LA STORIA UMANA DI CALOGERO MESSINA: I VICECONSOLI DI FRANCIA IN SICILIA di Vera Maria Nicosia

1. L’universo dell’autore

Scrittore, storico, poeta, romanziere, autore di racconti di viaggio e dialoghi, studioso di feste e tradizioni, critico di storia e letteratura: difficile classificare Calogero Messina, o stabilire quale sia la base fondamentale del suo scrivere, che unisce alla vocazione dello storico e del narratore quella del poeta.

Nel tentativo di conoscere il Messina, è lo stesso autore a venirci in soccorso, quando, nel suo discorso su "La Poesia", che chiude la raccolta di poesie Sodalitas (Palermo-São Paulo, 1999), dichiara: " se volete conoscere l’anima di un uomo, non cercatela nei suoi gesti, nelle sue azioni, ma nelle sue espressioni sincere, nella sua poesia".

Che cos’è la poesia per il nostro autore? "La poesia è riposo, sogno, è evasione dall’impegno, dall’interesse, dalle lotte". Allora, ci verrebbe da dire, essa è soprattutto passione. Una passione che, nel caso del nostro A., si riversa sulla realtà del presente come del passato, sa rievocare immagini e figure della storia, lascia riemergere la voce dell’ "uomo dimenticato – soprattutto se è dimenticato.".

Oggi non si può più negare che la poesia non è solo scrittura in versi, ma anche e soprattutto quel "peu de temps à l’état pur", come piaceva definirla a Proust, di cui sono intessute le pagine di tanti racconti, saggi, romanzi.

Il nostro A. è riuscito a filtrare la storia nella poesia e attraverso di essa l’ha "umanizzata", attualizzata e resa viva. L’ha liberata dagli scaffali degli archivi per raccontarla a suo modo. La sua maniera di fare storia, l’A. lo dimostra a ogni nuova produzione, lo distingue da quella fitta schiera di "studiosi accigliati" che affollano l’Archivio Nazionale di Parigi o quello del Ministero degli Affari Esteri, e che "non vi cercano altro che i numeri per potere elaborare le loro tabelle e mostrare quello che vogliono e così fare carriera e avere cattedre, denaro e onori" (I viceconsoli di Francia in Sicilia, Paris, 2001, p. 8).

Gli storici "scientifici", infatti, basano i loro studi quasi esclusivamente sulle cifre e i numeri, che ricercano affannosamente nei documenti. Eppure, a ben guardare, la storia non è fatta solo di numeri. "Ma cos’è un numero, una parola senza il contesto?" – si domanda il nostro nelle pagine introduttive del suo ultimo libro, I viceconsoli di Francia in Sicilia (Paris, 2001). Il contesto è proprio quello sfondo storico-sociale che serve a comprendere appieno i fatti, i personaggi e la vox populi di un’epoca.

Immaginiamo per un attimo di escludere dalla storia siciliana del XVIII secolo tutte le feste. Che cosa resterebbe, a un tratto, della politica religiosa condotta dagli spagnoli, e non solo dagli spagnoli, in Sicilia? All’epoca dei viceré la storia passava attraverso le feste e i festeggiamenti: il fasto serviva a celebrare il potere, ma anche a compiacere il popolo, e una festa non era mai esclusivamente religiosa; al contrario, l’occorrenza religiosa serviva da pretesto alla politica.

In Sicilia e Spagna nel Settecento (Palermo, 1986) il Messina, nel tracciare i vari momenti del governo spagnolo nell’isola (nonché di quello sabaudo e poi austriaco), scrive: "Le feste che più piacevano e si ordinavano, dovevano esaltare i regnanti, anche quando ufficialmente erano di carattere religioso e celebravano Dio e i Santi" (p. 30).

La ragione? "Nella festa la gente amava stordirsi, diveniva del tutto incosciente e quindi più docile; per essa si facevano passare le miserie più rivoltanti, persino le atrocità dell’Inquisizione. Ma dietro la festa c’era un certo fermento. Il pericolo si faceva più minaccioso quando la festa finiva; si provvedeva a sollecitare le attese e i preparativi per un’altra festa" (p. 23).

Senza le feste, la storia della Sicilia non sarebbe stata la stessa. Ora, nei documenti ufficiali e non ufficiali le feste sono testimoniate, ma il compito dello storico consiste nell’interpretare il significato e il ruolo che esse avevano e hanno presso il popolo siciliano. Le manifestazioni della vita associata di un popolo non sono mai slegate le une dalle altre; è per tale ragione che una festa può aver rivestito un significato pari a quello di una sommossa popolare, tanto più che quest’ultima imprestava all’altra l’apparato organizzativo necessario alla sua esplicazione.

Lo storico, pertanto, deve fare, non una "storia da manuale" che tenga conto solo degli eventi e dei "grandi", ma anche e soprattutto una "storia umana" che, nell’affrontare temi quali le relazioni commerciali tra i paesi, non trascuri, per esempio, "i viceconsoli, i naviganti, i negozianti e mercanti" e non dimentichi che "i fatti meno conosciuti non sono i meno importanti e il gesto di un anonimo della folla può essere indicativo della prevalente condizione di una società in un momento della storia, a volte più delle azioni dei grandi protagonisti." (p. 58). E’ quello che per l’appunto fa il nostro autore. E non pago di unire alla consultazione delle "carte" la conoscenza delle usanze, delle feste, delle tradizioni dei popoli dei quali scrive la storia, inserisce nel racconto anche i versi che dettarono ai poeti del tempo le vicende di cui essi furono spettatori e attori a un tempo.

Scrive il Messina: "Il dominio della poesia è diverso da quello della storia; è più filosofico e più elevato, come sosteneva già Aristotele: la poesia tende a rappresentare l’universale, la storia il particolare, ma – aggiunge Messina – si può filtrare nella poesia. La poesia è estrema sintesi, dunque più vera della scienza. E dove non arrivano né gli storici né gli scienziati, arrivano i poeti" (Sodalitas, p. 111).

Quando cominciai a occuparmi di Calogero Messina, in principio anch’io, come forse altri, ebbi la tentazione di volerlo classificare. E’ più poeta o storico? – mi chiedevo – E se è più poeta, che genere di poeta è, data la molteplicità dei soggetti delle sue poesie? Poi, dopo un’attenta lettura delle sue opere, mi resi conto di quanto fosse inopportuno, se non addirittura fuorviante, cedere a quella tentazione, perché il nostro A. è quello che in Francia, sua patria d’adozione, si direbbe un "irrégulier des lettres".

Ma se dovessi presentarlo al grande pubblico con pochi termini ben congegnati, prenderei in prestito da Salvatore Vecchio una frase con la quale egli lo dipinse nel titolo di un articolo apparso su "Spiragli" (luglio-settembre 1989): Calogero Messina scrittore delle attitudini umane, in quanto fondamentalmente un osservatore attento dei comportamenti umani. Ma già l’autorevole Giovanni Allegra nel 1986, in un articolo sul citato libro Sicilia e Spagna nel Settecento, pubblicato ne "Il Giornale" (7 settembre 1986), sottolineava il fatto che "l’autore documenta spesso fatti o attitudini mentali".

Questa particolare vocazione del nostro A., evidenziata, tra gli altri, anche da Pierre Grimal in una lettera inviata al Messina nel 1979, è in armonia con i più recenti orientamenti storiografici che in Francia hanno visto affermarsi autori come Jaques Le Goff e Georges Duby, fra i massimi storici del XX secolo. Le opere di Duby sanno leggere al di là degli eventi per cogliere la liason esistente tra i grandi fatti e il quotidiano. Dichiara lo stesso autore, nella prefazione alla Histoire de France (1970): "..in Francia cominciano a prender piede un’archeologia della vita quotidiana e le premesse di un’antropologia del passato, e ci si preoccupa di mettere a fuoco gli atteggiamenti mentali e i comportamenti dei contemporanei di Clodoveo o di San Luigi, di Richelieu o di Robespierre.."

Al centro dell’interesse del Messina è l’uomo nel suo relazionarsi con la storia, la cultura, la vita. L’A. guarda all’uomo nella sua totalità e nelle sue diverse attitudini: ha dedicato poesie "Ai poveri" (Sodalitas), agli uomini comuni che s’incontrano la mattina per la strada, con le loro difficoltà e i loro bisogni sempre nuovi e sempre identici nel mutare dei tempi e dei governi. Si è soffermato anche sui protagonisti della storia, ma senza dimenticare i veri grandi del passato, i poeti greci e latini che sono alla base della nostra civiltà ("Ricordo di Tito Calpurnio Siculo", "A Publio Ovidio Nasone"); ha fatto rivivere l’atmosfera classica nei suoi epigrammi greci, anch’essi contenuti in Sodalitas. Questa parola, sodalitas, ha per il nostro A. un significato che va al di là della convenzionale traduzione letterale di "compagnia, conversazione" o "vicinanza". Come ha scritto Claudia Giurintano in una sua recensione alla raccolta del Messina ("Rassegna siciliana di storia e cultura", aprile 2000), "Sodalitas richiama l’idea più ampia di humanitas, di condivisione del sentimento di umanità". E’ quel brivido che ci assale e c’inebria di fronte all’arte di un uomo del presente come del passato. E’ una sorta di "affinità elettiva" che mette in comunicazione spiriti di epoche diverse o lontane, trascendendo le categorie del tempo e dello spazio. Sodalitas non è il furore poetico e tuttavia spesso stimola e favorisce la creazione artistica. Non per nulla Proust, che fu un grande amante dei libri, definiva la lettura "l’incitatrice dont les clefs nous ouvrent au fond de nous-mêmes".

La poliedricità del Messina già emerge scorrendo i titoli delle sue poesie. In Sodalitas diversi componimenti c’immergono nell’universo delle rimembranze del poeta, altri sono ispirati da avvenimenti storici ai quali l’A. riesce ad assistere nonostante il tempo trascorso ("Per il ritorno degli spagnoli"), altri ancora da esperienze di viaggio ("Sotto il cielo di Grecia", "Amburgo un anno dopo un anno", "Una notte a Toledo", "Notte alla Bastiglia") o da letture giovanili ("A Giacomo Leopardi"). Anche le emozioni più quotidiane costituiscono lo spunto per una poesia, come in "Solo", dedicata al gattino morto, a dimostrazione del fatto che la poesia non ha bisogno di un argomento aulico per germogliare e, come la ginestra, travalica i limiti circostanziali e fiorisce.

2. I viceconsoli di Francia in Sicilia

(Librairie-Galerie Racine, Collection "Les feux de l’histoire", Paris 2001)

I libri del Messina hanno il fascino della scrittura suadente, la pregnanza della narrazione nobilitata dalla poesia. Lo storico potrà forse fare a meno di essere poeta, ma invano lo scrittore tenterà di raggiungere le vette del "bello stile" ove non sia anche poeta. Scorrendo i titoli delle opere dell’A., si nota una varietà di generi letterari e argomenti che vanno dal mondo classico – la monografia storica T. Calpurnio Siculo (Padova, 1975), i commenti al De senectute di Cicerone (Palermo, 1975) e al De otio di Seneca (Palermo, 1976), le antologie Humanae voces (Palermo 1976) e Maiorum voces (Palermo, 1990) – alle tradizioni, alla cultura e alla storia della Sicilia e del suo paese d’origine in particolare, S. Stefano Quisquina – S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo, 1972), Lu recitu di S. Stefano Quisquina (Agrigento, 1973), una raccolta di canti popolari della Settimana Santa, l’antologia poetica Voci di Sicilia (Agrigento-Palermo 1973), Il caso Verga: "I Malavoglia". Se si vuole ricominciare... (Agrigento-Palermo, 1976), Il caso Panepinto (Palermo, 1977), Giordano Ansatone in Sicilia (Agrigento-Palermo, 1980), Giuseppe Ganci Battaglia Poeta delle Madonie (Palermo, 1981), Figure siciliane (Palermo 1982), Immagine della Sicilia (Palermo 1983), Sicilia 1943-1985 (Palermo, 1985), Una chiesa nel cuore. La Matrice di S. Stefano Quisquina (S. Stefano Quisquina 1987), Jordanus non est conversus retrorsum (Roma, 1998) –, dalle relazioni tra siciliani e spagnoli – il diario Viaggio in Spagna e Portogallo dalla Sicilia (Palermo, 1981), i saggi storici Il viceregno di Spagna in Sicilia e Messico (Palermo, 1985) e L’Inquisizione di Spagna nell’America Latina (Palermo, 1993), la monografia storica Sicilia e Spagna nel Settecento (Palermo, 1986) – fino ad arrivare ai romanzi storici Volevano l’Inquisizione (Roma, 1992) e I vendicatori (Rimini, 1995).

Un cenno a parte meritano gli scritti del Messina sugli autori francesi, spagnoli e italiani del Settecento, visti alla luce del loro rapporto col mondo classico. Superando un vecchio cliché che vorrebbe illuminismo e classicismo antagonisti, l’A. piuttosto li accosta, rintracciando negli illuministi francesi i segni per nulla affievoliti del classicismo. Montesquieu e l’antichità greco-romana (in "Atti della Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo", 1975-76), Voltaire e il mondo classico (Palermo 1976), La Mettrie e Diderot. Antagonisti, ammiratori di Seneca (in "Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo", 1978-79), Settecento italiano classicista e illuminista (Palermo, 1980) e Umanesimo nella Spagna "ilustrada" (in "Boletín de la Biblioteca de Menéndez Pelayo", 1981 e 1982) hanno suscitato un vivo interesse nel mondo degli storici più autorevoli, come Pierre Grimal, Helmut Koenigsberger, Adam Wandruszka.

Ma eccoci giunti in Francia, e naturalmente a Parigi, dove, ormai da qualche anno, Messina è di casa. Ultima sua creazione, I viceconsoli di Francia in Sicilia: un libro estremamente coinvolgente, che ha ricevuto un’attenzione particolare in Francia, e non è un caso che sia stato pubblicato a Parigi, ispirando la creazione di una nuova collezione, "Les feux de l’histoire", fatta su misura per il nostro autore. Il libro narra la storia dei viceconsoli francesi che vigilavano sul commercio con la Sicilia durante il Settecento. È un racconto fresco e appassionato delle loro vicende. Ma attenzione! Anche se "cela ressemble à un roman", come è stato scritto, non c’è nulla d’inventato, ogni cosa è documentata, ogni riferimento è rintracciabile fra le carte AE/B1 e B3 dell’Archivio Nazionale di Parigi e della sottoserie "Naples" dei "Mémoires et documents" e della "Correspondance politique" dell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri. Non inganni dunque l’impianto narrativo del testo: sotto c’è la storia.

Ma questo racconto, che a me piace definire "la storia umana", presenta un aspetto formale fortemente innovativo nel settore della ricerca storica: I viceconsoli è un’opera originale anche per la mancanza di note. E non è certamente, questa, una scelta casuale o un segno della pigrizia. Lo scrittore ha volutamente tralasciato non il metodo classico di ricerca delle fonti, ma il meticoloso riferire e ossessionante rendere conto del lavoro al lettore. Come ha evidenziato Lucio Zinna, "Messina – fedele ai documenti – ha preferito adottare il più agile e coinvolgente modulo narrativo del racconto-verità (o del romanzo-saggio), che ha vari e illustri precedenti: dalla manzoniana Storia della colonna infame a Morte dell’Inquisitore di Sciascia, passando magari attraverso la Storia universale dell’infamia di Borges, per la sua valenza stilistica" ("Stilos", 16 ottobre 2001).

Nei Viceconsoli, anche per l’originale modulo narrativo, è una "nouvelle histoire que Messina nous propose", finalmente senza quelle note che "disturbano il racconto e interrompono il discorso di chi sta parlando", come l’A. stesso dichiara nel Prologo. Una felice intuizione del Messina che, d’altra parte, anticonformista com’è, non tiene al giudizio degli storici "scientifici" e degli addetti ai lavori, come quelli che ha incontrato di persona negli archivi e che il computer ha "incretiniti": "Individui incapaci di un’idea, i più ottusi, usando il computer, si sentono importanti". "Agli storici scientifici occorrono i numeri per i loro calcoli con le formule algebriche; non serve tutto ciò che non può essere computerizzato: nulla sono per loro i dettagli, che spesso sono le cose più importanti".

Questi "studiosi accigliati" hanno la stessa aria grave della donna che deve "mostrare il grugno per essere considerata morigerata". Nel Prologo l’autore, cui certo non fa difetto l’ironia, ci regala una bellissima comparazione tra le donne siciliane e quelle francesi che, diversamente dalle prime, "ti sorridono [...] perché in Francia la donna sorride ed è più seria che in tanti altri paesi in cui non sorride". Il "grugno" che lo scrittore osserva invece nelle donne di Sicilia sembra fare pendant con le barbe di quegli studiosi giunti a Parigi da ogni parte del mondo, che restano delusi se non trovano ciò che avevano in mente di trovare e hanno la tentazione di inventarlo per poi spacciarlo "affastellato e con lunghissime note, che nessuno leggerà: infatti oggi si mettono spesso alla fine".

Contrariamente a ogni aspettativa, gli Archivi di Parigi, dove il nostro si trova, non ostentano un aspetto austero: "Per altro anche qui si sente un’aria allegra, di festa, all’ingresso, nei corridoi, nelle sale: anche qui dentro c’è la gioia di vivere a Parigi". E gli uomini della gendarmerie, "diversamente da quello che accade in molte parti del mondo, in cui lo stare muti o quasi è la norma, ti salutano affabili e conversano, sorridono anche, senza nulla togliere all’austerità del luogo e alla dignità dei loro compiti". Senza che il lettore se ne sia reso conto, l’A. gli ha somministrato un’analogia "filée" tra l’atteggiamento degli storici "scientifici" e l’espressione del volto della donna siciliana col suo "grugno", come a dire che la gentilezza e il "bello stile" non escludono affatto la serietà né di una donna né di uno storico.

Ma lasciamo il Prologo per entrare nel vivo del racconto. Il libro si compone di quindici capitoli, ciascuno dedicato a un momento storico o, più spesso, a un viceconsole o ad altro personaggio. I primi due capitoli c’immettono subito nel contesto storico dell’isola, disegnando la vita del popolo siciliano, le tendenze e preferenze e gli atteggiamenti di fronte al commercio.

"Una città da risollevare" è il titolo del primo capitolo, che fa riferimento alla città di Messina. Siamo nella prima metà del Settecento: la città continuava a subire le conseguenze della sua ribellione alla Spagna degli Asburgo; Filippo V, il nuovo re di casa Borbone, voleva premiarla restituendole i privilegi di cui aveva goduto. Di lì a poco la Sicilia, dopo le parentesi sabauda prima e austriaca poi, sarebbe tornata alla Spagna con Carlo III di Borbone, con grande entusiasmo dei siciliani, checché ne possa aver detto Giambattista Caruso dei baroni di Xiuremi, il cui giudizio tuttavia ha condizionato per secoli l’opinione degli storici sulla Spagna. Fu lo Xiuremi, infatti, l’autore della celebre frase: "Venga al governo della Sicilia anche il diavolo, pur che non vengano li Spagnuoli altra volta". Ma era tutto il contrario ciò che traversava il cuore dei siciliani: non si contano le acclamazioni per il ritorno degli spagnoli. Anche nei momenti di scontro si udì il grido "Viva il Re e fuori il Viceré!". Ma mai si udì gridare in Sicilia "abbasso il Re!" o "abbasso la Spagna!", sebbene non mancassero i fautori della Casa d’Austria.

Il 1734 fu l’anno dell’insediamento del re Don Carlo, anche se questi, di fatto, iniziò a governare sulle Due Sicilie più di un decennio dopo, dal 1746, quando morì Filippo V, suo padre, e salì al trono di Spagna Ferdinando VI, suo fratellastro.

Al centro del racconto del Messina non sono solo le grandi vicende: l’attenzione è rivolta soprattutto alle relazioni commerciali tra la Francia e la Sicilia, ai loro protagonisti, agli uomini che vissero e operarono nell’isola nel periodo preso in considerazione, che va dal 1734 alla Rivoluzione francese e oltre. Al momento dell’insediamento di Carlo di Borbone nelle Due Sicilie, il commercio con la Francia necessitava decisamente di essere rinverdito. Durante l’amministrazione austriaca, infatti, la tensione nei rapporti franco-austriaci aveva influito negativamente sugli scambi del regno con la Francia. E gl’inglesi avevano colto la palla al balzo, organizzando basi commerciali nel Mediterraneo. La presenza del Borbone sul trono di Napoli faceva ora sperare, e a ragione, che fossero da lui favoriti i rapporti con la Spagna e con la Francia. Effettivamente le cose andarono così, ma non grazie alle varie iniziative diplomatiche, agli editti e proclami emanati allo scopo di una ripresa delle relazioni commerciali con la Francia. Anche, certo. Ma, come ho evidenziato in un mio saggio sul Commercio della Francia con le Due Sicilie nel secolo XVIII ("Rassegna siciliana di storia e cultura", dicembre 2000), la ragione essenziale stava piuttosto nell’attrazione reciproca che i due regni, quello meridionale e quello francese, esercitavano l’uno sull’altro. Una fitta rete di interessi li legava. Il regno delle Due Sicilie aveva più seta, più olio, più grano di quanto i mercati, attraverso gl’inglesi e i genovesi, potessero assorbire. Le industrie francesi, dal canto loro, aumentavano la produzione e avevano bisogno di nuovi mercati di sbocco. Alle fabbriche di sapone di Marsiglia occorrevano olio e cenere di soda per sostenere il ritmo sempre crescente della produzione. Le seterie lionesi, lamentava Tanucci, compravano la seta grezza di Messina a due ducati la libbra, per poi vendere alle Due Sicilie il prodotto finito a sei ducati la canna, e spesso si trattava dei panni di peggiore qualità.

Tutti i viceconsoli di Francia in Sicilia lamentavano l’incapacità dei siciliani a gestire direttamente il loro commercio e, soprattutto, la mancanza di un trattato di commercio che consentisse ai francesi di avere nei porti delle Due Sicilie lo stesso trattamento di cui godevano i genovesi e gl’inglesi. Al trattato si lavorò dal 1736 al 1788, ma alla fine esso non fu stipulato, perché il governo di Napoli temeva di alienarsi gl’inglesi. Così i francesi dovettero continuare a pagare dazi più alti, a subire i controlli sui loro bastimenti e quant’altro.

L’elemento risolutore del commercio tra la Francia e le Sicilie fu il contrabbando, al quale i Mémoires e le varie relazioni del tempo fanno spesso esplicito riferimento. Esso rappresentava un elemento di preoccupazione per il governo napoletano, per i negozianti che in contrabbando acquistavano le merci, per i capitani delle navi, per i consoli e i viceconsoli. I contrabbandieri non potevano certo dormire sonni tranquilli: venire scoperti avrebbe significato la rovina. Ma il contrabbando non dispiaceva alla Francia, ché le consentiva d’introdurre nelle Due Sicilie anche i suoi generi di cui era proibita l’importazione.

Col terzo capitolo il nostro autore dà inizio alla serie dei viceconsoli di Messina della seconda metà del Settecento: uno dei suoi meriti, per averla fissata per primo – lo stesso vale per i viceconsoli di Palermo –. Dal 1754 al 1767 fu viceconsole a Messina Jean-Baptiste de Laire d’Estavigny, ché il consolato di Messina era stato declassato a viceconsolato. "Il viceconsole lamentava gli abusi, i capricci, il disprezzo, le minacce che i francesi subivano dagli addetti alla sanità e alla dogana. […] nel porto di Messina i francesi trovavano sempre eccessivi i rigori della quarantena; continuava a protestare de Laire: non si potevano avere nemmeno i viveri, qualcosa per i bisogni più elementari, se non a suon di denaro" (pp. 37-38).

De Laire lamentava le difficoltà economiche dei viceconsoli: "Negava de Laire che vivessero nel lusso i viceconsoli, come poteva sembrare. Chiedeva pertanto nuovi aiuti al Duca de Praslin" (p. 42). Non solo i viceconsoli non godevano di uno stipendio fisso, ma non erano tutti trattati allo stesso modo ed erano soggetti all’andamento delle vicende commerciali e all’esito delle infinite controversie.

A de Laire successe de Marigny nel 1767, ma fu destituito l’anno successivo per aver lanciato false accuse contro Lallement. Nel 1768 fu nominato viceconsole di Messina Pierre Armény de Bénezet. Fu un uomo esemplare, tanto che a lui ricorrevano non solo i francesi, ma molte volte anche i messinesi, quando si verificava una lite, una contesa. Durante il suo viceconsolato "nessun officiale di spada o di toga, nessun uomo di manforte, nessuna guardia della dogana reale o delle imposte poteva salire a bordo dei bastimenti francesi" (p. 53). Armény conosceva bene sia i francesi che i siciliani: "Non esisteva, ripeteva Armény, un popolo più vanitoso, più orgoglioso di quello siciliano". Secondo lui inoltre, "nelle Sicilie tutto era fatto apposta per inquietare, gabbare e rovinare gli stranieri" (p. 54).

I viceconsoli si ritrovavano anche a dover fare i conti col ministro Tanucci – a lui è dedicato il quinto capitolo –, che del commercio dei francesi in Sicilia aveva un’opinione tutta sua. Egli infatti "considerava bassi i diritti che i francesi pagavano per introdurre i loro drappi; si dovevano dunque aumentare, altro che diminuirli!" (p. 57). Questo perché il Tanucci non voleva incoraggiare l’importazione nelle Due Sicilie delle manifatture francesi, che riteneva "il danno maggiore per le Sicilie". Così, quando in Francia fu emanata una legge che imponeva ai bastimenti stranieri il 10% sui noli, Tanucci pensò di adottare un provvedimento analogo nel regno, tanto più che "i bastimenti stranieri non portavano nelle Sicilie che generi di lusso, di cui si sarebbe potuto fare a meno; anzi sarebbe stato un bene eliminarli", dal momento che essi servivano solo a soddisfare la vanità "delle femmine e dei giovani scioperati" (p. 62). Figuriamoci quale potesse essere la sua opinione sul famoso trattato commerciale voluto dai francesi e mai realizzato! Come leggiamo nei Viceconsoli, "il ministro si teneva alla cappa e faceva orecchi da mercante o rispondeva che non s’intendeva di commercio, che aveva paura di sbagliare" (p. 58).

Il Trattato di Parigi (1763), a seguito della guerra dei Sette Anni, non fece altro che avvantaggiare ancora di più gl’inglesi a scapito dei francesi. E nonostante ciò, il commercio franco-siculo e franco-napoletano continuò, regolarmente o in contrabbando. Trovavano assurdo i francesi che in un regno governato dai Borbone, dove in un certo senso giocavano in casa, fossero trattati peggio dei loro concorrenti. Addirittura, quando nel 1775 fu abolita la quarantena in Sicilia, "a Milazzo e in altre parti della Sicilia […] si continuava a imporla ai bastimenti francesi con tutti i diritti esorbitanti che essa comportava" (p. 71).

Pierre-Louis Gamelin fu viceconsole a Palermo dal 1746 al 1779, anno della sua morte. Come altri viceconsoli, cercava il modo di accrescere il commercio francese in Sicilia e di vincere la concorrenza inglese. Si rendeva conto che i problemi erano non pochi: "il commercio della Sicilia era quasi tutto nelle mani dei genovesi [...]. Dalle loro mani passavano le drapperie inglesi, le tele della Germania, della Slesia e della Svizzera; loro trasportavano una gran quantità di zucchero che facevano venire da Lisbona, cacao, pepe e cannella che ricevevano dall’Olanda, e altre droghe" (p. 83).

Secondo Gamelin, "il siciliano non era portato al commercio, per la sua diffidenza" (p. 82). Molti porti, inoltre, erano inadeguati a ricevere i bastimenti, come a Girgenti: "Questo perché si era voluto risparmiare nell’opera, diceva Gamelin, mentre Tanucci ne aveva lamentato le eccessive e inutili spese: – Gran ruberie! – ripeteva" (p. 80). Che cosa si doveva fare? Molto: bisognava andare incontro ai gusti dei consumatori, ché "badavano all’apparenza i siciliani" (p. 19), si doveva meglio favorire la navigazione, vendere direttamente i prodotti da parte dei francesi.

A Pierre-Louis Gamelin successe nella carica di viceconsole il figlio Pierre, che fu soprattutto impegnato nella battaglia per l’esonero dei francesi dalla tassa per la costruzione e riparazione delle strade, che dovevano servire ad agevolare i collegamenti all’interno dell’isola e tra i porti e l’interno. A tali opere avrebbero dovuto dare il loro contributo anche i negozianti francesi stabiliti in Sicilia, ma non ne volevano sapere. Credevano di fare già abbastanza per l’isola. Così si rivolsero al viceconsole, il quale presentò un’istanza al Presidente del regno. Niente da fare: i negozianti francesi dovevano pagare, dal momento che l’opera "avrebbe arrecato vantaggio anche ai ricorrenti" (p. 90). Così fu deciso, ma Gamelin ottenne, momentaneamente, la sospensione del pagamento.

Nel 1774 il viceconsole di Francia a Messina divenne Lallement. Anche lui costatava la decadenza della città di Messina. La sua gloriosa produzione di seta era ormai in declino e il divieto d’importazione delle manifatture straniere di seta, d’oro e d’argento non bastava a incentivare la produzione messinese. Anzi, il divieto si rivelò dannoso a tutti, anche agl’interessi del re. Poiché i manufatti di seta di Lione erano divenuti un genere di necessità, di cui nessuno poteva fare a meno, se ne introduceva la stessa quantità in contrabbando. Lallement era convinto che l’abrogazione del divieto avrebbe avvantaggiato tutti, i produttori lionesi, il re che avrebbe percepito più diritti d’entrata, i negozianti siciliani che "erano costretti a sborsare di più per introdurre i loro articoli di contrabbando e col rischio di essere rovinati, se fossero stati scoperti" (p. 98). Ma il governo non cambiò atteggiamento.

Lallement visse insieme con i messinesi la terribile esperienza del terremoto del 5 febbraio 1783, che portò la morte nella città: si contarono circa 700 morti. Il governo approvò delle misure straordinarie per la ricostruzione e furono sospesi i dazi sulla tintura e l’estrazione della seta, ancora una volta per incoraggiare la produzione. Ma nonostante queste provvidenze, la maggior parte della popolazione continuava a vivere nella miseria; tutti vivevano nel terrore: le scosse si ripeterono per quasi tutto il 1783.

"La rivoluzione" è il titolo del capitolo che chiude il libro del Messina. Un capitolo da leggere tutto d’un fiato, nel quale l’autore vive e fa rivivere le reazioni dei siciliani di fronte alle notizie che arrivano dalla Francia. L’eco delle "cose di Francia" giungeva insistente in Sicilia, dove i viceconsoli e tutti i francesi residenti nell’isola cominciavano a preoccuparsi seriamente. La presa della Bastiglia, i massacri, le decapitazioni non potevano lasciare indifferente nessuno.

Scrive il Messina: "Impressionati rimasero tutti i siciliani. Né al sicuro potevano considerarsi i francesi in Sicilia; era pericoloso anche parlare delle cose di Francia" (p.172). Ben presto gli effetti della rivoluzione si fecero sentire sui francesi: il governo di Napoli cominciò col revocare loro la sospensione del pagamento della tassa per le strade, che Gamelin era riuscito a ottenere, e col pretendere i donativi. Le tasse sul commercio che i francesi svolgevano nell’isola erano già talmente vessatorie, specie se paragonate ai vantaggi dei commercianti siciliani, che si comprese bene quale fosse la vera ragione di quei provvedimenti. Gli allora viceconsoli di Palermo e Messina, Gamelin e Lallement, dovettero far fronte a una serie di questioni che finirono col pesare sulla già difficile situazione del commercio dei francesi: furono inviati ordini di espulsione a negozianti, ma anche abati e personaggi di spicco dell’aristocrazia; furono ammoniti dal governo di Napoli e accusati di francesismo, tra gli altri, il Principe di Caramanico e il governatore di Messina, Don Giovanni Danero.

D’altra parte gli animi dei siciliani, seppure indignati di fronte ai fatti della rivoluzione, non sempre si rivelarono essere in armonia col governo napoletano; basti sapere che, all’arrivo della notizia della decapitazione di Luigi XVI, "a Napoli era stato deciso il lutto, proibiti gli spettacoli teatrali; a Palermo si faceva festa in casa del viceconsole Gamelin" (p.189).

Non mancavano, naturalmente, gli avversari della repubblica, il cui stemma in Sicilia fu più volte insultato e, fatto di gran lunga più grave, "le porte di diversi negozianti francesi si trovarono segnate con un segno di croce" (p. 189). Ci fu pure chi, sotto il pretesto dell’avversione del governo di Napoli e l’impressione suscitata dai fatti di Francia, voleva innescare una reazione popolare. L’opinione dell’architetto francese Léon Dufourny era che "il popolo, scontento dell’alto costo dei generi di prima necessità, non cercava che un pretesto per dare inizio all’insurrezione e anzi lo aveva trovato nei francesi" (p. 190). Infine, il 7 agosto 1793 giunse notizia in Sicilia della tragica fine di Marat. Successivamente si ebbe la rottura di Napoli con la Francia e fu allora che "tutti i francesi ch’erano in Sicilia, si chiesero quale sarebbe stata la loro sorte" (p. 193).

La sorte del commercio dei francesi, intanto, sembrava segnata da una maledizione. Gamelin stilava tristemente i bilanci poco positivi degli anni della rivoluzione e chiedeva, invano, degli aiuti, ma "il nuovo governo sembrava sordo alle sue richieste" (p. 195). Le parole conclusive del libro ci regalano un’immagine carica di umanità: è quella di un viceconsole sconsolato, che finisce i suoi giorni nella solitudine, in un ricovero dei dintorni di Palermo.

3. Ma era palermitano Cagliostro?

Il libro del Messina offre anche un capitolo molto particolare e per certi aspetti diverso dagli altri, non foss’altro per il personaggio che ne costituisce il soggetto. Sì, si tratta proprio e ancora di lui: il Conte Cagliostro, l’uomo col quale gli studiosi di ieri e di oggi si sono spesso ritrovati a fare i conti. E non solo studiosi di storia, ma anche maghi, avvocati, re, negozianti e gente del popolo. Le vicende di Cagliostro coinvolgono diversi strati della società. Allora come oggi, non ha smesso di stupirci.

Prima del ritrovamento da parte di Messina della relazione dell’avvocato Bivona, contenente l’albero genealogico, l’atto di battesimo, l’atto di matrimonio dei genitori e altri documenti importanti, l’unica certezza riguardo a Cagliostro era il periodo in cui visse, coincidente pressappoco con i regni di Luigi XV e XVI.

Perché parliamo dei re di Francia? Perché la Francia fu una delle sue nazioni. Una, in quanto Cagliostro era solito ripetere che "non era di nessuna epoca e di nessun luogo; che il suo nome era quello della sua funzione e lo sceglieva così come sceglieva la sua funzione, perché era libero" (p. 163). Il capitolo "Ma era palermitano Cagliostro?" svela la verità delle origini del Conte, proprio grazie al ritrovamento del Messina.

Giuseppe Quatriglio, in un articolo apparso sul "Giornale di Sicilia", il 5 luglio 2001, ha scritto che Messina " avrebbe potuto dedicare un intero libro a questa inattesa scoperta" e invece ha scelto di trattare l’argomento in un capitolo del suo libro, ché sempre ha voluto evitare i clamori. In effetti, ci sarebbe ancora tanto da scrivere su Cagliostro, e anche ora che il problema della sua nascita è stato risolto, rimane l’alone di mistero che per secoli ha avvolto il personaggio e che forse non svanirà mai del tutto, se ammettiamo che il mistero è parte integrante del mito e che il mito è magia, e la magia potere, cioè l’altra faccia del divino.

Ho chiesto all’autore, ad alcuni anni ormai dal suo eccezionale ritrovamento della relazione del Bivona, se siano da preferire i piaceri della vita terrena o le ricompense della vita eterna. Mi risponde con un celebre passo di Ovidio: Video meliora proboque: deteriora sequor. La ragione? "Pare che il diavolo attragga di più" – mi dice. Questo spiegherebbe la fascinazione esercitata da Cagliostro, che a distanza di oltre due secoli suscita ancora meraviglia e attrazione. Ma leggiamo quanto, sul momento del ritrovamento dell’incartamento da parte del Messina, riferisce Vincenzo Prestigiacomo, nella pagina dedicata alla scoperta dal giornale "La Sicilia" (21 marzo 2001) – pagine hanno riservato all’avvenimento diversi giornali, fra i quali "L’Ora" (22 aprile 2001) e "La Repubblica" (2 giugno 2001) – : "ci confida: […]‘Una mattina, [...] tra i documenti consegnatimi dagli impiegati, è saltata fuori una memoria giustificativa con allegati autentici sul conte Cagliostro. Non potevo crederci. Mi sono stropicciato più volte gli occhi. Confesso di essermi emozionato ".

Chi fosse realmente Cagliostro e quali fossero i suoi prodigi, potranno i lettori scoprirlo leggendo il prezioso capitolo dei Viceconsoli di Francia in Sicilia. Mi limito a ricordare che aveva fama di guaritore, che le donne portavano la sua immagine al petto come portafortuna, e che avrebbe predetto alla regina Maria Antonietta la disgrazia che l’avrebbe colpita insieme alla sua famiglia, e anche la presa della Bastiglia. Riuscì a entrare nelle grazie del re Luigi XVI, ma poi fu rinchiuso nella Bastiglia e infine espulso dalla Francia; tornò dunque a Londra. Il governo francese incaricò l’avvocato Bivona di effettuare delle ricerche, che potessero svelare la verità sul Conte. E l’avvocato obbedì, andò a trovare un cugino di Giuseppe Balsamo, cercò e trovò le prove che Balsamo e Cagliostro erano la stessa persona. Ma quel dossier il re non volle renderlo pubblico, così rimase sepolto negli Archivi di Parigi, dove il Messina l’ha ritrovato "per caso, cercando altre cose" (p. 171): succede che "a volte subentra il caso e finisce sotto gli occhi ciò che non s’immaginava di potere trovare", ha scritto Silvia Tartamella ("L’Ora", 22 aprile 2001).

Alla domanda "ma era palermitano Cagliostro?" Messina dà una risposta, ma non voglio rovinare ai lettori il piacere della scoperta; nei Viceconsoli di Francia in Sicilia potranno trovare questa e altre risposte.

 

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