Tra i grandi maestri della letteratura contemporanea - europea e mondiale quali Th. Mann, Joice, Musil, Rilke, Zweig, Schniztler, Trakl, Kafka, Kraus e altri -, un nome spicca per originalità, modernità, genuinità e comune appartenenza alla temperie letteraria mitteleuropea: quello di Italo Svevo (1861-1928). Il quale, insieme con Luigi Pirandello, almeno per quanto riguarda l’Italia, rappresenta l’autore più in vista per l’indubbia capacità di aver saputo elevare ad altezze mondiali il suo messaggio così carico di inquietudini esistenziali e così ricco, insieme, di stimoli culturali. E ciò, soprattutto, in un periodo in cui - dopo la stagione del grande Verga, Fogazzaro, De Roberto, per citare qualche nome - la prosa narrativa italiana sembrava alquanto esangue e in ritardo rispetto alle rimanenti esperienze europee.
Pirandello e Svevo hanno colmato tale lacuna anche se bisognerà attendere la pubblicazione del ‘Gattopardo’ per assistere ad un evento letterario di portata europea sebbene, giova sottolinearlo, non siano mancate nel panorama delle lettere italiane del Novecento, altre voci degne di attenta considerazione come quelle di Brancati, Landolfi, Buzzati, Calvino, Gadda, e tanti altri. La formazione di Svevo, com’è noto, si svolse in un clima prettamente mitteleuropeo quantunque l’appartenenza dello scrittore sia tutta nella letteratura italiana. La fortuna - anche questo è notorio - non arrise subito al futuro del capolavoro ‘La coscienza di Zeno’ (1923); egli, anzi, a causa dei progetti del padre che voleva farne un ottimo commerciante, non sembrava che potesse trovare le migliori gratificazioni nelle prove letterarie visto che solo gli affari dovevano costituire il naturale sbocco dei suoi studi economico-commerciali.
Studi che egli intraprese e concluse, sempre per volontà del padre, in un austero collegio di impronta economica, in Germania, per proseguirli, dopo, nell’Istituto Superiore Commerciale ‘Revoltella’ di Trieste. Ma il richiamo delle lettere era troppo forte, per il giovane Schmitz, per potervi rinunciare anche se il lavoro d’impiegato - e la stessa cosa era successo a Franz Kafka - lo terrà inchiodato in banca per ben diciotto anni. La città di Trieste viveva, in questo periodo, unitamente al suo territorio, un’atmosfera di irredentismo al quale Svevo non fu estraneo visti i suoi sentimenti profondamente italiani; la collaborazione a fogli di sentimenti patriottici come, ad esempio, ‘L’Indipendente’ e ‘Il Piccolo’, ne sono la riprova più evidente.
Naturalmente, i suoi sono articoli culturali, recensioni e saggi, benché, come scriverà, in seguito, un suo amico ad estimatore triestino, Silvio Benco, con "questa rude rinuncia agli studi regolari che la sorte gli inflisse". Il critico e storico si riferiva, evidentemente, agli studi economici compiuti dal futuro scrittore italiano anche se, dal 1881 in poi, Italo Svevo si dedicò "toto corde" allo studio dei classici italiani con preferenze che andavano da Boccaccio, Machiavelli e Guicciardini a Carducci e De Sanctis, sempre per limitarci ai principali.
Sull’ ‘Indipendente’, l’Autore si era cimentato con uomini del calibro di Nordau, Zola, Verga, Wagner, Schopenhauer ed altri - segno, questo, anche delle sue inclinazioni per la letteratura tedesca -, ma da questo momento, siamo nel 1892, egli dette una svolta all’attività di uomo di lettere pubblicando, finalmente con lo pseudonimo di Italo Svevo, la sua prima opera, il romanzo ‘Una vita’ quantunque, qualche anno prima, avesse già dato alle stampe altri lavori. Nella fattispecie, si trattava di una lunga storia avente come interprete un giovane triestino, Giorgio che, dopo aver abbandonato gli studi e dissipato il patrimonio paterno, uccise un amico per denaro. Ma siccome lo scrittore, da tempo, nutriva predisposizioni per il teatro, iniziò, in questi anni, a redigere opere drammatiche e una di queste, ‘Un marito’, ebbe un notevole successo - ancora oggi è molto rappresentata - ad onta dei toni della gelosia e della passione in essa contenuti.
Dopo il matrimonio e la ripresa della collaborazione a giornali e riviste - ad esempio ‘La critica sociale’ di Turati - uscì il primo importante romanzo dell’Autore, ‘Senilità’ (1898), in cui iniziarono ad emergere i motivi di fondo della problematica sveviana anche se la critica e l’opinione pubblica erano ancora impreparate a recepire le novità del messaggio. Il libro passò, quando apparve, quasi inosservato e lo stesso scrittore - nella prefazione all’edizione del 1927 - nel considerare che "il romanzo non ottenne una sola parola di lode o di biasimo della nostra critica", non faceva altro che confermare che senza gli autorevoli giudizi di Joice, Duijardin e altri la rassegnazione sarebbe stata definitiva. Ciò perché, secondo Svevo, non esisteva e "non esiste un’unanimità più perfetta di quella del silenzio"; e, infatti, per quasi venticinque anni egli non toccò più la penna. Qualche critico, però, intuì la novità del verbo sveviano e sempre il Benco definì ‘Senilità’ "un’opera proporzionata meglio, più omogenea, più fine, ed è anche illuminata da quel senso dell’impressione pittorica". Ma i critici citati non furono gli unici a percepire che ci si trovava al cospetto di un grande narratore perché oltre agli italianisti Crémieux e Larbaud, un italiano, Eugenio Montale, avvertì la novità insita nel romanzo dedicandogli un acuto saggio sulla rivista "L’Esame’ del 1925.
Ed ecco qualche brano del saggio montaliano il quale, dopo aver premesso che "Svevo potrà darci altri frutti del suo ingegno e noi ne abbiamo speranza", così proseguiva, riconosciuti altri meriti dell’autore triestino, come ad esempio "l’adeguazione tra premesse e conseguenze" in lui presenti. "In quest’uomo rinasce l’antica e sempre rara qualità dell’arte ispirata, che ha volto e cuori umani, semplici forme e talora dimesse". Anche la trama di ‘Senilità’ è nota e in questo libro è, per la prima volta, in modo esplicito, delineata la figura dell’ ‘inetto’ o dell’ ‘inerte’; figura presente pure nel romanzo ‘Una vita’ nella persona di Alfonso Nitti, sotto mentite spoglie, il medesimo Svevo.
I protagonisti, Angiolina - "donna viva e cocente sofferenza di Svevo giovane" -, sempre a detta di Silvio Benco - Emilio, Amalia e Balli intrecciano una serie di rapporti dai quali emergono l’incapacità di Emilio, l’inerzia di Amalia, l’esuberanza di Balli e, infine, l’imprevedibilità e la stravaganza di Angiolina. Emilio innamorato di quest’ultima deve subire i capricci della donna, ma quanto più essa lo umilia e lo tradisce, tanto più egli le resta attaccato. Chiarisce sempre Silvio Benco: "Svevo, nella sua giovinezza bersagliata di sventure domestiche e minacciata di ruggine, dovette provare davvero il timore che tutto il suo destino potesse essere quello dell’impiegatuccio oscuro, intimamente sconfitto". Ecco perché volle delineare due figure di inetti o abulici o incapaci: l’uno, il Nitti, con maggiore nobiltà e vigore, l’altro, il Brentani, malato, incapace e preparato alla sconfitta perché non in grado, parole di Svevo, di "compromettersi in una relazione troppo seria". E veniamo al capolavoro ‘La coscienza di Zeno’ (1923). Redatto in forma di diario - diario, naturalmente, inventato dall’io narrante, cioè dal paziente in terapia analitica, e pubblicato per ripicca dal Dr. S., lo psicanalista - il grande romanzo ripercorre, nei suoi otto capitoli, le vicende di Zeno Cosini che, poi, altro non è che l’autore stesso del libro.
I motivi e le novità dell’opera sono, come la critica più stimata ha dimostrato, moltissimi ed essi vanno dalla nuova forma dell’ordito del lavoro - che stravolge i vecchi canoni del romanzo - agli stati d’animo dello scrittore che, esplica il Lucchini, "scandiscono il ritmo del racconto, ora lento sino a rasentare l’immobilità della più stagnante autoanalisi, ora rapido e travolgente al punto di suggerire la sceneggiatura di una commedia". Ma le novità non finiscono qui perché l’Autore stravolge tutte le antiche strutture del racconto alterando anche i nessi cronologici; e, infatti, sempre per Montale, Svevo non si sofferma sulle ragioni della condotta dei personaggi, bensì sulla ‘non motivazione’ della loro inerzia.
E veniamo A Zeno personaggio. Questi non è un interprete definito, nel senso che si costruisce mentre opera; di lui sappiamo, ad esempio, che è vecchio e calvo ad appena cinquantasette anni e che è malato; talmente ‘malato’ che egli rappresenta il vero e proprio prototipo dell’ ‘inetto’. inetto, cioè, come Nitti e Brentani dei libri precedenti, ma anche mentitore quando rievoca le fasi della sua vita che affonda le radici nell’inconscio. Quell’inconscio appreso da Freud e Schopenhauer e sperimentato su se stesso anche se, chiarisce sempre il Benco, "in modo non ortodosso, sì piuttosto da protestante". L’esperienza diretta - sottoponendosi alle cure di Freud - la fa, invece, a Vienna il cognato Bruno Veneziani il quale ne resta, però, molto deluso. È pacifico, ad ogni modo, che la psicoanalisi pervade l’opera di Svevo né la cosa deve meravigliare se pensiamo quanto grande sia stata l’influenza di Bergson in Proust.
Tutti i rimanenti personaggi sono dall’Autore delineati sì nella loro giusta dimensione, ma, obbietta lo scrittore e critico Francesco Grisi, essi restano dei ‘minori’, cioè "in funzione strumentale e, nelle loro varie disponibilità, di mettere in luce gli insostituibili Alfonso, Emilio e Zeno". Ada, Augusta, Guido, Carla e gli altri protagonisti giocano il proprio ruolo anche in prospettiva intercambiabile visto, per fare un altro esempio, che, appunto, Guido - all’inizio, sicuro di sé, esuberante e uomo di mondo - alla fine diventa anch’egli uno sconfitto dominato, com’è, soltanto dagli interessi commerciali e meramente economici.
E ciò vale anche per Ada, Augusta e Carla che, ad un certo punto, appaiono anche sotto altra veste, la prima, col suo ‘odio et amo’ per Zeno, la seconda, meno sgradevole e meno brutta dell’inizio, la terza, infine, imprevedibile e misteriosa.
Anche la teoria dell’impersonalità è presente nell’Autore, benché egli non la dichiari; essa, osserva ancora Grisi, "è solamente un procedimento tecnico per Svevo. Consiste nella intenzione dello scrittore, in uno schema non improvvisato, ma necessario per scartare la vuota ricerca". Ecco perché il Lucchini scrive giustamente che "Svevo si forma senza dubbio nel solco di questa esperienza letteraria, ne assimila quantomeno una certa idea di romanzo d’ambiente e d’indagine psicologica". Tale esperienza è la lezione naturalistica i cui autori egli tiene presenti nelle recensioni sull’ ‘Indipendente’ e su altri fogli dell’epoca. ‘La coscienza di Zeno’ si chiude con la celeberrima professione di fede pacifistica, ma, pure col timore che "quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli". Hanno scritto, rispettivamente, il Benco e Mario Fusco - quest’ultimo sulle colonne del giornale francese ‘Le monde" (1981) - che "si può dire di Svevo che egli scrisse sempre, e fino all’ultimo, quello che imparò vivendo" e che, infine, "les dernières pages de ‘La conscience de Zeno’ ne laissent guère d’illusions sur la manière dont Svevo considerérait la hantise de la maladie et de la mort".