. Economie et société in Sicile, 1300-1450, voll. 2, Palermo, 1986; F. Braudel, Civiltà ed Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi,1976;
(20) -Spezzone notarile probabilmente da attribuirsi a notar H. Errante, a. 1602.
(21) M. Siragusa, Il grano ovvero la preziosa derrata, op. cit., pp.43-44.
(22) Notar Nicchi, a.1617.
(23) Notar A. Li Destri, a.1690.
(24) Ibidem.
(25) Notar A. Li Destri (bastardelli 1725-26), f.54
(26) Notar A. Li Destri (bastardelli), a. 1690
La storia della graduale transizione della Sicilia dal fascismo al sistema democratico ha uno specchio - di parte fascista - nel settimanale I Vespri d’Italia, pubblicatosi a Palermo tra il 1949 ed il 1963. Fu una storia pacifica e ragionevole, senza violenza né traumi né vendette d’un qualche rilievo. Così emerge anche da I Vespri d’Italia.
Il fascismo, infatti, sebbene il suo processo come movimento politico e forma di governo dello Stato italiano si fosse concluso già il 25 luglio 1943 con il voto contrario a Mussolini da parte del Gran Consiglio o al massimo con la liberazione del Nord, in Sicilia non aveva avuto conclusione con un fatto interruttivo ben preciso. Per effetto dell’occupazione della Sicilia da parte degli angloamericani, che ha risparmiato al Sud la guerra civile, esso aveva continuato ad esistere nelle coscienze di molti cittadini, soprattutto di quelli che - da funzionari o da militari - avevano servito onestamente e convintamente il Paese durante il Ventennio o avevano combattuto nella Repubblica Sociale fino al 25 aprile del 1945, data passata alla Storia come quella della liberazione dell’Italia dai tedeschi (e dal fascismo), e che poi erano ritornati in Sicilia nella propria famiglia ed alle proprie occupazioni.
Nel 1949, data di fondazione de I Vespri d’Italia, comunque, sebbene non fossero passati che quattro anni dalla fine della guerra e tre anni dalla caduta della monarchia, i problemi dell’Italia erano ormai molto diversi. La Storia era corsa velocemente.
Entrata in vigore, nel 1948, la Costituzione repubblicana ed insediatosi il Parlamento, l’anno successivo, in gennaio, il Governo De Gasperi aveva chiesto al Dipartimento di Stato americano di sostenere la richiesta dell’Italia di far parte della NATO. In marzo si svolgeva l’accesissimo dibattito in Parlamento per l’adesione ufficiale, con il noto ostruzionismo e l’appendice di manifestazioni di protesta da parte di socialisti e comunisti in molte piazze d’Italia, affrontate violentemente dalla polizia. Fra il 18 ed il 27 marzo Camera e Senato, a larga maggioranza, autorizzeranno comunque il Governo ad aprire le trattative. Il 4 aprile fu firmato a Washington il Patto atlantico. Il 5 maggio venne istituito il Consiglio d’Europa con lo scopo di promuovere l’integrazione tra gli Stati europei. La guerra ed il regime fascista erano ormai veramente alle spalle.
I problemi interni erano costituiti dal dibattito sulla legge approvativa del Piano Fanfani per l’incremento della costruzione di abitazioni e la riduzione della disoccupazione nel settore edilizio, mentre a Cortemaggiore l’AGIP di Enrico Mattei faceva entrare in funzione un giacimento di metano capace di produrre 23 milioni di metri cubi di metano al giorno. Il comunismo mostrava ancora un volto massimalista e rivoluzionario e, sul piano dei principi, ostentava una ideologia materialista ed atea, per cui, il 12 luglio, il Santo Uffizio comminava la scomunica dei suoi aderenti e di quelli che ne accettassero, sostenessero o divulgassero le idee. Fortemente sostenuto dal P.C.I., il movimento contadino si impegnava, proprio nel 1949, in robuste manifestazioni rivendicative del diritto alla terra, con relative occupazioni; il che avveniva anche in Sicilia. Dal punto di vista economico-sociale, l’Italia accelerava la sua trasformazione da paese prevalentemente agricolo in paese industriale.
In un tale contesto i problemi nazionali si coloravano in Sicilia di aspetti legati più particolarmente alla sua Storia. Da circa due anni operava il regime autonomistico e l’Assemblea regionale tentava di darne la massima espressione mediante una serie di leggi dai contenuti fortemente innovatori nell’economia e negli assetti sociali. In contrapposto, si manifestava la reazione dello Stato attraverso un rigido controllo sulla produzione normativa regionale e la contestazione di interi istituti, quali, ad esempio, quello della sostituzione del potere regionale a quello prefettizio o quello della spettanza dei poteri di polizia al Presidente della Regione. Era, d’altra parte, emersa una nuova e diversa classe politica - da Alessi ad Aldisio, a Scelba, Restivo, Colajanni, La Loggia, Li Causi, ecc. - fortemente autonomistica e sicuramente democratica, ed era con questa classe che il giornale cominciava a dialogare, spostando l’ottica delle proprie considerazioni.
Dal punto di vista politico e della stabilità delle classi dominanti, il pericolo da scongiurare non era certamente quello di una possibile rinascita del fascismo, ma quello di una profonda eversione comunista, per cui proprio nel 1949, come rileva lo storico Renda, centinaia erano i dirigenti politici, per lo più comunisti, incarcerati in attesa di giudizio, assestandosi così anche profonde ferite ai diritti politici, di associazione, di riunione, di circolazione e di stampa(1). Il cosiddetto "pericolo fascista" sarebbe riapparso nella diffusa opinione pubblica - artificiosamente elaborato per interessi elettoralistici - molto tempo dopo, agli inizi degli anni Sessanta, in occasione della crisi avutasi con l’elezione del governo Tambroni, come possibile cemento fra ideologie politiche altrimenti inconciliabili ed in vista di un possibile ingresso dei partiti di sinistra nel governo o, comunque, per una loro accettazione nell’ambito del potere.
In quanto ai fascisti o a quelli che lo erano stati o che, comunque, rivendicavano il rispetto del proprio pensiero politico e delle azioni compiute durante il Ventennio e, soprattutto, nella lotta civile in cui avevano combattuto o si erano schierati da "quella" parte, va detto che, non avendo le commissioni di epurazione epurato quasi nessuno, si erano in gran parte reinseriti nella vita civile, nelle amministrazioni, nell’insegnamento e nelle professioni, senza particolari problemi. Commentando negativamente un tale processo, Bocca osserva, del resto, che "ancora nel 1960 sessantadue prefetti arrivano dal Regime e solo cinque fra essi hanno partecipato alla Resistenza" e che "l’unica vera epurazione della polizia è consistita nell’allontanamento dei partigiani, gli unici veti alle nomine nello Stato Maggiore dell’esercito sono di ufficiali partigiani"(2).
Una volta sorto, nel 1946, il Movimento Sociale Italiano, molte delle persone di sentimenti fascisti vi avevano aderito con l’entusiasmo e la passione tipiche d’una fede. Proprio nel 1949, il 30 luglio, il M.S.I. si riuniva a Roma nel secondo congresso nazionale, e qui trovavano integrazione le diverse anime del fascismo stesso: quella repubblicana, quella nazionalista, quella sociale o socialista, quella moderata, conservatrice e monarchica, nella sintesi espressa dal concetto di Stato nazionale del lavoro, ispirato appunto dai presupposti della dottrina sociale del fascismo, nella cui elaborazione il travaglio e la conciliazione delle varie tendenze erano durati, d’altra parte, tutta la vita pragmatica del P.N.F.
A Palermo, coordinatore regionale del nuovo partito era stato nominato nel 1948, Alfredo Cucco(3). Egli era reduce dalle funzioni di vice-segretario nazionale del P.N.F., che gli erano state conferite nel 1943, dopo diciassette anni di suo allontanamento dalla politica e di vicende giudiziarie che lo colpirono con l’accanimento della persecuzione, sebbene con risultati sempre a lui favorevoli(4), ma soprattutto tornava dall’essere stato presidente del Comitato nazionale per la Sicilia per l’assistenza ai siciliani trovatisi al Nord dopo la spaccatura dell’Italia tra Repubblica Sociale e Regno d’Italia; quindi era stato sottosegretario alla cultura popolare del governo della Repubblica Sociale ed infine segretario nazionale del partito ed imputato come fascista, poi assolto senza conseguenze di alcun rilievo.
Nei predetti incarichi politici Cucco aveva vissuto intensamente la tragedia dei bombardamenti feroci sulla Sicilia e dell’occupazione da parte degli angloamericani; aveva organizzato accoglienza ed assistenza per i profughi siciliani in varie città del Nord, ma soprattutto aveva riflettuto sui problemi della Sicilia nel contesto nazionale insieme a tutta una classe di siciliani illustri che aveva saputo coinvolgere nel lavoro del Comitato.
In Sicilia, a guerra finita, tutte queste persone, che avevano appena finito di lavorare in un clima di solidarietà italiana, fuori da schemi di parte e di faziosità, per l’unico superiore interesse dei loro corregionali e della Patria, ripresero a Palermo, intorno a Cucco, il discorso sospeso a Roma(5). A Palermo, del resto, il clima della Resistenza e della guerra civile, ossia quello che veniva definito il "vento del nord", andava giungendo molto lentamente e veniva accolto dall’opinione pubblica generale con una certa diffidenza, non essendovi stata mai in Sicilia alcuna vera contrapposizione violenta tra fascisti ed antifascisti: nemmeno dopo il 25 luglio del 1943. Non si era avverato quello che Pietro Nenni aveva auspicato nel 1945: "Dal Po in su troveremo, con una netta prevalenza della sinistra, un solo potere organizzato, quello dei Comitati di Liberazione; un solo esercito, quello dei partigiani; una sola forza propulsiva: le grandi organizzazioni contadine, le grandi organizzazioni operaie, i tecnici e gli intellettuali che hanno dato un contributo notevole alla Resistenza (…). Si tratta di preparare la saldatura del Sud col Nord"(6). Il cosiddetto "vento del nord" non era arrivato in Sicilia, e ciò "non soltanto perché la guerra civile materialmente non fu combattuta a sud di Roma, ma perché non ne fu compreso ed apprezzato lo spirito (…). La guerra civile fu estranea all’anima ed alla mentalità del Mezzogiorno d’Italia"(7).
Tale essendo stata, dunque, la storia umana e politica dei siciliani, poté accadere che nei molti siciliani che, da fascisti o da non antifascisti, erano rimasti a vivere in Sicilia nel corso della guerra, sia mancato ogni motivo di interruzione traumatica dei loro sentimenti e delle loro convinzioni. Erano rientrati altresì dal nord molti tra quelli che avevano servito la Repubblica Sociale nei reparti armati dell’esercito, "mossi - come riconosce De Felice - dal patriottismo, dal senso dell’onore, dal desiderio di riscattare l’Italia dal tradimento consumato dal Re e da Badoglio e dal rispetto verso sé stessi"(8) ed erano oltremodo fieri del dovere compiuto.
Tutte queste persone si chiedevano se veramente i Vent’anni, che ora erano ufficialmente da disprezzare, fossero stati tutti negativi. Si chiedevano se si fosse trattato di "vent’anni senza storia" o di una parentesi nella storia, chiusa la quale, "il discorso riprende al punto in cui era stato interrotto, il sole torna a risplendere su dal cielo, la felicità a regnare in terra. Tutta una generazione di italiani, o più generazioni accomunate dallo stesso destino nel Ventennio, bollate di viltà o di stupidità, gettate in mare! Tutto il lavoro profuso attorno a problemi nuovi e vecchi, problemi di organizzazione corporativa, problemi coloniali e africani, problemi economico-sociali imperniati attorno alla bonifica del monte e collina e piano (…); tutto il sincero entusiasmo di tanta gioventù, il calore di adesione di tanti cittadini allo Stato, il senso di fraternità nazionale che ha caratterizzato molti felici momenti del Ventennio, tutto, tutto come non sia stato, anzi, peggio ancora, ammesso solo come male?"(9).
Ci si chiedeva che cosa si fosse voluto in quei vent’anni, intorno a che cosa si fosse lavorato, quale fosse stato il cemento che aveva unito milioni di italiani. Gioacchino Volpe, lucidamente già nel 1946, riassumeva così le risposte che gli attoniti vinti davano forse a sé stessi: "Si volle risollevare lo Stato dal discredito e dall’impotenza in cui era caduto, ravvalorare internazionalmente la nazione, pacificarla socialmente e tentare nuove forme di collaborazione fra le classi e nuove e più rappresentative forme di rappresentanza politica; ravvivare il sentimento di solidarietà del Paese con i milioni di fratelli sparsi per il mondo; assicurare ad esso un minimo di indipendenza economica di fronte ai grandi complessi effettivamente autarchici, perché si traducesse in maggior indipendenza politica; accrescere il suo lavoro ed elevare il concetto del lavoro, di ogni lavoro, a fini non di classe, ma di bene generale della Nazione; bonificare le sue colonie e avviare verso di esse una parte di quella nostra emigrazione che stava diventando dissanguamento ed a cui del resto tante porte di beati possidenti si venivano chiudendo; imprimere un più energico impulso alla sua agricoltura e creare nuovi liberi contadini; rinnovare le classi di governo e dare una virile educazione alla gioventù, organizzare una solida assistenza alle famiglie, alla madre, al fanciullo (…); compiere, per quel tanto che può essere compiuta, l’opera di conciliazione dello Stato italiano con la Chiesa e col Papato. Per questo, tanti italiani si sono riscaldati nel Ventennio, tanti di essi hanno "servito" il Fascismo o compiuto atti rilevanti a favore del regime. Erano scopi riprovevoli, da doversi battere il petto, anche se impari poi si dimostrarono molti modi e mezzi di attuazione, e tanti omeri troppo inferiori alla soma?"(10).
Idealmente e culturalmente era ragionando su questi punti che i cosiddetti "nostalgici" reclamavano in quegli anni, da vinti ma non da colpevoli, di avere il rispetto da parte dei propri concittadini e di meritare il diritto di poter esprimere del tutto liberamente le proprie opinioni sul passato recente e di poter partecipare alla ricostruzione ed al governo del proprio Paese. In quanto al regime conclusosi, "creare un nuovo fascismo? Ogni parola, come ogni cosa, ha il suo tempo, oltre il quale essa è anacronistica"(11).
Inoltre essi si trovavano carichi di energia morale, sebbene fossero stati sconfitti; perché, come notava Piero Operti, "vittoria e sconfitta sono fatti enormi e contano assai nel momento in cui si avverano, ma, allontanandosi nel tempo, le loro dimensioni si riducono e ciò che conta, ciò che rimane stabilmente acquisito è la prova di energia morale e di coesione nazionale che un popolo ha saputo dare"(12).
Con tutti i predetti argomenti Alfredo Cucco coniugava negli anni del primo dopoguerra la sua grande fede nelle potenzialità dei siciliani ed una costante attenzione verso gli interessi della nostra regione, secondo un modo di vedere maturato ed approfondito negli anni in cui presiedette, appunto, a Roma ed a Venezia, il Comitato nazionale per la Sicilia.
Erano tutte tali ragioni che animavano le discussioni che si sviluppavano in un certo circolo di intellettuali che, sul finire appunto degli anni Quaranta, si raccoglieva a Palermo intorno a lui. Si diceva: "Tutto il dolore, tutto il pianto, tutti i sacrifici e le privazioni e le distruzioni ed i lutti subiti in più di tre anni non possono andare perduti, tutto il sangue versato, di soldati, di donne, di vecchi, di bambini, non può essere stato offerto invano!"(13). E si sottintendeva: "lutti subiti" e "sangue versato dai siciliani per la Patria comune".
Si formò così la linea del pensiero politico di fondo che avrebbe animato il settimanale I Vespri d’Italia e che Giuseppe Tricoli sintetizza in questi termini: "La lotta contro la mafia e per la sicurezza nelle campagne, lo Stato come valore nazionale partecipato e modernizzante, anche sotto l’aspetto assistenziale ed educativo, l’impresa coloniale africana come immagine speculare dell’anelito esistenzialista dei siciliani; la colonizzazione del latifondo e la valorizzazione della campagna e dell’agricoltura, secondo un modello di sviluppo equilibrato rispondente alla vocazione della cultura e dell’anima popolare siciliana; la valorizzazione del lavoro come fattore creativo, soggetto e non oggetto dell’economia, sottratto, perciò, alla mercificazione alienante del capitalismo: questi erano stati i fattori, i valori, i miti, i veicoli della nazionalizzazione che, mortificati dalla disfatta del 1943, venivano ridestati dal messaggio appassionato di Alfredo Cucco e riproposti, storicisticamente attualizzati, nella nuova fase della politica italiana"(14).
Il giornale nacque il 2 gennaio 1949 con la direzione ufficiale di Nino Di Forti e Luciano Ingianni. "Non sarà questo un giornale di partito", diceva l’editoriale-presentazione di Cucco, "i Vespri combatteranno per l’Italia contro le forze abbiette dell’anti-Italia, per l’ordine contro il disordine, per la giustizia sociale contro le iniquità e le ingiustizie, per la religione e la moralità contro l’ateismo ed ogni immoralità, per i sacri interessi della Nazione contro tutti i suoi detrattori esterni ed interni… Non vedranno nemici se non nei nemici d’Italia, sentiranno fratelli - anche se di parte avversa - tutti coloro che, prima di ogni altro, si manifesteranno e saranno italiani"(15). E si rivolgeva ai mutilati di guerra, agli ex combattenti (allora, ve ne erano ancora della prima guerra mondiale e delle guerre coloniali), alle famiglie di caduti ed agli italiani in genere "che in ogni tempo avete amato incondizionatamente l’Italia", e dedicava una certa attenzione ai problemi dei trecentomila profughi giuliani e dalmati ed ai siciliani emigrati.
Certo, nei primi numeri l’attenzione era, come naturale, rivolta al "punto di partenza": il ritorno dalla Legione straniera di Bottai (n. 3 del 1949), il quale era trattato ovviamente male dall’editorialista, avendo Bottai, come è noto, votato contro il Regime nella fatale notte del 25 luglio; la condanna del Generale Graziani a 19 anni di carcere (n. 19 del 7 maggio 1950); la scomparsa - e forse la ricomparsa - dei documenti che Mussolini aveva con sé sulla strada, anch’essa fatale, da Milano a Como, prima che fosse ucciso (n. 20 del 14 maggio 1950); la scoperta della circolare "Badoglio" del 26 luglio 1943, che ordinava di "aprire il fuoco a distanza anche con mortai ed artiglieria, senza preavviso" in caso di turbamenti dell’ordine pubblico d’ogni genere (n. 10 dell’1 ottobre 1950); le indagini della magistratura di Milano sulla fucilazione di Carlo Borsani, cieco e mutilato di guerra, già insignito della medaglia d’oro.
Una particolare attenzione era anche riservata ai pericoli di eversione costituiti dai progetti rivoluzionari, ancora coltivati da una parte degli ex partigiani di provenienza comunista nel nord d’Italia. Si dava, così, particolare evidenza ai bollettini mensili del Ministero dell’Interno che davano conto delle armi rinvenute, commentando accanitamente il contrasto tra i discorsi di pace fatti ufficialmente dai socialcomunisti e quelle riserve di potenziale bellico non consegnato dopo la fine della guerra. Ancora nel 1950, con un titolo su nove colonne, si faceva il resoconto di mitragliatrici, fucili, pistole, bombe ed altri esplosivi rinvenuti, sebbene fossero passati già cinque anni dalla fine della guerra(16).
Era un’attenzione alle cose che interessavano in maniera attuale - e non ancora storicamente - gli italiani e, particolarmente, la categoria di siciliani che per le dette ragioni non avvertivano che vi fosse stato motivo per una interruzione nel loro sentire politico. Per essi, dunque, il giornale costituiva un mezzo di aggregazione ed un organo di difesa morale ed un settimanale rifornimento di coraggio. Umanamente, incanalava la testimonianza della loro onestà intellettuale e del loro lecito pensiero: perché la Storia un giorno si potesse forse scrivere non "inaudita altera parte".
Non si trattò, comunque, d’una voce irragionevolmente apologetica, se il giornale stesso contestava la qualificazione con il neologismo "neofascista" ed il 20 gennaio 1963 poteva annunziare con soddisfazione che, "sebbene la Camera dei deputati avesse concesso, qualche tempo prima, l’autorizzazione a procedere a carico dell’on. Prof. Alfredo Cucco per il reato di apologia, con riferimento ad una pubblicazione comparsa su un numero speciale de "I Vespri d’Italia" dedicato alla rievocazione storica della marcia su Roma, l’autorità giudiziaria, su conforme richiesta del Procuratore della Repubblica e del giudice istruttore, ha ordinato l’archiviazione per inesistenza di reato".
Difficile era, d’altra parte, lo stesso voler rievocare storicamente i fatti del Ventennio, ove si fosse voluta mantenere una linea di libertà di giudizio, dato lo stretto spazio intercorrente fra una appassionata indagine storica dei fatti ed il rischio di incriminazione per reato di apologia del cessato regime(17), nonché per violazione dell’art. 290 del codice penale prevedente il reato di vilipendio delle Forze armate della Liberazione. Ma l’attenzione per quella storia recente si andava anch’essa evolvendo, attratta com’era sempre più dalla realtà in rapida evoluzione.
Il giornale si rivolgeva soprattutto ai siciliani fieri di esserlo e di sentirsi, insieme, italiani, additando come via preliminare ad ogni soluzione dei problemi riguardanti la ricostruzione quella della "pacificazione", al quale fine riteneva che i siciliani potessero svolgere un ruolo efficace; non per nulla la testata del giornale richiamava uno spirito, quello dei Vespri siciliani, da diffondere in Italia, come l’energia morale unitaria ed appassionata propria dei siciliani. Si veda così con quanto interesse il giornale commentava il messaggio del Papa Pio XII in occasione del natale 1949 ed alla vigilia dell’Anno Santo: in esso si condannava "l’imprudente intolleranza e lo spirito di rappresaglia, soprattutto quando la vendetta sia esercitata dal pubblico potere contro chi ha piuttosto errato che peccato, o quando la stessa pena meritatamente inflitta si prolunghi oltre ogni limite ragionevole" e si pregava perché "inspiri il Signore consigli di riconciliazione e di concordia (…), si ponga fine a quei residui di leggi straordinarie (…) dopo lunghi anni dalla cessazione del conflitto armato"(18).
Il riferimento alle leggi speciali contro i vinti e l’invocazione d’una pacificazione tra gli italiani divisi dalla recente guerra civile erano evidenti ed il giornale non mancò di rilevarlo e di contestare la poca eco che il messaggio pontificio aveva avuto negli uomini cristiani della Democrazia Cristiana; come, del resto, per anni non mancò di rilevare positivamente ogni tentativo di riconciliazione e di fratellanza provenienti da associazioni, da religiosi e da cappellani militari: Padre Blandino della Croce annunziava sul giornale che il 4 ottobre, ricorrenza di S. Francesco, si sarebbero svolte ad Assisi adunanze di frati e cappellani militari nel segno appunto di una pacificazione cristiana(19).
In questo spirito di auspicata pacificazione, il settimanale esprimeva soddisfazione quando poteva riferire che "al congresso di Trieste dell’Associazione mutilati ed invalidi di guerra, con l’approvazione dei cinquecento delegati convenuti, veniva decisa l’ammissione degli ex combattenti della Repubblica Social Italiana nelle file del sodalizio"(20); mentre, sempre nello stesso spirito e con evidente accettazione dei valori cattolici, il 20 gennaio 1950 esaltava la figura di Michele Pavone appena eletto presidente dell’Azione Cattolica diocesana. Il fatto, del resto, denotava in sé quel trapasso indolore (oggi si direbbe soft) che si è detto essersi verificato in Sicilia, essendo stato durante il Ventennio il professore Michele Pavone, noto urologo, tutt’altro che lontano dal fascismo: "Dunque è chiaro e preciso - osservava il giornale - che Azione Cattolica non è affatto la stessa cosa che D.C.", intravvedendo in un primo tempo nel mondo cristiano, forse, spazi possibili e più ampi di quelli dell’area della "nostalgia" per la sua funzione ricostruttrice della coscienza nazionale(21).
In una siffatta concezione del proprio ruolo, una delle prime posizioni che il giornale dovette assumere in relazione al nuovo assetto dello Stato fu quella nei confronti della appena sorta Autonomia regionale e quindi nei confronti dell’ente Regione e dell’Assemblea regionale.
Gli articoli contenuti nei primi numeri mostrano una certa difficoltà a conciliare la linea di fondo, nazionalista ed unitaria, con il nuovo regime istituzionale che, tutto sommato, era stato concepito per servire gli interessi peculiari della Sicilia, interessi che proprio Cucco aveva sempre evidenziato in una posizione talvolta perfino rivendicatoria(22).
Troviamo, così, nei primi numeri del giornale diversi articoli in cui ci si preoccupa di chiarire la linea al riguardo: "Noi che per il separatismo non abbiamo mai professato simpatia …", e tuttavia "il separatismo vive nelle case, nello squilibrio economico e sociale per cui la vita del lavoro qui è più dura … L’Autonomia può avere una grande funzione purché non scada nel regionalismo, di cui l’aspetto più evidente è la nascita di una nuova burocrazia(23) e non abbia una "visione piccina dei suoi compiti", così paventandosi già quello che poi sarebbe successo, ossia l’omologazione degli istituti autonomistici con la politica di Roma, attraverso le linee unitarie dei partiti; la qualcosa avrebbe portato i deputati regionali a "considerare la loro elezione un passo della loro carriera politica, una tappa dell’ascesa verso Montecitorio e Palazzo Madama". Pur non opponendosi all’istituto autonomistico, dunque, ci si soffermava sulle "incognite ed i pericoli del regionalismo", preoccupandosi che portare alle estreme conseguenze il regionalismo in tutto il territorio nazionale avrebbe potuto determinare l’abbandono di una visione unitaria dei problemi nazionali.
La posizione nei confronti dell’istituzione "Regione siciliana" venne comunque assorbita negli anni successivi dalla valutazione della concreta azione politica regionale, anche perché a partire dalle elezioni del 1951 il M.S.I. ebbe i suoi eletti in seno all’Assemblea regionale.
Interessante è allora rilevare come il giornale, pur ricco di editoriali sul ruolo dell’Alleanza atlantica, sulla nascente Comunità europea, sulla politica nazionale, tratti della politica regionale assai raramente e soltanto da una posizione di critica e di opposizione nei confronti delle maggioranze. E ciò, fino al 1958, quando fu eletto presidente della Regione Silvio Milazzo, sostenuto da una maggioranza composta da una parte di democratici cristiani, da socialisti, comunisti, monarchici e missini, due esponenti dei quali ultimi divennero addirittura assessori.
I Vespri commentavano così per la penna di Cucco: "Il fenomeno Milazzo ci sembra sia stato poco capito e spesso male interpretato da molti scrittori di oltre lo Stretto. Per noi quello che è certo è che l’opinione pubblica siciliana, nella sua stragrande maggioranza, lo ha accolto più che favorevolmente, perché ha avvertito con sensibilità isolana la lezione data alla partitocrazia in genere ed a quella democristiana in ispecie. Noi, anche tempo addietro, abbiamo levato la voce contro certi inconsulti atteggiamenti (di Fanfani, n.d.a.) che pretendevano prendere di petto gli uomini più qualificati della politica democristiana: Scelba, Aldisio, Restivo, Alessi e compagnia, pur trattandosi di nostri avversari. (…) I siciliani, anche se avversari, di fronte all’accanimento di potenti o prepotenti contro siciliani che si sono quotati da tempo ed in modo sicuro nella valutazione pubblica, insorgono e si moltiplicano in solidarietà operante, assumendo qualche volta aspetti ribellistici"(24).
Non si trattava, comunque, di un giornale locale; e questo appariva come una scelta ben precisa. Non dedicò attenzione particolare alle cronache di Palermo o della Sicilia (eccezion fatta per una evidente predilezione che traspare per i problemi di Castelbuono, paese natale di Cucco, primo fra tutti quello della produzione della manna) e, del resto, fu un settimanale a diffusione nazionale, sia per abbonamenti che per vendita nelle edicole delle principali città italiane. E si diffondeva in Sicilia presso le stesse persone che al pomeriggio acquistavano il quotidiano L’Ora del popolo, di intonazione comunista, senza che con ciò ci si sentisse di portare l’una o l’altra etichetta sul petto.
I collaboratori, per altro, erano persone di un mondo anche non politico ed anche non giornalistico. Tra quelli a cui chi scrive ha potuto dare un volto vanno ricordati: il giornalista Nuccio Portale, che per qualche tempo sostenne il peso dell’impostazione generale del settimanale; Michelangelo Collotti, ex magistrato; Giuseppe Maggiore, noto giurista penalista e scrittore; Alfredo M. La Grua che poi avrebbe fondato e diretto per quasi un quarantennio il Corriere delle Madonie; la raffinata pubblicista e scrittrice di arte e turismo Giulia Sommaria; gli storici Giuseppe Tricoli, Gaetano Falzone, Edmondo Cione ed Antonio Magàvero Fina; i giornalisti o futuri tali Franco Licata, Mario Vannini, Attilio Lucchese, Vito Vaiarelli, Franz Maria D’Asaro, Giovanni Cataldo; gli scrittori Titta Madia e Castrenze Civello; ed ancora Carlo De Leva, Fulvio Leoni, Umberto Guglielmotti, Francesco Cavallaro, Nino Vetri, Orazio Pedrazzi, Ignazio Bisesi, Lino Piscopo, Alfredo Aprile, Eugenio Ciancimino, Giuseppe Mammina, Francesco Palamenghi Crispi. Nino Rosselli, lo straordinario caricaturista "Cimabuco" della belle époque palermitana, disegnava ogni settimana una splendida vignetta per la prima pagina.
Liquidato, nel 1961, sotto la spinta delle note rivolte di piazza, il governo Tambroni sostenuto anche dai voti del M.S.I., l’elettorato di destra entrò nel lungo tunnel dell’emarginazione ed i suoi eletti nel ghetto in cui lo collocava quella "conventio ad escludendum" che si chiamò arco costituzionale. La preoccupazione del giornale, espressa in modo martellante da decine di articoli e per anni, fino alla sua cessazione, fu da quel momento per i rischi politici e morali della cosiddetta "apertura a sinistra", ossia per l’ammissione del partito socialista e, come si paventava, dello stesso P.C.I. nell’area delle possibili coalizioni governative.
Si era avuto, del resto, in Sicilia, già nel settembre 1961, il primo governo regionale organico di centro-sinistra presieduto da Salvatore Corallo e quindi, nel dicembre del 1963, si sarebbe arrivati alla costituzione del primo governo nazionale di centrosinistra. Troppo vicino era ancora il ricordo del Fronte democratico popolare del 1948 tra P.C.I e P.S.I. ed I Vespri si rivolgeva ora con fiducia e speranza verso i centristi della D.C. e verso la stessa Chiesa cattolica e informava così: "L’on. Scelba, ministro dell’Interno, si è fatto sentire e non solo ha levato la voce virilmente, ma ha preso posizione coraggiosa di vero cristiano e di buon democratico contro il socialismo e i socialisti"; e citava: "Guido Gonella (…) che è indubbiamente tra le figure più rappresentative della DC, per ingegno, per cultura, per interezza morale, per unanime estimazione, è insorto - spiritualmente si intende - e continua ad insorgere contro un’apertura che solo gli uomini di scarsa fede possono concepire. Non più tardi di ieri egli ha confermato: Non voglio che i cattolici si assumano la triste responsabilità di essere i liquidatori dello Stato democratico e nazionale sull’altare del marxismo". "D’altra parte - continuava il giornale - Andreotti, che molti insistono nel giudicare "l’uomo di domani", condensa la sua opposizione in un avvertimento che fa riflettere e fremere: "Quando la DC avrà bruciato tutti i vascelli di riserva (quelli che permisero di governare a Zoli, a Segni, a Tambroni), per Nenni diventerà uno scherzo da bambini costringerla a qualsiasi cambiamento".
I rapporti col mondo politico cattolico appaiono sempre più conflittuali, man mano che si passi dai primi anni Cinquanta verso gli anni Sessanta: da un lato, il riferimento continuo e quasi ostentato ai valori cristiani, ai buoni principi della famiglia ed ai sani costumi degli italiani, il rispetto per le gerarchie ecclesiastiche, stretti rapporti con religiosi e sacerdoti e gli accorati appelli in funzione anticomunista ai cattolici della Democrazia Cristiana; dall’altro, le più aspre critiche, fino all’invettiva ed al dileggio, sono quasi sempre per l’apparato D.C.; rivelando, ciò, forse aspettative tradite o rabbia repressa per un comune viaggio ideologico e storico che il direttore del giornale, responsabile anche di un partito in Sicilia, vedeva sempre più farsi difficile(25).
Ma forse fu proprio quel legame stretto con la visione nazionalista ed insieme sicilianista, tradizionale e cristiana - e non politico-confessionale - e soprattutto continuista rispetto ad un passato che appariva sempre più condannato dalla Storia ufficiale, su cui si basava la linea del giornale, che sarebbe stato il suo elemento di debolezza nei confronti del nuovo assetto culturale-politico che andava formandosi presso la borghesia italiana.
Nel 1963 Alfredo Cucco fu colto da ictus cerebrale. Il giornale proseguì per alcune settimane ma, con il concludersi di quell’anno, cessò le pubblicazioni: quasi fosse venuto a mancare - con la fonte della sua memoria storica, che gli dava la ragion d’essere - il suo ossigeno vitale.
In quel tempo la Storia correva ancora più velocemente: i socialisti, come visto, erano entrati nel governo del nostro Paese e le stesse gerarchie della Chiesa non se ne stupivano neanche più. La distanza dal "Ventennio" era ormai di un ventennio. Un’altra generazione, nata dopo la guerra, si stava affacciando alla vita culturale e politica dell’Italia e già si intravvedeva all’orizzonte quello che sarebbe stato il Sessantotto, con le sue irrisioni ai valori della vecchia Italia provinciale e le sue traumatiche trasformazioni nel costume degli italiani: profonde o superficiali, vere o recitate che fossero, ma tali ormai da non fare sentire più alcun legame con la storia dell’Italia d’anteguerra e quindi tali anche da far concentrare, dall’immaginazione di masse intere, nella parola "fascismo", convenzionalmente e come se si trattasse di un neologismo, tutto il male pensabile che ogni sana coscienza politica non poteva che rigettare.
Quel tempo e quelle esperienze che avevano dato forza al nostro giornale non furono più, dunque, una parte della nostra storia (Bocca), ma furono letti soltanto secondo la "vulgata" ammessa dal Partito Comunista, detentore di molto potere nelle Università, nell’editoria e nei giornali, e l’improbabile - se non impossibile – "restaurazione" fascista fu considerata, secondo l’utile opera di disinformazione da cui gli anni Settanta specialmente furono afflitti, come l’unico vero pericolo attuale per la democrazia. Sarebbe dovuto passare un altro ventennio, sarebbe dovuta scomparire - come generazione e come comunità umana - quella cui in Sicilia appartenevano gli scrittori ed i lettori de I Vespri d’Italia, si sarebbero dovute spegnere le passioni ruotanti intorno a quel ventennio (le cattive quanto le buone) perché tutto il fenomeno, dal 1919 al 1945, potesse essere studiato secondo i canoni scientifici della Storia. Ed è in quest’ottica che la riconsiderazione delle annate de I Vespri d’Italia può svolgere ora, affrancata dal ruolo giornalistico o di persuasione politica, la funzione di granello prezioso di conoscenza della storia di quegli anni.
NOTE:
(1) Renda F., Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. III, Palermo 1987, p. 290
(2) Bocca G., Il filo nero, Milano 1995, p. 124.
(3) -Alfredo Cucco nacque a Castelbuono (Pa) il 26 gennaio 1893. Medico oculista, fu docente di oculistica nell’Università di Roma ed incaricato di demografia nella Facoltà di giurisprudenza di Palermo. Fondò e diresse vari giornali, fra i quali, negli anni Trenta, Sicilia Nuova ed il settimanale La Fiamma e, tra il 1949 e il 1963, I Vespri d’Italia. Fu autore di libri sia scientifici che di carattere storico-politico, fra cui Il discorso della salute, nonché Uomini e popoli, testo di demografia, e Non volevamo perdere, i cui riferimenti editoriali sono contenuti nelle successive note (4), (13), (21). Nel campo politico, fu dirigente dei movimenti nazionalisti siciliani ed aderì al fascismo fin dalle sue origini. Durante il c.d. Ventennio fu segretario federale del P.N.F. a Palermo; quindi si allontanò dalla politica a causa di un clima di ingiusti sospetti determinatisi su di lui durante la presenza del Prefetto Mori a Palermo sul finire degli anni Venti, cui seguirono dei processi tutti conclusisi poi con ampie assoluzioni. Nel governo della Repubblica Sociale Italiana fu sottosegretario alla Cultura popolare e, nel 1943, l’ultimo segretario nazionale del P.N.F.. Dopo la guerra fu tra i fondatori e dirigenti del M.S.I. e fu eletto deputato al Parlamento della Repubblica. Morì a Palermo il 21 gennaio 1968.
(4) Cucco A., Non volevamo perdere, Bologna 1949.
(5) -Tricoli G., Alfredo Cucco, un siciliano per la nova Italia, Istituto siciliano studi politici ed economici (Isspe), Palermo s.i.d.
(6) -Nenni P., Adeguarsi al Nord, in "Avanti", 31 marzo 1945. Lo stesso, il 1° marzo, scriveva a proposito dell’impermeabilità della Sicilia al vento del Nord che "per avere un’idea della situazione basta per esempio il fatto che in provincia di Ragusa il Comitato di liberazione è in crisi perché non è stato possibile accogliere la domanda dei socialisti che i membri del comitato non fossero degli ex fascisti".
(7) Almirante G., Autobiografia di un "fucilatore", Milano 1973, p. 100.
(8) De Felice R., Mussolini l’alleato: la guerra civile, Torino 1998, p. 128.
(9) Volpe G., L’Italia che fu, Milano 1961, p. 356.
(10) Ibidem, già pubblicato in Pagine Libere, Roma 20 luglio 1946.
(11) Ibidem.
(12) Operti P., Prefazione a L’Italia che fu, cit.
(13) Cucco A., Non volevamo perdere, cit., p. 12.
(14) Tricoli G., Alfredo Cucco, un siciliano per la nova Italia, cit.
(15) I Vespri d’Italia, 2 gennaio 1949, n. 1.
(16) -Ivi, 24 settembre 1950, n. 39: "All’insegna della colomba e dei partigiani della pace! Cannone 1, mitragliatrici 5, fucili mitragliatori 26, fucili e moschetti automatici 208, moschetti e fucili da guerra 558, pistole e rivoltelle 428, bombe da mortaio 800, bombe a mano 2199, proiettili d’artiglieria 1696, armi bianche 181, cartucce 100.856, petardi e detonatori 2.392, esplosivi Kg. 257.700, mine 45, miccia metri 653, radiotrasmittenti 3 (dal bollettino mensile delle armi rinvenute. Luglio 1950)".
(17) -Cfr. decreto legislativo lgt. 27 luglio 1944, n. 159; l. 3 dicembre 1947, n. 1546; l. 20 giugno 1952, n. 645.
(18) I Vespri d’Italia, 8 gennaio 1950, n. 2.
(19) Ivi, 8 gennaio 1950, n. 2.
(20) Ivi, 3 dicembre 1961, n. 46.
(21) Ivi, 9 gennaio 1949, n. 2.
(22) Cucco A., Non volevamo perdere, cit.
(23) I Vespri d’Italia, 8 gennaio 1949, n. 2.
(24) -Ivi, 15 novembre, 1958, n. 49. Per la più recente bibliografia sul tema v. oggi: Grammatico D., La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Palermo 1996; Menighetti R. – Nicastro F., L’eresia di Milazzo, Caltanissetta-Roma 2000.
(25) -Cfr., fra l’altro, in I Vespri d’Italia, Cucco A., Luci ed ombre, 3 dicembre 1961, n. 46; F.L., La DC è ormai nelle mani del PSI, 7 gennaio 1962, n. 1; Leoni F., Togliatti possibilista è più pericoloso di prima, 9 dicembre 1962, n. 46; Almirante G., Il Marxismo lavora, ivi.
Il nazionalismo nella critica storiografica
Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo, tre nuovi soggetti politici, nuovi per contenuti e per la stessa forma "partito" che s’erano dati, si affacciarono nel panorama politico italiano. Di questi nuovi soggetti - il socialista, il cattolico e il nazionalista - quest’ultimo è quello che ha ricevuto, indubbiamente, le minori attenzioni da parte della storiografia(1). Questo dato è, d’altronde, facilmente comprensibile se si pensa alle vicende politiche del nostro paese, soprattutto nella seconda metà del Novecento, vicende che ponevano l’esigenza primaria, per gli storici, di contribuire a ricercare le origini e a delineare i percorsi del centro cattolico e della sinistra social-comunista, mentre le analisi sulla destra italiana si focalizzavano, quasi necessariamente, intorno al fascismo.
A far scendere l’oblio sul nazionalismo, poi, contribuirono non poco le impostazioni storiografiche del Salvatorelli(2) e del Croce(3). Il Salvatorelli, con la sua nozione di nazionalfascismo, aveva, infatti, conglobato nazionalismo e fascismo in un’unica nebulosa, sostenendo la captazione del fascismo nel nazionalismo. La concezione crociana del fascismo, poi, come "malattia", come fenomeno sostanzialmente estraneo al percorso culturale, civile e politico nazionale (dal filosofo identificato con i valori e gli istituti dell’Italia liberale), collocava anche il nazionalismo, oltre che il fascismo, in quella "parentesi" chiusasi definitivamente con l’esito drammatico del secondo conflitto mondiale. Il risultato incrociato delle due tesi era quello di rendere impossibile e infruttuosa ogni analisi storica del nazionalismo, posto che dalle tesi del Salvatorelli e del Croce discendevano l’inconsistenza di qualsiasi rapporto fra nazionalismo e Risorgimento, la concezione del nazionalismo italiano come derivazione di quello francese e la compressione delle diversità, culturali e politiche, fra nazionalismo e fascismo. Questa impostazione per molto tempo, almeno fino al Molinelli(4), accettata quasi unanimemente dalla critica storiografica, fu superata grazie agli studi di Franco Gaeta(5) e Francesco Perfetti(6) i quali, con lucide ed approfondite analisi, hanno dimostrato l’insostenibilità delle citate vecchie tesi interpretative, consentendo l’avvio di valutazioni e riflessioni più articolate sul nazionalismo italiano.
Il superamento della tesi crociana sul fascismo come "parentesi" o "malattia" ha consentito a Franco Gaeta un’attenta ricostruzione dell’idea di Nazione(7)nella storia europea ed italiana. Dopo aver riconosciuto che l’idea di Nazione nasce dalla rivoluzione francese ("Nazione aveva assunto rilievo politico ed ideale come termine che designava una contrapposizione al vecchio Stato patrimoniale dei monarchi assoluti"(8)) e dopo aver indicato in Rousseau "il creatore moderno del concetto di nazione"(9), Gaeta segue lo sviluppo di quest’idea negli anni fra il Congresso di Vienna ed il 1870, anni in cui si completa, in Europa, con l’unificazione italiana e tedesca, il processo della formazione degli Stati nazionali. È dopo il 1870 che avviene la trasformazione del nazionalitarismo, come lo definisce il nostro Autore, in nazionalismo: una volta completata la costituzione degli Stati nazionali, infatti, il problema diveniva quello di potenziarli. "Questo potenziamento - conclude Gaeta - significava sviluppo economico, raggiungimento di una sicurezza militare, conseguimento di una certa autonomia e sufficienza economica"(10). L’ampia ricostruzione del Gaeta, in tal modo, riusciva a ricollocare il nazionalismo nel quadro delle dinamiche della storia italiana ed europea, cioè in quella dimensione che Croce gli aveva negato e che fino al Molinelli si continuava a negare sulla base della semplice constatazione che gli stessi nazionalisti "non amasse(ro) riallacciarsi al Risorgimento quale (loro) progenitore", ma aggiungendo "con la sola eccezione del Crispi"(11), elemento su cui torneremo a riflettere più avanti. Ben più solide, tuttavia, appaiono le tesi di Gaeta, riprese e rilanciate anche da Perfetti il quale sottolinea che tutti, tranne Croce, hanno individuato "una qual certa relazione" fra risorgimento e nazionalismo(12). Dopo aver sostenuto, infatti, che i nazionalisti non criticavano il risorgimento, ma "un tipo di politica - quella portata avanti dalla sinistra parlamentare salita al governo nel 1876 - che sembra loro incarnare l’antirisorgimento", Perfetti conclude che "il rapporto con il risorgimento, in effetti, esiste, ed è un rapporto di continuità"(13). Anche sul problema della presunta filiazione del nazionalismo italiano da quello francese, sia Gaeta(14) che Perfetti(15) dimostrano l’inconsistenza di tale tesi e, con analisi approfondite, sottolineano la natura polemica e antistorica di tale presunta filiazione.
Il nazionalismo italiano fra destra storica e sinistra crispina
Una volta reinserito il nazionalismo nella storia nazionale, una volta, cioè, ricollocato nelle dinamiche sociali, culturali e politiche italiane, il problema che si pone è quello di delinearne con precisione i suoi legami con il risorgimento e con la storia italiana post-unitaria. Come Gaeta e Perfetti hanno sostenuto, esiste certamente un rapporto di continuità fra nazionalismo e destra storica(16), così come un rapporto fra nazionalismo e destra nazional-liberale degli ultimi decenni dell’Ottocento. Fu in questi ambienti che si levò una crescente contestazione contro il "declino" delle istituzioni e dei valori seguito all’ascesa della sinistra al potere nel 1876. La degenerazione parlamentare prodotta dal trasformismo, il ruolo sempre più sfocato della monarchia, una classe politica ritenuta inadeguata alle esigenze del paese, la nascita e lo sviluppo di un movimento socialista antinazionale e sovversivo, fino alla crisi di fine secolo, crearono le condizioni per il sorgere di un’ideale nazionalista. Non si sarebbe trattato di un nazionalismo "reazionario", come vorrebbero i critici marxisti, ma di un nazionalismo conservatore-riformista che si poneva il compito, di fronte alla mediocrità della classe politica di fine Ottocento e, poi, di inizio Novecento, dinnanzi alla crescente degenerazione parlamentaristica e affaristica, di fronte al pericolo costituito dal terrorismo anarchico e dall’ondata socialista, di riaffermare l’autorità di uno Stato che sembrava abdicare dinnanzi all’avanzata delle forze sovversive, di ridare animo ad una borghesia che sembrava accettare passivamente il proprio declino, di rilanciare il ruolo della monarchia come simbolo dell’unità e dell’integrità della patria. In questo caso, si dovrebbe far riferimento a quel variegato fronte che va da uomini come Bertrando Spaventa(17), Alfredo Oriani ed Edoardo Scarfoglio, fino a Salandra, Sonnino, a Giovanni Borrelli ed ai Giovani Liberali(18).
Ma riscontrare nel nazionalismo italiano semplicemente un collegamento con la destra storica o con l’opposizione nazional-liberale, ci sembra, tuttavia, riduttivo. Senza dubbio è individuabile, infatti, anche un’altra componente che confluirà nel nazionalismo, una componente che aveva origini ben diverse, una componente proveniente dalla sinistra storica. Contro il sistema di potere instauratosi negli anni del trasformismo operarono anche coloro che, da sinistra, avevano inteso il raggiungimento dell’unità territoriale come uno strumento per la creazione di una Italia nazionale e popolare, entro cui, la Nazione, tutta la Nazione italiana, avrebbe dovuto trovare le condizioni politiche per la propria elevazione culturale e sociale. Ci riferiamo ad uomini come Crispi, eredi della tradizione del mazzinianesimo e del garibaldinismo che, pur avevano accettato l’istituzione monarchica, non meno dei primi, disprezzavano, il decadimento morale e politico dell’Italia post-risorgimentale. Intorno alla figura di Crispi nacque e si andò delineando un nuovo, un altro, "nazionalismo", un nazionalismo democratico, anticlericale, riformatore. La stessa vicenda che condusse alla caduta dello statista siciliano avrebbe contribuito a forgiare questo filone del nazionalismo italiano. Vi contribuirono, infatti, alla pari, sia Adua(19), causa apparente della sua sconfitta politica (in quanto egli sarebbe rimasto nella memoria collettiva come l’unico politico italiano che aveva tentato di dare all’Italia un ruolo ed un prestigio internazionali), sia le riforme sociali e strutturali del paese di cui fu autore e, non ultima, quella riforma agraria destinata a smembrare il vecchio latifondo meridionale, a dirottare verso il Sud ingenti risorse fino ad allora destinate a sostenere l’imprenditoria settentrionale che, inoltrata dal suo governo al Parlamento, sarebbe stata la causa reale del declino dello statista riberese, perché attraverso la sua azione riformatrice Crispi si era posto come tutore degli interessi e dei sentimenti delle nuove classi medie del paese in aperto conflitto con i "poteri forti", dall’imprenditoria settentrionale al latifondismo feudale meridionale(20). Queste due correnti di pensiero e di azione politica, che avevano origini così diverse e lontane, dopo Adua si incontrarono. Non è di poco rilievo il fatto che i sostenitori di Crispi, ormai orfani del loro leader, si volgessero a sostenere un riformatore conservatore come Sonnino nel tentativo di ostacolare l’ascesa politica di Giolitti, nella speranza che Sonnino avrebbe tutelato i valori ideali del nazionalismo crispino e gli interessi delle classi medie ed intellettuali e dei ceti riformatori meridionali che da Crispi avevano ottenuto tutela politica.
Il "vario" nazionalismo del primo Novecento
Non solo nella destra storica, ma anche nella sinistra, quindi, è possibile individuare le origini del nazionalismo italiano. Ma non ci fu solo questo nel nazionalismo italiano del primo Novecento. Per comprendere le caratteristiche intorno alle quali esso maturò, bisogna necessariamente rifarsi alla nozione di vario nazionalismo di cui parla Gioacchino Volpe. Come vario nazionalismo il Volpe intende, innanzitutto, un "sentimento" che si andò diffondendo in Italia nel primo Novecento, come reazione al degrado della vita pubblica italiana. In tale sentimento riecheggia il tema ricorrente delRisorgimento tradito, mentre l’opposizione al trasformismo diventa cosciente ostilità al giolittismo. Questo vario nazionalismo si nutriva del diffuso disprezzo per gli ambienti e interessi affaristici che, appunto nel trasformismo e nel giolittismo, avevano trovato crescente terreno di coltura, e che si riteneva opprimessero la vita pubblica, allontanando da essa gli strati popolari e i ceti medi, creando una condizione in cui il parlamento finiva per apparire come una camera di compensazione di svariati e non sempre leciti interessi e i leader dell’Italia cosiddetta "liberale", da Depretis a Giolitti, personaggi in grado, pur di perpetuare il proprio potere personale, di garantirsi ampie maggioranze parlamentari attraverso un utilizzo ben dosato di pressioni e di concessioni e la copertura e la tutela dei vari "caporali" del potere locale.
Questo "sentimento", si andò man mano colorando sempre più di puntuali connotazioni culturali e politiche. Ed è in quest’ottica che bisogna rileggere le pagine di Gioacchino Volpe, dedicate a questo tema in Italia in cammino e, soprattutto, in Italia moderna, che, sopravvissute alle suggestioni del Salvatorelli e del Croce, tornano a mostrare la loro intrinseca, ed ancora per molti versi insuperata, forza di analisi. Nell’Italia in cammino, Volpe, dopo aver ricordato la deriva parlamentare del partito socialista, lasciatosi anch’esso catturare nella ragnatela del parlamentarismo giolittiano, analizza la psicologia di quei giovani che, nei primi anni del nuovo secolo, "disertavano il socialismo, sentivano il fascino di nuovi ideali e seguivano altre bandiere che qua e là accennavano a spiegarsi. Non è senza significato, anche il grande diffondersi dello sport, in quegli anni. (…) Amore del rischio, dell’avventura, della gara, esercizio di volontà, addestramento di membra, organizzazione di sforzi collettivi. Bizzarre correnti investigavano la letteratura e l’arte; disprezzo dei metri consuetudinari e di regole del disegno; disprezzo di erudizione e di musei. Si voleva poetare, dipingere, raccontare in libertà, muoversi senza rispetto di vincoli tradizionali. E’ lecito avvertire qualche lontana parentela fra questo futurismo poetico e pittorico e le dottrine filosofico-letterarie che negavano i generi letterari e vedevano solo l’artista e l’opera d’arte? Fra esso e, in altro campo, il disdegno per i partiti politici e le loro formule, a cui si voleva sostituire i problemi concreti, uno per uno? Tutto questo non era politica: ma la politica vi era vicina, a volte implicita e latente, e dava a quei moti sportivi e culturali qualche stimolo e coloritura"(21). E, poi, ancora, in L’Italia Moderna: "Da qualche anno il mondo era come si ingrandisse e il suo orizzonte si allargasse (…). Accanto alla lotta di classe, altre lotte: anzi, quella quasi si scoloriva al confronto. Si era combattuta la guerra cino-giapponese (…) e subito dopo, serrata gara delle grandi potenze europee per accaparrarsi territori, basi navali, porti, concessioni ferroviarie e minerarie, mentre in Occidente correvano (…) discorsi e progetti di spartizione delle colonie portoghesi d’Africa e dell’Impero ottomano. (…) Si avvertiva (…) che certi miti della democrazia si facevano sempre più inoperosi nel campo della politica internazionale, che i rapporti fra i popoli si andavano mettendo sopra una ben visibile base di forza"(22).
Nel calderone del vario nazionalismo, quindi, oltre agli umori, alle passioni, alle concezioni politiche e sociali provenienti dagli ambienti della destra storica e della sinistra "crispina", troviamo gli umori, le passioni, le concezioni politiche e sociali provenienti da altri filoni politico-culturali figli del primo Novecento. E non mancarono, inoltre, contributi provenienti da ambienti del sindacalismo rivoluzionario, così come non mancarono quelli provenienti dalle fila dell’irredentismo(23). Alcuni sindacalisti sorelliani si avvicinavano al nazionalismo come reazione all’egemonia che, nella sinistra, andava assumendo l’ala marxista. L’irredentismo, nei primi anni del secolo, dal canto suo, andava perdendo i caratteri di movimento repubblicano, antimilitarista, francofilo, e si andava trasformando in quel "nuovo" irredentismo "credente non tanto nel "diritto di nazionalità" quanto nel diritto della nazione italiana di assicurarsi le frontiere ed aprirsi una via verso l’Oriente"(24). Ed in questo processo giocarono un ruolo non secondario associazioni come la Dante Alighieri, la Sursum corda con i suoi Battaglioni studenteschi, la Trento e Trieste e la Corda Fratres. Un ulteriore ed interessante filone che ritroviamo nelvario nazionalismo è, poi, quello che proviene da qualificati ambienti cattolici. A cavallo del 1910, si assistette, in più parti d’Italia, ad un "esodo di parecchi giovani cattolici, di famiglie di buone tradizioni guelfe o addirittura legittimiste, che contribuirono a formare i primi gruppi nazionalisti"(25). Fra il 1911 ed il 1912, prima e durante l’impresa tripolina, il nazionalismo cattolico(26) fu un elemento caratteristico e pregnante del palcoscenico politico nazionale, né è da sottovalutarne la portata politica. Lungi dal dover essere considerato come un momento di esaltazione patriottica o da poter essere liquidato come portato di alcuni interessi di gruppi finanziari cattolici in terra di Libia(27), il nazionalismo cattolico rappresenta un momento importante nello sdoganamento delle forze cattolico-moderate in vista del loro rientro nella vita politica nazionale, in un momento in cui ancora era lontana la prospettiva del partito unico dei cattolici. In quest’ottica le forze cattolico-moderate potevano guardare con interesse ad una alleanza con quelle dell’opposizione costituzionale liberal-nazionaliste, senza risentire delle posizioni degli esponenti della sinistra catto-sindacalista.
Dal vario nazionalismo al nazionalismo-partito
Se leggiamo con attenzione i resoconti del convegno che, a Firenze, nel dicembre del 1910, avrebbe dato vita all’Associazione Nazionalista Italiana, troviamo uomini appartenenti un po’ a tutte queste anime del vario nazionalismo. Ma proprio la convocazione del convegno, la fondazione dell’Associazione e, poi, i dibattiti, le polemiche, gli abbandoni che ne accompagnarono la vita fino al convegno di Roma del 1912 ed a quello di Milano del 1914, dimostrano quanto sia stato complesso il passaggio dal vario nazionalismo al nazionalismo-partito politico. Per comprendere il senso profondo di quelle lacerazioni, dibattiti, scontri, che partendo dal campo politico si estendevano a quello culturale e che erano destinati a lasciare tracce profonde, nei decenni successivi, si deve partire dalla considerazione che il quarantennio che comprende gli ultimi due decenni dell’800 ed i primi due del ‘900 rappresenta, o almeno fu vissuto dai suoi protagonisti, come un momento epocale della storia universale, perché in quei quattro decenni scomparve un mondo e ne nacque uno nuovo. Se il positivismo, con la sua fiducia nel potere liberatorio della scienza, col suo culto del progresso, infatti, aveva rappresentato l’ideologia della vecchia borghesia ottocentesca, ora le nuove generazioni di studiosi, letterati, artisti, lo abbandonano perché lo sentono insufficiente innanzi all’incombente sorgere di una nuova società, di una nuova umanità, e cioè della nuova società, della nuova umanità nella quale sarebbero entrate, da protagoniste, quelle masse popolari fino allora rimaste mute, escluse dalla storia e dalla politica.
Giungono, pertanto, anche da noi e si diffondono rapidamente i motivi del neoromanticismo e del decadentismo europeo, francese e tedesco in particolare, dell’irrazionalismo, del vitalismo, riprende vigore l’idealismo hegeliano, si diffonde il relativismo, l’intuizionismo del Bergson, la scoperta dell’inconscio di Freud e, sull’onda delle note di Wagner, Nietzsche, che immagina un nuovo "tipo" di uomo, il Superuomo, come protagonista e soggetto della nuova umanità nascente. Nell’arte, l’impressionismo, il simbolismo, le avanguardie, inaugurano una nuova stagione, superando le obsolete rappresentazioni classiche e classicheggianti.
In una condizione nella quale, quindi, da un lato la borghesia appariva decadente ed incapace ad opporsi all’avvento della nuova classe ed il proletariato, sull’onda delle teorie marxiste, sembrava pronto, non solo e non tanto, a candidarsi come nuova classe dirigente, ma, soprattutto, ad essere strumento della demolizione della cultura europea, con la sua storia secolare, il suo pensiero filosofico, sociologico, la sua arte, la sua letteratura, in una parola la sua civiltà, bollata, tout court, come "borghese" e, quindi, destinata ad essere cancellata dall’incombente sorgere del Sole dell’avvenire, si poneva a quegli uomini l’arduo compito di individuare strade e percorsi originali in grado di risolvere quella crisi epocale, in un quadro che affrontasse e risolvesse il problema sociale, ch’era un problema reale, e contemporaneamente immettesse il proletariato nella tradizione culturale europea.
La dialettica fra la classe borghese e quella proletaria dev’essere vagliata e verificata, anche, alla luce della lezione di Mosca e Pareto che, criticando la tripartizione aristotelica delle società politiche (monarchie, oligarchie e democrazie) avevano dimostrato che tutte le società politiche sono sempre state rette da gruppi dirigenti qualificati e trainanti, cioè da élite. Lo scontro tra classi, scontro reale sulla base dei contrapposti interessi economici, nascondeva, pertanto, uno scontro politico fra élite antagoniste. Ciò è evidente anche negli esiti della rilettura del marxismo da parte di un Bernstein, di un Sorel, fino a quella di Lenin: l’avvento delle classi popolari al potere non sarebbe avvenuto, si disse, come sostenuto da Marx, per una spontanea rivolta del proletariato, ma attraverso delle avanguardie rivoluzionarie chiamate a guidare la rivoluzione proletaria.
Nell’Italia degli albori del nuovo secolo troviamo, quindi, la giovane cultura italiana unanimemente impegnata nella demolizione del vecchio mondo positivista, realista, "passatista", dei Verga, dei De Amicis, dei Rapisardi, dei De Sanctis, e con il D’Annunzio de Il Piacere, dove viene tratteggiato l’eroe raffinato, aristocratico, così diverso dalla vecchia umanità "borghese", con Pascoli, con Pirandello, con Borgese fino a Marinetti e, in filosofia, con Gentile e Croce, largamente impegnata nell’elaborazione dei tratti e dei contenuti di quella nuova società, di quella nuova umanità novecentista. E in quegli anni, questa nuova cultura che si forma intorno alle riviste, dal Regno alla Voce, si agita, attacca, critica, e infine demolisce il vecchio mondo del positivismo, del verismo, della democrazia, del socialismo materialista.
Ma il problema, a questo punto, era quello di passare dal negativo (superamento della vecchia cultura liberal-borghese ottocentesca; rifiuto del socialismo materialista), alla individuazione positiva di obiettivi, metodi, strumenti. E qui, appunto, la convocazione del congresso di Firenze e la nascita dell’ANI hanno l’effetto di un detonatore che innesca una serie di esplosioni a catena che sembrano dover disintegrare l’unità dell’élite intellettuale italiana novecentista, d’altronde in fieri. Scriverà il Garin: "il 1911 (…) costituisce una data (…) oltre la quale non solo scompaiono molti accostamenti equivoci, ma salde unità si spezzano, divergenze appena sospettate vengono alla luce, ed esplodono moti incomposti fino allora celati"(28). Ed ecco le polemiche di Anton Giuseppe Borgese contro D’Annunzio e Croce, quella, successiva, di Papini contro Croce e contro Prezzolini "crociano" e così via fino a quella, tutta interna all’idealismo hegeliano, ma con grandi refluenze sul dibattito politico nazionale, fra Gentile e Croce. "La Voce - ricorderà poi Papini - sorta come luogo di convegno di spiriti differenti in vista di fini comuni di cultura e moralità (...) accennò a un certo momento a volere essere qualcosa di più: cioè un primo gruppo d’intelligenze organiche per la preparazione di un mondo spirituale nuovo, di una civiltà coerente fondata su valori veramente logici e umani. Ma in seguito a crisi interne, a dissidi e abbandoni di uomini, la Voce è tornata ad essere quel che fu in principio: un organo di controllo severo e d’informazione spregiudicata dove possono ritrovarsi intelletti opposti fra loro"(29).
Fra queste polemiche, ai fini del nostro studio, è particolarmente importante quella che impegnò da un lato Prezzolini e Papini, e dall’altro Corradini e i nazionalisti dell’Idea Nazionale, una polemica incentrata, apparentemente, sul problema della "paternità" del nazionalismo. Il volume Vecchio e nuovo nazionalismo di Prezzolini e Papini(30), infatti, in realtà, ci evidenzia le ragioni profonde di un dibattito che, incentrato, allora, sui temi della natura e dei contenuti del nazionalismo prebellico, ci spiega, in prospettiva, le motivazioni reali del dissidio, talvolta velato, tal’altra evidente, fra nazionalismo e fascismo mussoliniano.
Per Corradini, come per i nazionalisti del nazionalismo-partito, e soprattutto quelli che si ritrovarono dal 1911 intorno al giornale L’Idea Nazionale, cioè i Federzoni, i Maraviglia, i Coppola, i Forges Davanzati, cui si aggiungerà, nel 1914, Alfredo Rocco, posto come presupposto lo scontro fra élite alternative, considerata la forza e l’energia delle élite proletarie (per altro, si noti, costituite in massima parte da elementi borghesi o addirittura di provenienza aristocratica), cui faceva riscontro la decadenza delle élite borghesi e l’infiacchimento dell’intera classe borghese, il compito politico primario appariva quello di sostituire alle vecchie élite borghesi decadenti (in Italia, l’élite che si ritrovava intorno al trasformismo giolittiano), nuove élite borghesi "rigenerate", in grado di opporsi fieramente all’avanzata delle avanguardie proletarie marxiste. Per operare tale "rigenerazione", la borghesia avrebbe dovuto, conseguentemente, dimostrarsi in grado di agire, non più in difesa dei suoi interessi di classe, ma come elemento di punta dell’intera collettività nazionale, come classe dirigente la Nazione. Il problema sociale di cui era portatore il proletariato, pertanto, doveva essere risolto grazie all’azione della nuova borghesia "nazionale" utilizzando le armi dell’espansionismo coloniale e dell’imperialismo: l’acquisizione di nuovi "spazi" avrebbe determinato le condizioni per la crescita economica di un proletariato liberato dalla "menzogna" marxista. Da questa impostazione derivavano sia la supremazia della politica estera sulla politica interna, sia il bisogno di uno Stato forte, disciplinato, che trovava i suoi simboli unificanti nella monarchia e nell’esercito.
Le ricadute ideali e politiche di questa impostazione non erano di poco conto. La definizione dell’apparato ideologico del partito, condusse i nazionalisti del nazionalismo-partito, a superare sia il semplice patriottismo che lo stesso irredentismo, ad abbandonare, poi, vecchi baluardi del Risorgimento come l’anticlericalismo, per sbarazzarsi, infine, del liberismo economico, ritenuto prodotto dell’individualismo, figlio, quindi, della stessa pianta da cui nasceva il socialismo. In secondo luogo, ma nello stesso tempo, l’Associazione, nata nel 1910 come casa comune del vario nazionalismo, sentì l’esigenza di trasformarsi in un vero e proprio partito politico, con una sua struttura centrale e periferica, e di darsi una più precisa strategia ed una tattica politica ben delineate e fortemente perseguite. Questo partito, organizzato e con una chiara dottrina politica ed economica, saldamente schierato alla destra del panorama politico italiano, mirò quindi alla costituzione ed al rinsaldamento di un fronte composto da nazionalisti, da liberal-nazionali salandrini e da cattolici moderati, un fronte in grado, da un lato, di disarticolare il sistema trasformistico giolittiano, il sistema bloccardo, e, dall’altro, di opporre un argine solido all’avanzata delle forze della sinistra, cioè, se vogliamo, utilizzando l’attuale terminologia politica, potremmo dire che l’ANI si voleva fare promotore di quello che oggi chiameremmo un "polo di centrodestra".
Su questa strada avrebbe perduto, fra la fine del 1911 e l’inizio del 1912, Sighele che contestava il ruolo, sempre più sbiadito che, all’interno della dottrina nazionalista, si voleva assegnare all’irredentismo. Su questa strada, perse anche Arcari, Rivalta, Valli e tutti coloro che, soprattutto in coincidenza col secondo convegno di Roma del dicembre 1912, si opposero all’abbandono dell’anticlericalismo, alla trasformazione dell’associazione in vero e proprio partito politico, ad una strategia che aveva come cardine il rapporto con la destra salandrina e clerico-moderata in netta opposizione ai gruppi radicali e democratici. Su questa strada, nel 1914, perderà, infine, gli elementi ancora legati alla vecchia tradizione liberale e liberista. In ogni modo questa definizione ideologica e questa strategia politica consentiranno all’ANI, soprattutto nel periodo prebellico, di ottenere qualche successo, sia alle elezioni generali del 1913, sia nelle elezioni amministrative del 1914, mentre incontrerà non pochi ostacoli nel dopoguerra soprattutto in seguito alla nascita del partito unico dei cattolici, che priverà il "polo di centro-destra" dell’importante apporto dei cattolici moderati.
Le vicende del partito nazionalista dal 1910 al 1914 dimostrano quanto complesso sia stato il passaggio da quel vario nazionalismo che aveva agitato il primo Novecento italiano e che si era ritrovato a Firenze al nazionalismo maturo e definito del 1914. Ma, è anche vero, che, perseguendo per questa strada, il nazionalismo italiano potrà vantarsi, già nel 1914, di avere prodotto una dottrina politica compiuta e coerente e di aver sviluppato una sua strategia politica che, passando per la campagna pro Tripoli italiana, l’aveva condotto ad inviare, nel 1913, una sua prima pattuglia di deputati a Montecitorio divenendo un soggetto importante nel gioco politico così come dimostrerà la battaglia interventista del 1914-15(31).
Nazionalismo e fascismo
La storiografia non ha mai fornito un’interpretazione veramente esaustiva sul tema dei rapporti tra nazionalismo e fascismo. Perfetti non ne parla. La ricostruzione del Gaeta(32) è, sfortunatamente, viziata da una diffusa incomprensione del significato politico e culturale del fascismo e della stessa personalità, della formazione culturale e dei fini e degli strumenti d’azione politica di Mussolini. De Felice dedica al tema poche pagine(33) nella monumentale bibliografia di Mussolini, nelle quali, tuttavia, riconosce che "i rapporti tra fascismo e nazionalismo non erano mai stati (…) molto buoni, ma, al contrario, erano pervasi da diffidenze, insofferenze e da un marcato spirito di concorrenza"(34). Le frizioni, le polemiche, addirittura gli scontri in piazza, che caratterizzarono i rapporti fra i due movimenti negli anni e nei mesi che precedettero e che seguirono l’ascesa di Mussolini al potere, e la mai del tutto sopita ostilità fra fascisti ed ex-nazionalisti per tutto il Ventennio, vengono, quindi, genericamente spiegati come una forma di "antagonismo" fra forze sostanzialmente affini, collocate nello stesso ambito della "destra nazionale". E’ da ritenersi, tuttavia, che alla base della forte contrapposizione che caratterizzò, nella realtà, i rapporti fra i due schieramenti, stiano ragioni più profonde del semplice antagonismo, ragioni che, a nostro avviso, possono essere spiegate sulla base delle diverse connotazioni, culturali e filosofiche, ancor prima che politiche, che separavano il fascismo dal nazionalismo. Tali divergenze non possono chiarirsi se non si comprende che il fascismo, in realtà, fu un fenomeno politico di massa fortemente inserito nella realtà culturale, sociale e politica dell’Italia del primo novecento. Tali divergenze non possono, inoltre, chiarirsi fin quando non si coglie l’essenza della politica mussoliniana e si continua a dipingere il romagnolo quasi come un mostro mosso unicamente da inarrestabili smanie di potere. In realtà il fascismo, così come Mussolini lo concepiva, era erede del dibattito culturale novecentista e, per quanto concerne il nazionalismo, ereditò i temi della polemica vociana al nazionalismo corradiniano e federzoniano dell’anteguerra, polemiche che, ricorda Prezzolini, "furono feroci, personali, violente, fino alle colluttazioni per strada"(35).
Prezzolini e Papini, in una prospettiva d’altro canto condivisa da buona parte del mondo culturale italiano, compreso Giovanni Gentile, e sulla cui scia si andò ad incanalare sempre più Mussolini, guardavano al problema della decadenza europea e dei suoi portati da un’ottica ben diversa da quella sulla quale i nazionalisti avevano costruito il loro apparato ideologico. Anche in questo caso l’analisi partiva dal riconoscimento della decadenza della vecchia società borghese ottocentesca ed era sostanziata, seguendo Mosca e Pareto, dalla verifica dell’esistenza di una contrapposizione fra classi, ma, soprattutto, fra élite antagoniste. Ma in Papini e Prezzolini, Gentile e Mussolini, lo scontro fra élite borghesi ed élite proletarie, andava risolto, non nello scontro decisivo fra la "tesi" e l’"antitesi", ma hegelianamente, ricercando una sintesi che superasse la contrapposizione stessa e la risolvesse in un’unità nuova e più avanzata. "Ora noi appunto - affermava Papini -, fra la prepotenza proletaria e l’incoscienza borghese vorremmo portare non una parola di pace, che non sarebbe degna di noi, ma una parola di sorpassamento(36). Vorremmo cioè che cessi l’una e l’altra, e che le classi siano sorpassate colle loro miserie per giungere alla patria. Vorremmo essere insomma non degli uomini di partito, non degli uomini di classe, ma degli uomini di nazione e di razza"(37). E Prezzolini, sulla stessa lunghezza d’onda, sottolineava le tre ragioni di dissenso con i nazionalisti: il "poco affidamento" che riponeva nella persona del Corradini, una "divergente struttura mentale"(38) (consistente nell’accettazione o nel rifiuto dell’hegelismo), ed il "profondo rivolgimento di idee, che ci spinse a considerare i valori etici e ideali assai più importanti per la vita degli italiani del brutale successo della forza, il miglioramento interno come più urgente di ogni ricerca di conquista esterna, il moto socialista e democratico con un senso di maggiore ed equanime storicità"(39).
Oltre, naturalmente, all’antipatia personale nei confronti del Corradini, che, qui, naturalmente, poco ci interessa, la prospettiva indicata da Prezzolini e Papini, mirava quindi alla creazione ad una élite nuova che fosse espressione di tutte le classi e che considerasse la Nazione l’elemento unificante di tutte le sue componenti sociali che, appunto nella Nazione, e non nella classe, avrebbero potuto trovare la soluzione dei propri problemi ed il riconoscimento del proprio ruolo. La nuova società, la nuova umanità che nasceva dalla dissoluzione del vecchio mondo dell’Ottocento non sarebbe stata né una società borghese né un’umanità borghese, ma neanche una società proletaria né una umanità proletaria, bensì il nuovo secolo avrebbe visto il sorgere e l’affermarsi della nuova società nazionale, della nuova umanità nazionale. Il "nazionalismo" doveva essere, conseguentemente, l’ideale per una rinascita dell’intera compagine, dell’intero corpo sociale, né era possibile riconoscere, in questo quadro, alla borghesia, in quanto "classe", quel ruolo-guida che i nazionalisti intendevano ancora riservarle.
Ne derivava ancora, come riflesso politico, che il nazionalismo avrebbe dovuto essere, non un partito, ma un elemento per risvegliare l’intera compagine sociale superando, sinteticamente, la contrapposizione sociale. Alla formazione della nuova élite nazionale avrebbe dovuto partecipare tutto il variegato mondo dell’"Italia giovane" del nuovo secolo. Prezzolini, a tal proposito, scriverà: "Ci voleva ora qualche cosa che passasse i nostri individui e toccasse la società e, in un certo senso, s’innestasse nella storia. Chi lo sapeva? Forse modernisti, sindacalisti, leonardiani, crociani, ricercatori di nuovi doveri nella scuola, socialisti stanchi del marxismo, repubblicani annoiati dal mazzinianesimo, monarchici che ambivano a una attività sociale e politica più viva del grande istituto ereditario rappresentante la nazione, minoranze di tutte le maggioranze soddisfatte e stanche, non avrebbero potuto riunirsi e dire e dare all’Italia una parola e un’azione?"(40).
Gentile, riflettendo, qualche anno dopo la Marcia su Roma, sulle divergenze fra nazionalismo e fascismo, a sua volta scriveva: "Tutti i nazionalisti hanno della nazione quella concezione grettamente naturalistica che al dire d’un arguto e brillante scrittore, fa dell’uomo bestia bizzarra legata a una catena, una specie di canis nationalis; il quale se esistesse veramente, significherebbe (come è stato ben detto) la fine d’ogni cultura e d’ogni vita del pensiero: che non può avere valore spirituale, se non è universale". Gentile, rammentandosi evidentemente della dottrina della circolazione delle idee del suo maestro Bertrando Spaventa, respingeva la "nazione" dei nazionalisti: "un fatto naturale, antropologico e etnografico", "formazione storica, ma formazione già esistente in virtù d’un processo che venga egualmente presupposto". "Orbene una nazione determinata da certi caratteri della struttura cranica, o della lingua o della religione o dal complesso della tradizione storica propria d’un popolo è qualche cosa (…) priva affatto d’ogni valore. (…) La storia non si presuppone; e non si può presupporre, come qualcosa di bello e fatto, quasi patrimonio ereditato dai padri e da noi ricevuto come sostanza della nostra nazione. La nazione non c’è, se non in quanto si fa; ed è quella che la facciamo noi col nostro serio lavoro, coi nostri sforzi e non credendo mai che essa ci sia già, anzi pensando che essa non è mai, ed è sempre da creare"(41). Per Gentile, sul piano politico, il nazionalismo del nazionalismo-partito non era stato che un liberalismo ritonificato. Il punto di contatto tra nazionalismo e fascismo, concludeva il filosofo, era esclusivamente il concetto di Stato nazionale(42), elemento che consentirà, nel 1923, la fusione. Ma diversa era l’"idea" di Nazione: un fatto preesistente per i nazionalisti, una costruzione spirituale per i fascisti.
Quindi una impostazione ed una prospettiva diversissimi fra fascismo e nazionalismo: il fascismo fu una elaborazione originale ed irripetibile di quella generazione di italiani che era nata negli anni della crisi di fine Ottocento, che si era formata culturalmente nel clima del primo Novecento, che era cresciuta umanamente nelle trincee e, politicamente, negli anni del biennio rosso, dove il nazionalismo intendeva rimanere fermo nella sua azione concepita in termini di reazione all’avvento delle sinistre ed alla minaccia rivoluzionaria social-comunista. Conseguentemente, per Mussolini la battaglia politica, sia nelle piazze che in parlamento, doveva servire come atto rivoluzionario in vista della conquista del potere da parte di una nuova élite che avviasse una nuova era nella vita dell’intera compagine nazionale, sia contrastando la sovversione social-comunista sia scalzando la vecchia leadership liberale, mentre i nazionalisti rimanevano legati all’ottica del "polo" di centro-destra in grado di far quadrato intorno alla monarchia e all’esercito a tutela dello Stato nazionale. Questa impostazione crediamo spieghi meglio del semplice "antagonismo" fra forze sostanzialmente affini i rapporti fra fascismo e nazionalismo.
Lo scontro politico fra ANI e PNF
Alla prospettiva indicata da Prezzolini e Papini, Benito Mussolini si sarebbe avvicinato per gradi. Partendo dall’originario sindacalismo rivoluzionario di matrice sorelliana, il romagnolo aveva potuto rendersi conto di quanto illusorio fosse il mito dell’unità della classe proletaria durante le amare giornate che conclusero ingloriosamente la Settimana rossa. Alla luce delle esperienze maturate durante i mesi della polemica interventista, prima, e gli anni del conflitto, poi, Mussolini finirà per sostituire all’illusione dell’unità di classe, il concetto di Nazione, finendo, appunto, per ritrovarsi sulla stessa lunghezza d’onda di un Prezzolini, di un Papini, ma anche di un Gentile e di un Pareto.
Pur essendosi trovato, fra il 1914 ed il 1915, insieme coi nazionalisti, sulla stessa barricata interventista, tuttavia, enorme rimaneva lo iato fra il concetto mussoliniano di guerra rivoluzionaria e quello nazionalista di guerra imperialista. Ancora nel primo dopoguerra, i Fasci di combattimento mantenevano i caratteri di movimento figlio dell’interventismo di sinistra. Di un vero e proprio problema di rapporti fra fascismo e nazionalismo, pertanto, si può parlare solo dal 1921, quando anche il Gaeta riconosce che i tali rapporti furono caratterizzati da "acuta tensione"(43).
Nel 1921, infatti, il movimento mussoliniano è, ormai, fortemente in crescita, e si è affermato come l’unico soggetto in grado di fermare, nelle piazze e nelle strade italiane, l’avanzata delle forze sovversive che avrebbero voluto importare in Italia la rivoluzione bolscevica russa. E il problema, infine, divenne di attualità politica fra il maggio del 1921, con le elezioni che porteranno in Parlamento 35 deputati fascisti eletti nei Blocchi nazionali, ed il congresso fascista dell’Augusteo, del novembre 1921, che certifica la definitiva "svolta a destra" del fascismo.
A porre per primo il problema, nei termini addirittura di una possibile fusione fra i due movimenti, fu, com’è noto, il fascista "di destra" e filonazionalista De Vecchi, nel corso di un’intervista rilasciata all’Idea nazionale, il 16 novembre 1921(44). L’ipotesi, tuttavia, era destinata a non sollevare grandi entusiasmi nei gruppi dirigenti di entrambi gli schieramenti. Il comitato centrale dell’ANI, ad esempio, sostenne che "la stessa crisi del fascismo è contrassegnata fondamentalmente da questo: che il fascismo, per uscire dalla confusione dell’interventismo democratico e pseudo rivoluzionario da cui è nato, non può non continuare quel processo di eliminazione iniziato con l’avvicinarsi alla dottrina nazionalista"(45). Federzoni, dal canto suo sottolineò: "primo, che i nazionalisti erano "fermamente monarchici" e i fascisti "agnostici"; secondo, che nonostante le sue "straordinarie benemerenze" il fascismo non aveva ancora acquistato "vera consistenza e organicità di partito politico" e "non potrà farlo che identificandosi col nazionalismo"(46).
Sulla stessa lunghezza d’onda, ma con maggiore forza d’analisi, su questo tema, ritornerà, con un importante articolo, il dirigente nazionalista siciliano, prof. Francesco Ercole, che, in un lungo articolo pubblicato sull’Idea Nazionale, il 20 dicembre 1921, dal titolo Contro un’affrettata fusione, rimarcava i "pericoli" e gli "equivoci che si annidano nella proposta di una previa e completa fusione", in quanto "mentre il nazionalismo muove da una dottrina, che ha già una propria tradizione di sviluppo e di autodeterminazione, il fascismo muove da uno stato d’animo, che non ha ancora superato la prima fase di assestamento e di autochiarificazione". Il fascismo, per il professore siciliano, non aveva ancora "una concezione etica e integrale della vita", ma "origini e caratteri prettamente sentimentali" dove "la sua stessa pugnace e irrompente combattività si risolve assai più nella negazione violenta di errori e di arbitrii altrui, che nella affermazione coerente e sicura di una verità e di un programma propri". "Nessuna fusione", concludeva Ercole, ma "alleanza sempre più intima e cordiale". "La fusione avrebbe ragion d’essere, soltanto quando tutti i fascisti fossero diventati nazionalisti".
Da parte fascista, il 2 febbraio 1922, in un articolo sul Popolo d’Italia intitolato Per intenderci, a Federzoni ed Ercole rispondeva Grandi, capovolgendone le tesi: non era il fascismo che doveva identificarsi col nazionalismo, ma, al contrario, era questo che doveva modificarsi e venire sulle posizioni del fascismo: "Mentre il Nazionalismo è nato dalla elaborazione dottrinaria per giungere alla negazione pratica, si potrebbe quasi dire che il fascismo è nato dalla negazione dottrinaria, per giungere all’elaborazione pratica. In un periodo storico che afferma l’incontrastato dominio delle grandi correnti popolari, ieri assenti, ed oggi quanto mai volitive, presenti e chiamate ad operare entro i partiti, il Fascismo altro non può essere se non l’espressione di questa grande realtà storica. Mentre il Nazionalismo, facendo eco alla moribonda dottrina liberale, che i suoi teorici negano, dice di volere la restaurazione dello Stato, identificando quest’ultimo in un imperativo di forza e cioè nel semplice concetto machiavellico e gerarchico di autorità – il Fascismo che si sostituisce allo Stato laddove lo Stato è inesistente o incapace, dimostra che lo Stato non è, ma si fa, e si fa soltanto attraverso l’adesione e l’azione di masse volitive, che procedono da una Idea-madre, non predicata a freddo, ma rivissuta ora per ora"(47).
Quanto all’atteggiamento di Mussolini nei confronti dell’ANI questo non muterà né prima né dopo la "svolta a destra" del ’21. Mussolini non aveva seguito i nazionalisti sulla strada della guerra mutilata, né su Fiume e D’annunzio, né sul trattato di Rapallo e, dopo le elezioni del ’21, non perse occasione di disegnare una strategia politica autonoma e, spesso, antitetica. Come si spiegherebbero, diversamente, l’abbandono di Giolitti nel dopo elezioni del ’21, le dichiarazioni sulla tendenzialità repubblicana del fascismo, il patto di pacificazione, la trasformazione del fascismo in partito, il voto favorevole alla mozione di sfiducia dei fascisti al primo governo Facta, i presunti rapporti Mussolini-D’Annunzio-Nitti dell’estate ‘22? D’altronde, il 4 aprile 1922, parlando al consiglio nazionale del PNF, aveva detto: "Ma io comincio a diffidare energicamente delle attestazioni di simpatia dei nazionalisti. Non vorrei che essi fossero i pescicani del fascismo; che ci sfruttassero e si arricchissero alle nostre spalle. Intanto non faremo più il loro gioco parlamentare, che consiste nel farci fare le parti di forza"(48). Ed ancora il 30 luglio, sempre del ’22, nel corso di un intervista concessa a Il Mondo di Roma, alla domanda "Voi fascisti, non vi sentite un po’ a disagio a destra insieme ai nazionalisti e ai conservatori?", rispondeva: "Io avevo scelto come nostro posto a Montecitorio la montagna del centro, ma poi i popolari erano così numerosi che non avremmo trovato ove sedere"(49).
La svolta a destra del fascismo fu niente più che una svolta tattica determinata dalla necessità di pervenire alla conquista del potere da parte dell’élitedella Nuova Italia nata da Vittorio Veneto, che imponeva a Mussolini di ritagliarsi, anche all’interno della "destra nazionale", spazi autonomi di agibilità politica, in vista dell’azione rivoluzionaria del ’22. Certamente nazionalisti e salandrini cercarono di inglobare il fascismo nella loro strategia volta alla ricomposizione di un blocco conservatore in alternativa alle sinistra, ma bisogna avere il coraggio, gettando definitivamente alle ortiche la tesi della presunta "cattura" del fascismo nel nazionalismo, di rendersi conto che le cose andarono altrimenti e che, alla fine, il vincitore della partita fu Mussolini e non i nazionalisti.
E non si dimentichi, d’altro canto, che i nazionalisti rappresentarono l’ultima roccaforte che tentò di opporsi all’ascesa di Mussolini e del fascismo. Federzoni, parlando al Lirico di Milano, ancora il 15 ottobre 1922, ribadì l’importanza della difesa della monarchia, la necessità di un governo di destra, dove, per destra, si doveva intender "in una parola, reazione", e osteggiava, con toni rudi, ogni forma di collaborazionismo filosocialista condannando persino il sindacalismo nazionale di Rossoni. Lo stesso giorno, sempre a Milano, con tempismo non casuale, si teneva una riunione dei Sempre pronti di Bologna, Torino, Genova e Milano sull’atteggiamento da tenere se i fascisti fossero passati all’azione(50). Di simili riunioni se ne erano svolte certamente altre, come quella che, a metà settembre, in Sicilia, a San Cataldo, era servita per organizzare la resistenza nazionalista dinnanzi all’ascesa del fascismo nell’estremo lembo del paese(51). Senza contare gli incidenti di piazza, ove talvolta si scontravano squadristi e Sempre pronti, come quelli di Taranto del 17 settembre, di Riomaggiore (La Spezia) del 23 ottobre del 1922, con morti e feriti. Iniziata la Marcia su Roma, poi, 4.000 Sempre pronti furono schierati a fianco dell’esercito che difendeva Roma dall’avanzata fascista. Per non dimenticare, infine, il ruolo svolto da Federzoni ed i nazionalisti, in quelle ore drammatiche, con il tentativo di fermare l’ascesa di Mussolini al potere attraverso la costituzione di un governo Salandra di cui il Duce sarebbe dovuto essere solo il "secondo".
Non quindi "concorrenza" fra forze affini, appartenenti alla stessa area politica, ma due concezioni alternative sul piano culturale, politico e strategico. Così si spiega che "Federzoni, davanti al tramonto inglorioso della prospettiva Salandra, piangendo, dichiarava che s’andava verso l’ignoto"(52). E così meglio si comprende l’editoriale del Secolo del 28 ottobre 1922, quando, nelle ore drammatiche della Marcia e del tramonto del vecchio stato liberale scriveva: "Si ripete, in piena crisi extraparlamentare, il giuoco invano tentato mesi fa dalla Destra nazionalista e salandrina, inteso ad imprigionare i fascisti con la scusa di voler proteggere i fascisti dalle persecuzioni di un ministero di Sinistra. In quell’occasione l’on. Mussolini ebbe un’intuizione felicissima, quando, fra la sorpresa dei suoi stessi amici, piantò in asso Salandra e i deputati della Destra, per votare contro il Ministero Facta. (…) Oggi il giuoco si è fatto più serrato e più obliquo. L’on. Riccio, che è l’uomo più astuto della Camera, non rappresentò mai al governo i fascisti: rappresentò, piuttosto, gli elementi più tipicamente conservatori della destra, legati al nazionalismo, e, più ancora, alle austere clientele meridionali" (53).
Di "fusione" fra nazionalismo e fascismo si ricominciò a parlare, quindi, solo dopo, nel nuovo quadro politico determinato dall’ascesa di Mussolini al potere. Anche qui la storiografia, finendo per riallacciarsi al vecchio discorso del Salvatorelli sul nazionalfascismo, sostanzialmente sostiene la tesi che il nazionalismo, con la fusione, avrebbe "assorbito" il fascismo, imputando al crescente ruolo di esponenti nazionalisti nel fascismo la riforma elettorale del ’24, la nascita dello Stato totalitario, il corporativismo. È, invece, da ritenersi come più logica la tesi, forse più banale ma più consequenziale e documentabile, che sia stato il nazionalismo ad essere assorbito dal fascismo. La fusione, infatti, si fece, ma si fece solo quando volle Mussolini e comevolle Mussolini. Una volta raggiunto il primo obiettivo della conquista della responsabilità di governo del paese, il problema che Mussolini si trovò a dover affrontare era quello di creare quell’èlite in grado di rendere inoffensiva la vecchia macchina politico-burocratica giolittiana e veteroliberale e di avviare la nascita di una nuova stagione politica. In questo quadro gli fu utile assorbire parte dei quadri provenienti dal nazionalismo, così come fece peraltro anche nei confronti di altri schieramenti di centro e di sinistra e ciò in una prospettiva in base alla quale il fascismo si poneva come la forza di governo scaturita dall’Italia giovane di Vittorio Veneto, entro la quale, presupposto il nuovo ruolo di super partes, di equilibratore e di propulsore che il duce si riservava, sarebbero potute ben maturare una destra "nazionale, accanto ad un centro "nazionale" e ad una sinistra "nazionale"(54). Mussolini, poi, doveva affrontare il problema del Mezzogiorno, dove il fascismo era per lo più inesistente. Soprattutto nel Sud i nazionalisti poterono fornire al fascismo "molte delle "competenze" necessarie"(55), spezzando, nello stesso tempo, quel circolo vizioso che aveva visto sorgere, dopo la Marcia, in tutto il meridione una miriade di sezioni nazionaliste o fasciste dove transitarono elementi di tutti gli schieramenti, di tutte le consorterie locali, di ogni tipologia umana e morale.
Ma, dicevano, la fusione, nel 1923, fu completata anche "come" voleva Mussolini. Nel primo governo Mussolini, Federzoni non ottenne il ministero degli esteri a cui aspirava. "Non solo il leader nazionalista non riuscì ad averlo, ma quasi certamente nella prima lista il suo nome non doveva neppure essere stato preso in considerazione (…). Non è da escludere che se, alla fine, Mussolini assunse l’interim degli Esteri fu proprio per non darlo a Federzoni"(56). Poi, le proposte avanzate da Rocco, che miravano a mantenere, nel PNF, un’organizzazione autonoma dell’ANI, nonché una riserva di posti per gli ex nazionalisti negli organi dirigenti del partito fascista e la separazione dei Sempre pronti dalla Milizia fascista, vennero ripetutamente bocciate da Mussolini(57), tanto che Gaeta afferma che "l’atto di fusione fu molto generico: i fascisti non concessero gran che sul piano organizzativo e su quello delle dichiarazioni di principio(58)" e conclude parlando di "tramonto, invero inglorioso" del nazionalismo(59).
In nazionalismo, quindi, concludeva, nel 1923, la sua parabola ideale e politica e si inseriva nel più ampio mare del fascismo. Aveva concluso la sua funzione di "reazione" all’avanzata delle forze sovversive della sinistra, iniziata nell’anteguerra con una strategia mirante alla costituzione di blocchi fra nazionalisti, liberali salandrini e cattolici moderati, condotta nel dopoguerra tra mille insidie e difficoltà, soprattutto dopo la nascita del partito unico dei cattolici. Dal 1923 in poi, i nazionalisti confluiti nel PNF avrebbero costituito una, ed una sola, delle componenti ideali che nel fascismo si ritrovarono, ed uno dei termini della dialettica interna del movimento fascista, fino alla crisi finale. Con la caduta di Mussolini e la nascita del governo Badoglio, infine, una parte dei quadri ex-nazionalisti, soprattutto meridionali, finirono per ricompattarsi attorno la figura di Vittorio Emanuele, riacquisendo, potremmo quasi dire, la propria autonomia, anche se, è pur vero, non mancarono importanti eccezioni.