Il referente d’antico regime della nozione di élite democratica in Alexis De Tocqueville di Massimo Sabbieti

I. Nella grande maggioranza dei casi le società del 2000 hanno assunto la democrazia come principio basilare della convivenza dei popoli e del rispetto dei diritti umani. La democrazia come valore portante degli attuali ordinamenti è stata raggiunta spesso a prezzo di grandi sacrifici umani e di grandi lotte, volte a contemperare la sfera dei diritti dei cittadini con quella dei pubblici poteri.

La complessità degli attuali ordinamenti, condizionata anche dai grandi cambiamenti che stiamo vivendo nella fase della globalizzazione e del multi-etnismo, impone però serie riflessioni sull’evoluzione che ha subìto il concetto stesso di democrazia.

Oggigiorno del termine "liberale", con il quale ogni politico è solito rivendicare la sua vena democratica, si è troppo spesso abusato; ha perso le sue autentiche connotazioni ideali e politiche, è divenuto uno strumento abilmente utilizzato per conquistare il consenso elettorale, specie nei sistemi politici bipolari come il nostro.

Si rende, allora, quanto mai necessario risalire alle vere origini dei concetti di libertà e di democrazia, riscoprendo quegli illustri scrittori e filosofi politici che avevano combattuto in prima persona per l’affermazione di tali valori. Non è un caso se da alcuni anni a questa parte la storiografia stia decisamente riscoprendo e rivalutando la figura di Alexis [Charles Henri Maurice Clérel] de Tocqueville (1805-1859), appartenente ad una famiglia della nobiltà francese, anch’essa quasi interamente sterminata durante la fase giacobina della Rivoluzione. Vicende che dunque si impressero indelebilmente ed inevitabilmente nella sua stessa riflessione politica, inducendolo ad un profondo ripensamento del passato del suo Paese.

Vivendo nel travagliato periodo post-napoleonico, Tocqueville dedica la sua esistenza alla ricerca di una soluzione politica che consentisse il buon funzionamento e la stabilità dei governi, come pure l’armonica composizione delle relazioni sociali. Aspetti quanto mai problematici nella situazione europea dell’800, alla luce sia degli atavici odi e divisioni che avevano caratterizzato la decadenza dei ceti sociali d’antico regime, titolari delle principali funzioni politiche ed amministrative, sia delle risultanze che questi contrasti avevano avuto con la Rivoluzione francese.

Il periodo in cui Tocqueville si forma è uno dei più complessi e significativi del panorama europeo e mondiale. Nella Restaurazione, che ereditava squilibri e problemi dalla Rivoluzione e dall’esperienza napoleonica, ritornano alla ribalta nuovamente gli insoluti quesiti del significato, del valore e dei limiti sia della libertà che della democrazia, entrambi aspetti fondamentali della lotta contro il potere arbitrario.

Nel ripensare questo significato, sollecitato sia dal tipo di educazione ricevuta, relativa all’ambiente ed alla mentalità tradizionalista in cui era stato allevato, sia da quella parte della cultura contemporanea influenzata dai canoni del Romanticismo, Tocqueville considera indispensabile la conoscenza e la difesa del passato e delle tradizioni. Da qui la particolare angolazione con cui egli riflette su quel periodo della storia, francese ed europea, indicato come "ancien régime", ossia sul sistema di governo esistente dalle origini della monarchia franca sino alla Rivoluzione del 1789.

Del resto, tale posizione culturale era antitetica rispetto ai valori propugnati da quella parte dell’Illuminismo europeo, specialmente francese, dove tutto ciò che non poteva essere spiegato in modo razionalistico e con criteri materialisti (pensiamo al barone D’Holbach, al Lamettrie e tanti altri), finiva per esser considerato come sintomo di errore, di arretratezza e di oscurantismo, e quindi come qualcosa da scartare e combattere.

Non miglior sorte era riservata a tutto ciò che avesse attinenza con la spiritualità e l’esaltazione del sentimento religioso, fattori chiave – secondo Tocqueville – per la società, ed invece decisamente avversati da quegli intellettuali illuministi che erano appunto animati da questi sentimenti scettici, atei, o di un vago deismo sconfinante nell’indifferenza.

Da questa prospettiva idelogico-culturale, Tocqueville cerca di comprendere la patologia della democrazia dell’epoca rivoluzionaria e le stesse disfunzioni che caratterizzano la fase della Restaurazione, attraverso un meticoloso ed accurato studio delle vicende e dei costumi della Francia. La sua ricerca si focalizza attorno a quei secoli in cui si sviluppa la società civile con forme di libera rappresentanza e di partecipazione politica, prima cioè che l’ambizione e l’ottusità dei sovrani facessero sprofondare il Paese dapprima nella sottomissione e quindi nell’apatia, nell’indifferenza per la politica.

Tale, in sostanza, è il referente di entrambe le sue opere maggiori: De la démocratie en Amérique, pubblicata in due parti, (rispettivamente nel 1835 e nel 1840)(1) e L’ancien régime et la révolution (del 1856). Quest’ultima rimase incompiuta e forse è meno universalmente famosa, ma non per questo riveste per noi minore importanza. E non soltanto come sintesi grandiosa della cultura d’antico regime e delle sue strutture di potere, ma soprattutto perché intesa a porre come termine di confronto quelle antiche istituzioni, a dimostrazione delle carenze, dei difetti e dei vizi della democrazia giacobina. Quindi un’opera che nelle chiare intenzioni del suo autore doveva fornire "a-contrario" il quadro di quanto rendeva invece della democrazia americana un vero sistema politico repubblicano.

A questo proposito, va anche detto che la riflessione di Tocqueville è condizionata dall’esperienza vissuta personalmente negli Stati Uniti, nel corso di un viaggio intrapreso nel 1831 per conto del suo governo al fine di studiare il sistema penitenziario d’oltreoceano. Qui lo scrittore ha l’opportunità di constatare praticamente i pregi ed i difetti di una democrazia già radicata ed evoluta. Con La démocratie en Amérique, Tocqueville intende effettivamente divulgare la sua esperienza a contatto con la realtà quotidiana americana, ricostruendola alla luce di un’interpretazione filosofica e politica di impronta liberale, destinata a superare sia qualsiasi suggestione radical-democratica, sia gli stessi rigidi canoni del garantismo dottrinario dei liberali francesi della Restaurazione.

Analizzate sotto questa luce, entrambe le sue due grandi opere appaiono del tutto complementari, e la loro decisa rivalutazione da parte della critica in questi ultimi anni costituisce un’eclatante testimonianza di come molte sue affermazioni, esternazioni ed intuizioni riguardo il funzionamento delle società democratiche fossero fondate. A nostra volta, ci sembra estremamente interessante rivolgere l’attenzione a quanto ancor oggi più da vicino riguarda un’esatta definizione delle prerogative della "classe politica", indicate da Tocqueville come pre-requisiti richiesti alla classe preposta al governo, per consentirle di promuovere davvero lo sviluppo di una democrazia solida ed efficiente.

II. In tal senso, le origini nobiliari dello scrittore hanno sicuramente esercitato una forte influenza sulla genesi e sulla maturazione del suo pensiero. La sua stessa concezione di liberté, uno dei motivi ispiratori de L’Ancien régime et la révolution, viene ad assumere una connotazione fortemente connessa con una determinata situazione sociale e storica.

Si può, in effetti, classificarla come una "libertà-potere", ossia un’autonomia in stretta relazione con il possesso di risorse economiche e prerogative sociali. Una libertà che nelle origini storiche si era espressa come risultante della conquista, dell’acquisizione dei beni materiali e del dominio sugli altri uomini, ma che nel prosieguo dello sviluppo storico si era trasformata nel prestigio di funzioni di difesa militare e nell’amministrazione della giustizia, contro le minacce esterne ed interne all’ordine costituito. Nella fase matura dell’epoca feudale, i fattori su cui si incardinava il funzionamento del sistema sociale erano dunque il consenso per le capacità politiche palesate dalla nobiltà, per virtù e doti morali che le attiravano il rispetto e la collaborazione di migliaia di uomini.

Assolvendo queste funzioni, - precisa in sostanza Tocqueville – il nobile palesava il suo spirito di sacrificio, la sua generosità nei confronti dei sudditi, dei suoi gregari e del proprio seguito. Il nobile dimostrava l’impegno a salvaguardare l’incolumità delle terre e dei suoi servitori, ed il coraggio e l’orgoglio profuso nelle sue azioni ricevevano la giusta considerazione in quanto doti altamente stimate presso l’opinione pubblica. Il signore che si dimostrava capace di ottenere in tal modo dai sudditi una conformità sociale ai suoi comandi, non solo ne ricavava vantaggi economici, ma anche "deferenza, affetto e servigi"(2).

È significativo a tal proposito un passo de La democratie en Amérique, che evidenzia come le istituzioni aristocratiche dell’epoca, sebbene fondate su un principio corporativo che distingueva rigidamente gli uomini in ceti, fossero state capaci di creare un legame politico ben solido e un codice morale rispettato dagli individui. "Benché il servo non si interessasse per natura alla sorte dei nobili, non si credeva meno obbligato a sacrificarsi per quello che era il suo capo; e benché il nobile si credesse di una razza diversa da quella dei suoi servi, riteneva tuttavia che il suo dovere e il suo onore lo costringessero a difendere, a rischio della propria vita, coloro che vivevano sulla sua terra"(3).

Infatti, restare fedeli al proprio signore, sacrificarsi se necessario per lui, condividerne la buona o la cattiva sorte, erano le prime prescrizioni dell’onore feudale, le regole basilari di un ordinamento etico che aveva caratterizzato secoli di storia. All’importante tematica dell’onore Tocqueville dedica un apposito capitolo ne La democratie en Amérique, dal significativo titolo L’idea dell’onore negli Stati Uniti e nelle società democratiche in genere.

Qui si sottolinea come il genere umano, da sempre, abbia manifestato bisogni permanenti e generalizzati che hanno portato alla creazione di un sistema di leggi morali alle quali conformarsi, pena il biasimo o l’infamia da parte dell’opinione pubblica. L’autore sottolinea al riguardo che l’ "onore", nella varietà accezioni con le quali è utilizzato, trova la sua migliore definizione nell’insieme delle regole con le quali si può ottenere gloria, stima e considerazione.(4)

Tale concetto rivestiva una fondamentale importanza nell’aristocrazia medioevale, dove la lode o il biasimo dell’opinione pubblica era rivolto non verso il contenuto delle azioni svolte o verso determinati comportamenti, quanto piuttosto verso gli artefici stessi di tali azioni..

Ecco perché il nobile, per godere del prestigio pubblico, non poteva far leva solo sui privilegi politici e sulla posizione sociale, ma doveva mostrare apertamente le proprie virtù ed i propri meriti. " Per conservare questa posizione particolare che costituiva la sua forza, non aveva bisogno soltanto di privilegi politici: le erano necessari virtù e vizi suoi propri".(5)

In tal senso le società aristocratiche prescrivevano l’osservanza di precetti anacronistici per le società democratiche dell’800, se si pensa che ad essere esaltate erano in particolare le doti militari, il coraggio, l’amore per il potere, lo spirito di conquista.

Ma ciò era perfettamente comprensibile e conforme in un contesto di staticità e di gerarchie sociali proprio di quell’epoca, e perciò sarebbe errato tacciare come arbitrarie quelle consuetudini per cui, ad esempio, la vendetta prevaleva sul perdono, la violenza spesso prevaricava la ragione. Per contro, infatti, erano enfatizzate la generosità, la lealtà, il rispetto ed il senso del dovere. D’altronde, la validità di un simile senso dell’onore in ambito politico era testimoniata dal giusto spazio vitale concesso dallo Stato ai cittadini, i quali non erano ad esso strettamente vincolati. Essi promettevano obbedienza e rispetto in particolare a quei soggetti che avevano saputo conquistarsi la loro fiducia e stima.

Era questo senso di fedeltà e di attaccamento al signore feudale l’essenza stessa dell’ordine pubblico. Tocqueville esterna queste sue valutazioni riferendosi chiaramente al caso francese, ma sottolinea che simili considerazioni sono analoghe in qualsiasi società, poiché, sebbene l’onore possa essere oggetto di diverse interpretazioni a seconda del contesto storico, sociale ed economico, esso è comunque un fattore sempre presente in ogni collettività.

Alla luce di tali riflessioni, Tocqueville osserva che la società americana valorizza quelle particolari doti che possano conferire tranquillità sociale e stabilità in un contesto, viceversa, di dinamismo economico che caratterizza appunto il caso americano. È significativo ad esempio che il desiderio di ricchezza, motivo ritenuto tra i più deleteri in Europa per la stabilità di un paese, nella fattispecie statunitense (se non smisurato) viene onorato ed esaltato, in quanto sinonimo di passione, di energia, di impegno a dare il meglio di sé. "In America vengono trattati con una severità sconosciuta in tutto il resto del mondo quei vizi che per natura corrompono la purezza dei costumi e distruggono l’unione coniugale".(6)

Viceversa, sono disprezzate la brama di conquista e lo spirito guerriero che erano i pilastri dell’ideologia feudale medioevale, a conferma che il diverso contesto culturale e storico ha impresso un differente concetto dell’onore negli statunitensi. Qui il lavoro è reputato uno dei cardini alla base del successo individuale, il dinamismo e la passione che animano ogni cittadino costituiscono il migliore antidoto all’ozio ed alla rassegnazione. Ecco perché negli Stati Uniti, pur non vigendo un sistema di classi ben definito, i diversi stimoli e capacità tra individui concorrono a ricreare automaticamente un funzionale sistema di differenze, venendo a rappresentare un’eccezione per quello che sembra essere il futuro delle democrazie, dove l’appiattimento sociale svilisce il senso dell’onore.

È questo l’esempio proposto dalla democrazia francese di fine ‘700, dove la mescolanza tra soggetti una volta appartenenti a classi ben identificabili ha portato a nozioni diverse e spesso contrastanti dell’onore. Di conseguenza il giudizio dell’opinione pubblica è mutevole, non riesce a discernere tra atteggiamenti positivi e negativi.

Tocqueville si mostra timoroso che un’omologazione degli uomini, dei diversi interessi dei quali ognuno di noi deve essere portatore, porti ad attribuire un valore puramente convenzionale alle azioni umane, con una conseguente e deprimente perdita di capacità valutativa. Le differenze e le disuguaglianze tra gli uomini, esaltate dalle società aristocratiche del passato, hanno favorito la genesi dell’onore. Viceversa, le società democratiche attuali, con la loro logica egualizzante, stanno lentamente erodendo la forza del sentimento dell’onore. La scomparsa dei ceti, con la susseguente abolizione dei privilegi, ha provocato lo smantellamento di tutti quei particolarismi che costituivano l’onore. "Nei paesi aristocratici uno stesso tipo d’onore non è riconosciuto che da un certo numero di persone, spesso esiguo e sempre separato dal resto dei loro simili. […] Negli stati democratici, invece, in cui i cittadini sono tutti confusi nella medesima folla […] l’onore sarà sempre meno categorico e meno pressante[…]".(7)

Tornando ad esaminare il pensiero del filosofo sull’antica aristocrazia, Tocqueville non nega che i nobili vantassero spesso privilegi "molesti", ammassando grandi ricchezze non di rado conquistate con l’usurpazione o il raggiro, facoltà alquanto onerose per gli altri. Ma, a fronte di tutto ciò, andava riconosciuto alla nobiltà nel suo complesso il non trascurabile merito di saper mantenere l’ordine pubblico, di assicurare la giustizia, di fare eseguire la legge, di andare in soccorso dei deboli, di reggere gli affari comuni.

Da queste considerazioni si evince come tale libertà di stampo aristocratico non si esprimesse solo nell’attitudine al comando e nel carisma esercitato (doti peraltro necessarie per chi aspira a compiti di responsabilità), ma che – viceversa – avesse un preciso riflesso sul piano sociale e politico, divenendo sinonimo di partecipazione alle sorti della comunità, di passione, di ambizione, di impegno ed entusiasmo nel prendere parte al governo della collettività.

Alla luce di tutto questo, appare come una logica conseguenza che fattori quali il merito, la capacità e l’intraprendenza rivestano per Tocqueville un ruolo chiave nella scelta dei membri di un governo anche negli attuali regimi politici. Proprio queste doti non comuni, patrimonio di pochi individui, devono entrare a far parte dei caratteri della élite di governo. Fra queste qualità spicca certamente quella che più legittima il privilegio del comando, ossia il disinteresse.

Agire in ambito politico disinteressatamente significa muoversi animati da sete di gloria, dalla volontà di dare lustro al proprio gruppo di appartenenza, di compiere gesta che rendano la comunità politica un modello da imitare per i posteri. Il disinteresse si pone in netta antitesi con la ricerca del tornaconto personale o dell’interesse puramente materiale, canoni che invece oggigiorno sembrano essere le prioritarie motivazioni che animano le cosiddette classi politiche.

Certo il referente storico assunto da Tocqueville era molto impegnativo anche nei termini concettuali di una semplice teorizzazione dei caratteri della vera classe politica. Il modello era quello della nobiltà cavalleresca che aveva retto le sorti della Francia fino al 1400-1500, prima cioè dell’imporsi dell’assolutismo monarchico. Una nobiltà ampiamente diversificata al suo interno, ma i cui privilegi (quali la nascita, la ricchezza e la scienza) erano reputati pertinenti solo ad un piccolo numero(8). Questi tre fattori, nonostante differiscano nettamente per la loro natura, trovavano in quella nobiltà un carattere comune: appunto quello dell’esclusività, nel senso del pregiudizio che la superiorità del genio, della virtù e del talento riguardassero solo ed esclusivamente i membri di questa élite, caratterizzandone la superiorità rispetto alle altre classi.

Se da una casta chiusa queste qualità diventassero prerogativa di una classe aperta ai meriti emergenti (al di là delle condizioni di nascita), allora si avrebbe una vera élite politica, forte e qualificata, da porre al servizio della democrazia, capace di sedare i motivi di malcontento, di superare cioè le indebite differenze tra i gruppi e quindi di evitare l’insorgere di conflitti tra le classi.

Secondo lo scrittore francese, era stata invece proprio l’affermazione di un simile spirito "esclusivo" che aveva finito per caratterizzare non solo le pretese prerogative di una ristretta nobiltà "genuina", ma anche la mentalità della borghesia emergente, che con criteri aristocratici aveva considerato la propria ascesa politica e la sua collaborazione con la monarchia, favorendone le tendenze assolutistiche, dispotiche, che poi avevano condotto il Paese al tracollo ed alla sanguinosa rivoluzione(9).

Tocqueville si mostra perfettamente conscio che la ricerca della personale affermazione, del potere e della ricchezza, se non temperata da validi ideali morali e spirituali, si rivela un’arma a doppio taglio, alquanto deleteria anche per chi crede di usarla a suo esclusivo vantaggio. Ma non era stato solo questa sconsiderata ambizione che aveva corrotto le classi sociali, e non solo la nobiltà ma anche la borghesia. Al decadimento cui era andata incontro la nobiltà nel corso dei secoli avevano contribuito l’acredine sempre più manifesta e la rivalità dei sovrani, desiderosi di sottomettere i nobili al loro dominio. Gli aristocratici avevano iniziato ad anteporre la ricerca di potere, di privilegi materiali ai fattori che invece accordano effettivo potere morale, consenso, prestigio. Delle differenze sociali avevano conservato quanto era meno giustificato dalla differenza di funzioni espletate. In questo senso, si esplica la dura accusa mossa ai nobili, i quali "…avevano serbato dell’inuguaglianza ciò che ferisce e non ciò che giova"(10).

Del resto, in questa lotta contro l’assolutismo, la nobiltà aveva finito per soccombere, costretta ad un ruolo subalterno, a farsi cortigiana, per cui aveva progressivamente perduto presso il popolo la stima conquistata nei secoli, quel carisma e quell’onore che viceversa erano e debbono ancora oggi essere i motivi primi ispiratori di chi ambisce a cariche di governo.

III. Il limite delle società aristocratiche, la cui fine è definitivamente sancita dal ciclone rivoluzionario del 1789, per Tocqueville era ravvisabile non nella teorizzazione di una scala di disuguaglianze di capacità che nessuno contestava, ma nella pretesa che una ristretta cerchia detenesse, per via ereditaria, una superiorità politica ed economica tale da escludere qualsiasi verifica meritocratica e qualsiasi apertura ai talenti emergenti dalle altre classi.

Tocqueville, infatti, è fermamente convinto che l’ineguaglianza sia un fattore naturale ed anche positivo, in quanto consente la distinzione delle qualità morali e professionali tra gli individui. Tuttavia è altresì consapevole che tutte le altre disuguaglianze fra i particolari sono nocive alla coesione sociale. Da qui la netta distinzione che l’autore rileva fra privilegi giusti e privilegi immotivati, fra disparità naturali (il cui correlato possono essere differenti posizioni politiche) e disuguaglianze artificiose, basate sull’egoismo economico, sulla ricerca del mero interesse materiale.

È proprio su questa distinzione, punto chiave del pensiero del filosofo francese, che i critici fino a pochi anni fa non hanno prestato sufficiente attenzione, limitandosi a tacciare Tocqueville come un aristocratico nostalgico, troppo legato alla difesa dei privilegi. In realtà, tutta la sua costruzione ideologica si origina dalla premessa che per entrare a far parte di un’élite di governo è necessario attuare una selezione rigorosa, peraltro non discriminante in senso assoluto. Quella di Tocqueville è una concezione di élite "aperta", in quanto non è fondamentale determinare l’estrazione sociale del cittadino, ma piuttosto verificare se questi sia effettivamente animato da senso del dovere, dalla tenacia nel realizzare gli impegni assunti, dalla dedizione al bene pubblico, oltreché da doti peculiari quali la capacità di mediare fra opposti interessi e di realizzare grandi imprese. Al contrario della concezione politica che privilegia la casta chiusa, per Tocqueville il ricambio della classe elitaria è necessario, auspicabile, in quanto rappresenta un incentivo per tutti a dare il meglio di sé.

Ma l’apertura alla necessaria osmosi sociale non implica per Tocqueville una radicale negazione delle posizioni acquisite. In quest’ottica, risulta estremamente coerente in Tocqueville anche la difesa dei privilegi medievali, che invece avevano assunto nel Settecento connotazioni particolarmente insopportabili presso l’opinione pubblica, configurandosi come una delle cause scatenanti l’odio dei francesi contro la nobiltà e, più in generale, contro l’ordinamento d’ancien régime.

Nella riflessione di Tocqueville, il termine stesso di privilegio, se riesaminato in chiave storica, perde quella connotazione faziosa e negativa con la quale era stato sempre etichettato. Nel suo senso originario esso in effetti deriva dall’espressione "privata lege", ossia di qualcosa di conseguito "secondo il diritto privato". Nel Medioevo, nella frammentazione della società civile, la fonte del diritto più importante era diventata la lex privata, che sebbene venisse spesso utilizzata ad uso e consumo delle classi elevate e quindi più agiate, rivestiva un ruolo chiave per l’intera società. Infatti, le stesse corporazioni e tutte le numerose ed articolate istituzioni del tempo ( i Comuni, le Province, i Dipartimenti, le varie assemblee rappresentative locali e provinciali) basavano la loro essenza, il loro funzionamento, su statuti propri, anch’essi "privati", appunto "privilegi".

D’altra parte non si può negare che tali istituzioni costituissero un’emblematica espressione di quella democrazia e di quel pluralismo liberale che avevano caratterizzato la società di corpi soprattutto nel Medioevo maturo. Il decentramento amministrativo, principio fondamentale e mezzo necessario per combattere il rischio di monopolio del potere, era assicurato dalle autonomie di città e di province, che esprimevano le loro istanze attraverso appropriati organi rappresentativi. La stessa separazione imposta dalla gerarchia tra classi, sebbene rigida e talvolta fonte di iniquità, assicurava un regolare svolgimento delle mansioni in un contesto istituzionale e sociale appropriato nel senso della partecipazione e coesione.

La funzione di garanzia della giustizia, inizialmente esercitata dai tribunali feudali, era stata gradualmente acquisita dal complesso apparato dei tredici Parlements, che – nelle principali regioni storiche della Francia unificata dalla monarchia – svolgevano, di concerto con il sovrano, un controllo non solo sulla corretta applicazione delle leggi, ma anche su tutte le questioni di rilevanza interna ed internazionale.

In definitiva, nel corso di tutto il Medioevo, il mondo feudale - per quanto caratterizzato da un’accentuata staticità delle istituzioni, da infrastrutture carenti, da iniquità talvolta eccessive - aveva saputo adattarsi alle esigenze di una pluralistica società di corpi. In tutta Europa, le società medioevali pre-assolutistiche erano basate su una serie di usanze e di costumi, tanto semplici quanto rigorosi, espressi efficacemente (pur con tutti i limiti e le ingiustizie ad esso annesse e riconosciute dallo stesso Tocqueville) da un ordinamento sociale di tipo "corporato" (appunto la società di corpi o "società di ordini", di ceti e classi titolari di specifiche funzioni politiche, espletate nel contesto dei propri interessi privati).

La rigida separazione gerarchica determinata dall’esistenza dei vari ceti (Ordres o États in Francia, Stände nei territori tedeschi, Estados in Spagna, Estates in Inghilterra, Ordini, appunto, in Italia), titolari di specifiche funzioni politiche, costituiva un’efficace garanzia di stabilità e di rispetto dei rispettivi compiti all’interno di una comunità nella quale ogni individuo e corpo sociale ricoprivano un preciso ruolo.

In Francia, il primo degli "ordini" era la Chiesa, a cui spettava la rilevante funzione di guida spirituale dell’intera società, la tutela dell’ortodossia religiosa, la condotta dell’organizzazione ecclesiale, l’evangelizzazione.

Il secondo "ordine" era per tradizione la nobiltà, cui erano affidati i compiti di difesa dello Stato, sia attraverso il servizio militare, sia attraverso la partecipazione all’amministrazione pubblica (specialmente nel campo della giustizia). Nel tempo, questi compiti si erano definiti secondo la specificità che aveva condotto ad una distinzione sempre più marcata fra nobiltà militare, la cosiddetta "noblesse d’epée" (la nobiltà di "spada") e nobiltà giurisdizionale, "noblesse de robe" (la nobiltà di "toga").

Il terzo "ordine", comunemente noto come "Terzo stato" (sarà appunto con tale denominazione il protagonista della rivoluzione del 1789), già nel Medioevo raccoglieva i ceti emergenti dalla massa della popolazione: sia i proprietari borghesi, la cui funzione era il commercio, la finanza, sia i ceti i contadini proprietari.

In questi suoi tratti, una tale struttura sociale appare a Tocqueville come un’eloquente anticipazione dei caratteri distintivi delle migliori democrazie contemporanee. E non solo per la complessità di ceti che in qualche misura partecipavano alla vita politica, ma anche per quel grado di autonomia amministrativa assicurata da una pluralità di centri di potere (appunto i comuni, le province, i dipartimenti). Per Tocqueville l’antefatto della vera democrazia era rappresentato da questi enti territoriali, dotati di complessi apparati di elezione, di rappresentanza delle istanze locali, di difesa delle autonomie, di partecipazione alle assemblee a livello locale o nazionale. Tocqueville sottolineava anche come i suddetti organi potessero vantare una significativa autonomia decisionale ed una serie di diritti, sanciti e regolati al tempo stesso da un sistema di privilegi e di franchigie loro riservati. Tutti elementi che conferivano sia ai vari "corpi" sociali (appunto gli "ordini" ed altre "corporazioni, che in Francia vanno sotto il nome di "maîtrises"), sia alle varie entità territoriali un buon grado di libertà nella partecipazione e di responsabilità nella vita politica della nazione.

In certa misura, un compito di rappresentanza degli interessi collettivi in tal senso era stato svolto per alcuni secoli sia dagli Stati Generali, sia dalle varie assemblee locali, sia – e non ultimo – dalle funzioni di "alta corte di giustizia" svolte dai suddetti 13 parlamenti nelle principali regioni storiche della Francia.

Fra questi, soprattutto il Parlement di Parigi (che dal XIV secolo aveva acquisito il controllo di legittimità e di merito sulla legislazione regia) aveva assunto una funzione di rappresentanza della "volontà nazionale", ponendosi come un valido baluardo allo strapotere dell’assolutismo monarchico. Ma anche gli altri parlements, sebbene maggiormente limitati di quello di Parigi nelle loro funzioni (talvolta semplicemente di tipo consultivo), rivestivano un’importanza vitale, in quanto si configuravano come mezzi di intermediazione e di contatto tra la popolazione e lo Stato.

Ogni aspetto dell’amministrazione francese era strettamente legato all’attività di questi "parlamenti", le questioni più spinose erano di dominio pubblico e le relative decisioni scaturivano solamente dopo aver ascoltato tutte le arringhe favorevoli e contrarie. Per Tocqueville, proprio "siffatte abitudini e forme erano altrettante barriere all’arbitrio del principe"(11).

Lo scrittore normanno d’altronde era un convinto sostenitore della separazione dei poteri, nella teorizzazione recepita da Montesquieu, che giustamente la storiografia reputa il suo primo e vero maestro. Entrambe rite- nevano che la monarchia fosse una forma di governo perfettamente funzionale, se basata su leggi fondamentali che rispecchiavano una società gerarchizzata, strutturata come si è visto su una molteplicità di ordini aventi ognuno uno specifico peso sociale. In sintesi, il sistema monarchico funzionava proprio perché assicurava che al clero (il primo "ordine") spettassero i compiti di sostegno e di divulgazione della religione, alla nobiltà (il secondo "ordine") la difesa dello Stato e la funzione giurisdizionale (specialmente parlamentare), ed al Terzo Stato (o terzo "ordine") le attività economiche e professionali.

In questo contesto, era proprio la diversificazione sociale a garantire sia una reale sfera d’autonomia nei confronti del potere sovrano detenuto dal monarca, sia il funzionamento complessivo di questo sistema di distinzioni ed interazioni fra corpi titolari di specificità funzionali.

Infatti, la monarchia pre-assolutista era fondata sull’esistenza di quei corpi intermedi che, frapponendosi tra i cittadini ed il sovrano, assicuravano all’individuo il godimento della libertà: nobiltà, Chiesa, comuni, province e parlamenti rappresentavano appunto nell’immaginario collettivo l’emblema stesso della libertà. A loro volta, i parlamenti svolgevano, oltre allo specifico ruolo giuridico, il fondamentale compito di assicurare coesione, continuità alla politica e tutela degli interessi dello Stato(12).

Nel ritenere che la vita dei popoli e degli Stati debba svolgersi di pari passo in una sostanziale unità, Tocqueville si mostra perfettamente concorde con il Montesquieu: per entrambi la politica non è costituita dai singoli cittadini ma dalle istituzioni, cioè da unioni di individui che mirano a realizzare gli interessi generali di una collettività. Solo un adeguato sistema di leggi, organico e coordinato, può consentire il conseguimento di tale obiettivo. Ma la delicatezza dei meccanismi istituzionali implica che si debbano evitare i pericoli insiti nella funzione legislativa, che non deve essere devoluta ad un singolo individuo, la cui volontà può essere mutevole e sfociare quindi nell’arbitrio.

Si rende necessario allora affidare tale compito ad un organo mediatorio, il parlement appunto, che agendo da vero e proprio corpo politico può battersi per la salvaguardia delle tradizioni e degli interessi della nazione. Negli auspici di Montesquieu e di Tocqueville, i parlamenti devono divenire gli organi depositari della giustizia e garanti della legalità. E ad assolvere a compiti così elevati e difficili deve provvedere la classe che può vantare le tradizioni più antiche ed il maggiore senso di responsabilità, ovvero la nobiltà.

IV. A motivo di questa complessità del sistema politico-istituzionale, risulta chiaro perché Tocqueville consideri il subitaneo e radicale smantellamento di tutte le tradizioni, le norme, i costumi, le consuetudini ed i privilegi attuato dalla rivoluzione del 1789 come un insano gesto del quale ancora nella metà dell’800 i Francesi pagavano le tragiche conseguenze.

Infatti, la rivoluzione per abbattere l’edificio dell’antico regime dovette "[…] muover guerra, ad un tempo, contro tutti i poteri costituiti, scalzare i predomini ammessi, cancellare le tradizioni, rinnovare i costumi e le consuetudini e svuotare, per così dire, lo spirito umano di tutte le idee su cui s’erano sino allora fondati l’obbedienza e il rispetto. Da ciò la sua natura così anarchica"(13).

Va comunque precisato l’antefatto che di tale analisi è costituito dall’interpretazione fornita sul medesimo tema dall’irlandese Edmund Burke, che per primo – a fonte del radicalismo egalitario ed innovatore della Rivoluzione – aveva rivendicato la difesa delle tradizioni passate e degli stessi privilegi (questi ultimi intesi quali insostituibili strumenti di conservazione della stabilità politica nazionale).

Nella sua opera più famosa, intitolata Reflections on the French revolution, del 1790, Burke aveva osservato come "[…] dalla Magna Charta fino alla Dichiarazione dei Diritti, fosse stata politica uniforme del sistema costituzionale inglese di esigere e asserire le nostre libertà come inalienabile eredità trasmessa a noi dai nostri antenati, e trasmissibile alla nostra posterità, come proprietà appartenente in modo speciale al popolo di questo regno, senza alcun riferimento a qualsiasi altro diritto più generale o antecedente"(14).

In questo modo, - continuava Burke – "la nostra Costituzione preserva l’unità pur nella grande diversità delle sue parti. Abbiamo una corona ereditaria, un aristocrazia ereditaria, ed una Camera dei Comuni ed un popolo eredi di privilegi, franchigie e libertà derivati loro da antichissimi antenati"(15).

Del resto Tocqueville nei suoi scritti non nasconde l’ammirazione nutrita per il modello costituzionale inglese, l’unico forse in ambito europeo in grado di conciliare egregiamente il passaggio da una società d’antico regime ad una più moderna. In tal senso, in Inghilterra la rivoluzione del 1689 era stata una rivoluzione "per la continuità", volta cioè a riprendere gli aspetti positivi del passato ed a sviluppare le istituzioni in una sempre più ampia partecipazione e rappresentanza degli interessi dei vari corpi e ceti.

Dal canto suo, tornando ad esaminare il concetto di libertà, Tocqueville mira a puntualizzare come proprio questo sia stato del tutto travisato dai rivoluzionari francesi, i quali ottusamente avevano cercato di conquistare una chimerica uguaglianza assoluta, tralasciando invece la ricerca di un’effettiva eguaglianza politica (l’unico strumento che avrebbe permesso l’indipendenza dai despoti antichi e recenti).

Qui, ancora una volta, il referente cui Tocqueville "guarda" è quello delle società medioevali pre-assolutistiche, dove il desiderio di libertà era interpretato come un diritto "particolare" a restare indipendenti. Un diritto che ognuno coltivava in proprio, pur nel rispetto delle regole comuni. Una simile forma "elitaria" della libertà aveva precise implicazioni nell’effettiva intenzionalità e nella concreta capacità di acquisirla. Ma proprio per questo carattere di non-immediatezza e di eccezionalità, una tale accezione di libertà poneva i ceti che se ne facevano espressione al di sopra della massa, presentandosi di fronte al popolo come un modello di motivazioni e di comportamento che alla fine produceva risultati straordinari.

Sotto questo profilo, l’esempio indicato dall’autore è quello dei Romani.

La loro classe dirigente nutriva il profondo convincimento di impersonare, tra tutti i popoli del genere umano, l’unico in grado di saper usufruire del bene della libertà politica e dell’indipendenza nazionale. La certezza di questa "esclusività" derivava loro dalla convinzione di aver ricevuto la libertà politica non tanto come un dono dalla natura, come una naturale inclinazione a rifiutare la soggezione, ma appunto come concreta capacità dei Romani di aver saputo "conquistarsi" il diritto politico alla libertà dai tiranni e l’indipendenza da altri popoli.

È questa la fiduciosa aspettativa che l’autore nutre nei riguardi dello stesso popolo francese. Tocqueville ritiene che ogni cittadino debba maturare il convincimento di aver ricevuto dalla natura i mezzi adeguati per affrontare la vita. È comunque doveroso coltivare l’aspirazione a conseguire un diritto, uguale ed imprescrittibile, a vivere autonomamente ed a regolare secondo l’inclinazione nativa il proprio destino. Ogni individuo deve perciò dare un senso politico a questa libertà naturale, traducendola in libertà politica, in una distinzione di meriti tale da permettergli di puntare ad entrare a far parte dell’élite di governo.

A condizione che un simile concetto capacitario della libertà (cioè non naturalistico, non immediatamente istintuale) trovi storicamente le condizioni per nascere e radicarsi nello spirito di un popolo, allora anche il temuto potere assoluto diviene un fenomeno "passeggero", una fase patologica che ha caratterizzato solo un momento dello sviluppo storico, e che può pertanto definitivamente essere sconfitto.

In sostanza, Tocqueville si propone di realizzare l’ardua impresa di restituire agli individui il gusto concreto della responsabilità attiva e del concreto perseguimento del bene comune. All’astrattezza intellettualistica ed all’individualismo materialistico, che sembravano essere il tratto caratterizzante la borghesia insediatasi al potere dopo la Rivoluzione del 1789, Tocqueville contrappone la necessità di ritrovare e conservare un’effettiva sensibilità politica.

Il ceto elitario da ricreare doveva possedere molti requisiti difficilmente riscontrabili nella situazione travagliata che la Francia ottocentesca stava vivendo. Si trattava di una difficoltosa ricerca, a lungo misconosciuta, fraintesa e osteggiata, e quindi rimasta sostanzialmente inappagata. Per ritrovare una tale classe politica era indispensabile una strategia atta ad reintrodurre in un nuovo tessuto sociale quelle motivazioni che avevano caratterizzato la vecchia aristocrazia della Francia pre-assolutista (o comunque anti-assolutista). Si trattava di riprodurre un simile notabilato in forme democratiche.

A tal fine si doveva ripristinare in forme nuove, adeguate alla differente realtà storica, la complessità, la gerarchia dei ruoli, delle motivazioni e delle intelligenze, in contrasto con un mondo che viceversa appariva superficiale e propenso ad azzerare ogni distinzione di ceti e di individui. Un mondo in cui venivano brutalmente svalutate doti quali le virtù morali, il talento e le capacità dei singoli, con il risultato di produrre un sostanziale livellamento verso il basso. Sotto questa angolazione non poteva non apparire profondamente sbagliata, agli occhi di Tocqueville, la veemenza con la quale i suoi concittadini avevano voluto estromettere ed annientare la nobiltà. Un ceto che forse, meglio di ogni altro, aveva svolto ed avrebbe ancora potuto svolgere un’indispensabile funzione di intermediazione tra il popolo e le istituzioni statali, portando a conoscenza del governo l’insieme delle differenziate istanze ed esigenze espresse dai cittadini.

Si sarebbe dovuto seguire anche in questo l’esempio inglese, emblema di una scelta saggia, per la quale era stato possibile - sia pur anche qui per il tramite di una rivoluzione (la Glorious Revolution del 1688-89, comunque meno radicale, meno cruenta e meno foriera di gravi conseguenze) - la realizzazione di sistema che aveva più di un tratto in comune con una "repubblica" (Res publica o Commonwealth), se non di una vera e propria democrazia. Fra l’altro, sarebbe forse stato sufficiente - nella Francia della Rivoluzione e della stessa Restaurazione – che la nobiltà, anziché sradicarla o comunque neutralizzarla politicamente, fosse stata ricondotta ad un ruolo istituzionale. In tal modo se ne sarebbe fatto lo strumento guida necessario ad ogni comunità, e si sarebbe ritrovato un corpo animato da fierezza e dalla volontà di continuare a fornire il proprio insostituibile contributo alla nazione.

V. Ma altrettanto dissennato sembrava a Tocqueville – ne L’Ancien Régime et la Révolution - l’attacco sferrato alla Chiesa e più in generale alla religione, uno dei valori chiave che temprano l’uomo e sono alla base di ogni sistema politico armonicamente ordinato. Nel Settecento si era diffusa l’opinione - profondamente errata - che raffigurava il necessario avvento delle società democratiche come osteggiato ed incompatibile con la religione(16). Sulla base di questa convinzione, sotto la spinta dei movimenti illuministici, la Francia aveva cercato di smantellare ogni forma di legame con il cristianesimo, perdendo quello spirito religioso che deve invece animare ogni popolo.

Del resto, gli stessi Francesi non si erano resi conto che il loro astio verso la Chiesa non era vero furore antireligioso. Ad essere detestata infatti era la Chiesa non in quanto detentrice della funzione di guida etico-religiosa della nazione, dato che le radici millenarie di tale istituzione avevano legittimato il suo ruolo di faro spirituale per tutta la società. Piuttosto, il rancore anti-ecclesiastico si era prodotto e gradualmente accentuato perché nelle fila della Chiesa militavano non solo asceti e probi sacerdoti, ma anche ricchi proprietari, signori feudali, percettori di rendite, ossia delle vere e proprie classi di privilegiati senza più alcun merito sociale. A tal proposito, significativamente, Tocqueville evidenzia come man mano che l’opera distruttrice della rivoluzione andava compiendosi, la sua azione antireligiosa veniva meno(17).

D’altronde, Tocqueville capiva che l’irreligiosità di massa che aveva caratterizzato la fase rivoluzionaria costituiva un’ulteriore conferma del disordine e del caos che avevano investito la sua nazione sin dall’epoca monarchico-assolutistica. L’autore aveva già avuto modo di osservare in occasione del suo viaggio in America quale importanza rivestisse invece la religione per il funzionamento dell’intero apparato sociale. Se negli Stati Uniti la legge consentiva ai cittadini di fare praticamente tutto, il limite implicito al sistema era nel pluralismo delle confessioni cristiane, grazie a cui gli individui stessi trovavano dei freni e delle regole da rispettare. Secondo Tocqueville, il primario compito delle religioni è quello di purificare i costumi, di regolare gli impulsi, di restringere il gusto troppo ardente ed esclusivo del benessere materiale che gli uomini perseguono dietro l’apparenza di ricercare l’eguaglianza politica. Spetta ancor oggi alla religione di riportare nei giusti confini la principale preoccupazione che anima l’uomo medio, appunto la ricerca del benessere personale, sovente concepito in termini puramente materiali ed esclusivi. Perciò la religione per Tocqueville poteva e doveva rivestire non solo una funzione di guida spirituale ma anche il ruolo di un’istituzione politica di primo piano. Questa non era certo la situazione che caratterizzava la Francia, dove dapprima, nell’antico regime, era maturata l’insana commistione tra il potere temporale e spirituale, mentre poi, con la Rivoluzione e la stessa Restaurazione, si era registrata una subordinazione della Chiesa allo Stato e quindi un ulteriore perdita di autonomia per la religione.

Al contrario, in America proprio il distacco esistente dalle istituzioni statali aveva sancito la piena affermazione del fenomeno religioso. L’esperienza politica e civile fornita dalle ex-colonie nord-americane esalta, in tal senso, il ruolo di primo piano rivestito dalla religione e dalla libertà civile e politica. I due fattori, sebbene distinti, lì negli Stati Uniti si amalgamano e si influenzano reciprocamente. Il sentimento della libertà scaturisce da quello religioso, e da questo la religione stessa trae il suo sostentamento. Grazie alla religione il sentimento di libertà si radica negli animi dei credenti, e la libertà garantisce il rispetto delle diverse fedi.

La libertà "vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi e i costumi come la garanzia delle leggi e come il pegno della sua durata"(18).

La religione, se emancipata dalle strumentalizzazioni tentate dalla politica, viene così nelle società democratiche a costituire un cardine fondamentale dell’ordinamento sociale. Negli Stati Uniti le varie comunità religiose dedicano le loro energie non solo alla spiritualità, ma allo studio ed alla soluzione dei problemi concreti ispirati da tale concezione etica, traducendola in motivo ispiratore della pratica di vita e delle relazioni sociali(19).

Questo impegno "reale" verso i problemi del mondo spiega – secondo Tocqueville - la ragione per la quale si è avuta una così grande diffusione e fortuna della religione in America. Da una simile concezione di tipo etico-pratico (e non esclusivamente trascendente-metafisico) deriva l’eccezionale opera di supporto e coesione fornita dalla religione. La religione traduce l’ideale di vita morale in obiettivi pratici di realizzazione e convivenza civile. Grazie alla religione, la società può prosperare, fornendo a tutti quelle uniche "certezze" che possono essere da tutti accettate.

L’opera positiva delle sette americane è stata quella di infondere un senso di concretezza immediata a tutte le prospettive di salvezza. Tutto il contrario – sottolinea Tocqueville - della Chiesa europea, che si "limitava" ad esaltare la speranza della salvezza e delle virtù teologali, proiettandole in una dimensione senza nesso immediato con la concreta pratica di vita. Ecco le ragioni per le quali la religione è divenuta invece per gli americani una vera e propria regola di vita quotidiana, accettata unanimemente e pertanto mai trasgredita, in un clima di diffusa obbedienza e di sincera conformità. Del resto, questa tipologia di conformismo morale non è negativa, ma anzi viene esaltata dal Tocqueville in quanto fondata su di un patto morale a cui tutti i cittadini aderiscono spontaneamente. Un’adesione non basata su di un astratto contratto sociale, che viceversa non esprimerebbe l’intima partecipazione e l’effettiva volontà dei contraenti. Se i cittadini possono contare sul supporto di una tale concezione, la salvezza non viene più a dipendere da un referente religioso totalmente trascendente (e tanto meno dallo Stato), ma dall’organizzazione pratica dell’ideale religioso, che così concepito concorre a realizzare il benessere collettivo.

La religione, essendo entrata nei costumi degli americani al pari della politica, non può pertanto più essere messa in discussione, giacché oramai è stata privata di qualsivoglia implicazione estranea alla vita sociale. Sulla base di queste valutazioni, secondo Tocqueville, si rende allora necessario riproporre anche nel vecchio continente la riaffermazione di un tale modello di religiosità, necessaria per la formazione di costumi politici ed etici tali da impedire il dilagare di una libertà "sfrenata", avulsa da norme etiche. Ma questo è proprio il tipo di libertà negativa che più risulta irrefrenabile da parte di una legislazione avversa ai valori religiosi, quale appunto quella della Francia della fine del Settecento ed anche della Restaurazione, trascinata alla deriva dell’irreligiosità o, peggio, dell’indifferenza.

VI. Un altro modello da importare nella democrazie europee era sicuramente - afferma Tocqueville nel libro secondo di De la démocratie en Amerique [1840](20) - quello dell’associazionismo, un diffuso fenomeno grazie al quale gli Stati Uniti d’America avevano posto solide basi per la sopravvivenza delle stesse libertà democratiche. A questo riguardo, Tocqueville aveva potuto constatare personalmente la vitalità delle associazioni statunitensi e ne aveva tessuto le lodi definendo tale strumento la "scienza madre" dei Paesi democratici, a motivo della grande funzione educativa che questo assolveva. Lo scrittore riteneva che il progresso di tutte le altre scienze dipendesse proprio dal grado di sviluppo raggiunto dall’associazione, riscontrabile come attiva in ogni contesto sociale e ad ogni livello negli Stati Uniti.

Alla luce di questa "scoperta", Tocqueville rafforza la convinzione che la chiave della libertà politica venga così a trovarsi proprio nell’innato spirito associativo che sembra animare gli americani. Tale spirito viene elogiato in modo particolare in quanto riprodurrebbe una sorta di riflesso di quel genere di libertà "al plurale" che Tocqueville considera ancora presente nell’ancien régime francese, quando cioè la noblesse non era ancora stata soggiogata dall’assolutismo monarchico e quindi si dimostrava pienamente capace di esprimere le istanze di coesione e di aggregazione dell’intera nazione, gerarchicamente ordinata nelle sue diverse componenti e funzioni sociali.

Infatti, nel capitolo quarto del suddetto libro II di De la démocratie en Amérique, dedicato specificamente al fenomeno associativo (intitolato: L’associazione politica negli Stati Uniti) Tocqueville ribadiva proprio questa tesi. "Non c’è paese dove le associazioni sono più necessarie per impedire il dispotismo dei partiti e l’arbitrio del principe, che quelli dove l’assetto sociale è democratico. Nelle nazioni aristocratiche i corpi intermedi formano delle associazioni naturali, che arrestano gli abusi del potere. Nei paesi in cui simili associazioni non esistono affatto, se gli individui non possono creare artificialmente e momentaneamente qualche cosa che rassomigli loro, non vedo nessun argine ad ogni sorta di tirannide"(21).

Si comprende facilmente come l’associazione rivesta una posizione cardine in De la démocratie en Amérique. Limitando il potere centrale, la pluralità di tipologie associative di fatto ricopre la funzione di mediazione analoga a quella svolta dagli antichi corpi, resi coesi e cooperanti dalla nobiltà, capace di arginare i contrasti sociali e di garantire quella funzione di coesione, di "collante" fra i corpi intermedi dell’ancien régime.

 

VII. Nel contesto delle associazioni va poi rilevato come l’esperienza statunitense abbia offerto a Tocqueville anche lo spunto per un’interessante disamina sul crescente fenomeno industriale, che appariva strettamente legato all’affermazione di quello democratico. Lo scrittore sostiene infatti che i gusti e le abitudini che scaturiscono dalla democrazia spingono gli uomini verso il commercio e l’industria, in quanto fonti di guadagno più redditizie ed immediate rispetto all’agricoltura.

L’innata passione degli uomini verso i beni materiali costituisce un irresistibile incentivo per gli individui ad indirizzare le proprie energie verso il terziario, decretando così la proliferazione di piccole e grandi imprese. "Negli Stati Uniti le più grandi intraprese industriali vengono eseguite facilmente perché la popolazione intera si occupa d’industria, e il più povero come il più ricco cittadino uniscono volentieri a questo scopo i loro sforzi".(22)

Da queste valutazioni emerge come la democrazia funga da stimolo allo sviluppo industriale ed accresca continuamente la classe degli imprenditori. Lo scrittore tuttavia rileva che, incredibilmente, negli Stati Uniti si verifica anche il fenomeno inverso, per il quale l’industria genera nuove forme di aristocrazia. La specializzazione e la divisione del lavoro, canoni caratterizzanti la rivoluzione industriale, se da un lato consentono all’operaio di aumentare la produttività, dall’altro spengono la sua creatività ed il suo estro e lo legano sempre più al contesto lavorativo.

L’operaio in tal senso, sebbene fornisca un input maggiore all’industria, diviene più debole e dipendente verso quei soggetti ricchi e privi di scrupolo che si avvantaggiano delle nuove regole di produzione. "A mano a mano che il principio della divisione viene applicato più integralmente, l’operaio diventa più impotente, più limitato, più dipendente. L’arte fa progressi, l’artigiano recede. D’altra parte, a mano a mano che si scopre che i prodotti di una industria sono tanto più perfetti […] si fanno avanti uomini illuminati e facoltosi, per sfruttare le industrie rimaste fino ad allora abbandonate nelle mani di artigiani ignoranti o disagiati."(23)

L’industria riesce al contempo ad elevare la classe dirigente imprenditoriale ed a svilire quella operaia, rinsaldando i vincoli di subordinazione della seconda nei confronti della prima, in un meccanismo continuamente alimentato e rinforzato dalla domanda crescente e dalle severe leggi del mercato.

È questo il paradosso che presenta il modello democratico statunitense, che se da un lato fa convergere la popolazione verso modelli più egualitari dall’altro spinge la classe dei capi d’industria ad assumere connotati decisamente aristocratici. "Il padrone e l’operaio non hanno dunque nulla di simile, e differiscono ogni giorno di più. […] L’uno è in dipendenza continua, stretta e necessaria dell’altro, e sembra nato per obbedire quanto quest’ultimo per comandare. Che cos’è questo se non una forma di aristocrazia?".(24)

Tocqueville tuttavia sembra decisamente condannare questa nuova classe di vertice, innanzitutto perché essa non riveste quel ruolo "glorioso" e "prioritario", quell’"onnipresenza" mostrata, viceversa, dai ceti élitari d’antico regime, ma costituisce un diverso esempio di gerarchizzazione sociale, quasi uno stato a se stante.

Infatti, questa nuova categoria sociale non mostra assolutamente quella comunione spirituale e quel legame di valori e di ideali che caratterizzava i rapporti fra il ricco ed il povero nelle società feudali. "L’aristocrazia, che nasce dal commercio, non si fissa quasi mai in mezzo alla popolazione operaia che essa dirige; il suo scopo non è di governarla, ma di sfruttarla".(25)

Ne consegue che un’aristocrazia di tale stampo non esercita un grande ascendente e non alimenta una grande stima verso i suoi subordinati, contrariamente a quella che la Francia pre-assolutista aveva conosciuto, ossia un’élite pronta a soccorrere i bisognosi ed a proteggerli. Dunque, i nuovi ceti industriali, oltre che acuire le disparità economiche, allargano la frattura ed il divario sociale con le classi lavoratrici.

"L’aristocrazia terriera dei secoli passati era obbligata dalla legge, e si credeva obbligata dalle consuetudini, a prestare aiuto ai servitori e ad alleviarne la miseria. Ma l’aristocrazia manifatturiera dei nostri giorni, dopo aver impoverito ed abbrutito gli uomini di cui si serve, li abbandona, in tempo di crisi, alla carità pubblica per nutrirli"(26).

Ecco perché Tocqueville, se da un lato è conscio che la democrazia deve adeguarsi agli sviluppi del progresso, dall’altro è fermo nel ritener che si prestare molta attenzione ai rischi che esso comporta. L’aristocrazia industriale infatti minaccia di perpetrare una disuguaglianza permanente delle condizioni, svilendo i rapporti personali e deviando dal concetto di associazione che, viceversa, si basa sulla collaborazione e la solidarietà reciproca.

VIII. Nel privilegiare quelle forme di autogoverno che sono l’espressione politica della società civile, Tocqueville riprende concetti comuni alla tradizione rappresentativa della Francia anti-assolutista, ma va oltre la definizione fornita da Montesquieu a metà del Settecento della complessità sociale in chiave di divisione, equilibrio e limitazione dei poteri.

Specialmente dopo la Rivoluzione e la stessa Restaurazione, si stava riproponendo con maggiore evidenza la differenza fra l’attuale regime centralistico, burocratico-amministrativo, che pure sapientemente si basava sulla distinzione dei poteri, ed invece quella molteplicità dei gruppi e degli organismi sociali (dotati ognuno di relativa autonomia, cioè di libertà ma anche di interazione sia con gli altri, sia con la società nel suo complesso, sia con lo Stato) di cui aveva dato prova l’antico regime pre-assolutistico ed ancor più la perfettamente funzionante democrazia nord-americana.

Riguardo a questa pluralità e complessità di fattori, il ruolo di un’élite si rende indispensabile come momento di aggregazione e di direzione politica. Ciò consente da un lato di apprezzare il ruolo che stanno svolgendo le associazioni politiche e civili nella società nord-americana, e dall’altro di comprendere quelle che possono essere le carenze o le inadeguatezze nel senso di una piena affermazione e difesa delle libertà democratiche.

Oggi che lo spauracchio dell’assolutismo monarchico è scomparso, si presenta infatti la concreta minaccia che la società cada vittima di altre forme ugualmente temibili di insocialità, quali il conformismo massificante e, all’altro estremo, l’individualismo sfrenato. La pluralità di associazioni può rappresentare l’antidoto più efficace contro i mali del conformismo e dell’individualismo, che sembrano essere i tratti negativi qualificanti l’uomo democratico.

In un popolo coinvolto mediante le diverse forme di associazione nella vita pubblica, simili eventualità negative possono essere prevenute e contrastate. Del resto, - sottolinea Tocqueville – proprio gli Stati Uniti d’America dimostrano come l’idea ed il desiderio di associarsi siano quotidianamente presenti nella vita di tutti i cittadini. Nella democrazia americana si vede come, anche di fronte a qualche riluttanza nell’agire in comune, prevalga nei cittadini il desiderio di esprimere la loro volontà politica attraverso quella peculiare forma di associazione che è il partito. Ecco la vera novità rispetto all’antico regime della Francia. I partiti rappresentano un nuovo organo per assicurare l’effettiva realizzazione degli interessi dei cittadini in un quadro di compatibilità, ed anzi di convergenza con gli interessi collettivi(27).

Il partito, così concepito, assume i connotati di associazione volontaria finalizzata alla partecipazione politica, che rappresenta un aspetto di primo piano della libera partecipazione dei cittadini alla gestione del potere.

Questo importante tema viene trattato da Tocqueville, oltreché nelle due opere ricordate, anche nelle riflessioni e nell’impegno manifestati dal suo ingresso in politica, sancito dalla creazione di un proprio partito intorno al 1847, la Jeune Gauche. Tuttavia, - come acutamente rileva Matteucci – il tema del partito rappresenta nella riflessione tocquevilliana una costante su cui la storiografica politica non ha sufficientemente riflettuto.

Nel suo viaggio in America nel 1832, l’argomento del partito si sviluppa nella distinzione fra quelli della Francia della Restaurazione (che in qualche misura ereditano i referenti ideologici della Rivoluzione) e quelli degli Stati Uniti. I primi sono fazioni che disputano attorno ad un’ideologia, in un contesto di marcato antagonismo, mentre i secondi sono consorterie che si riconoscono attorno a interessi pratici. Qui, non senza qualche difficoltà argomentativa, Tocqueville anzitutto raffronta la positività o negatività dei partiti alla situazione di maggiore o minore stabilità del sistema politico.

"[…] Aggiungo che non si vedono comparire i grandi partiti politici, le pericolose fazioni che là dove la seconda forma [di instabilità] esiste. La prima genera consorterie, e non partiti, delle discussioni […] e non delle zuffe, del rumore e non la guerra"(28).

Come si vede, qui il partito, e precisamente il grande partito, diviene sinonimo di fazione, di antagonismo, di scontro ideologico fra correnti inconciliabilmente avverse. Più tardi, fra persistenti incertezze ed oscillazioni, Tocqueville, nel Libro I di De la démocratie en Amérique, definisce più esattamente la distinzione fra grandi e piccoli partiti, ravvisando ora in questi ultimi caratteri di faziosità e litigiosità.

Lo sfondo su cui si staglia tale raffronto è ancora caratterizzato da situazioni di stabilità ed instabilità del sistema, adesso meglio definite in una contrapposizione fra diversi periodi storici. Vi sono le epoche "delle grandi rivoluzioni e dei grandi partiti"(29). E subito dopo Tocqueville precisa il significato che in positivo adesso riconosce ai grandi partiti. "[…] Chiamo grandi partiti politici quelli che si rifanno più ai principi che alle loro conseguenze; alle questioni generali e non ai casi particolari; alle idee e non agli uomini. Questi partiti hanno, in genere, tratti più nobili, passioni più generose, convinzioni più salde, un modo più franco ed ardito di altri […]"(30).

Diverso è il caso di epoche in cui "i mutamenti, che s’operano nella costituzione politica e nell’assetto sociale dei popoli, sono tanto lenti ed insensibili, che gli uomini pensano d’essere giunti ad uno stadio finale"(31). In questo seconda tipologia di periodo storico, "è il tempo degli intrighi e dei piccoli partiti"(32). E questi, al confronto dei grandi partiti, appaiono invece privi di fede politica. "Poiché non si sentono nobilitati e sostenuti da grandi obiettivi, il loro carattere è improntato d’un egoismo che si manifesta in ciascuno dei loro atti. Si entusiasmano sempre a freddo; il loro linguaggio è violento, ma la loro azione è timida e incerta. I mezzi che adoperano sono meschini, come gli scopi che si propongono"(33).

La stessa America, ora dominata da piccoli partiti (che pure qui hanno – per Tocqueville, come più avanti vedremo - una loro ragione d’essere ed un’indubbia positività), nel passato "ha avuto grandi partiti", che però "oggi non esistono più", e pertanto "essa ne ha guadagnato molto in felicità, ma non in moralità"(34).

Riguardo al partito si evidenziano – come appunto rileva Matteucci – quelle incertezze argomentative che rendono di difficile lettura il raffronto fra il tipo di associazione politica che Tocqueville ritiene più valida. La linea ideologica portata avanti dall’autore si muove intorno alla costruzione futura di un sistema democratico modellato sull’esperienza americana, ma con un referente implicito alla società di corpi dell’antico regime pre-assolutistico o anti-assolutistico. Del resto, è lo stesso Matteucci che conclusivamente ci fornisce la chiave di lettura per comprendere la complessa trama di referenti e di concetti di Tocqueville a questo proposito. In altre parole, può il partito, il grande partito promotore animato dei nobili ed imperituri ideali, costituire oggi il veicolo per riprodurre una società politica complessa, pluricetuale, multifunzionale, gerarchicamente ordinata? Di una società, cioè, diversa ed opposta rispetto alla democrazia radicale, giacobina, livellante, centralizzatrice, e dunque illiberale malgrado il suo libertarismo?

Certo, lo stesso Tocqueville "maturo" è mosso da quella "continua segreta passione che l’età non ha spento, quell’istinto […] che lo portava a sognare e a vagheggiare i ‘grandi partiti’, perché essi, come aveva scritto quando aveva ventisei anni, hanno ‘dei tratti più nobili, delle passioni più generose, delle convinzioni più reali, un atteggiamento più franco e più ardito"(35). Ma c’è anche l’acquisita "consapevolezza della difficoltà o della impossibilità di paragonare una società nata già democratica, come quella nord-americana, con una società in fase di transizione da un assetto sociale aristocratico a uno democratico, come la Francia […]"(36).

Eppure è proprio questa persistenza di un elemento nobile, élitario, di uno spirito di generosità, di altruismo, una volontà di gloria e di grandezza a rendersi necessaria anche ad una futura élite dirigente, in una democrazia pluralista, fondata su distinzioni e su correlazioni anziché su livellamenti di ogni differenza capacitaria e meritocratica. Indubbiamente, è un’esigenza che Tocqueville stenta a definire in modo chiaro e che comunque si precisa appunto nella suddetta distinzione fra società statiche e società "in transizione". Nella sua riflessione matura, Tocqueville riprende il tema del grande partito proprio "nell’analisi di una società in transizione da un sistema sociale aristocratico a uno democratico"(37). In una società di tale tipo i grandi partiti hanno "una loro specifica funzione, e cioè devono esprimere i princìpi che inevitabilmente esistono in questa società, […] in altre parole il principio aristocratico e quello democratico"(38).

Nondimeno, la possibilità che l’incontro e la mediazione avvengano fra questi due princìpi sussiste solo laddove vi sia, "fra le forze politico-sociali in contrasto, un minimo di consenso sull’assetto istituzionale della società e sulle regole del gioco"(39). In America questo incontro è possibile, a motivo di una stabilità istituzionale che rende positivi i conflitti politici e sociali. In Europa questo incontro fra il principio aristocratico e quello democratico era più difficile, perché qui bisognava ancora "destreggiarsi fra reazione e rivoluzione, al fine di determinare con un’azione paziente e costante, intransigente sui principi ma aperta alle necessità dei tempi, le condizioni minime per la possibilità di un positivo confronto"(40).

IX. D’altro canto, precisato tutto questo, va anche aggiunto che contro ogni pericolo di strapotere che i partiti (grandi o piccoli) potrebbero acquisire in una democrazia come quella americana, Tocqueville indica un efficace freno in quello che sarà definito come il "quarto potere", la stampa, che si delinea come un’altra eminente manifestazione di democrazia, riscontrata dallo scrittore nel nuovo continente.

Il diritto ad una stampa libera è una condizione imprescindibile per il funzionamento di un sistema politico democratico, poiché consente il confronto, la diffusione delle idee, il dibattito politico. Tocqueville rileva che proprio la stampa, oltre a rappresentare un’efficace forma di controllo da parte dell’opinione pubblica nei riguardi della classe dirigente, consente una forma di superamento degli interessi di parte, facendoli convergere intorno ad alcune dottrine di interesse collettivo. Infatti, attraverso la stampa, i partiti "si parlano senza vedersi, si mettono d’accordo senza essersi messi in contatto"(41).

In America, la stampa e le associazioni civili, sottraendo il monopolio della trasmissione della domanda politica ai partiti, impediscono che gli interessi corporativi dei petits partis possano radicarsi nella mentalità popolare. In tal modo viene favorita una nuova forma di democrazia, quella pluralistico-liberale, che Tocqueville ritiene sia sconosciuta agli Europei, culturalmente ancora fermi ad una concezione svalutativa dei piccoli partiti e ad una visione della democrazia troppo idealizzata, astratta, modellata sull’antichità classica, e dunque oggi stereotipata, egalitaria e livellante(42).

X. Sebbene dissentisse decisamente - per i tragici ricordi del radicalismo della Rivoluzione francese e per il suo intimo convincimento liberale - dalla sovranità popolare espressa attraverso una democrazia diretta, Tocqueville si rendeva conto che anche la democrazia rappresentativa degli Stati Uniti mostrava alcuni aspetti che non fornivano scontate garanzie di libertà e di reale rappresentanza della molteplicità dei gruppi.

Infatti, lo scrittore aveva potuto constatare di persona che la libertà politica, se applicata in modo assoluto, produceva effetti perversi che conducono a quella che definiva come la "tirannie de la majorité", una nuova forma di dispotismo incarnata dalla concentrazione dei poteri affidati democraticamente nelle mani della maggioranza(43).

Lo Stato democratico non sfuggiva in maniera automatica al pericolo del potere illimitato di un solo gruppo o ceto di potere. Anzi, la democrazia accentuava inesorabilmente la spinta all’omologazione, che, imponendo una specie di unanimità negli stili di vita, spegneva lo spirito di innovazione e di sperimentazione. Anche la democrazia, come il governo di Robespierre aveva dimostrato, nascondeva la pericolosa tendenza all’autoritarismo, che dunque non era una caratteristica esclusiva dell’assolutismo monarchico o di altri regimi di stampo totalitario.

A Tocqueville appariva indubbio che il motore delle democrazie fosse sempre il popolo, identificato nella maggioranza, alla quale doveva spettare la sovranità politica: principio che non poteva essere posto in discussione, pena la caduta nel dispotismo(44). Altresì, era ugualmente certo che se questo potere popolare non trova davanti a sé "alcun ostacolo che possa fermare il suo cammino e dargli tempo di moderarsi", l’egualitarismo trasforma la democrazia in dittatura(45). Allora, la maggioranza, agendo in piena apparenza di legalità, può mettere a tacere la minoranza ed imporre un conformismo ed una demagogia rovinose per l’indipendenza degli spiriti liberi. La democrazia statunitense, seppure non esente da tali mali, aveva comunque trovato la forza per reagire ed i giusti rimedi per limitare l’eccesso dei poteri. Oltre ai suddetti fattori di riequilibrio, un’altra eminente manifestazione era costituita dalla giuria e, più in generale, dal corpo giudiziario.

L’autorità e l’influenza esercitata nel governo dai giuristi costituisce per l’autore "la più grande barriera contro gli eccessi della democrazia"(46).

Fin dal Medioevo i magistrati giurisdizionali hanno avuto un ruolo attivo nelle società politiche europee, inizialmente attuando in forme legalitarie la politica regia, successivamente, nella fase assolutistica, cercando di contrastare il potere arbitrario degli stessi monarchi. In virtù di questa secolare tradizione, profondendo le loro energie nello studio delle leggi, i giuristi hanno acquisito una spiccata propensione per l’ordine, un accentuato gusto per le forme legali e per la coerenza normativa, rivelandosi di fatto come l’ultimo baluardo contro il disordine e le pulsioni radicali.

"Gli uomini, che si sono particolarmente dedicati allo studio del diritto, hanno tratto da questa disciplina abitudini di ordine, un certo gusto delle forme, una specie di amore istintivo per il concatenamento regolare delle idee, che li rendono naturalmente molto contrari allo spirito rivoluzionario e alle impulsive passioni della democrazia"(47).

La cultura superiore e le specifiche conoscenze derivanti dall’esercizio di tale professione hanno reso i magistrati una classe eccellente, privilegiata tra gli intelletti, in quanto detentori di una conoscenza particolare e deputati a risolvere le dispute tra cittadini. A ben vedere, la comunanza di studi e l’unità dei metodi adottati lega i vari giuristi gli uni agli altri in un corpo organico, che per molte sue caratteristiche è l’unico, vero, erede della tradizione aristocratica francese medievale. Tocqueville ravvisa infatti negli esponenti di tale ceto parte di quei gusti esclusivi e di quelle abitudini che erano retaggio del glorioso passato nobiliare, come l’istintiva passione per l’ordine, un certo disprezzo verso le azioni caotiche ed irrazionali delle masse, il giudizio negativo verso il governo popolare.

Pertanto, lo scrittore è convinto che, sebbene tale mentalità dei giuristi possa essere limitata dall’interesse personale o da situazioni contingenti che possono riguardare anche questa categoria, tuttavia vi è in essa un’inclinazione aristocratica molto pronunciata. Infatti, "tutte le volte che i nobili hanno voluto far condividere ai legisti qualcuno dei loro privilegi, queste due classi hanno trovato grande facilità ad unirsi e si sono, per così dire, ritrovate della stessa famiglia"(48).

Un altro tratto qualificante i magistrati giurisdizionali come gli eredi della grande aristocrazia è senza dubbio l’autorità che emana da tale carica. Da qui il fatto che il loro rispetto della legalità, quale punto qualificante della loro attività professionale, renda il potere giudiziario un elemento inscindibile da una democrazia che cerca la stabilità. Tali i caratteri che sono particolarmente pronunciati sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, in virtù di una molteplicità di fattori quali la natura della legislazione, la particolare posizione riconosciuta dagli ordinamenti a questo corpo, il tipo di studio svolto sulle leggi.

Il giurista inglese ed americano riservano una grande attenzione al passato, ai costumi ed alle tradizioni proprie della cultura popolare, sinonimi stessi di regolarità e legalità. L’opinione altrui è considerata con grande attenzione, a differenza del magistrato francese, il quale non valuta altro che le idee che scaturiscano da se stesso. Questo aspetto è particolarmente presente nel caso inglese, dove lo spirito conservatore ed i legami stretti con l’aristocrazia legano indissolubilmente i giuristi alle precedenti leggi, che dall’attività giurisdizionale vengono reinterpretate e sviluppate, ma mai cancellate radicalmente.

"[…] Il legista inglese stima le leggi non tanto perché sono buone quanto perché sono vecchie; e se si vede costretto a modificarle in qualche punto, per adattarle ai cambiamenti che il tempo fa subire alle società, ricorre alle più incredibili sottigliezze, per persuadersi che, aggiungendo qualche cosa all’opera dei suoi padri, non fa che sviluppare il loro pensiero e completare la loro opera"(49).

È alquanto significativo in tal senso (e simile per certi versi) anche il caso americano, dove l’assenza di classi nobiliari eleva immediatamente i legisti ai vertici della società, sia per il loro prestigio sociale che per la loro cultura. Qui, in virtù di questi fattori, anche il corpo giudiziario americano non palesa alcun entusiasmo per le innovazioni radicali e mostra invece uno spiccato spirito conservatore. È proprio la difesa delle tradizioni, estesa al campo delle leggi, a decretare la fortuna del modello americano, capace di frenare le passioni degli individui e gli istinti eversivi che anche in regime democratico si possono manifestare.

D’altronde, il corpo dei magistrati è legittimato in questa sua posizione dalla fiducia e dal consenso accordatigli dalla popolazione, che vede in esso un organo di tutela degli interessi generali. A questo proposito, Tocqueville precisa ulteriormente la sua posizione sostenendo che i giuristi appartengono "[…] al popolo per interesse e per nascita, e all’aristocrazia per abitudini e gusti"(50). Dunque, risulta evidente l’estrema importanza di questa istituzione, capace di combinare in modo naturale e durevole elementi apparentemente inconciliabili come quelli democratici ed aristocratici.

In particolare, grande rilevanza assume anche l’organo della giuria, reputata da Tocqueville come "l’applicazione più potente e diretta del dogma della sovranità del popolo"(51). È, anzi, la trasposizione del popolo stesso che si fa giudice, in quanto tale strumento assume il carattere di un’istituzione politica nella sua funzione di garanzia dei diritti nel processo civile.

In queste sue valutazioni, si palesa quanto Tocqueville fosse rimasto impressionato dalla vastità di poteri di cui godeva il giudice americano. Ma la sua meraviglia era tanto più grande a fronte della situazione francese, dove la situazione si presentava diametralmente opposta. In Francia, il giudice ricopriva un ruolo del tutto marginale rispetto agli altri poteri dello Stato, essendo i suoi compiti limitati ad una mera applicazione della legge positiva emanata dal parlamento (e senza margini di discrezionalità interpretativa). Già Montesquieu aveva colto questa situazione, ed aveva infatti affermato che "i giudici non sono se non la bocca che preannunzia le parole della legge, degli esseri inanimati che non ne possono moderare né la forza né la rigidezza"(52).

Del resto, - come si è visto - per Tocqueville la giustizia in Francia era divenuta un concetto molto ambiguo, in quanto oramai impersonata da una borghesia corrotta, connivente con i sovrani che, in quanto assoluti, detenevano il monopolio della legiferazione e delle decisioni giudiziarie. E i tentativi del Parlement parigino di limitare con la titolarità del "dépôt des lois" (ossia con il controllo esercitato sulla legittimità costituzionale della legislazione regia) questo strapotere del sovrano erano stati debellati nel Seicento da Luigi XIV (l’incarnazione stessa dell’assolutismo), e ancora duramente contrastati nel Settecento con Luigi XV e, successivamente, con Luigi XVI. Sotto questo profilo, la giustizia americana appariva invece al Tocqueville molto più incisiva. Intanto, l’elemento che conferisce il maggiore lustro ed influenza ai giudici americani è la facoltà loro riservata del controllo costituzionale delle leggi(53). Ai sette giudici riuniti nella Suprema Corte Federale, la Costituzione ha accordato l’importante diritto di dichiarare l’eventuale incostituzionalità delle leggi, permettendo loro di intervenire in modo incisivo negli stessi affari politici.

La Corte Suprema si viene così a configurare come il tribunale più importante della nazione, sia per la natura dei suoi diritti che per la specie dei soggetti che rientrano nella sua giurisdizione. Tocqueville, a ragione, la considera la diretta discendente di quei parlements d’antico regime (specie quello parigino), testimoni di un’ideologia legalitaria proprio in virtù del loro ruolo di censori contro i possibili arbìtri delle leggi monarchiche. Non a caso, gli stessi parlements - prima che venissero assoggettati all’assolutismo - si erano potuti fregiare del titolo di corti "sovrane", la cui attività giurisprudenziale si contrapponeva e fungeva da strumento regolatore delle ordinanze regie.

Qualcosa in più, certamente, c’è nell’ordinamento della Corte Suprema statunitense, che nonostante sia interamente di tipo giudiziario, ha fra le sue attribuzioni implicazioni altamente politiche. Infatti, agli importanti compiti di interpretazione delle leggi si affiancano anche quelli di regolare i rapporti non solo tra governo e governati, ma fra il governo federale ed i singoli Stati, sia della stessa federazione che delle nazioni straniere. Non va affatto sottovalutato il significato che la Corte Suprema è investita - a differenza dei tribunali europei davanti ai quali si presentano solo i privati – della grande responsabilità di giudicare anche su cause che hanno ad oggetto il comportamento dei singoli Stati federati.

In questi termini, la Corte Suprema è deputata al mantenimento della pace e della prosperità stessa della federazione, avendo il compito di limitare le possibili ingerenze del legislativo sull’esecutivo (o viceversa), richiamando alla correttezza ed al rispetto delle competenze i singoli Stati e l’Unione stessa, ed in ultima analisi mettendo in campo quel necessario spirito conservatore da contrapporre all’instabilità connessa alla democrazia. Il potere riservato a quest’organo è enorme ma, come sottolinea Tocqueville, è un potere prettamente morale, in quanto vige finché il popolo si mostra conforme alla legge.

Ecco perché i giudici federali non devono solamente dimostrarsi dei cittadini retti ed istruiti, ma anche dei veri uomini di Stato, capaci di applicare con sapiente misura e ponderazione le leggi, al fine di garantire la stabilità dell’Unione. L’ assegnazione di un simile potere al corpo dei magistrati impedisce che la maggioranza possa servirsi delle leggi per sminuire o violare i diritti delle minoranze o di singoli cittadini. Del resto, un tale istituto è coadiuvato da tribunali inferiori, che giudicano sovranamente le cause meno importanti o decidono, in prima istanza, le contestazioni più gravi. Inoltre, sempre al fine di limitare un’eccessiva ingerenza del legislativo, il costituente americano ha - come è noto - optato per la scelta dei membri della Corte Suprema da parte del Presidente (che ricopre anche l’incarico di capo dell’esecutivo), che peraltro li nomina solo dopo aver sentito il parere del Senato.

XI. In conclusione, su questo e su molti altri aspetti, si palesa la grande lungimiranza del Tocqueville, autore capace di comprendere perfettamente quali fossero i limiti ed i pregi del sistema democratico, nonché di prevedere quelli che sarebbero stati i suoi sviluppi. Appare inoltre di particolare rilevo la sua strenua difesa del passato e la capacità di cogliere in esso la positività di molti eventi; ciò indubbiamente è un aspetto degno di considerazione, anche in relazione agli accenti negativi con i quali, ancora oggi, buona parte degli storici etichettano l’ancien régime.

Ancora prima che in America, Tocqueville aveva individuato nella Francia medievale l’esistenza di forme di decentramento (consigli parrocchiali, comunali, provinciali), che sono alla base dello sviluppo dello Stato moderno. Proprio grazie a tali forme di autonomia la società francese d’antico regime, pur separata da rigide distinzioni di ceto ed economiche, trovava una coesione sociale condivisa ed efficace.

Le società democratiche del nostro tempo hanno confermato, sviluppandola compiutamente, l’importanza del riconoscimento di autonomie individuali, professionali, amministrative, capaci di contemperare i diversi interessi della popolazione, distribuita in molteplici ceti e su differenti contesti territoriali.

La nostra stessa Costituzione pone grande rilievo al principio del decentramento e gli dedica appositamente un articolo, il numero 5, in cui si afferma il riconoscimento e la promozione di un’ampia autonomia amministrativa agli enti locali. Alla luce di questo solenne pronunciamento, comuni e province si configurano oggi non solo come strutture amministrative decentrate a composizione elettiva, ma come enti dotati di una vera e propria rappresentatività democratica. Il cittadino ritrova in esse nuove dimensioni di appartenenza in ragione della propria individualità di ceto e di ambito socio- culturale.

L’impegno a promuovere le autonomie locali ed a perseguirne il rafforzamento, sostenuti con forza da Tocqueville, costituisce a tutt’oggi un preciso antefatto concettuale, ponendosi ancora come un criterio guida per lo sviluppo dell’ordinamento statale. Ma altrettanto pertinenti si rivelano poi le sue considerazioni sulle differenze rilevate tra gli uomini ed i diversi contesti culturali. Se è incontestabile e sacrosanto il riconoscimento a tutti gli uomini di una eguale dignità morale e della pienezza dei diritti, a prescindere dalla razza di appartenenza o da credenze religiose, appare altrettanto ragionevole riconoscere l’esistenza e sostenere l’esigenza di una scala gerarchica delle capacità, delle intelligenze e dei meriti. Da sempre le grandi scoperte, invenzioni e creazioni che sono avvenute in ogni campo provengono dall’opera di intelletti superiori, ed è grazie ad essi che il progresso scientifico-tecnologico e etico-politico è potuto prodursi. Sarebbe quindi riduttivo ed ingiusto connotare questo riconoscimento come un apprezzamento "élitario", nel senso svalutativo dell’eguaglianza politica. È nella natura delle cose confrontarsi con individui diversamente dotati di talento e di inventiva.

Ogni individuo nasce con un proprio patrimonio di risorse, variabile tuttavia in maniera sensibile da persona e persona. Del tutto giustificabile, a mio avviso, è battersi per l’applicazione di criteri meritocratici, tanto più in una società come la nostra nella quale il costante abbattimento delle frontiere tecnologiche ha incrementato le possibilità individuali di affermazione professionale. Spetta ad ognuno di noi individuare le attitudini e le doti migliori che si possiedono, e valorizzarle al meglio. Allo stesso tempo, però, è necessario anche disporre di un senso di autocritica che ci faccia comprendere obiettivamente i propri limiti. Né si può prescindere da quelle garanzie di uguagliamento nelle opportunità di partecipazione e di selezione meritocratica, che del resto solo l’autorità pubblica (lo Stato, espressione della molteplicità di istanze della società civile) può garantire in un compiuto sistema di norme, in cui la forma corrisponda alla sostanza di giustizia e di socialità.

La partecipazione, democratica e decentrata, presuppone oggi, dopo la crisi dello Stato nazionale e il crollo delle ideologie moderne, il rispetto delle differenze e delle disuguaglianze nel quadro di una fondamentale eguaglianza morale e sociale. Bisogna infatti prendere le distanze da un’idea di eguaglianza assoluta nelle condizioni economiche e nelle posizioni sociali, che ritengo rappresenterebbe di fatto una violenza all’integrità morale e ontologica dei singoli. Ecco un aspetto che si rivelerà sempre più evidente in quella società multi-etnica e multi-culturale che da più parti si sta realizzando.

Nell’attuale contesto ideologico di egualitarismo integrale può apparire stonato, se non paradossale, sostenere una simile teoria. In realtà, non è insensato riconoscere, oltre alle possibilità di uguagliamento, anche la persistenza di disuguaglianze che fanno capo ad una diversità di opzioni e di capacità. Tutto ciò deve verificarsi in un quadro di pari opportunità, di rispetto di una eguale dignità umana, della coesistenza pacifica tra soggetti (singoli e gruppi), che d’altra parte resteranno pur sempre differenti e diseguali in un medesimo "contesto" di molteplici referenti culturali ed intenzionalità partecipative.

Del resto, se "discrimine" oggi non vuol dire riconoscere un limite oggettivo, ma discriminare ingiustamente, comunque distinguere equivale sostanzialmente all’essere in grado di capire e discernere le distinzioni fondamentali che esistono tra le cose e fra le diverse intenzionalità degli uomini. E in tal senso tutti noi, forse in modo inconscio, operiamo continuamente "discriminazioni", quando operiamo scelte nel campo alimentare, della moda, nella sfera sessuale, dei convincimenti, ed in molti altri ambiti. Pertanto, una giusta distinzione (o, se si vuole, una discriminazione "giusta", non motivata cioè da pregiudizi soggettivi) fornisce un "discrimine" eticamente motivato ed oggettivamente valido. E questo può senz’altro aiutare ad acquisire una conoscenza preliminare necessaria per una corretta azione sociale, responsabile e razionale.

La capacità di distinguere appare una necessaria premessa del rispetto reciproco, ed il migliore strumento per porre in essere una eguaglianza non astratta e, soprattutto, non violenta. Questa diversità tra individui, che nella realtà pratica esiste e si rivela funzionale all’intento etico dell’eguagliamento politico delle differenze, deve coinvolgere non solo le qualità mentali, ma anche quelle doti morali che proprio Tocqueville auspicava divenissero prerogative di una nuova classe politica, capace di prendere di risollevare le sorti di una nazione dall’apatia e dall’omologazione indiscriminata, e pertanto essa stessa discriminante.

Appunto secondo la concezione di élite formulata da Tocqueville sul modello della nobiltà d’antico regime (anti-assolutista, rappresentativa delle funzioni di difesa, anzitutto giuridica, dell’ordine politico in termini di pluralità delle classi, dei corpi, delle funzioni), la condizione principale perché la democrazia possa funzionare, almeno come in America, è che sussista una classe di governo capace di distinguere la complessità dell’esperienza politica e di distinguersi nel suo ruolo e nelle sue funzioni di garante della varietà di distinti modi di essere e di convivere dei diversi gruppi umani, sociali e politici.

XII. Il contrario avviene, invece, nell’epoca contemporanea, laddove la classe di governo sembra formata da uomini assillati da scelte, scadenze e conferme elettorali, e che pertanto fanno leva su una, talvolta spudorata, auto-valorizzazione. Si tende ad esaltare la propria immagine, configurandola sulla base di virtù e capacità evocate al fine di convincere l’elettorato che coloro che lo rappresenteranno siano dotati di una personalità "speciale". Purtroppo la realtà delle cose è ben diversa. La situazione dei partiti oggigiorno non è poi molto differente da quella che Tocqueville aveva osservato e criticato nell’800. Il tramonto delle ideologie ha effettivamente decretato la scomparsa dei "grandi partiti" depositari di grandi idee ed ideali. Le stesse definizioni classiche di partito sono state oggetto di continue reinterpretazioni ed adattamenti. Il partito dovrebbe nascere come raggruppamento volontario di individui uniti da idealità ed interessi comuni. La sua azione dovrebbe altresì essere volta alla determinazione dell’indirizzo politico generale, tramite la conquista del potere in ambito locale e statale. Il ruolo preponderante che il partito ha assunto nel tempo ne ha fatto un elemento essenziale nella gestione del consenso e nella determinazione della politica nazionale. Nel nostro Paese, specie a partire dall’ultimo dopoguerra, il loro potere decisionale ed il loro intervento sono cresciuti esponenzialmente, valicando la sfera politica ed estendendosi a tutti i rami della vita sociale e culturale.

Sotto questa angolazione, se dunque la convinzione di Tocqueville che nel mondo attuale gli individui si sarebbero avvicinati e fatti coinvolgere nella politica si à realizzata, con una grande crescita di aderenti ai movimenti politici, tuttavia questo è coinciso con un aumento a dismisura dei loro apparati, sempre più burocratizzati e specializzati.

Tutto ciò è andato a discapito della libertà nella circolazione delle idee e delle motivazioni etiche dell’attaccamento ad una bandiera politica, a fronte di un’ingerenza sempre maggiore che i partiti esercitano nella "vita" dello Stato sta portando, nel senso di una sorta di espropriazione del ruolo che dovrebbero ricoprire le istituzioni rappresentative. Del resto, la rappresentanza democratica dei cittadini è riposta proprio in quelle istituzioni alle quali la Costituzione ha delegato la sovranità: mi riferisco al Parlamento, alle regioni, alle province, ai comuni. Lo Stato da parte sua, poiché lo status dei partiti è tuttora quello di associazioni non riconosciute e prive di personalità giuridica, sembra aver rinunciato a qualsiasi forma di tutela ed intervento sulla loro attività interna.

Il partito, per ritrovare una dimensione più giusta e proficua per gli interessi della nazione, dovrebbe piuttosto essere considerato come un elemento facente parte di un quadro più ampio, costituito da quelle istituzioni più volte citate che appunto esprimono effettivamente le varie istanze del Paese. Con questo non si intende sostenere che sia necessario privare tale organo di ogni suo potere rappresentativo di opinioni ed istanze differenziate. Sembra giusto però riconfigurare la sua posizione, assegnandogli una collocazione più consona allo svolgimento del suo ruolo di analisi e di elaborazione delle istanze, delle opzioni, delle proposte che provengono dalla collettività.

La situazione attuale purtroppo però non lascia molto spazio alle illusioni. Troppo spesso i partiti considerano i cittadini come vere e proprie pedine da utilizzare al solo fine della conquista dell’obiettivo primario, il voto. L’organizzazione dei partiti, affidata oggigiorno a politici di professione, richiede inoltre ingenti mezzi di finanziamento per essere alimentata. Da qui la necessità di ricorrere al denaro pubblico o privato, non solo attraverso lo strumento dei finanziamenti pubblici, ma anche attraverso lobbies e pratiche che sono causa di molti scandali e di roventi polemiche. Questo complesso di fattori sta conducendo ad un progressivo distacco della gente, ad un nuovo periodo di indifferenza, se non proprio di rifiuto, dei cittadini verso la politica. D’altronde, appare difficile arrestare tale tendenza alla sfiducia, anche perché in Italia si sta riscontrando da anni quella confusione di proposte politiche che Tocqueville aveva ravvisato nei piccoli partiti francesi. Non è affatto raro riscontrare nei programmi elettorali delle diverse formazioni politiche delle proposte alquanto simili tra loro che, con qualche artificio grammaticale o interpretativo, sono state poi spacciate per originali e rivendicate come proprie. Qui si verifica, nel nostro stesso Paese, che spesso opposizione e maggioranza non siano interessate, o quanto meno non siano in grado di promuovere un’efficace dialettica politica, tale da evidenziare la validità delle rispettive piattaforme programmatiche.

I dibattiti politici si risolvono spesso in uno scambio di accuse ed ingiurie reciproche, e si pensa a demonizzare l’avversario più che a sostenere un serio contraddittorio che, in un sistema democratico ormai bipolare, costituisce l’essenza stessa del buon funzionamento di un governo.

Ma anche sotto un altro riguardo il pensiero di Tocqueville si rivela connotato con accenti profetici. Anche il tema della religione, che emerge prepotentemente nelle due principali opere dell’autore, torna ai giorni nostri quanto mai attuale, in quest’epoca in cui la "scienza" sembra dominare la morale e la coscienza. I continui appelli del Pontefice a riabbracciare i valori della religione sono lo specchio di una preoccupante situazione di crisi morale che sta vivendo, in particolare, la nostra generazione. È quanto lo stesso Tocqueville riconosceva, indicando invece il merito della democrazia americana nella sua capacità di difendere i valori religiosi, il solo strumento attraverso i quali una società può imporre dei limiti all’arbitrio ed alimentare il sentimento di giustizia, consentendo alle coscienze di distinguere fra forma e sostanza delle stesse leggi positive. Per cui, osservava, quando la religione "perde il suo dominio nelle anime, il confine più visibile che divideva il bene dal male è rovesciato: tutto sembra dubbio e incerto nel mondo morale".(54)

Ebbene, nostro malgrado possiamo constatare quotidianamente quanto fossero valide le indicazioni forniteci da Tocqueville e fondati i suoi timori: il fenomeno del disagio giovanile offre una sconcertante testimonianza in tal senso. La famiglia quale punto di riferimento focale per i ragazzi ha perso il suo ruolo di guida; le cronache sono un susseguirsi di episodi incresciosi, di ragazzi che uccidono i propri genitori ed amici per motivi veramente futili. Al giorno d’oggi i giovani possono godere di tutto, vivendo in un’epoca di relativa tranquillità, tale da consentire di apprezzare le migliorie del progresso. Eppure intimamente le nuove generazioni si dimostrano profondamente insoddisfatte ed inquiete, esposte e disposte ad ogni novità in quanto tale.

Anche sotto questo profilo Tocqueville si è rivelato profetico e lungimirante, in quanto aveva compreso che una ricerca sfrenata del benessere e del soddisfacimento delle proprie pulsioni, se non conciliata ed accompagnata da una solida base morale avrebbe condotto qualsiasi individuo o società allo sbando. Al di là di specifici referenti religiosi, l’intensa spiritualità che promana dagli scritti di Tocqueville indica con chiarezza i termini attuali e perenni per percepire i confini del giusto e dell’ingiusto. Il suo richiamo ad una morale non meramente edonista e materialista risulta ancor oggi una valida ancora di salvezza contro i rischi cui va incontro un’umanità totalmente emancipata da qualsiasi legame e limite. La libertà "assoluta" reclamata al giorno d’oggi come un diritto irrinunciabile non si è effettivamente rivelata sinonimo di agio e di felicità collettiva. Anzi, ha condotto ad un’ "anarchia" degli spiriti che è molto prossima a quell’anarchia popolare che Tocqueville paventava, quale minaccia del tramonto irreversibile del ruolo delle leggi, dei valori dell’etica, del senso della misura.

NOTE

1 Su questa partizione Matteucci chiarisce che si tratta di distinguere rispettivamente nell’edizione del 1835 il Libro I (diviso in due parti), ed in quella del 1840 il Libro II (diviso in quattro parti):

Nicola MATTEUCCI, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura. Bologna, Il Mulino, 1990, p. 182n. I due libri, sono tradotti a cura dello stesso Matteucci, in: Alexis de TOCQUEVILLE, Scritti politici, II. La democrazia in America, Torino, Utet, 1968.

2 ID., La democrazia in America, cit., lib.2, p. 679.

3 Ibidem, p. 679.

4 Ibidem, p. 723.

5 Ibidem, p. 725.

6 Ibidem, p. 730.

7 Ibidem, p. 734.

8 ID., L’assetto sociale e politico della Francia prima e dopo il 1789 in: ID., Scritti politici, I. La rivoluzione democratica in Francia. A cura di N. Matteucci. Torino, Utet, 1969, pp. 204-205.

9 Ibidem, p. 205.

10 Ibidem, p. 200.

11 ID., L’antico regime e la rivoluzione, in: ID., Scritti politici. I., cit., p. 711.

12 Mario D’ADDIO, Storia delle dottrine politiche. II, Genova, Ed.Culturali Internazionali Genova, 1994, pp. 8, 15-16.

13 A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, cit., p. 615.

14 Edmund BURKE, Riflessioni sulla rivoluzione francese in: ID, Scritti politici. A cura di Anna Martelloni, Torino, U.T.E.T., 1963, p. 155.

15 Ibidem, l.c.

16 A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, cit., pp. 612-616.

17 Ibidem, p. 613.

18 ID., La democrazia in America, cit., lib. 1, pp. 62-63.

19 Mauro SESTI - Paolo RAMACCIONI, Secolarizzazione, industrializzazione e benessere in Tocqueville, Camerino, Università degli Studi di Camerino, s.d., p. 247.

20 Si veda la distinzione proposta da Matteucci, qui ricordata nella nota 1.

21 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, pp. 230-231.

22 ID., La democrazia in America, cit., lib. II, p. 647.

23 Ibidem, p. 650

24 Ibidem, p. 650

25 Ibidem, p. 652

26 Ibidem, p. 652.

27 Ibidem, lib. 2, p. 606.

28 Riprendo la citazione (relativa a: TOCQUEVILLE, Voyage en Sicilie et aux États-Unis, in: ID,Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1957, pp. 292-293) da N. MATTEUCCI, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, cit., p. 133.

29 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 209.

30 Ibidem, p. 210.

31 Ibidem, l.c.

32 Ibidem, l.c.

33 Ibidem, l.c.

34 Ibidem, l.c.

35 TOCQUEVILLE, Voyage…, cit., p. 260.

36 N. MATTEUCCI, Il problema del partito politico nelle riflessioni d’Alexis de Tocqueville, cit ,p. 179.

37 Ibidem, p. 180.

38 Ibidem, l.c.

39 Ibidem, l.c.

40 Ibidem, l.c.

41 TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 191.

42 N. MATTEUCCI, Il problema del partito politico nelle riflessioni d’Alexis de Tocqueville, cit , p. 59.

43 Ibidem, pp. 109-121.

44 N. BOBBIO - C. OFFE - S. LOMBARDINI, Democrazia, Maggioranza e Minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 26.

45 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 297.

46 Ibidem, p. 311.

47 Ibidem, p. 311.

48 Ibidem, p. 313.

49 Ibidem, p. 316.

50 Ibidem, p. 314.

51 Ibidem, p. 142.

52 Charles Louis [de Sécondat de la Brède de] MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, vol. II, Torino, U.T.E.T., 1973, pp. 286-287.

53 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 124.

54 Ibidem, p. 363.

 

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