Che la mafia sia un tutt’uno con la storia della nostra terra e del nostro popolo, purtroppo è un dato acclarato da tempo che se pur non ci rende certo orgogliosi, aiuta lo storico a comprendere molte particolarità del nostro modo di vivere e delle scelte passate che hanno inciso sui destini della nostra Isola. Le varie opere di Giuseppe Carlo Marino, professore ordinario di Storia contemporanea nell’Ateneo palermitano, dedicate a tale argomento, ci spingono a soffermarci ancor di più su tale dolorosa ma inequivocabile realtà e ci sollecitano tutta una serie di interrogativi, molti dei quali destinati a rimanere senza risposta, relativi all’analisi di una nostra diversità culturale, più che genetica o antropologica, diversità che una parte degli storici, i cosiddetti sicilianisti continuano a negare. Non si può certo biasimare chi, per amor di patria, per orgoglio e forse anche nella speranza di una possibile via d’uscita dall’interminabile tunnel in cui abbiamo vagato per secoli, vorrebbe convincerci a considerare la mafia siciliana, questa cosa spesso indefinibile che negli anni ha anche assunto denominazioni diverse -. Cosa nostra, Onorata Società – come una delle tante forme di violenza organizzata presenti nelle varie parti del mondo, con dei connotati particolari derivati dalle usanze locali. Secondo costoro la nostra mafia non sarebbe diversa da quella russa, cinese, giapponese, marsigliese, americana, ecc. se non per la terminologia e per la ritualità.
Leggendo il libro di Marino ci si rende conto, tuttavia, che il padrino siciliano, quello almeno della vecchia mafia che subisce una svolta radicale negli anni cinquanta dello scorso secolo, è cosa ben diversa dal gangster americano o dai vari boss marsigliesi, ha una sua sacralità che non sta tanto nel rituale esterno, insomma in quel folklore che ormai troppo spesso vediamo immortalato in film e romanzi di grande impatto popolare e di notevole successo commerciale. La sacralità della mafia siciliana concerne il ruolo dei vari padrini che non sono semplici capi di cosche la cui opera sarebbe finalizzata solo al crimine, ma personaggi dotati di particolare carisma, senza il quale sarebbe impossibile ottenere il titolo di don e convinti di essere stati investiti direttamente dal popolo, che li ha riconosciuti come tali, di una speciale missione, costituita da attività di mediazione, di protezione, di sfruttamento di speculazione, di arbitrato, ma anche di poteri giurisdizionali e dunque punitivi, nei confronti di chi calpesta le regole imposte da tale sistema criminoso. Tale complessa missione avrebbe come fine ultimo, non soltanto l’interesse del singolo, ma la conquista del territorio considerato proprio della nazione siciliana. I padrini, uomini fermamente convinti che la Sicilia è dei siciliani, razza perfetta e non perfettibile paragonabile ad una progenie divina, secondo la definizione di Tomasi di Lampedusa, sarebbero i successori di quei baroni che fin dalla fine della dinastia normanna, respinsero ogni intrusione straniera nell’Isola che consideravano esclusivamente propria, (cosa nostra) impedendo che uno stato si formasse e governasse regolarmente. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, i baroni non volevano sostituirsi allo stato, così come la mafia non ha mai voluto rappresentare l’antistato, essi volevano semplicemente annullare la presenza dello stato per assicurarsi poteri e privilegi che nessuna legge umana avrebbe potuto limitare.
La dissennata politica seguita dalla nostra classe dominante fin dal 1300 e forse anche da prima, politica mirante a costituire nell’Isola uno stato di perpetua anarchia, dove i pochi capaci di comandare potessero impunemente soddisfare i propri interessi a discapito delle moltitudini inermi ed inerti, è del tutto speculare al modo di operare, dal 1861 in poi, dei padrini e dell’organizzazione mafiosa in genere.
Chi ha finora definito la politica della classe baronale e poi della cosiddetta mafia buona, come una forma di antistato, lo ha fatto senz’altro per dare a tali comportamenti quasi una copertura e una giustificazione ideologica. Baroni e padrini, cioè, avrebbero sempre operato e lottato per strappare la Sicilia dalle grinfie rapaci di dominatori stranieri impostisi violentemente alla volontà popolare. Ciò spiegherebbe l’appoggio dato dai baroni e dai picciotti all’impresa dei Mille o il sostegno alla rivoluzione del settembre 1866 o all’avventura separatista del secondo dopoguerra. Le cose purtroppo non stanno così: padrini e baroni hanno sempre combattuto per il dominio del territorio, per impedire che un’autorità statale assoluta e valida erga omnes s’imponesse annullando o limitando, con norme, i privilegi dei potenti.
Analizzando la storia del regno borbonico viene spontaneo domandarsi perché quella dinastia che, perché sconfitta e seguendo la sorte di tutti gli sconfitti, è passata alla storia come ineffabile concentrato di perfidie, indolenza e malgoverno, avesse discretamente operato nel napoletano e in genere nel mezzogiorno continentale dove, peraltro, era abbastanza amata, e avesse invece brillato per la sua assenza nei Domini al di là del Faro. Non furono forse i baroni ad impedire ai Borbone, così come avevano fatto con gli spagnoli prima e ancor prima con gli angioini, di ingerirsi nelle faccende di un territorio in cui erano da considerarsi intrusi? Se pensiamo alle vicende del Caracciolo e del Caramanico ce ne convinciamo sempre più. L’immorale classe dominante siciliana, ricattava i detentori del potere centrale servendosi del popolo come strumento per la difesa delle proprie ribalderie; se i vari Re avessero deciso di prestare particolare attenzione alle cose di Sicilia, esautorando anche in parte i baroni, avrebbero dovuto vedersela con le rivolte del popolo, aizzato dagli stessi a ribellarsi al potere costituito nell’illusione di ottenere condizioni meno miserevoli di vita, ma in effetti usato per la difesa di un assetto feudale che non doveva mutare. Queste rivoluzioni conservatrici, dunque, venivano scatenate per far sì che nulla cambiasse sotto l’ardente e spesso impietoso sole della Sicilia. Come si fa a distinguere tale politica ricattatoria dal comportamento mafioso? Politica che riuscì financo a fermare la rivoluzione francese al di là dello Stretto condannando questa infelice terra a recepire i frutti del naturale progresso politico, sociale ed economico che percorreva l’Europa, con decenni di ritardo e attuando sulla stessa quel sequestro culturale di cui così sagacemente dissertò Giovanni Gentile.
Un popolo abituato all’anarchia e al dominio dei più forti, cioè alla prevaricazione e alla prepotenza, viene naturalmente abituato ad accettare supinamente la mentalità mafiosa, l’individualismo, il rifiuto di ogni tipo di sottomissione a poteri legittimi, la negazione dello Stato. Di conseguenza tutti i siciliani, per dirla come Gaetano Falzone, sono mafiosi,- è una questione di percentuale, - o come affermò dopo lunghi e dettagliati studi Franchetti, sono mafiosi per proliferazione genetica.
Se i baroni furono coloro che determinarono la nascita e la diffusione della mentalità mafiosa, una volta instauratosi uno Stato centralizzato che si sottraeva al ricatto degli stessi, delegarono dei loro fiduciari, i padrini appunto, a gestire la nuova situazione, per riuscire a svuotare il guscio dello stato, pur accettandone l’inevitabile esistenza. Per far ciò bisognava servirsi di delinquenti, briganti, banditi, la manovalanza delle varie cosche mafiose, per trattare con i quali era adatto non più l’aristocratico, ma qualcuno che venisse dal basso e che godesse insieme, della fiducia del proprietario della terra e di quell’esercito di disperati pronto a mettersi al servizio di chiunque pur di elevarsi socialmente ed economicamente. Il padrino, dunque, "era nient’altro che uno dei suddetti fiduciari e mediatori o, meglio ancora, era il titolare delle funzioni di ‘governo sociale conferitegli, per un certo ben limitato territorio, dall’intera comunità dei ‘signori della roba. Egli così ascendeva ad una funzione sociale che ne faceva qualcosa di simile ad un aristocratico della criminalità, una specie di ‘barone’ dei criminali. Da qui il titolo di don preposto al suo nome di battesimo". (Marino p. 17).
Ciò che ha sempre distinto, fra l’altro, il mafioso dal brigante, è l’aspetto; a differenza del brigante, generalmente aitante, originale, spavaldo, vestito in modo da non passare mai inosservato, tendente ad ostentare brillanti o preziosi orologi (quest’ultimo elemento differenzia il gangster americano dal padrino siciliano), l’appartenente a Cosa nostra si presenta modestamente vestito, tende a confondersi fra la folla e deve l’ubbidienza dei sottoposti, o meglio degli amici, non tanto all’ostentazione dei muscoli o delle ricchezze, bensì al suo potere di persuasione ovvero di coazione e di minaccia.
Nel presentarci la storia dei più importanti padrini della storia della mafia, di quelli cioè, che lasciarono un’orma indelebile della loro esistenza, di quelli che potremmo chiamare, paradossalmente, quasi dei caposcuola, l’autore distingue tra i capi della vecchia mafia ottocentesca, la mafia del feudo, come don Vito Cascio Ferro, quelli appartenenti ad un periodo di transizione e di trasformazione, cioè il periodo compreso fra le due guerre mondiali e dominato dal fascismo, come don Calò Vizzini, e quelli che rappresenterebbero la nuova mafia, la mafia americanizzata, dimentica delle antiche regole, della cultura della famiglia e dell’onore, insomma della mafia della droga, del contrabbando, della speculazione edilizia, ma anche della violenza sfrenata dei Bontade, dei Liggio, dei Riina.
Marino dimostra come la mafia sia sempre stata al servizio del potere, liberale con Giolitti, fascista con Mussolini, democristiana dal secondo dopoguerra alla crisi del partito di maggioranza relativa. Dimostra, altresì, che la mafia fu sempre indubitabilmente anticomunista, essendo stati i capi del PCI o i sindacalisti della CGL le sue principali vittime negli anni quaranta e negli anni cinquanta, anzi ipotizza, partendo dalla strage di Portella della Ginestra e dall’equivoco comportamento dell’allora ministro degli interni Scelba, una vera e propria alleanza tra padrini, notabili democristiani, servizi segreti americani, in funzione anticomunista e antisovietica.
Io penso che tutto si possa dire della mafia meno che essa sia un’organizzazione motivata ideologicamente. Il mafioso aborrisce qualsivoglia ideologia o programma politico che lo irreggimenterebbe e che lo priverebbe della suprema libertà a cui aspira, libertà di agire nella maniera più opportuna per il conseguimento dei propri interessi e per il dominio del territorio. è vero la mafia fu sempre feroce avversaria dei comunisti, ma sol perché essi non ebbero mai il potere e perché erano portatori di un programma fondato soprattutto sulla soppressione di quel diritto di proprietà, la roba, a cui nessun contadino siciliano, e i padrini non erano altro che contadini arricchiti, astuti gabelloti, rinuncerebbe mai. D’altra parte il maggior impegno della mafia nel secondo dopoguerra fu quello di combattere quella riforma agraria, fatta dalla DC, e non potendo impedire che la legge venisse promulgata, la mafia studiò una sua originale strategia di intervento: entrare nei gangli della macchina burocratica, ottenere per i propri uomini incarichi nello stesso ente che avrebbe dovuto applicare la riforma, l’EAS, incarichi tramite l’intermediazione di politici corrotti o semplicemente impauriti, e operare dall’interno del sistema per renderlo inefficace. D’altronde se veramente la mafia si ponesse per scelta ideologica da una parte politica contro un’altra, non si spiegherebbero le migliaia di voti che essa dirottò verso i radicali o i socialisti, negli anni ottanta, o la percentuale bulgara con cui Orlando venne eletto la prima volta, nel ’95, con grande seguito da registrarsi nei quartieri più mafiosi di Palermo come la Kalsa o Sant’Erasmo. Ciò non vuol certo dire che Pannella, Martelli od Orlando fossero dei punciuti, cioè dei mafiosi, né che lo fosse stato Crispi ai tempi in cui raccolse voti in ambienti non certo raccomandabili, significa solamente che, nel primo caso la mafia fece votare Pannella per dare un avvertimento al partito di maggioranza, nel secondo caso semplicemente si decise di votare Orlando, malgrado egli si fosse presentato come un vero paladino della lotta antimafia, perché egli sarebbe stato l’incontrastato arbitro della vita politica palermitana, colui che a Palermo avrebbe fatto affluire fiumi di finanziamenti di cui i più spregiudicati avrebbero certamente saputo approfittare. La mafia ha sempre avuto uno speciale fiuto nel subodorare da quale parte spirasse il vento del potere e dopo aver fiutato è sempre stata pronta a saltare sul carro del vincitore: di Crispi, di Giolitti, di Vittorio Emanuele Orlando, di Mussolini, di Fanfani, di Rumor, di Andreotti, di Berlusconi e così via.
Una situazione particolare si ebbe con il fascismo, sia perché stranamente i padrini non riuscirono a prevedere il trionfo politico di quel giovane capopopolo di cui, poi, intimamente diffidavano per il suo passato rivoluzionario, sia perché una volta compresa la direzione del vento, si vietò loro di salire sul carro del potere. Lo provano i continui scioglimenti, prima del ’24, delle varie sezioni del PNF nei paesi dell’entroterra palermitano e delle Madonne, per infiltrazioni di elementi mafiosi, come diremmo oggi (Tricoli, Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo 1993) e la inarrestabile campagna antimafia condotta dal prefetto Mori, per volere del capo del fascismo, dopo aver constatato il potere di quella criminale organizzazione durante il suo viaggio nell’Isola nel 1924. Non si può certo negare – anche molti storici d’estrazione marxista lo riconoscono – che il fascismo fu l’unico regime che volle combattere la mafia e che la combatté con successo, non tanto per motivi moralistici, quanto perché un regime totalitario non avrebbe mai ammesso l’esistenza di un altro potere in alternativa al proprio e perché, agendo al di fuori delle garanzie costituzionali, possedeva gli strumenti per rompere il muro di omertà che da sempre aveva reso impenetrabili i segreti di tale nefanda associazione a delinquere. è anche possibile che elementi vicini alla mafia come il barone Sgadari, puntando sul loro retaggio nobiliare o su influenti amicizie politiche, riuscissero a riciclarsi come ardenti fascisti della prima ora ed ottenerne riconoscimenti ufficiali, ma si trattò indubbiamente di casi isolati, visto che la quasi totalità dei padrini furono arrestati, o costretti a fuggire o ridotti all’impotenza, salvo ad essere poi riportati al vertice della piramide del potere dalla spregiudicata politica degli invasori americani.
La mafia a noi più vicina, per intenderci quella dei Greco, dei Riina e dei corleonesi in genere, non ha prodotto dei veri padrini, secondo l’antica tradizione, ma soltanto dei sanguinari boss che nulla hanno a che fare, secondo l’autore, con la ieratica sacralità dei vari Cascio Ferro, Vizzini, Genco Russo o Navarra."[... ] di solito rozzi brutali per mentalità e temperamento, scriteriati ed avventurieri, improvvisatori e quasi sempre maldestri nel gestire i rapporti con il mondo politico, esibizionisti di una forza selvaggia insofferente ad ogni controllo, fuorilegge senza scrupoli dediti ad affari di morte, ladri tenaci e rapacissimi e soprattutto, efferati assassini, essi rappresentano una strana versione urbana del vecchio brigantaggio siciliano delle campagne ibridatosi con le "moderne" suggestioni e aspirazioni ad una facile ricchezza. Sono, in breve, rappresentabili come violenti parassiti e razziatori della società urbana, ovvero della cosiddetta " società dei consumi" del secondo dopoguerra". (Marino pp.447-448). Lo status di padrino "era oggettivamente inarrivabile per i Corleonesi che forse neppure ne avvertivano l’istanza e, vincolati com’erano quasi tutti alla loro invincibile natura brigantesca, nient’altro avrebbero potuto aspirare a conseguire per il coronamento delle loro carriere se non una turpe ed elementare autorevolezza da boss, rimessa in gran parte alla capacità di terrorizzare gli avversari con pratiche gangsteristiche all’americana. Nessuno direbbe oggi " don Luciano" per riferirsi a Liggio o "don Giovanni" per riferirsi a Brusca, mentre dire "don Totò" parlando di Riina, pare soprattutto rispondere ad un’implicita istanza di ridicolizzazione del macabro e del mostruoso, un po’, se si vuole, sulla stessa lunghezza d’onda, e con lo stile, dei noti filmini dedicati alle avventure della famiglia Adam’s" (Marino p. 448).
Non possiamo esimerci dal sottolineare la liricità e il gusto del racconto esposto con una prosa ricca di frizzante umorismo e di impeccabile stile, dei capitoli autobiografici riguardanti il nonno e uno zio acquisito dell’autore; li sottoponiamo alla particolare attenzione del lettore perché in essi, seppur per poco, dimentichiamo la tristezza e la crudeltà di questa nostra cupa e insopprimibile realtà che ci circonda e ritroviamo i caldi colori della nostra terra, i sorrisi e le gustose ironie dell’antico mondo contadino, la semplicità del vivere di un tempo, i forti sapori delle nostre campagne e ci accorgiamo d’un tratto che in Sicilia non tutto è mafia, non tutto è tragedia. Esiste anche la gioia della vita quotidiana fatta di rituali ripetuti da secoli e scanditi dall’arguzia insita in ognuno di noi come in don Peppino Russo, piccolo padrino dei Nebrodi che, avido di attuare il salto culturale che il progresso richiedeva, si pregiava anche di poter vantare fra i suoi nipoti, seppure acquisiti, addirittura un comunista: "[...] Volle addirittura dargli a vedere di preferirlo nettamente al potente nipote democristiano. Nella sua casa accettava ospitalità a Palermo ogni volta che vi si recava per le esigenze dei suoi "affari" negli uffici della Regione o dell’Ente di riforma agraria. Le sue visite reiteravano un rito che, se non fosse stato, forse, casualmente rituale, avrebbe sollevato il sospetto di un accurata preparazione: il doppio bacio a sfiorare le guance, cinque o sei minuti di vezzeggiamenti al piccolo pronipote; poi a tavola, dopo il primo piatto, un breve soliloquio a commento della durezza dei tempi; infine, dopo il pranzo, il rapido assestamento su una poltrona e lì, don Peppino sollevava le braccia all’altezza della testa, quasi in segno di resa e diceva con enfasi, rivolto al nipote socialista: ‘Santoddio!!! Saaanto..dio, Carlo.. che dice l’antimafia?!!?’ (Marino p. 335).
NOTA
* Ed. Newton & Compton, Roma 2001, pp. 496