Tommaso ROMANO, Futuro eventuale, elledizioni, Palermo 2002, pp. 98.
Due le caratteristiche fondamentali di questa nuova silloge di Tommaso Romano: una, la piena coerenza con la poetica attuata in quelle che la precedono - la trilogia dell'Anacorèsi in particolare -; l'altra, la presenza di peculiarità specifiche, del tipo di quelle che sono naturali nello svolgimento (o evoluzione) di ogni vera personalità poetica e che quindi, mentre non intaccano quella coerenza e ne sono anzi complementari, valgono anche a giustificare una nuova pubblicazione.
I tratti di queste peculiarità li ha chiaramente definiti Salvatore Di Marco (in "Palermo parla", a.V, n.36, p.14); gli elementi della poetica stanno nell'ampia articolazione dei motivi ispiratori e nella struttura del linguaggio.
Il giudizio estetico insegna che i due elementi, nella realtà concreta di un'opera poetica, formano un'unità perfettamente integrata, ma è concetto anch'esso valido che un giudizio critico, se vuole essere attendibile, deve chiarire distintamente gli aspetti dell'uno e dell'altro di questi due elementi.
Così, rileviamo anzitutto che anche in questa raccolta le liriche attingono il loro impulso dal sentimento profondo di una fede cristianamente religiosa che non conosce incertezze perché "il mistero, dice il poeta, illeggiadrisce il meccanico procedere dei giorni, / mentre di sconfinate certezze / è avvolto il cielo del dubbio" (p. 9). Inoltre, "quante parole / per spiegare ciò che non si può, / senza salvezza... per l'Eterno. [...] Misericordia invocando / dalla Croce ombrata [...] Grammatica del Mistero e speranza / per risorgere alla Grazia / che attendiamo, / ogni momento, / lontani dal clamore / nell'intima ed eterna / percezione di pura luce" (pp. 12-13).
Sono versi, scelti fra i tanti in consonanza, che attestano quella volontà di rinunzia all'esercizio della ragione a tutto vantaggio della fede che è una della virtù sapienziali del cristiano. Non è però rinunzia totale perché nell'io di Romano urge pure l'esigenza di indagare sui valori attuali della sfera esistenziale e di rispondere ai tanti interrogativi che l'intelletto tuttavia propone. E se sul piano conoscitivo i dubbi spesso permangono ("cerco ancora, / caparbio, / il mio antico segreto: / la pietra filosofale." p.16) sul piano esistenziale Tommaso Romano è approdato da tempo ad un concetto etico - da ethos come mos e non come criterio di moralità - che gli è tanto caro, ed è quello di un'ideale anacoresi che egli vive nell'interiorità ma al tempo stesso coniugandola con una pratica di vita operosamente e validamente attiva in vari campi, quello culturale più di tutti. E' dunque con piena ragione che Lucio Zinna, per qualificare una vita siffatta, coniò il composto contempl-attiva (vd. il 1° risvolto di copertina).
Nell'ambito di questo amore per la cultura - arte, letteratura, storia, armonicamente fuse in molti dei componimenti di questa raccolta - la poesia è fatta segno a un vero e proprio culto, al punto che nel Nostro Autore l'uomo viene a fare tutt'uno con il poeta.
Dal suo vivere con consapevolezza, infatti, trae cospicuo alimento la sua opera poetica. La cui tematica, dicevo, è ricca di tanti risvolti, alcuni non nuovi, ma in ogni caso pregevoli per la loro novità di trafigurazione. La bellezza della natura, ad esempio, proposta nella luminosa vivacità dei suoi colori a fare da sfondo e contorno all'immortale mito della nascita di Venere, in una lirica (quella di p.17, che bisognerebbe citare per intero) che felicemente 'patisce' la suggestione del celebre dipinto del Botticelli e ancora una volta invera l'oraziano "ut pictura poesis". Altrove (pp. 26-27), della natura intesa come "Creato", cioè opera di Dio, si loda, con animo grato, la capacità di offrire pace all'uomo stanco delle alienanti incombenze cittadine e "liberazione dal patibolante fare" (p.32).
Frequenti sono anche le liriche che appartengono a un'area più strettamente autobiografica e ci consegnano il ritratto di un uomo che ama rivivere intensamente la memoria di vicende ora tristi ora liete e di luoghi vicini e lontani con tutto quello che di formativo gli hanno donato. Emblematiche a tal riguardo due liriche che anch'esse bisognerebbe citare per intero (stanno alle pp.25-27 e 34-36). Hanno il loro nucleo generativo in un ritorno fisico e memoriale alla casa abitata in anni passati, un ritorno che propizia un dolce seppur patetico, quasi 'crepuscolare', abbandono all'evocazione di figure umane molto care, ora disperse qua e là dalla vita o dalla morte ora logore sotto i colpi inesorabili del tempo che "usura, si sa, più dell'usura / da Pound giustamente odiata" (p.34), accomunando impietosamente in una triste condizione, che il poeta rende quasi visibile, persone e cose, qui parti della casa stessa. Per altro, sono rievocazioni che trascendono i limiti dell'individualità e coinvolgono tenacemente il lettore, qui agevolato da maggiore forza comunicativa del linguaggio. Che nella sua qualità predominante è linguaggio tutt'altro che semplice. Siamo, infatti, di fronte allo stile di un poeta che, sensibile nella sua prima maniera ai moduli del futurismo, ne ha poi moderato l'incidenza nel suo esprimersi sia per la naturale evoluzione del suo gusto, sia per l'inevitabile influsso, in quanto figlio del suo tempo, di altri modelli dominanti, conservandone, tuttavia, qualche impronta per naturale propensione verso "le possibilità compositive / inaspettate" (p. 19), che infatti ricorrono qua e là, e in maggior misura nella prima delle cinque sezioni in cui si articola l'agile libro. Non certo a caso il poeta si chiede perché "I parlanti / agiscono in capacità comunicative note?" e risponde: "l'ignoto è l'infinito / senza locativi / obbliganti" (p.15). Ed è parimenti spiegabile che in questo stile espressivo abbia largo posto e un ardito uso la metafora, spesso unita all'analogia: "il volume non circonda la logica / oltre i confini / nuova energia / sprigionante sequenze / di sorgenti luminose" (p. 14). Ne deriva che spesso i lessemi sono straniati dalla loro semantica di base e per altro autonomi o aggregati in brevi sintagmi, spesso asintatticamente giustapposti. Si tratta di un linguaggio che è indizio certo di accesa tensione interiore nella ricerca della meno banale e più ardita possibile risoluzione in parola della idea e del sentimento, un linguaggio senza dubbio difficile soprattutto perché inusuale, un linguaggio, quindi, per lettori provveduti di cui certo stimola energicamente l'immaginativa.
Antonino De Rosalia
Giuseppe PALMERI, Giornali di Palermo. Settimanali d'opinione dal dopoguerra agli anni '80, Palermo - São Paulo, Ila Palma, 2002, pp. 173.
L'autore presenta un rigoroso studio sulla stampa palermitana in un trentennio ricco di riflessioni politiche, con l'intento di "poter considerare in qual modo i fatti dei segmenti di storia, durante i quali alcuni settimanali ebbero vita, si rispecchiarono nelle rispettive pagine" (p. 141).
L'analisi di Palmeri inizia dalla Palermo del secondo dopoguerra, quella ben presente nella memoria di coloro che, appartenendo alla sua stessa generazione, ricordano ancora le distruzioni, le macerie, ma anche il profondo desiderio di vedere finalmente la città ricostruita. Era la Palermo che abbatteva i fasci littori, che riportava sui muri, cancellate o sbiadite, le scritte fasciste, ma nella quale prendere un gelato di scorzonera e cannella al Caffè Ilardo restava sempre un "vero gesto d'amore".
La Sicilia, divenuta da poco autonoma, cominciava a esercitare "le sue potestà legislative ed amministrative" (p. 22) e a dare "mostra di sé" con i suoi cantieri scuola, le colonie estive regionali. Ma quell'autonomia ben presto verrà "tradita" dalla partitocrazia che già, subito dopo le elezioni del 1947, inaugurerà la "subordinazione delle segreterie regionali dei partiti alle rispettive segreterie nazionali" (p. 24).
Tra la fine degli anni '40 e gli anni '50, con alterna fortuna, a "registrare" gli umori dei siciliani, vi furono i giornali "Sicilia del popolo", "La Battaglia" - presso la cui redazione fece le prime esperienze il giovane Renzo Mazzone -, "Sicilia repubblicana", "Avvisatore", "Corriere Espresso", "il Mattino di Sicilia". Più longevo, perché terminerà le pubblicazioni nel 1963, e ancora vivo nella memoria degli intellettuali di destra fu "I Vespri d'Italia" - fondato da Alfredo Cucco - rappresentò lo "specchio", di parte fascista, per la "storia della graduale transizione della Sicilia dal fascismo al sistema democratico" (p. 47).
Il 25 marzo 1957, a Roma, vennero firmati i trattati istitutivi della CEE e dell'Euratom che davano inizio al processo d'integrazione europea. Qualche giorno prima - il 9 marzo - usciva a Palermo "Il Domani" quindicinale politico, economico e sindacale, diretto da Nino Muccioli con Giuseppe Maggio Valveri direttore responsabile. Due anni dopo, sino alla chiusura avvenuta nel 1986, il giornale divenne settimanale. Il suo orientamento era democratico-cristiano e sosteneva alcuni uomini della D.C. tra i quali Bernardo Mattarella, Franco Restivo e Nino Gullotti.
Il 18 gennaio 1959 venne pubblicato il settimanale "L'Unione Siciliana" diretto da Nino Cascio che sosteneva l'Unione siciliana cristiano sociale e l'azione dei governi presieduti dal figlioccio di Luigi Sturzo, Silvio Milazzo (p. 42), il quale, il 30 ottobre 1958 aveva dato vita ad un governo di unità siciliana con democristiani dissidenti, socialisti, missini, monarchici e un indipendente eletto nelle liste comuniste.
La ben nota "operazione" - che trovò le dure critiche de "Il Domani" - fu interpretata come "l'ultimo conato di indipendentismo della Sicilia" sostenuto da quanti "avevano visto in La Loggia" un uomo legato ai monopoli del nord ed alla corrente fanfaniana" (p. 98). Ma Milazzo - come osserva Gabriella Portalone nella sua post-prefazione - passerà alla storia come "l'uomo della scandalosa "ammucchiata" tra la sinistra comunista e la destra post-fascista" (p. 148) e come tutti i "perdenti", annoverato tra "gli spregiudicati e gli ambiziosi" (ibidem).
Il 4 novembre 1961 venne pubblicato il primo numero del settimanale liberaldemocratico "Semaforo". Esso si inseriva nel clima di intenso dibattito politico iniziato nel 1960 con l'esperimento del governo di centrodestra di Ferdinando Tambroni, sostenuto dalla D.C., dal MSI, da alcuni monarchici e avversato dalla sinistra. Numerose erano le firme del "Semaforo" e, tra esse, Marina Pino, Gregorio Napoli, Eugenio Guccione, Egle Palazzolo, Paolo Emilio Carapezza (p. 75). Un mese dopo, il 20 dicembre nasceva "Sicilia Domani", settimanale di politica, economia e cultura, filo-democristiano, favorevole al centrosinistra. Tra i molti collaboratori che testimoniarono "l'impegno di una generazione di siciliani pensanti e costruttivi" (p. 44) vi erano Ferdinando Mannino, Franco Nicastro, Roberto Ciuni, Giuseppe Carlo Marino, Michele Perriera, Melo Freni.
Il 14 febbraio 1965, ispirato dallo studioso Gaetano Falzone, uscì il settimanale "La Rivolta", diretto da Carlo De Leva. Il giornale nasceva un mese e mezzo dopo l'elezione di Giuseppe Saragat a Presidente della Repubblica, grazie ai voti della Democrazia cristiana, del Partito comunista, del Partito socialista, del Partito socialista democratico e del partito repubblicano. Con l'elezione di Saragat - commenta Palmeri - i comunisti, considerati sino ad allora nemici della democrazia "avevano ottenuto il riconoscimento scritto […] di essere perfetti democratici, verso i quali non sarebbe stato giusto operare discriminazioni" (p. 82).
Nell'anno della contestazione giovanile "La Rivolta" terminò la pubblicazione con la consapevolezza "d'appartenere ad un segmento della storia ancora risorgimentale della nostra nazione" (p. 89). Ma un nuovo giornale, proprio in quello stesso anno, veniva alla luce, "Voce Nostra", una testata che si poneva come continuazione di "Voce Cattolica" e, quindi, di "Primavera Siciliana" e di "Eco giovanile". "Voce Nostra" - che ebbe tra i suoi collaboratori Santino Caramella e Pietro Mazzamuto - cominciò la stampa il 7 gennaio 1968 nove giorni prima del terremoto che nella Valle del Belice provocherà più di trecento morti (p. 121).
Il pregevole libro di Palmeri mostra come, al di là delle differenze ideologiche e culturali che contraddistinsero i giornali, essi furono tutti, con la loro "magia delle parole", "scuola di professione, di impegno sociale e di fede in una condivisa appartenenza comunitaria" (p. 142). E tra le righe il lettore coglie la nostalgia per i tempi in cui si provava ancora l'emozione della prima copia e si passava tanto tempo in tipografia per la composizione, mentre oggi, nell'epoca di internet e dei computer tutto ciò sembra solo un lontano ricordo.
Claudia Giurintano
Nunzio BEDDIA, Il giardino di pietra, Ribera, ed. Il Giardino, 2002
Si tratta forse di un giallo? L'inizio lo farebbe pensare. Eppure man mano che si scorrono le pagine ci si accorge che il racconto non ha niente del giallo, anche se fino alla fine si aspetta quel colpo di scena che l'inizio fa presagire. Anche questo come l'altro lavoro di Beddia, E Dio salì sul mio treno, si presenta come la storia di un cuore tormentato alla perenne e insoddisfatta ricerca della verità assoluta o forse, alla ricerca di un Dio che pare a tratti ritrovato, a tratti perduto. L'autore, che è anche pittore, dipinge sulle pagine bianche del libro le sue più intime sensazioni sceverando ogni lato del suo Io davanti a se stesso e davanti agli altri, nella poco celata ricerca di un aiuto. Dico dipingere, poiché i sentimenti e le sensazioni sono descritti con tanta ricchezza di particolari e tanta nitidezza da assumere l'aspetto d'immagini ricche di colori e sfumature che si stagliano nel bianco incontaminato della tela. E raccontando il suo mondo, le sue miserie, i suoi abbandoni, l'autore riesce a raccontare la storia dell'intera umanità. Ciascuno di noi, infatti, si ritrova in quelle immagini e come lo spettatore si commuove davanti ad un'opera pittorica romantica, frutto di possenti passioni individuali, immedesimandosi nelle stesse, così il lettore del libro di Beddia si ritrova in molte delle sensazioni espresse dall'autore, domandandosi perché non abbia i suoi stessi poteri, struggendosi per il desiderio di immortalare l'immagine dei suoi sentimenti, la nostalgia suscitata dai ricordi, le emozioni scaturite dall'amore o dal dolore, su di una tela o sulle pagine di un libro o sui versi di una poesia.
Ecco, secondo me, ciò che ciascuno di noi prova, leggendo questo libro, è quasi un sentimento d'invidia, per chi, pur essendo come tanti altri alla ricerca di qualcosa che plachi il tormento della vita quotidiana, riesce ad esternare i propri sentimenti, esaminandoli con la precisione di un analista, comunicandoli agli altri, ottenendo come risultato quello di farci sentire tutti un po' meno soli, perché la solitudine si supera nella constatazione della condivisione del tormento e della ricerca.
Beddia è un vero giocoliere che ha come oggetto delle sue acrobazie le parole, parole che s'intrecciano secondo una logica tanto razionale quanto evanescente e poetica. Il suo, forse, è il lirismo della razionalità dove la realtà si confonde costantemente con il sogno, la razionalità con la pazzia, lasciandoci costantemente il dubbio su dove stia la verità. Il sogno e la pazzia sono un semplice rifugio contro le intemperie della vita, così come la tettoia del modesto villino protegge l'autore dalla pioggia e dal vento, o sono l'effettiva realtà che ciascuno di noi vive?
E' questa una domanda a cui non viene data risposta nel romanzo, anche se il lettore insegue tale risposta fino all'ultima pagina; ognuno di noi può, tuttavia, trovare la risposta in se stesso, scontrandosi, così, con le molteplici sembianze che assume lo sfaccettato prisma della verità.
Mi ha emozionato il magnifico linguaggio descrittivo dell'ambiente esterno, visibile specchio delle emozioni di chi vi vive. Così il mare, da sempre simbolo di libertà, diventa agli occhi dei vecchietti che si affacciano dalle finestre dell'ospizio, simbolo di segregazione ed impotenza, barriera muta e minacciosa che si erge contro il desiderio di vivere (p. 21) "Le donne erano di numero inferiore degli uomini e lasciavano raramente le stanze. Durante il giorno qualcuna poggiava il viso alla finestra e spingeva lo sguardo nell'unica direzione obbligata: il mare.
Quelle facce che si alternavano ai vetri mi ricordavano la foto di un amico, sulla quale erano ritratti: a destra, in basso, la testa legnosa di un santo colto di spalle, e sulla sinistra, in alto, il viso di una vecchia dietro una finestra. L'impressione era di un muto dialogo tra la donna, resa irreale e opaca dal vetro, e il simulacro del santo che, in quella circostanza, sembrava più vivo e reale di un essere umano.
In quell'ospizio col passare dei mesi, presi consapevolezza dolorosa del tempo che si ferma, che non va avanti e non va indietro, ristagnato come fosse nel suo eterno presente".
L'autore coglie perfettamente l'aspetto più angosciante della vecchiaia, appunto la consapevolezza del tempo che si ferma in attesa di un evento atteso e paventato da tutti: la morte, unica speranza di uscire dall'immobilità a cui è condannato ogni vecchio "dall'aria taciturna e infelice, ma restaurato e lustrato come un mobile antico". (p. 21)
Ciascuno di noi ritrova in quel vecchio la persona anziana a cui più si sente legato, o ritrova se stesso nel presente o in un temuto quanto prossimo futuro. Così come ciascuno di noi ritrova se stesso nella continua richiesta da parte dell'autore di una guida o di un'ispirazione nei segni che gli sono offerti dalla natura circostante, siano essi il raggio di sole che, improvviso e inaspettato, perfora la compattezza grigia delle nuvole, o la danza delle onde nel vento, o la forma assunta dai cirri che si muovono flessuosi nell'azzurro del cielo. L'interpretazione dei segni, retaggio del nostro lontano passato pagano, dimostra la nostra costante insicurezza, la nostra paura a muoverci ed agire senza l'approvazione o la guida d'entità superiori a noi e comunque onniscienti e infallibili. Appunto il lato paganeggiante della nostra terra e della nostra cultura è perfettamente colto dall'autore. Egli lo vede continuamente nell'aspetto di quella cattolicissima Agrigento, magnificamente descritta (p.11), dominata dalla potente influenza delle gerarchie ecclesiastiche e dal partito cattolico, tuttavia inevitabilmente velata da una patina di paganesimo, retaggio intramontabile della cultura greca che la rese splendida tra le città elleniche del mediterraneo.
Ma esiste fra la nostra gente anche il retaggio della cultura araba, emergente, non soltanto dal disordine urbanistico, ma pittoresco, dato dalle strette vie arrampicatesi sulla collina, dalla confusione di stili e d'età, ma soprattutto dall'indolenza degli individui e dalla loro soddisfatta rassegnazione: '[…] non riesco a spiegarmi come mai in tanti anni alcuni problemi non siano stati ancora risolti'. E mi balenò velocissima l'intera vicenda dell'acqua, evidenziata attraverso pezzetti di carta ritagliati con cura e con cura incollati ai cartoni, e a questa attaccate … altre vicende non meno infelici. Fermò le pupille, accordò la sua faccia di familiare strumento ad una risata che tracimava in disprezzo e rispose: 'Per il semplice motivo che i miei concittadini sarebbero presi dalla disperazione … qualora i problemi a cui lei sta pensando, venissero risolti'.' Ma risolti questi, ne sorgerebbero di nuovi '- ribattei, afferrando il significato nascosto del suo paradosso, - ' i suoi concittadini non si annoierebbero certo, la realtà non finisce mai di inventare problemi'.
'Appunto'- precisò lui - 'poiché si tratta di avere a che fare sempre con problemi, i miei concittadini preferiscono quelli che già possiedono. Li conoscono così bene che sanno perfino amministrarseli'. La sua voce era colma di sarcasmo, del sarcasmo che nasce ogni volta che si avverte una verità con imbarazzante rassegnazione. Poi aggiunge: 'È una concezione dell'esistere, una filosofia'. (p.19)
Indubbiamente si erge, al centro di tutto, la religiosità dell'autore, visibile nella sua continua e spesso disperata ricerca di Dio, inteso come salvezza dalle insidie del mondo, ma anche come verità contro le menzogne e le ipocrisie che quotidianamente infarciscono la nostra vita, come giustizia contro l'ingiustizia del vivere, ma riconoscibile anche nel suo malcelato anticlericalismo, nel suo sottolineare i contrasti continui tra la purezza e la semplicità dell'insegnamento evangelico e la corruzione e il fasto imperanti nella struttura ecclesiale.
Infine, vorrei sottolineare l'ampio e pietoso spazio dato alla pazzia, stato mentale da tutti guardato con sospetto e con paura, ma spesso manifestazione reale della nostra interiorità, celata dietro la barriera delle convenienze sociali, nel normale svolgersi della nostra esistenza.
Gabriella Portalone
Andrea DI LEO, Il riassetto urbanistico di Palermo durante l'Amministrazione Spadafora (1929-1933), ISSPE, Palermo 2003, pp. 139
Vede finalmente la luce il volume di Andrea Di Leo sul riassetto urbanistico della città di Palermo negli anni dell'amministrazione comunale del sindaco Spadafora. L'opera, uscita per i tipi dell'ISSPE, su indicazione della direttrice della nostra Rassegna, prof.ssa Gabriella Portalone, ci impone una doppia lettura. Dal punto di vista umano, ci rattrista di non poter gioire, insieme all'Autore, di questa pubblicazione. Ogni volume che viene dato alle stampe è frutto di lunghe ore, di lunghi mesi di costante e silenzioso impegno, passato a ricostruire ed analizzare gli avvenimenti, a comprendere il ruolo degli uomini che ne furono protagonisti, ad individuare gli interessi che attorno a quelle vicende si muovevano, a calare, quelle vicende, nel più ampio contesto al fine di fornire al lettore una ricostruzione puntuale, attendibile, accompagnata da uno sforzo di giudizio e di analisi. Ogni volume che viene dato alle stampe è come un figlio. Un figlio che si regala a tutti, affinché tutti ne possano godere. Ma il papà di questo volume non potrà gioirne, perché ci ha lasciati prima di poterlo lui stesso vedere. Di Leo non solo era ancora giovanissimo anagraficamente, ma aveva quella giovinezza intellettuale che gli consentiva di guardare al passato con intima curiosità intellettuale. Univa a quella giovinezza, un'acutezza intellettuale che traeva forza da una formazione culturale corposa.
Dal punto di vista intellettuale, non si può negare al volume il merito di rappresentare un'ampia e forte ricostruzione della storia urbanistica della città dai tempi dei Borbone a quelli del regime fascista, con proiezioni anche nel dopoguerra. Lungi dal trattare la materia in maniera asettica, il merito principale del Di Leo è stato quello di riuscire a far risaltare, di volta in volta, quali interessi venivano effettivamente tutelati e quali, di contro, colpiti dall'attuazione di questo o di quell'altro strumento urbanistico. In altre parole, il Di Leo riesce ad individuare dove si agì nell'interesse delle generalità della municipalità o dove, al contrario, interessi privati o di gruppi ben individuati prevalsero e si affermarono attraverso l'uso dello strumento urbanistico.
La ricostruzione parte dai tempi dei Borbone. E di Leo riconosce che quelle Amministrazioni operarono al fine di rendere Palermo sempre più simile alle grandi metropoli europee. Critica, poi, fortemente le amministrazioni comunali liberali, che operarono, sostanzialmente, in difesa dei privilegi dei gruppi locali di potere. Critica, anche, la politica delle amministrazioni del primo fascismo, mentre rivaluta quella delle amministrazioni dei primi anni '30, ovvero del periodo in cui, dopo Wall Street, il fascismo abbandonò definitivamente la politica economica liberale e realizzò una politica che andava a vantaggio della piccola borghesia impiegatizia e dei ceti popolari, utilizzando anche gli strumenti della politica urbanistica locale. Conclude, infine l'Autore, con l'analisi della condizione urbanistica di Palermo nel secondo dopoguerra.
Il giudizio generale che emerge, comunque, dalla lettura del volume, supera anche le semplici categorie politiche o ideologiche e si risolve in una generale bocciatura delle classi dirigenti palermitane che, più per scarsa sensibilità artistica e culturale, se non per mero calcolo individuale e di gestione del potere, hanno sostanzialmente mutato il volto della città: "Seppure sembri che ognuna delle tre forme statuali nelle quali, nel corso degli anni, si è organizzata la Nazione italiana, si sia gravata della propria quota di nequizie ai danni del patrimonio artistico-monumentale, non è, a nostro avviso, opera utile scagliarsi sulle colpe commesse sotto una forma o l'altra di Stato. Sarebbe più utile che ognuno per la sua parte si adoperasse affinché, in futuro, non si debba rimpiangere l'eventuale distruzione di ciò che resta del centro storico di Palermo dopo l'azione operata dagli effetti congiunti del risanamento, dei bombardamenti e delle speculazioni".
Enzo TARTAMELLA, Rapito d'improvvisa libidine. Storia della morale, della fede e dell'eros nella Sicilia del Settecento, Trapani, 2002
Sul solco della tradizione degli "Annales" francesi, in un affascinante itinerario che si manifesta originale e pregnante, Enzo Tartamella coniugando acume critico, intuito e grande pazienza nella lettura o, se si preferisce, rilettura, della storia di Sicilia con una disamina attenta, continua e mai disarmante di una gran quantità di documenti degli Archivi di Stato di Trapani, Palermo, Siracusa, ma anche di Firenze, Arezzo, Prato e Ravenna, dell'Archivio Storico Vaticano, degli archivi comunali ed ecclesiastici e delle biblioteche di varie località siciliane, conduce un'interessante e significativa operazione culturale.
Enzo Tartamella non è nuovo ad iniziative del genere, ché anche gli studi e le relative pubblicazioni, per citarne alcuni, sul corallo e sugli usi e costumi siciliani a distanza di anni costituiscono ancora un preciso punto di riferimento della storiografia isolana.
Frequentatore assiduo di sale di lettura di biblioteche ed archivi, ha cavato fuori un'impressionante messe documentaria e ha dimostrato come carte polverose ed ingiallite permettano di ricostruire il "tessuto di una realtà sociale nei suoi aspetti quotidiani più minuti e segreti", come sostiene il prefatore del libro, Salvatore Italia.
Analisi, quella di Tartamella, svolta da un'angolatura particolare: non disamina di eventi, ma profonda analisi dell'uomo. E l'analisi diventa più attenta, come nel caso dei polverosi documenti delle vicarie foranee, con una carrellata, ricca di particolari e di minuzie, su "aristocratici, artigiani di tutte le corporazioni, chierici debosciati, donnicciuole, mercanti con la coscienza in disordine e birbanti d'ogni genere, monache non proprio timorose di Dio, donnazze, frati di grande devozione mistica e preti stupratori; delatori, briganti, nefandari, fattucchiere e malagente di ogni genere". La "presenza di Re, Viceré, Papi, vescovi e potenti arriva in questa pagina come un'eco lontana", il paese legale, evanescente, appena abbozzato, lontano appunto, tanto diverso dal paese reale.
Il titolo del libro? Enzo Tartamella riporta un'emblematica vicenda, quella di un "musico", uno "strumentista", Mastro Joseph Tumbarello, inquisito ad Erice per stupro.
Il Tumbarello per difendersi avanza la tesi della "debolezza della carne", riconoscendo di avere attraversato un momento di abbandono dei sensi e di avere perduto il controllo di se stesso.
Messo di fronte all'evidenza delle prove testimoniali raccolte contro di lui, ammise che un giorno, dopo un lungo periodo di corteggiamenti ed assalti da vero e proprio uomo perdutamente innamorato, in un momento propizio, accecato dall'amore e invasato e travolto dalla passione precipitò nel turbine dei sensi e "rapito d'una improvvisa libidine conobbe carnalmente Maria Sala di detto Monte".
I protagonisti degli avvenimenti ai quali si riferisce Tartamella sono stati "colti nell'attimo in cui stavano commettendo azioni fuori dal comune, con un'implicazione di carattere morale (ed il termine, lo sottolinea l'Autore, va inteso nella sua accezione generalizzata, "che spazia dalla violazione di norme sociali che confinano con il reato giudiziario generico, con lo stupro, la sodomia, a prevaricazione dei più elementari diritti dei poveri, dei subalterni da parte delle classi egemoni").
Storie... "minime", quotidianità vissuta con "tutti i giochi, i piaceri, i sollazzi", avverte Tartamella, "al calar della sera il buio sostituiva l'ipocrisia che di giorno trasformava in una grande recita tutti i comportamenti degli uomini".
Apparenze! Ed il Settecento fu il secolo delle apparenze e "di notte potevano accadere tutti quei fatti che di giorno non erano pensabili... Licenze amorose, turbamento dei sensi e dalle numerose relazioni illegittime e immorali, figli naturali abbandonati nelle "ruote" e per i "bastardi" nei canali di scolo, in aperta campagna, orrido pasto delle belve.
Ma com'era la Sicilia?
Una Sicilia, quella del Settecento, ancora caratterizzata da una "diffusa miseria, da arretratezza materiale, da destabilizzazione politica ed economica" e tutto questo "si riflette nei comportamenti generali che, nonostante l'imposizione di regole morali rigide e severe da parte di autorità civili e religiose, si scatenano con violenta bestialità".
In tale contesto la Chiesa siciliana cerca di porsi come baluardo e punto di riferimento allo scopo di arginare, frenare il decadimento dei costumi e della moralità e detta norme e impartisce precise disposizioni per evitare, ad esempio, stupri, aborti e per difendere soprattutto i nati da matrimoni e unioni illegittime ed abbandonati, i minori oggetto di violenza sessuale.
Ma quale era la rete ecclesiastica siciliana?
Nella sola città di Palermo, che contava allora circa centomila abitanti, operavano 2950 monaci, 3070 monache e 2996 preti secolari, praticamente quasi il 10 per cento della popolazione cittadina era costituita da gente di chiesa. Oltre all'arcivescovado, Palermo annoverava 13 parrocchie, 46 conventi, 6 ospizi religiosi, 121 compagnie e confraternite, 23 monasteri di donne, 18 conservatori di fanciulle, 2 conservatori di fanciulli, 4 seminari, 7 ospedali; Messina, allora la seconda città siciliana con poco più di quarantamila abitanti, oltre all'arcivescovado, ospitava 10 parrocchie, 54 case di religiosi, 17 conventi di donne, 8 conservatori e case pie, 7 romitaggi, 61 confraternite e congregazioni, 2 seminari; a Catania, con una popolazione di venticinquemila abitanti, erano concentrati 19 conventi di uomini, 6 monasteri di donne, 4 conservatori, 14 congregazioni e 37 confraternite, 2 seminari e, infine la curia vescovile "che aveva un particolare rapporto di patronato con la locale università statale, l'unica operante nell'Isola nel corso del Settecento".
Sulla diffusione della rete ecclesiastica nelle altre parti dell'Isola mancano dati certi. Secondo il Leanti, che ne fornisce alcuni, nelle sole 44 città demaniali, comprese Palermo, Messina e Catania, "vi erano 348 fra monasteri, conventi e case religiose varie, cioè mediamente un convento o un monastero per ogni mille abitanti. Non è, quindi, inverosimile supporre che di tali istituzioni in tutta l'Isola ve ne fossero un migliaio e anche più, alle quali si aggiungevano una infinità di chiese e di cappelle, formando con il loro diritto di asilo un'immensa ragnatela di immunità e di privilegi a scapito della società e dello Stato".
Non meno significativa era la situazione concernente la consistenza ed estensione del patrimonio ecclesiastico, altra fonte di immunità e di privilegi a danno del fisco e delle popolazioni.
Il libro insiste su alcuni momenti ed argomenti basilari per tracciare un bilancio consuntivo sulla morale, sulla fede e sull'eros.
In tale disamina un ruolo predominante assumono le donne, alle quali si attribuivano le principali cause di degrado sociale e morale.
Considerate "meno disciplinate" degli uomini, riuscivano ad "indurre indistintamente, nel peccato e nella disobbedienza", i maschi, per i quali, invece, nessuna regola materiale o morale impediva l'approccio con l'altro sesso.
Nella contraddittoria accezione comune, poi, la donna-moglie-sorella-madre doveva essere lontana dal peccato, decisamente asessuata (in quanto la Chiesa considerava erotica ogni pur minima manifestazione dei sensi). Ma nella vita di tutti i giorni le cose procedevano in modo totalmente differente.
Il Papa Benedetto IV esortò gli aristocratici, ed ordinò, con decisione, ai vescovi perché lo imponessero ai parroci, di istituire controlli periodici sulle donne incinte affinché se ne scongiurasse l'aborto e a fondare opere pie per l'accoglienza dei piccoli al fine di sottrarli ad una fine tanto barbara quanto poco cristiana, fenomeno molto diffuso.
A Catania, per esempio, nel 1714 su una popolazione di sedicimila abitanti, operavano dieci istituti che avevano il compito di accogliere donne la cui reputazione era già incrinata.
Alle ragazze prima considerate vittime degli stupri era riconosciuto il diritto di essere sposate, ma successivamente tale "clausola risarcitoria" della violenza subita venne meno. E proprio nella seconda metà del Settecento, su disposizione di un decreto viceregio, gli uomini, accusati di stupro, non sarebbero stati costretti al matrimonio perché "opinabile il criterio della violenza patita, quando poi non ispirata dalle stesse presunte vittime".
I figli, nati da relazioni extraconiugali o preconiugali, visti come il segno e l'essenza stessa del peccato, non erano considerati soggetti titolari di diritti civili; soltanto la Chiesa attraverso opere di carità riuscì a sensibilizzare i governanti, affinché ai neonati venisse riconosciuto almeno il diritto elementare alla vita.
A parte i marchi ed i segnali, come la "misuredda", nastrino che li distingueva sempre dagli altri bambini, i figli illegittimi, venivano denominati "bastardelli", cioè nati da una relazione non canonica e paragonabile alla dicitura usata per un animale, tant'è che in alcune località siciliane venivano anche chiamati muli, ma il segno per eccellenza della diversità dei "figli di ignoti parenti" era costituito, dal cognome che veniva loro attribuito nel momento in cui lasciavano l'opera pia che si era occupata del loro sostentamento. Nella maggior parte dei casi si aggiungeva al nome imposto al battesimo la denominazione dell'istituto.
Per i bambini senza genitori, portati al fonte battesimale, l'arciprete e i suoi collaboratori più diretti usarono due espressioni, impiegate alternativamente, che hanno un preciso riscontro economico-sociale "ex parentibus incognitis" e l'altro più eloquente "ex populo".
Il fenomeno di tali nascite fu talmente notevole che nel Settecento il Papa e il Re di Sicilia attuarono una comune azione allo scopo di evitare numerose eliminazioni di creature appena nate.
Venne istituita la "rota", per assicurare impunità a chi ripudiava i bambini non desiderati: "nelle parrocchie, nei monasteri di suore, negli ospedali aprendo una breccia nei muri esterni o in qualche androne fu creata una nicchia sufficientemente ampia attraverso la quale si poteva posare un oggetto su un piano di legno che era la base di una piattaforma girevole (la ruota) azionando la quale quello che veniva collocato all'esterno senza essere visti poteva essere prelevato dall'interno. Nessun contatto c'era tra le parti e non era necessario parlare".
Precise disposizioni, del 1751 e del 1755, prescrivevano che del mantenimento della "rota" e del sostentamento dei bambini abbandonati avrebbero dovuto farsi carico le municipalità locali.
Per mantenere i nati illegittimi, salvati con il sistema della ruota, la Corona e la Chiesa cattolica si erano fatti carico di istituire, o far istituire, opere pie.
Praticamente il problema veniva affrontato attraverso i proventi derivanti da istituzioni sociali come i Monti di Pietà o gli ospedali, oppure direttamente con l'assegnazione di fondi specificamente destinati dal Re, come avvenne a Palermo con il "Boccone del povero", mentre a Trapani, ad esempio, operava, attraverso un sistema di rendite l'Ospedale Sant'Antonio di Trapani.
Dopo il periodo dell'allattamento, i bambini affidati ad un'opera pia, vi restavano, in genere, fino al compimento dei 18 anni. Maggiore attenzione era riservata alle femmine che, comunque venivano trattenute in apposite strutture e da dove sarebbero uscite soltanto per maritarsi, grazie anche a legati allettanti che ne costituivano la dote e le facevano gradire a quegli uomini che cercavano moglie e non avevano uno status economico tale da fare scelte diverse nella società di allora perché, a loro volta, privi di redditi alti.
L'ammontare della dote poteva ritenersi rilevante dal momento che superava la media dell'ammontare individuale delle doti che la piccola borghesia siciliana assicurava alle figlie. L'intento era quello di incentivare giovani artigiani e operai a pretendere in sposa quelle ragazze che senza quell'incentivo economico rischiavano di restare per tutta la vita zitelle.
E tutto questo per evitare il peggio: il problema angosciante per le bambine appena nella pubertà era il mantenimento della verginità.
"Contro di loro c'erano schiere irriducibili di violentatori e di stupratori che si nascondevano in ogni piega della società: tra gli aristocratici, i borghesi, i professionisti, precettori, maestri artigiani, scorridori di campagna, ladri e predoni, uomini maturi e giovani virgulti e finanche tra diaconi, frati e sacerdoti. Il pericolo di perdere la verginità - cioè l'onore, anticamera della prostituzione, quindi il rispetto della società tutta - poteva arrivare, però, anche da fratelli, cognati, patrigni, padrini e ogni sorta di soggetto a due gambe di sesso maschile. Le cautele e le precauzioni non erano troppe e tutti ne erano consapevoli al punto che le ragazze rinchiuse nei conservatori venivano sottoposte a periodici controlli per verificare se avessero contratto il morbo gallico, una malattia venerea come la sifilide".
Una curiosità:
Dai "Capitoli del Venerabile Ospedale di San Bartolomeo di Palermo", redatti nel 1722, si ha notizia del regolamento organizzativo delle terapie seguite nell'Ospedale per la cura dei malati di "morbo venereo".
I malati venivano accolti in periodi determinati, in base ad una disposizione della "Deputazione dell'Ospedale" diffusa a mezzo di comunicazioni affisse in luoghi pubblici, oppure "con meno pubblicità, anzi con qualche segretezza".
Dopo essere stati ricoverati, gli ammalati venivano suddivisi a seconda che dovessero assumere "siero e purga" o dovessero subire un trattamento di "stufe" o "stufe ed unzioni". La terapia aveva inizio con gli "sciroppi preparanti"; seguivano, se necessari, i salassi praticati dal barbiere al quale l'Ospedale soleva offrire, come ringraziamento, "il rinfresco di biscottini con moscatello o calabrese". Si ricominciava con le purghe e con quattro successivi trattamenti di "stufe", preceduti dalla somministrazione di decotti (a base di "Legno Santo"). Allo scopo di alleviare le ulcerazioni alla bocca, le sudorazioni, le emorragie che si manifestavano dopo qualche giorno di "unzioni mercuriali" venivano somministrati dei "conditi composti d'oro fino, triaca, alchermes, siroppo di pomo appio e lingua bovina". Tali emissioni di sangue, secrezioni ed essudazioni venivano considerate indizi di guarigione.
Ma torniamo al ricovero degli illegittimi.
A Palermo sin dalla propria fondazione il "Monte della Pietà", i cui atti costituiscono gran parte dell'Archivio della Fondazione Culturale "Lauro Chiazzese", si era occupato attivamente delle "Povere verginelle che pericolassero del loro honore et honestà in potere delli loro parenti o d'altro che fossero".
Tali fanciulle venivano ricoverate presso altre famiglie, ma purtroppo, "per la malizia dei tempi", simile rimedio non risultò essere migliore del male, pertanto sembrò una soluzione logica e sicura il ricoverarle in un'apposita casa in attesa che esse prendessero marito o scegliessero la vita monacale.
Allo scopo venne scelta come dimora la sede dell'ex convento di Santa Lucia, sito in Gitemi, vicino a Sant'Agata alla Guilla, nei pressi della Cattedrale. Ma il Santa Lucia non fu solo il reclusorio delle povere verginelle, poiché, col tempo, alla sua gestione vennero aggregate ben altre due opere di assistenza, assorbendo le istituzioni de "La casa delle figliole povere e disperse" e "Il ricovero dei poveri pezzenti".
Con bando del 21 aprile 1627, il Senato e i governatori del Monte avevano di-sposto "che nessuna figliola di età di 15 anni abbasso, vadano et lascino andare sola per le strade di questa città e fora le porte di essa quanto di notte tanto di giorno sotto pena alli patri, matri ed altra persona sotto la cura di cui starà tale figliola che anderà sola per dette strade di onza una"; così pure si invitava "ogni persona che per carità et servitio di Iddio nostro Signore Gesù Cristo che sapranno al presente o per l'avvenire che alcuna persona seu zitella stasse in pericolo della verginità ne voglia dar notizia ad alcuno di detti governatori acciocché possano con ogni sollecitudine conveniente rimediare a quello che parrà servizio di Dio ed evitare quello male che potesse succedere".
Tra l'altro le ragazze dovevano presentarsi alla governatrice del Monte accompagnate da una polizza d'entrata a firma dei 5 governatori e di due fedi: la prima del medico fisico, che attestasse che la ragazza non fosse affetta da infermità non curabile e della fede della levatrice che ne attestasse la verginità".
E perché detta casa non è stata fondata se non solo per il reparo di queste povere verginelle... s'ordina che a nessun modo... si possano in detta casa ammettere né ivi adottare altre zitelle vergini che forse non pericolassero di detta lor verginità, incaricando di ciò la coscienza di detti Governatori... i quali essendo sospetti e dubij di loro verginità debbiano far prima quelle riconoscere da veridiche mammane secretamente e dalli dette viste con giuramento approbare esser vergine e non corrotte acciò advertendo che non abbiano qualche mal contagioso".
Nel 1729, stabilendosi a 17 all'anno il numero delle ragazze da marito, i governatori decidono di ammettere nel Conservatorio ogni anno appunto 17 ragazze, sempre povere, orfane, di anni 10, estraendone a sorte pubblicamente nella gran sala del Monte, 15 tra quelle scelte e presentate dai governatori stessi, alle quali venivano aggiunte due presentate dal Pretore. Ogni fanciulla, ospite della Casa, poteva soggiornarvi sino al suo matrimonio o monacato con una rotazione che consentisse a tutte le fanciulle di trovare ricovero dai "molti spirti maligni che come leoni rapaci cercano per tutte le strade devorare il fiore del proprio lor honore". La casa aveva a disposizione l'infermiere, il medico - è stato ritrovato un libretto a firma del medico fisico Giorgio Gulioso e della governatrice suor Rosalia La Greca nel quale furono annotate giornalmente le fanciulle ammalate e i medicamenti occorrenti: ammoniaca, acqua di rose "pillule", "rodomellis", decotti di vario tipo, a base di sommacco, mirtilli, rose, acacie. Nella disponibilità della Casa anche barbieri "maggiore di 30 anni di bona vita et fame" per "tagliar capelli, cavar sangue, mettere sanguette, cavar denti o ganghe", e di una mammana. Interessante il vitto. Il menù, se così possiamo chiamarlo era stato fissato secondo regole precise, giorno per giorno, con l'indicazione delle varianti nel periodo di quaresima e di feste. Sotto quaresima si mangiavano: tonnina e sarde salate, pesce 2 volte la settimana, broccoli fritti, "passoli", ceci o fichi secchi, castagne, baccalà. Un'arancia al mattino, riso con latte di mandorle, "sfinge" e 6 pasticcini per ogni ragazza, "mustaccioli" a Natale; "cassatelli" per tutto il carnevale, salsicce e cuccia per Santa Lucia.
Un altro particolare degno di notazione: alla medesima opera fu assegnato il "Diritto della bacchetta": fu infatti stabilito che la multa che le meretrici colpevoli di indossare abiti suntuosi dovevano corrispondere al Capitano Giustiziere di Palermo ("Bacchetta", appunto dall'insegna portata da detto capitani) fosse devoluta al Conservatorio di Santa Lucia.
Vicende e protagonisti, dunque, che se certamente non hanno determinato la storia di Sicilia, sono, però, meritevoli di ospitalità nella memoria dei posteri. E di questo dobbiamo essere grati a Enzo Tartamella.
Umberto Balistreri
Nello stress della vita quotidiana, che, talvolta, si traduce in depressione psichica, un "messaggio di ironia" ha un'efficacia maggiore e più immediata di qualsiasi farmaco. A pensarci è ancora Marcello Guccione, esperto internazionale dello sviluppo e impegnato in varie parti del mondo, già docente universitario, poliglotta, che, sollecitato dal successo del suo precedente libro, Amnesy international (Roma, 2001), si ripresenta al pubblico con un agile volume dal sorprendente titolo C'era una svolta (Roma, 2003) apparso, come il primo, per i tipi della casa editrice romana "Pagine".
Ci si imbatte piacevolmente in una serie di racconti, la cui esposizione è fatta di "paradossi, calambour, aforismi, nonsense, satire, freddure", tutti elementi attivi di un'ironia, che non solo coinvolge e travolge il lettore, ma anche introduce un nuovo stile letterario fondato sull'uso e l'abuso di parole, tratte dal linguaggio comune e liberamente interpretate. Guccione, insomma, diverte e si diverte, non senza una velata critica alla circolazione impropria di una miriade di termini che corrompono la lingua italiana.
Riportiamo di seguito, per gentile concessione dell'editore, la Prefazione a C'era una svolta scritta dal noto critico letterario Enrico Vaime e la Introduzione dello stesso autore (u.c.).
"Scrivere è diventato inutile, a meno che non si scriva indecifrabilmente" affermava Flaiano negli anni '60. Era uno sfogo o una sfida? E in che cosa consiste poi l'indecifrabilità della scrittura? Nell'ingannare il lettore con termini depistanti e illogici oppure nel giocare con le parole rivelandone quella potenziale assurdità che è in ognuna di esse a seconda dell'uso, della pronuncia, della collocazione? Esistono delle convenzioni nella pratica della lingua, alcune non scritte, altre affermate dalla ripetitività un po' superficiale. Ci sono ancora scrittori disposti a rimettere in discussione i significati proponendo termini e "rictus verbali" esposti nella loro sconcertante stupidità?
Sì, per fortuna. E Guccione è uno di questi. Non si rassegna alla normalità del linguaggio, non resiste alle doppie - triple letture delle parole, dei modi di dire, delle massime usurate che confortano la vita dei più rassegnati.
Gioca, rimescola satiricamente le tessere del suo puzzle, pratica il suo personalissimo bricolage lessicale, crea una non-lingua più onesta di quella ufficiale. Può essere anche questo lo "stile indecifrabile" di Flaiano? O no: è un metodo per decrittare la stupidità del luogo comune ed esibirlo per quello che può diventare in una prassi seriosa e senza fantasia. Che noia usare i parametri ufficiali senza potere intervenire creativamente!
E allora seguiamo il nostro autore nel toboga del suo luna-park linguistico. Facciamo come lui, prendiamo le parole per quel che sembrano e cioè suoni prima che concetti. La "mangiatoia" personale perché non chiamarla "mangiamia" e quella dell'altro la "mangiasoia"? E chi aveva mai pensato ai problemi di un millepiedi che deve comprare un pied-à-terre? La banana che cade, si sbuccia? La petunia si chiama così perché è solita emanare dei cattivi odori?
Il senso da dare ai nomi e alle parole lo si stabilisce di volta in volta cercando di uscire dal labirinto dell'ufficialità.
Il prestigioso Devoto - Oli, vocabolario fra i più seguiti, diventi (per una volta o per sempre) la Gazzetta Ufficiale dell'italiano parlato. Ma chi si rifugia nella Gazzetta Ufficiale per vivere o sopravvivere meglio?
Non Marcello Guccione né i suoi fans disposti a seguirlo nella sua paradossale farandola, nel girotondo intorno alla comunicazione orale che rimane lì, al centro del gioco, frastornata e, chissà, forse anche divertita da questo momento ludico sopra le righe.
Forse il massimo risultato da questi certami scritti lo si ottiene lasciando via libera alla regressione, liberando il nostro lato infantile dai legacci della piatta (e a volte offensiva) maturità. Anche la medicina, coi suoi sussiegosi e dotti termini derivati da lingue stramorte, non si salva da questo folle, spensierato esperimento: le ferite da colluttazione si curano col collutorio, la vitamina PP è un diuretico, i disegnatori prendono più facilmente la dermatite....
Irresistibile, irrefrenabile, inguaribile Guccione. Cosa non farebbe per farci sorridere! Perfino pubblicare un libro. Anzi due. Perché questo "C'era una svolta" è il secondo.
E non sarà (per fortuna) l'ultimo.
Enrico Vaime
Quante volte abbiamo sentito dire che la vita è una cosa seria. Spesso però succede che alla serietà si accompagna la "seriosità" ossia l'insieme di atteggiamenti, dichiarazioni, iniziative, basicamente serie ma che sono al contempo frutto della grande voglia di farle apparire tali, in altri termini sono serie in modo forzato, sono "seriose".
A parere di molti - "quorum ego" laddove il... quorum è il solo aspetto elettoral-politico dell'opera - questa forzatura va contrastata, con comportamenti e linguaggi quotidiani che valorizzino l'ironia che sta nelle cose ma troppo spesso è celata dentro una gabbia di conformismo, di pretese che per agire bene bisogna trattare ogni cosa in modo drammatico anche se di fatto non lo è, almeno in parte. Ecco allora che guardare la vita col filtro dell'ironia può aiutare a superarne le difficoltà.
Non desidero qui esporre ciò che intendo per umorismo. Personalmente, lo traggo dalla fantasia, costruendo situazioni - che sono quindi surreali - quali quelle esposte nei raccontini che presento. Soltanto dopo aver finito ho cercato di "catalogarli" raggruppandoli sulla base di un tema dominante: credo obiettivamente di esserci riuscito solo in minima parte, giusto per agevolare la lettura, e in fondo mi piace più così, perché tale operazione se fatta con maggior rigore avrebbe forse imbrigliato la fantasia... La fantasia mi ha anche suggerito il titolo del libro e la sua posizione in copertina, che riflette la voglia di "svoltare", di uscire dall'usuale nell'esprimere ciò che si pensa, specialmente se si tratta di raccontare cose che hanno come unico scopo quello di generare qualche sana risata, che è oggi forse più che mai necessaria e i cui benefici sono provati come rilevato dal senso comune e scientificamente dimostrato.
Protagonisti dei racconti sono, oltre che persone, anche oggetti, animali, vegetali, che "vivono" in maniera "umana" i diversi aspetti della vita cioè lavoro, amore, tempo libero ecc. in vicende varie, alcune proprio particolari.
Fatti e personaggi umani sono immaginari mentre è assolutamente casuale ogni riferimento a fatti e persone reali.
Spendo due parole su un racconto, intitolato "Testimonianze da un cimitero" e messo per ultimo.
Fare dell'umorismo sulla morte a qualcuno non piace mentre io la tratto come tanti altri aspetti della vita, forse ... il più certo, e di conseguenza ne faccio oggetto di pensieri, direi di "rielaborazioni", umoristiche. Ovviamente queste persone - che penso siano poche - possono non leggere il racconto. Ritengo che ciò non cambierà il giudizio su tutto il libro, che spero positivo anche da parte di tutti i lettori in generale e, quello che più conta, giudizio espresso con seria convinzione. Perché, come dice Donata Francescato, "Ridere è una cosa seria" (questo il titolo dell'ultimo suo pregevole libro, edito da Mondadori nel Giugno 2002). Affermazione valida non soltanto "per-Donata" ma anche per me, che sento di non dover perdonare nulla a chi l'ha fatta ma piuttosto di condividere quanto ha detto.
Desidero chiudere questa introduzione consigliando (come in genere fanno gli autori di questo tipo di narrativa) anzi quasi raccomandando di leggere il libro con gradualità, perché solo così i lettori possono meglio "gustare" ogni singolo racconto.
Marcello Guccione
Ancora una volta Giovanni Tessitore dà vita ad un pregiato lavoro di ricerca (L'utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive,Milano, Franco Angeli, 2002.) che spazia dalla storia al diritto penale, dalla sociologia al pensiero economico. L'oggetto della ricerca, il sistema penitenziale borbonico in Sicilia, spazza via molti luoghi comuni, così come avviene in tutte le opere precedenti del nostro autore che si rivela, appunto per questo, uno storico revisionista, libero da pregiudizi d'ogni tipo, difficilmente influenzabile dalla storiografia precedente e, soprattutto, interessato a trarre conclusioni solo sulla base di documenti d'archivio, consultati a centinaio con appassionata puntualità. Si scopre così che non solo i "famigerati Borboni" avevano un regime penitenziale fra i meno disumani d'Europa, ma che progettarono, prima d'ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che tenesse conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che Tessitore chiama utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all'ostruzionismo della burocrazia siciliana, alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860 e all'arretratezza della mentalità locale.
Il riformismo borbonico venne senz'altro influenzato dalla presenza inglese in Sicilia tra il 1799 e il 1814; durante la conquista napoleonica dell'Italia, infatti, la corte borbonica si rifugiò nell'Isola che divenne il baluardo inglese contro l'avanzata delle forze francesi. La Sicilia rappresentò, in quell'occasione, l'unico lembo d'Europa che fosse rimasto esente dalla conquista napoleonica e ciò avrebbe purtroppo rappresentato, nel tempo, un grande handicap per l'evoluzione politica e culturale della regione. Gli inglesi contagiarono la corte borbonica in esilio con il loro riformismo che, in parte venne imposto, come nel caso della Costituzione siciliana del 1812, in parte venne volontariamente subito, come nel caso delle teorie relative alla riforma carceraria che in Inghilterra aveva avuto il suo caposcuola nell'utilitarista Bentham. Ferdinando nel suo nuovo Regno, inaugurato dopo la fine dell'Impero napoleonico, parto della fantasia dei congressisti di Vienna, ebbe il coraggio, a differenza di altri sovrani europei, di mantenere il codice napoleonico del 1810, introducendo, peraltro, opportune e moderne modificazioni. Nel regno delle Due Sicilie, peraltro, erano stati accolti, almeno teoricamente, i principi innovatori che la rivoluzione francese aveva diffuso in campo giudiziario: negazione del potere indiscriminato del sovrano sulla vita dei sudditi, relativa dolcezza delle pene, declino di quelle corporali, previsione normativa di precetti e sanzioni uguali per tutti i sudditi, rispetto delle norme processuali. (p.10).
In tale clima politico e culturale, nel 1845, subito dopo l'inaugurazione del nuovo carcere di Palermo, l'Ucciardone, ritenuto dal punto di vista architettonico il più moderno d'Europa, veniva promulgato dai Borboni un decreto sulla legislazione carceraria che, se fosse stato integralmente applicato, avrebbe reso il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva: la classificazione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell'età e del delitto commesso e la loro separazione in strutture diverse, per evitare contaminazioni. La destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all'interno degli stessi penitenziari; l'istruzione religiosa e morale ai carcerati. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.
Fra i carceri palermitani, prima dell'inaugurazione dell'Ucciardone, il principale e più affollato era la Vicaria, nome, peraltro, con cui venivano chiamati i carceri delle principali città del regno. Il carcere sito al di là della Porta Felice e affacciantesi sull'odierna via Vittorio Emanuele, occupava i locali oggi adibiti ad uffici dell'amministrazione delle Finanze, ospitava, nei primi anni dell'Ottocento, tra i 1000 e i 1500 detenuti, la maggior parte dei quali in attesa di processo. Gli altri carceri cittadini erano Castellammare, fin quando non fu distrutto e la Quinta casa, già convento dei gesuiti, sito nell'odierna via dei Cantieri.
L'autore fa, quindi, una puntuale panoramica sui vari tipi di pene e sulla loro evoluzione nei secoli.
Nel Medioevo, prima che si formassero gli stati centralizzati, la principale pena contro i vari tipi di reato consisteva nella vendetta privata o nel pagamento di un risarcimento in denaro, frutto di accordi fra le parti, detti composizioni. Nel regno di Sicilia l'amministrazione della giustizia era influenzata dalle leggi del periodo normanno e svevo e poteva considerarsi apprezzabilmente funzionante. Pur essendo la vendetta privata ancora praticata, gradualmente veniva sostituita col risarcimento in denaro, mentre si cominciava a diffondere la pena detentiva come alternativa alle sanzioni corporali particolarmente cruente. Sul finire del XVI secolo, pur restando la pena di morte la sanzione applicata per i delitti più gravi, le altre pene come i castighi fisici, le mutilazioni e la gogna cominciarono ad essere sostituiti con altri tipi di sanzioni capaci di assicurare allo stato un ritorno economico, pur mantenendo la loro funzione di terribile castigo per il reo. Si cominciò, allora, a ritornare a tre tipi di pene già note nell'antichità classica: l'utilizzo dei rei nelle galere, la deportazione e i lavori forzati.
Fu, come al solito, l'Inghilterra a farsi promotrice di tali riforme; si comprese, infatti, che invece di relegare i rei in putride carceri a marcire per la sporcizia, la mancanza di cibo o le epidemie che in quei luoghi, fin troppo spesso, scoppiavano, sarebbe stato ben più utile impiegarli ai remi, servendosi della loro forza per il trasporto di merci e persone o, meglio, utilizzarli nei lavori più duri, ai quali soltanto i disperati avrebbero potuto sottomettersi. Così nella "civilissima" Inghilterra furono fatti i primi esperimenti di prigioni galleggianti; si trattava di vecchie navi, quasi sempre in disarmo, che venivano ancorate in determinati punti del Tamigi e che arrivavano ad ospitare fino a trecento prigionieri, i quali ogni mattina venivano trasportati su chiatte dove, per lo più venivano impiegati nel terribile lavoro del dragaggio del fiume. Malgrado si trattasse di fatiche durissime sostenute in condizioni ambientali terribili, i rei preferivano tale tipo di castigo, nonostante fossero costretti a lavorare tutto l'anno all'aperto con qualsiasi tipo di clima, senza riparo alcuno, alla prigionia nell'ozio, senza mai poter vedere il cielo e respirare un'aria che non fosse quella puzzolente e malsana degli ambienti chiusi sporchi e superaffollati dove erano stati costretti a vivere. Sempre gli inglesi sperimentarono la pena della deportazione che consisteva nel condannare i rei ai lavori forzati nelle colonie inglesi d'oltremare. Alla fine del settecento questo tipo di sanzione permise alla Corona inglese di colonizzare con pochissima spesa un intero continente come l'Australia.
Tuttavia, in tutta l'Europa, agli albori del Seicento, i rei cominciarono ad essere adibiti ai lavori forzati, non solo nelle colonie o all'esterno delle prigioni, ma anche al loro interno dove vennero costruiti vari tipi di manifatture. Il prigioniero così veniva tolto dall'ozio, imparava un mestiere e nello stesso tempo diventava economicamente produttivo.
Nel Settecento cominciavano a diffondersi le teorie dei Lumi che, non solo predicavano l'eguaglianza davanti alla legge, ma miravano anche al raggiungimento di legislazioni più giuste e che prevedessero trattamenti più umanitari anche per il reo che, nonostante la colpa commessa, non meritava né la morte, né tantomeno di veder calpestata la sua dignità d'uomo. Fu il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana a rendere applicabili nella realtà i più moderni principi illuministici senza limitarsi soltanto ad approvarli come fecero gli altri sovrani europei. Il Codice Leopoldino del 1786 prevedeva addirittura, l'abolizione della pena di morte (che, tuttavia poco tempo dopo venne reintrodotta).
Con lo scoppio della rivoluzione francese i dibattiti sul rispetto dei diritti umani e sulla riforma anche del sistema carcerario, si fecero sempre più accesi e frequenti. Fu l'economista inglese Bentham, noto come caposcuola della corrente di pensiero detta utilitarismo, ad essere particolarmente attratto dai problemi connessi al sistema carcerario, problemi che divenivano sempre più pressanti, non solo per l'imperversare dei dibattiti e degli scritti in materia, ma anche per il sovraffollamento delle carceri, da cui, peraltro, si diffondevano anche all'esterno spaventose epidemie. Dopo anni di riflessione l'economista inglese pensò di aver risolto ogni problema presentando il progetto del suo Panopticon, carcere di forma circolare dotato di celle individuali, disposte lungo la circonferenza " le cui finestre e la cui illuminazione fossero gestite in maniera tale che gli occupanti fossero chiaramente visibili da una torre centrale di controllo [...] Un simile sistema di vigilanza incessante avrebbe impedito i nocivi contatti tra i detenuti, e avrebbe reso superflue le catene e altre similari anacronistiche strutture. Sorvegliati di continuo, i carcerati avrebbero potuto (e dovuto) lavorare fino a sedici ore al giorno nelle proprie celle, con grande profitto dell'imprenditore privato cui sarebbe toccato promuovere e dirigere l'istituzione in condizioni di grande vantaggio rispetto ai concorrenti costretti a far ricorso alla manodopera libera.[...] Il meccanismo del libero mercato doveva quindi essere messo in condizione di regolare senza intralci un'alternanza di terrore e di umanità all'interno del Panopticon, che andava gestito alla stregua di un'impresa capitalistica." (p. 52)
Alle obiezioni che gli vennero rivolte in relazione allo sfruttamento che i rei avrebbero subito da parte degli imprenditori, Bentham rispose proponendo, non solo che la prigione fosse aperta alla visita e all'ispezione di chiunque nutrisse dubbi sul trattamento dei prigionieri, ma suggerì, inoltre, che si imponesse agli imprenditori il pagamento di cinque sterline per ogni detenuto deceduto, quando i decessi superassero il tasso medio di mortalità a Londra. Anche se da tutto ciò si evince che il sistema prospettato da Bentham non partiva certo da ideali umanitari, il suo progetto di prigione circolare affascinò la maggior parte degli architetti del tempo e i governanti più illuminati.
Un ulteriore apporto delle idee illuministe fu quello di rendere l'esecuzione della pena capitale meno disumana, adottando metodi più indolori come, per esempio, la ghigliottina.
Fra i sovrani europei che accolsero positivamente le proposte di riforma carceraria si distinsero fra tutti proprio i Borboni che diedero prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l'Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all'avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all'interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l'istituto della tran-sazione, l'odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all'avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell'Ucciardone inaugurato nel 1840.
Due anni prima, sulla scia di una serie di studi e ricerche in materia, inaugurate dai francesi Tocqueville e Beaumont che si erano recati negli Stati Uniti d'America per analizzare il locale sistema carcerario, Filippo Valpolicella pubblicava, su incarico dei sovrani di Napoli, un suo ponderoso lavoro dal titolo Delle prigioni e del loro migliore ordinamento. In tale opera sembra superato l'uso della pena di morte e delle pene corporali, mentre l'esilio e la prigionia vengono ritenute le uniche pene da applicarsi contro i rei, mentre il lavoro, l'igiene, il silenzio, la divisione dei detenuti, la loro educazione religiosa, diventano i cardini del progetto di riforma. E, invero, con la costruzione dei carceri di Avellino e Palermo, ambedue a pianta circolare, alla stregua delle più moderne teorie, si dimostra che il Regno delle Due Sicilie mira alla concreta applicazione dei progetti di riforme e non alla sterile disquisizione sugli stessi. Già nel 1812 Ferdinando I di Borbone aveva sentito la necessità di sostituire il vecchio carcere di Palermo, la Vicaria, con una nuova struttura più salubre e più sicura dove i prigionieri potessero essere sottratti all'ozio ed avviati ad un mestiere. La Vicaria, infatti, presentava una pluralità d'inconvenienti: il suo sovraffollamento rendeva la vita dei carcerati simile a quella dei dannati nei gironi dell'inferno dantesco, favorendo, oltre ai vizi derivanti dalla promiscuità, il sorgere di frequenti epidemie che, per la posizione del carcere, al centro della città, facilmente uscivano dalla prigione diffondendosi fra i rioni cittadini. Inoltre la sua collocazione in centro, rendeva poco sicuro il carcere, essendo molto facilitate le comunicazioni tra l'interno e l'esterno: così com'era più semplice evadere, era altrettanto facile che, soprattutto in periodo d'insurrezioni e rivolte, il seme della ribellione penetrasse all'interno del luogo di pena.
Tutto ciò aveva distolto i governanti dal trasformare una vecchia struttura conventuale come lo Spasimo, anch'esso al centro della città, in nuovo carcere, o dal trasferire i detenuti nell'altra prigione, detta Quinta Casa. Si reputava necessario costruire il nuovo carcere fuori del centro cittadino, in luogo salubre e soprattutto su una pianta a raggiera che rispondesse ai criteri enunciati dal Bentham. Anzi il decreto del 1845, sulla divisione dei carcerati per categorie in relazione ai reati commessi e all'età, sulla fornitura di vitto accettabile, sull'adozione di celle individuali, sull'impiego dei reclusi in attività lavorative da esercitarsi all'interno della stessa prigione, sull'accettazione dell'introduzione del metodo correttivo nella pena, andava al di là dei progetti di riforma circolanti nel resto dell'Europa.
Il progetto borbonico, tuttavia, rimase un'utopia, infatti "non si era prevista la mancanza di una burocrazia fedele, onesta e zelante del pubblico bene, attenta alle nuove riforme, conseguentemente le modifiche apportate al sistema carcerario, pur tendenti a un utilizzo più produttivo e moderno della forza-lavoro detenuta, vengono in realtà inapplicate da amministratori locali, nonostante il cambiamento di gestione riluttanti verso qualsiasi novità proveniente da Napoli e tendente ad un accentramento statale" (p. 204)
L'apertura del regime borbonico nel campo della politica carceraria contrasta con la fama che esso acquistò in Europa per merito del liberale Gladstone che, nel 1851, recatosi a Napoli per motivi di salute, essendo andato a visitare le carceri di Nisida, definì il regime borbonico " la negazione di Dio, la sovversione d'ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo" (p. 204) Si seppe ahimè! troppo tardi che Gladstone non era mai andato a visitare le carceri borboniche e che quelle sue famose lettere pubblicate da tutti i giornali inglesi e discusse nel parlamento britannico, non erano state altro che il frutto di un accordo tra il politico liberale e il governo di Sua Maestà, per mettere in cattiva luce davanti all'Europa intera, la dinastia borbonica, colpevole di aver favorito una penetrazione russa nel mediterraneo a discapito degli interessi commerciali inglesi. In compenso agli occhi degli osservatori stranieri le carceri inglesi si rivelarono ben peggiori di quelle napoletane!
Nemmeno con l'unità nazionale cambiarono i sistemi nelle carceri della penisola, "[...]lo stato liberale continuò ancora a comportarsi come uno stato di polizia, al cui confronto quello borbonico appariva addirittura più rispettoso dei diritti umani" (p. 208).
Nel commentare quest'ultima fatica, frutto di una trentennale ricerca di un attento e appassionato storico, ormai scomparso da oltre quattro anni, non posso non ricordare quel fanciullesco sorriso che faceva di lui un eterno giovane, malgrado l'età anagrafica e che testimoniava inconfutabilmente la sua gioia di vivere e soprattutto di scrivere e la sua mai sopita curiosità culturale. La ricerca certosina fra i documenti ingialliti ed impolverati degli archivi, era per Salvatore Candido, un raffinato piacere e insieme un ineluttabile dovere nei confronti dei posteri che non potevano essere privati della memoria storica del nostro passato. Passato fatto di ombre e di luci, ma indubbiamente sintomo della grande civiltà di un popolo antico, combattuto da sempre tra tradizione e rinnovamento.
La rivoluzione siciliana del gennaio 1848, ancora una volta, porta la Sicilia alla ribalta internazionale e conferma la vocazione di tale terra a fungere da laboratorio politico, svolgendo un ruolo da pioniere nella ricerca di nuove strade verso la trasformazione. Fu infatti proprio Palermo, questa periferica capitale europea, mai dimentica dei fasti medievali che l'avevano vista protagonista della storia continentale, ad aprire la stagione delle rivoluzioni del '48 che, da questo estremo lembo d'Europa, si sarebbero estese a macchia d'olio da sud a nord, da est a ovest, confermando, come avrebbe scritto Benedetto Croce, l'esistenza di un comune spirito europeo, che spontaneamente collegava ed univa popoli apparentemente tanto diversi fra loro.
La rivoluzione siciliana che, per un anno e mezzo, determinò la ricostituzione dell'antico Regno di Sicilia, che sperimentò un nuovo periodo ispirato al costituzionalismo inglese e che fece del Parlamento, seppur eletto a suffragio limitato e dominato dalla vecchia classe dominante baronale, il fulcro del nuovo sistema politico, non si può certo liquidare come un fallimento sol per la sua breve durata e per il ritorno, nel maggio del 1849, della dinastia borbonica che spazzò per sempre il sogno di una Sicilia indipendente. Gli aspetti dell'esperimento rivoluzionario furono senza dubbio molteplici: la classe dominante siciliana, seppure per pochi mesi, si assunse una grossa responsabilità politica ed amministrativa, mettendosi alla prova come classe dirigente; il popolo, in genere, accettò il peso delle armi per puro spirito patriottico; i più accesi indipendentisti compresero che una Sicilia indipendente sarebbe sempre stata in balia delle grandi potenze europee e si avvicinarono in maniera irreversibile all'idea federalista e al sogno di partecipare ad una grande patria italiana. Un altro lato positivo da non sottovalutare - ed è proprio questo che mette in rilievo Salvatore Candido - fu quello relativo alla vivacità del dibattito culturale che scaturì da quell'evento politico e che risvegliò la classe intellettuale siciliana da un lungo letargo, prolungato dal mancato arrivo oltre lo Stretto della rivoluzione francese, collegandola al resto della cultura europea. Testimonianza di tale risveglio è data dal proliferare a Palermo, ma anche nel resto della Sicilia, di centinaia di piccoli giornali, di varia diffusione, frutto di una completa libertà di espressione, rara in quel periodo dell'ottocento e ancor più difficile ad ottenersi in una fase storica caratterizzata da eventi rivoluzionari. Si pensi, ad esempio, che nel culmine della rivoluzione si permetteva la pubblicazione di un giornale nettamente antirivoluzionario e filoborbonico come Il Gesuita che cominciò ad essere pubblicato tredici giorni dopo l'espulsione dei gesuiti sancita dal Parlamento siciliano. L'editoriale del primo numero è talmente violento contro il potere costituito che ci sorprende piacevolmente come quest'ultimo permettesse la diffusione di tale foglio. I protagonisti della rivoluzione sono definiti infami e la rivolta popolare contro i Borbone è giudicata orrenda. Il Candido attribuisce alla debolezza dell'esecutivo e alla sua incapacità di effettivi controlli, la pubblicazione di fogli così infamanti nei confronti del governo e della sua politica, noi preferiamo pensare all'esistenza fra la classe politica rivoluzionaria di un genuino rispetto per le libertà fondamentali dell'uomo, fra cui la libertà di esprimersi è forse la più importante.
Il Candido ci presenta ben 143 di queste testate, nate a Palermo e poi soppresse, quasi tutte, dalla restaurazione del '49, frutto dell'iniziativa di una classe di intellettuali, solo in parte espressione dell'aristocrazia dominante, per lo più di estrazione medio-borghese e di formazione illuminista come Matteo e Girolamo Ardizzone, Corrado Arezzo de Spuches, Vito Beltrani, Michele Bertolami, Francesco Busacca, tornato a bella posta da Firenze, Francesco Campo, Benedetto e Giambattista Castiglia, Gaspare Ciprì, Francesco Crispi, Gaetano Daita, Giovanni e Vito D'ondes Reggio, Francesco Ferrara, Saverio Friscia, Giuseppe La Farina, Francesco Milo Guggino, Francesco Paolo Perez, Giovanni Raffaele, Gregorio Ugdulena, Leonardo e Salvatore Vigo. Alcuni di essi erano membri del governo, alcuni della Camera dei Comuni, altri, semplicemente, facevano capo ai vari clubs che, alla maniera francese, si erano spontaneamente formati nella capitale siciliana. Ai giornali palermitani Candido aggiunge un foglio di Partinico, ma stampato a Palermo, Stati Uniti d'Italia, e quattro giornali napoletani attinenti alle cose di Sicilia che si pubblicarono a Napoli nel periodo costituzionale di quel regno, dal febbraio al maggio 1848, e che erano diretti da siciliani come Stellario Salafia, interprete del più intransigente liberalismo. Peraltro, tali giornali testimoniano l'apertura del governo costituzionale napoletano di Ferdinando II alle istanze più radicali di quei rivoluzionari che consideravano ormai inevitabile il distacco della Sicilia dal Regno borbonico, cosa, questa, che suscita in noi un'evidente sorpresa.
Nel passato altri studi sono stati fatti sulla stampa del periodo rivoluzionario, anche se non particolareggiati e obiettivi come quello di Candido; ricordiamo, in proposito, la Bibliografia sicula sistematica di Alessio Narbone del 1855 che elenca 141 testate fra cui alcune oggi assolutamente irreperibili, i Giornali di Palermo pubblicati nel 1848-49 di Giuseppe Lodi, apparso nel 1898, che esamina 151 testate e, infine, il più recente, Giornali di Palermo nel 1848-1849 di Martino Beltrani Scalia, pubblicato nel 1931, che annota 138 giornali. Il Beltrani, tuttavia, pecca di notevole superficialità, non solo nel trinciare giudizi sulle qualità dei singoli fogli, ma, soprattutto, nel rilevarne l'appartenenza politica, definendo, per esempio, come giornali borbonici pubblicazioni che si distinguevano, nonostante la loro opposizione al governo, proprio per il fervore rivoluzionario. Rifacendosi al lavoro di Beltrani, uno dei nostri più illustri storici del Risorgimento, Rosario Romeo, dà poco peso al ruolo che nel biennio liberale svolse la stampa siciliana, tacciandola come "astiosa e petulante, di bassissimo livello intellettuale e morale"( p. 27). Ingannato, infatti, dai giudizi superficiali del Beltrani, alla cui opera attinse notizie in materia, finisce per fare di tutta l'erba un fascio e confondere giornalucoli malevoli e di basso livello, con testate degne di ogni nostra attenzione, sia per la validità degli articoli che per la capacità e l'onestà politica dei compilatori.
Il primo giornale ad apparire, solo nove giorni dopo lo scoppio della rivoluzione, fu il Giornale patriottico che poco dopo avrebbe mutato il suo titolo in Il Tribuno e che ebbe come principale collaboratore Salvatore Salafia e forse come direttore quello stesso Bagnasco che aveva redatto il manifesto rivoluzionario. Nei 45 numeri del giornale, pubblicato fino al 13 marzo 1848, si leggono prestigiose firme come quella di Michele Amari, di Gregorio Ugdulena, di Benedetto Castiglia, di Gaetano Picone. Dai contenuti di detto giornale, esso si può classificare come favorevole ad un costituzionalismo moderato e come molto vicino alle correnti federali, sulla base di un'adesione al programma neo-guelfo di Gioberti.
Il giorno successivo all'apparizione del Giornale patriottico, vede la luce un nuovo foglio Il Cittadino, di cui si pubblicarono 208 numeri dal 22 gennaio al 30 settembre 1848. Probabili direttori ne furono Mario Corrao e Biagio Privitera, anche se nella pagina 4 del foglio erano indicati come direttori l'Abate Giuseppe Fiorenza e l'avv. Gaetano De Pasquali. Il giornale si propone di riferire i fatti della rivoluzione, almeno fin quando la situazione non si fosse stabilizzata; da quel momento in poi si sarebbe occupato esclusivamente del dibattito politico. La linea politica del giornale, preoccupato, almeno nei primi tempi di vivere sui fatti della giornata, è alquanto incerta; ciò che appare chiaro è l'appoggio al ripristino della costituzione del 1812 e all'idea federalista propugnata da Gioberti: "Tralasciando di parlare degli altri regni italici, parliamo della Sicilia. Ella, che ha sospirato sempre l'essere unita all'Italia tutta, o con la Lega o colla Confederazione, rilutterebbe affatto alla fusione. Ella ove sarà compito il suo Statuto, vorrà restare nazione indipendente, né sottrattasi eroicamente dalla fusione napoletana, vorrà divenire piemontese o toscana. Sarà sempre italiana: ma sarà nazione a sé con quel regime che meglio converrà ai suoi bisogni, all'esigenza dei tempi" (p. 54).
Troviamo nel giornale anche alcuni articoli favorevoli alla forma repubblicana, ma si tratta di posizioni sempre molto vaghe in cui si guarda alla repubblica, più come ad un'astratta ed irraggiungibile organizzazione politica, che ad un determinato tipo di regime istituzionale. Ciò ha fatto sì che Beltrani giudicasse il foglio in oggetto privo di un'effettiva linea politica e di un programma costante. Peraltro, tutto questo potrebbe essere imputato sia alla pluralità di direttori che si avvicendarono, sia al fatto che, il più delle volte, gli articolisti dovevano dibattersi tra l'ideale romantico repubblicano e ugualitario e i freni ad esso imposti dagli interessi delle classe sociale dominante che aborriva la forma repubblicana vedendo in essa il principio della fine, cioè il sovvertimento dell'ordine sociale esistente. Tale sorte sarà condivisa da tanti altri giornali sorti in tale periodo che, pur mantenendosi fedeli alla forma monarchico istituzionale, auspicata dall'aristocrazia e dall'alta borghesia palermitana, cedevano talvolta alla forza del richiamo democratico ed egualitario, di cui la cultura romantica, pronta a diffondersi anche in Sicilia, faceva un suo cavallo di battaglia.
Anche La Rigenerazione, che vide la luce il 27 gennaio del '48 e che continuò le pubblicazioni fino al 4 settembre successivo, si schiera dalla parte di un costituzionalismo monarchico finalizzato ad un unione col resto dell'Italia su basi federaliste, anche se in un primo tempo si parla solo di unione federale tra Napoli e la Sicilia. Successivamente però, il giornale plaude entusiasticamente alla bandiera tricolore con la scritta Confederazione Italiana, fatta sventolare, la mattina del 5 febbraio dalla cima della più alta torre del Castello. E, riferendosi alla bandiera, l'articolista così scriveva: "Ecco, dicea, Italiani il segno della nostra nuova alleanza: la Sicilia fra tutti gli Stati italiani inalberò la prima questo vessillo; questa è la nostra comune patria; dalle Alpi al Lilibeo [...] corriamo ad abbracciarsi con un nodo indissolubile confederiamo l'Italia ad onta degli sforzi dei nostri oppressori". Il direttore Tirrito diede spazio anche al ruolo politico che le donne avrebbero ricoperto nel rinato regno di Sicilia e non fu il solo a porsi su questa linea, visto che lo avrebbero fatto successivamente altri fogli, a dimostrazione dell'interesse che l'avvenire politico dell'isola esercitava anche fra il pubblico femminile.
Di particolare importanza appare, fra i giornali del primo semestre rivoluzionario, L'Apostolato, fondato e diretto da Francesco Crispi, tornato da Napoli a Palermo per prendere parte da protagonista alla rigenerazione politica della sua terra. Il foglio vide la luce il 27 gennaio 1848, interruppe le pubblicazioni il 25 maggio successivo per riprenderle il 13 febbraio dell'anno seguente e concludere definitivamente la sua breve vita il 6 marzo 1849. In totale furono stampati 54 numeri. E' interessante notare che nella prima serie, quella che va dal gennaio al maggio '48, sotto la testata appare il motto rivoluzionario francese nous marchons, motto che nella seconda serie viene sostituito con un altro molto meno giacobino: post fata resurgo. Ciò dimostra il cambiamento sia della posizione politica del Crispi, sia della situazione politica contingente. Il Crispi che produce la prima serie di fogli è il Crispi giacobino e rivoluzionario, legato al modello ideale della rivoluzione francese, giovane appassionato attirato dall'idea di una palingenesi generale. Egli scrive nel periodo delle vittorie rivoluzionarie, quando ormai tutto sembra facile e a portata di mano per l'edificazione di uno stato siciliano libero ed indipendente. Quando il giornale riprende le sue pubblicazioni tutto è cambiato: la rivoluzione è alla fine, le forze borboniche si apprestano a riconquistare la Sicilia debole militarmente ed isolata diplomaticamente. Anche Crispi è cambiato e punta, forse, in una conversione al moderatismo come ultima speranza per salvare l'indipendenza e placare le paure di Francia ed Inghilterra e dell'aristocrazia siciliana . Al giornale collaborarono grossi nomi della cultura siciliana come Filippo Cordova, Salvatore Chindemi, Michele Bertolami, Giovanni Bruno e anche una donna, Elisabetta Fiorini.
Il giornale sosteneva la necessità di ritornare alla Costituzione del 1812 e di mantenere l'indipendenza politica, senza rifiutare, peraltro, un'unione confederale a Napoli e agli altri stati della penisola. Significativa è la pubblicazione della lettera di Michele Bertolami a Mazzini sui destini della Sicilia e dell'Italia: "[...]Non mi parlate di Unità ma di Unione. Ed Unione grida la Sicilia a Napoli, come tutti gli altri stati italiani[...], unione che unifichi l'Italia nei sacri interessi della sua piena indipendenza e lasci inviolati ad un tempo i diritti di ogni stato al cospetto degli altri. Unione grida la Sicilia, ma quell'Unione vera che è tra fratelli fieri della propria dignità e bramosi di sostenere e difendere la madre comune, quell'unione che la faccia parte d'Italia e non provincia di Napoli, quell'unione che consigliata e, dirò meglio, comandata dai sacri solenni interessi, non possa mai venire meno per astuzia di principi e sciagurate passioni di popoli[...]" (p. 69) Nell'ultimo numero della prima serie, quello del 13 maggio 1848, Crispi firma un editoriale in cui ribadisce la sua convinzione sulla necessità di una Sicilia indipendente in un contesto confederale italiano, Sicilia che si era "[…]disgiunta da Napoli, come dalla sua matrigna, ma che va a ricongiungersi coll'intera Italia, come colla sua naturale madre"( p. 73).
Amara è la conclusione che Crispi trae degli eventi rivoluzionari in un editoriale del 16 febbraio 1849 quando ormai ogni speranza appariva perduta: "[...] nulla saranno le rivoluzioni se al popolo, che n'è strumento e scopo, e in cui si riassume ogni sovranità, non si manifestano i mezzi a conservare i poteri, non s'indica in quale tempo egli viva, e con quali riforme amministrative possa assicurarsi del presente, e prepararsi in avvenire" (p. 74)
Fra i fogli del primo semestre riveste particolare importanza Il Popolo, giornale democratico fortemente critico sul ruolo della nobiltà siciliana nel periodo rivoluzionario. Di tale giornale, di cui direttore (amministratore responsabile) era Agatino Previtera e a cui collaboravano note firme dell'intellighenzia isolana come Corrao, Ciprì, Bertolami, Campo e anche una donna, Maria Agata Sofia Sasserno, sono giunte fino a noi una cinquantina di copie, sparse fra varie biblioteche. Il primo numero uscì il 9 febbraio 1848 e, con frequenti interruzioni, il foglio si pubblicò fino al 27 febbraio 1849 anche se con un altro titolo, La Costituente Italiana.
In uno dei primi numeri Biagio Privitera metteva in guardia i siciliani dall'eccesso di municipalismo che non avrebbe dovuto essere il fine della rivoluzione. La Sicilia che aveva precorso i fatti del Risorgimento, avrebbe dovuto, invece, rivolgersi al generale movimento d'Italia ed unirsi ad essa con vincoli federativi, senza perdere cioè, la sua individualità. Il Corrao, invece, in un altro articolo ribadiva il suo concetto di sovranità che risiede nel popolo e di cui il sovrano è solo l'esecutore. Un'eccedenza dei poteri del re rispetto al popolo poteva, dunque, configurarsi come usurpazione e dispotismo. Sempre il Corrao fa una cauta, quanto poco chiara apertura al socialismo a proposito della necessità che la Sicilia si federi al resto della penisola affermava: "Favorire la causa del popolarismo, la lega, l'indipendenza italiana è favorire le leggi naturali del socialismo, del progresso umano, del vostro benessere" (p. 84)
Il giornale si fa sostenitore della Costituzione del 1812, adattata, tuttavia, ai nuovi tempi. Tale costituzione avrebbe, infatti, dovuto tener conto del progresso nel pensiero costituzionale e del riconoscimento, dunque, della piena sovranità popolare, sulla cui base avrebbe dovuto fondarsi "l'edificio della nuova società vera costituzionale e civile". Contro tali principi si poneva l'aristocrazia, timorosa di perdere quei privilegi di cui aveva sempre goduto e che costituivano il contraccolpo della sovranità popolare. La seconda serie del giornale, che si apre il 23 settembre del '48, appare fortemente e coraggiosamente critica nei confronti del governo scaturito dalla rivoluzione, chiaramente dominato dall'aristocrazia e dai suoi interessi, incapace di ricostruire ciò che con facilità era stato distrutto e assolutamente antisabauda, mentre l'esaltazione della repubblica e della democrazia, man mano che le sorti della rivoluzione conservatrice volgono al peggio, si fa sempre più evidente. Indubbiamente questa è una testata che si distingue da tutte le altre per originalità e coraggio e per notevole spirito critico.
Un altro giornale che si eleva su tutti gli altri del periodo, sia per la cultura e le capacità politiche del suo direttore, Francesco Ferrara, sia per la qualità degli articoli, è L'Indipendenza e la lega. Sorto a Palermo il 15 febbraio 1848 e definito il migliore da Michele Amari fra quanti apparvero in Sicilia nel biennio liberale, si pubblicherà fino al 14 ottobre successivo per 149 numeri a cui, talora, venivano aggiunti Supplementi su particolari argomenti. La chiusura del giornale fu, probabilmente, dovuta alla partenza per Torino, da cui non farà più ritorno, del suo direttore, designato dal Parlamento come componente della Commissione costituita per offrire la Corona di Sicilia al figlio di Carlo Alberto. Al giornale, il cui titolo rivelava il programma politico, indipendenza siciliana e federazione italiana, collaborò il fior fiore degli intellettuali siciliani come Vito e Giovanni D'Ondes Reggio, Giacinto Carini, Vincenzo Errante, Giuseppe Ugdulena, Andrea Guarneri. Il Ferrara fu accusato di essere asservito al potere per la mancanza nei suoi articoli di un'effettiva intransigenza ideologica. In effetti, il grande economista, che lo scoppio della rivoluzione aveva colto all'interno del carcere di Palermo, prigioniero politico assieme ad altri suoi compagni, futuri collaboratori del suo giornale, Emerico e Gabriele Amari, Gioacchino D'Ondes Reggio, Francesco Paolo Perez, aveva le idee ben chiare sul futuro della Sicilia e dell'Italia, ma moderava le sue posizioni per realismo politico. Infatti, pur essendo convinto che la repubblica fosse il meglio a cui si potesse aspirare, sapeva anche che i tempi non erano maturi, che l'opinione pubblica moderata rifiutava drasticamente la soluzione repubblicana e che quindi, per non distruggere l'unità di un popolo in lotta, bisognava optare per una monarchia costituzionale, limitando i poteri del re con i puntelli apposti dai rappresentanti del popolo. Peraltro, anche la posizione della Sicilia a livello internazionale sarebbe stata pregiudicata da una scelta repubblicana. Il dibattito monarchia - repubblica proseguì sul giornale del Ferrara ad opera di due suoi giovani collaboratori, Andrea Guarneri e Gaetano Deltignoso: mentre il primo sosteneva la superiorità della repubblica, che era, di fatto, il sistema adottato in quel tempo in Sicilia, visto che la massima potestà era affidata ad un Presidente eletto, Ruggiero Settimo il secondo appariva più attendista, giudicando ancora non maturo il popolo, ma soprattutto l'opinione pubblica, per un regime repubblicano.
Particolarmente lungimirante si dimostrò il Ferrara nel giudizio su Carlo Alberto, in quel momento osannato da tutti i liberali italiani: " Carlo Alberto vuol essere re d'Italia; la Santa Alleanza non gliel'ha permesso; i liberali del Piemonte gli preparano la via, attendiamoci un ultimo tradimento che coroni la vita di questo camaleonte politico"(p. 113). Sulle stesse posizioni altri giornali del tempo, come La Moderazione e La Bussola, quest'ultimo diretto da Benedetto Castiglia, a riprova che i siciliani avevano ben capito le mire dinastiche di Carlo Alberto per cui nutrivano ben poche speranze sul suo aiuto politico.
Il Parlamento, sorto a Palermo il 26 marzo del '48, concluse le sue pubblicazioni il 7 giugno successivo. Di ispirazione moderata e di tendenze filo - governative, si avvalse di valorosi collaboratori come Michele Amari, Francesco Paolo Perez, Vito Beltrani, Gaetano Daita, ecc. Di rilevante importanza appare la polemica alimentata dal Beltrami sulla scelta dei ministri fra i componenti il parlamento, soluzione, questa, giudicata lesiva del principio della divisione dei poteri, poiché avrebbe reso i ministri - deputati partecipi, contemporaneamente, del potere legislativo e di quello esecutivo.
Apertamente repubblicano si rivelava Il Fulmine di cui uscirono solo 20 numeri a partire dal 5 aprile 1848 fino al 28 giugno successivo. Direttori e proprietari risultano gli avvocati De Caro, Ferro, Dominici e Greco, tra i collaboratori più noti: Salvatore Salafia, Giuseppe Barresi, Giuseppe Fazio Spada, Francesco Campo. Proprio quest'ultimo, in un articolo pubblicato il 15 aprile, Un avvertimento alla Sicilia, esterna le sue preferenze repubblicane in maniera quanto mai forte e chiara: "[...] Lo stato naturale dei popoli è quello dove tutto è per tutti, e poi chiamatelo come volete, repubblica o altrimenti se pure questo nome spaventa i timorosi, gli abituati alla sferza, i pregiudicati [...] il secolo è repubblicano e l'Europa sarà repubblica"( p. 156) e nell'edizione del 19 aprile ribadiva così il concetto: "Se l'Italia avrà compiuta vittoria e l'esempio di Venezia, seguito da Milano e da Genova, si propagherà negli altri stati italiani e formerà una federazione di repubbliche, la Sicilia non potrebbe in tal caso negarsi a tale processo civile [...] Io confido che anche senza volerlo noi avremo in breve una repubblica, ma per Dio non mostriamo all'Europa che avendo un braccio ed una mente disponibili pel progresso e per il bene dell'umanità, noi ci restiamo inoperosi" ( p. 157)
Un altro interessante foglio nato nel primo semestre rivoluzionario e diretto dal grande patriota autonomista Giovanni Raffaele, fu Lo Staffile. Detto giornale ebbe vita breve, dal 19 aprile al 20 maggio 1848, anche se poi riprese le pubblicazioni, per soli quattro numeri, tra l'11 giugno e il 1 luglio successivi. Nell'editoriale del primo numero il direttore enuncia chiaramente il programma del giornale: "Il titolo di questo giornale vi rivela lo scopo a cui mira. Il compilatore menerà a dritta e a manca il suo staffile, ma non alla cieca. Egli desidera e curerà di non colpire gli amici, ma badino che se essi visi menano sotto rimarranno storpiati, né la colpa sarà da addebitarsi a chi lo maneggia, bensì a loro stessi che ciechi non han veduto il precipizio verso cui correvano, avvertiti non hanno ascoltato[...]" (p.162) Pur trattandosi di una pubblicazione di alto livello culturale e corretta anche nell'impostazione della critica, dovette, senza dubbio, per il coraggio delle opinioni espresse, dar fastidio ai potenti del momento, visto che la sua brevissima vita potrebbe spiegarsi solo con un intervento, a favore della sua soppressione, partito dalle alte sfere, a dimostrazione che la tanto sbandierata libertà di stampa si calpestava di fronte a chi si spingeva troppo oltre sulla via della democrazia.
La Gazzetta dei saloni era un giornale preesistente alla rivoluzione e che sopravvisse alla stessa, essendo stati reperiti alcuni numeri pubblicati dopo la restaurazione borbonica, anche perché il suo direttore e proprietario, Salvatore Abate, personaggio camaleontico, si sarebbe affrettato a passare, una volta tornati i Borbone, al servizio di questi ultimi. Durante il periodo liberale uscì soltanto dal 22 aprile al 3 giugno 1848 per complessivi 7 numeri. Nonostante fosse prevalentemente un giornale culturale ed economico e non politico e nonostante il passaggio del suo direttore, dopo il maggio 1849, dalla parte dei Borboni, in quel breve periodo in cui si pubblicò durante la rivoluzione, rivela tendenze fortemente radicali e chiaramente repubblicane. In un epoca in cui ancora si credeva alla sacralità dell'autorità monarchica, incita verso il tirannicidio, riconoscendo il diritto intangibile dei popoli, anzi il loro dovere, a reagire contro un malvagio governo. Quanto alla forma istituzionale, uno dei suoi principali collaboratori, Bandiera, scriveva: "[...] lo spirito repubblicano riunisce nel sacro centro del bene pubblico gli interessi particolari di tutti i cittadini" ed esortava i giovani "affinché non si facessero sedurre da coloro che diffamano il governo repubblicano e che hanno interesse a veder ristabilito il regno dell'arbitrio e della forza" (p. 169).
Apertamente repubblicano ci appare anche L'Argo siciliano, diretto da Giambattista Giordano, che arriva addirittura ad auspicare la convocazione di un'assemblea costituente eletta a suffragio universale per risolvere il problema istituzionale e una forma repubblicana federale, garantita dalla presidenza del sommo pontefice, per l'intera penisola italiana. C'è da dire, tuttavia, che pur schierandosi per la forma repubblicana, i collaboratori del giornale concordano nell'accettare, almeno per il momento, la scelta monarchico-costituzionale, considerandola, tutto sommato, più adatta allo spirito dei tempi e agli equilibri internazionali. Anche La Forbice, diretta da Salvatore Salafia si pone su identiche posizioni, esortando i politici a non perdersi in lunghe ed inutili disquisizioni dottrinali, ma a dedicarsi, piuttosto, ai problemi più concreti ed urgenti come la difesa della rivoluzione. Ciò dimostra che nel campo del giornalismo dell'epoca era molto diffuso, malgrado l'esaltazione che ogni rivoluzione porta con sé, un notevole e costruttivo pragmatismo e una reale aspirazione alla libertà politica e all'inserimento dell'Isola nel contesto della vasta cultura europea.
Un discorso a parte merita L'Osservatore, giornale su cui scrisse Vincenzo Mortillaro e che appare il portavoce di quell'aristocrazia che non avrebbe mai rinunziato al suo ruolo di classe dominante anche a costo di diventare rivoluzionaria, in modo da dare al sollevamento popolare un'impronta essenzialmente conservatrice. Esso esalta la parte aristocratica della nazione e quindi quelle repubbliche aristocratiche che, soprattutto in età classica e nel medioevo, avevano dato alle nazioni stabilità e prestigio. Conformemente agli interessi politici che sosteneva, il giornale si schiera per un sistema amministrativo diverso dall'accentramento francese, che desse ampia autonomia a città e comuni, sul modello delle città - stato greche, in modo da mantenere il potere che localmente deteneva la piccola aristocrazia di campagna, i vecchi feudatari insomma, e limitare, secondo la tradizione siciliana, il potere centrale.
Di orientamento opposto, dichiaratamente progressista e anti aristocratico è La Vipera, diretta da Giovanni Raffaele. Tale foglio si proponeva di avviare assieme a due altri giornali La Forbice e Il Fulmine, un'opera di incitamento ai rivoluzionari puri affinché non si adagiassero sugli allori del successo momentaneo o non si cullassero di soddisfare essenzialmente interessi ed ambizioni personali, ma pensassero, piuttosto, a difendere seriamente la Sicilia dalle insidie controrivoluzionarie. E' chiaro, nei vari numeri del giornale, l'attacco a Mariano Stabile, accusato di mire dittatoriali, il quale appariva come il vero arbitro assoluto, a causa della debolezza di Ruggero Settimo, della situazione politica siciliana .
Interessante e controcorrente appare La tribuna delle donne, di cui sono giunti fino a noi solo due numeri, che si presenta come il portavoce delle richieste di emancipazione da parte delle donne, anche se la lotta " contro i perfidi, cioè gli uomini, che le trascuravano assume un tono scherzoso e ridanciano e sullo stesso tono è proposta la guerra agli oppressori dichiarata per rovesciare l'impero che gli uomini esercitarono su di noi, come vi è detto" (p. 270). Nel secondo semestre della rivoluzione, a partire dal 21 ottobre 1848 fino al 2 gennaio successivo, uscì a Palermo un altro giornale molto simile a quello precedentemente citato, si trattava de La legione delle pie sorelle, diretto da padre Antonio Lombardo delle Pie Scuole e redatto quasi esclusivamente, da donne: Rosalia Auteri, Sarina Batòlo, Irene Corvaja, Mariannina de Buzzi, Annetta Rini, Caterina Rossi. Il giornale avrebbe dovuto pubblicare esclusivamente gli atti relativi all'attività della nuova istituzione filantropica, appunto la Legione delle Pie sorelle, ma di fatto pubblicò anche parecchi articoli di carattere politico, nei quali si rivendicavano i diritti politici delle donne e si insisteva sulla necessità del loro affrancamento dalla tirannide maschile.
Tra i giornali del secondo trimestre rivoluzionario si distingue Lo Statuto, diretto dal catanese Nicolò Musumeci e di cui sono giunti fino a noi 126 numeri, a partire dal 22 agosto 1848. Di tendenze moderatamente repubblicane, federaliste e fortemente antisabaude, non sempre segue una linea coerente ed un programma concordato. Sulla stessa linea si pone L'Educazione popolare, bisettimanale diretto dal sacerdote monrealese Pietro Gambino e di cui principale compilatore fu Giambattista Castiglia. Ferocemente contrario alla politica di Carlo Alberto che definisce principe senz'anima e inetto si rivela, altresì, fiero fustigatore di Mariano Stabile, uomo ricco di straordinaria scaltrezza e certa arte finissima di abbindolamenti che aveva instaurato nell'isola una dittatura spuria e per colpa del quale, ad un anno dallo scoppio della rivoluzione, la Sicilia si presentava come una regione delusa, malcontenta "senza pace, senza tranquillità, senza sicurezza, senza governo veruno"( p. 340)
Notevole tra i fogli stampati in tale periodo, appare La Costanza, seguito del giornale, sempre diretto da Giovanni Raffaele, dal più bellicoso titolo Vincere o morire. Ne furono pubblicati 236 numeri, a partire dal 14 settembre 1848 fino al 25 maggio 1849, ben dieci giorni dopo l'entrata delle truppe borboniche a Palermo, cosa che apparve come un vero e proprio gesto di sfida, che si confaceva al carattere del Raffaele, al regime restaurato con la forza e contro la volontà dei siciliani. Fieramente antiaustriaco e anti monarchico - "L'Austria è in Italia la negazione più positiva del diritto popolare, della libertà umana, noi diremo anche della giustizia provvidenziale"( p. 349) e " Fa rabbia pensare che gli uomini del 1848[...] abbiano potuto illudersi e credere che possono esistere re amici della libertà e protettori dei popoli insorti a viva forza, rigenerati contro gli interessi e l'inclinazione dei principi" (p. 352)- annoverò collaboratori, come Paolo Paternostro, che si sforzarono di dare al foglio il ruolo di coraggioso fustigatore della nuova classe dirigente rivoluzionaria, priva del coraggio necessario a voltare definitivamente pagina e a fare della Sicilia uno stato repubblicano che potesse essere faro e guida per i paesi del mediterraneo e dell'Italia tutta. E appunto in occasione del rifiuto ad accettare la corona siciliana, da parte del duca di Genova, il giornale esorta il Parlamento e il governo, affinché senza più aspettare oracoli che mai sarebbero venuti da Torino, si decidesse a mutare la testa che debba incoronarsi, cioè, che tralasciassero di designare un nuovo re e che si decidessero, invece, a proclamare la repubblica. Primo fra i vari fogli apparsi in Sicilia nel periodo rivoluzionario, il giornale ha il coraggio di trattare il delicato problema dell'abolizione del potere temporale dei Papi. "Bisogna aver ben poca fede per temere che la Religione possa soffrire, se il Papa non è principe e se non risiede a Roma"( p. 354) Sorprendente è la foga con cui un sacerdote, Padre Lo Cicero, morto qualche tempo dopo, forse di veleno, sostiene dalle pagine del giornale la necessità dell'avvento della repubblica e di u n sistema ispirato a principi di uguaglianza e di democrazia che ritiene conformi al progresso del genere umano: "Repubblicani non sono nemici del popolo! [...] La repubblica è nome santo; è dessa la figliola dell'Altissimo[...] tristo chi osi pubblicamente contaminarla![...] I repubblicani non vogliono anarchia, ma ordine[...] rispettano lo Statuto e vogliono far conoscere al popolo i propri diritti [...] la propria sovranità" (p. 355).
In effetti quasi tutti i più quotati giornali del secondo semestre rivoluzionario, Il libero monitore, La propaganda, La repubblica, La Giovane Sicilia, si mostrano sostenitori dell'ideale repubblicano e seguono una linea politica ben più radicale dei giornali nati nel primo semestre del '48. Ciò si giustifica facilmente tenendo presente che nel periodo di cui trattiamo era già avvenuto il rifiuto da parte del Duca di Genova della corona di Sicilia e ciò per le mutate circostanze politiche nazionali ed internazionali. Il rifiuto del giovane figlio di Carlo Alberto, accompagnato all'isolamento diplomatico in cui stava per cadere l'Isola e alla ripresa delle ostilità da parte dell'esercito borbonico, aveva determinato fra i siciliani fortissime delusioni. La Francia, che nel dicembre del '48 aveva eletto presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, aveva ripiegato, dopo la repressione dei moti popolari del giugno precedente, su una linea politica notevolmente moderata. La maggioranza degli elettori francesi non avrebbero certamente appoggiato avventure pericolose all'estero a sostegno di cause rivoluzionarie che non si sapeva dove potevano condurre. D'altra parte sarà questa stessa Francia a reprimere con le sue truppe, nel giugno 1849, la rivoluzione romana che aveva portato alla cacciata del Papa e alla proclamazione della repubblica. L'Inghilterra che attraverso il suo plenipotenziario Lord Minto aveva fino ad allora sostenuto i rivoluzionari isolani, visto la piega che aveva preso la situazione politica internazionale, aveva paura di impelagarsi in un'impresa non più conveniente sostenendo il governo rivoluzionario siciliano che, sebbene dominato dalla classe aristocratico - conservatrice, sembrava, negli ultimi tempi essersi fatto sempre più sensibile ai richiami repubblicani. A tutto ciò la libera stampa della Sicilia rivoluzionaria non poteva che reagire gridando al tradimento da parte delle potenze europee e soprattutto da parte delle famiglia Savoia, accentuando la sua sfiducia nell'istituzione monarchica." Sappia la Francia, l'Inghilterra, il mondo intero - scriveva Giuseppe Crescenti su La repubblica - che la Sicilia proclamerà la repubblica [...] noi vogliamo un governo democratico bene organizzato; lo Statuto che il Parlamento ha decretato e fondato sopra elementi tutti democratici tratti dalla repubblica degli Stati Uniti d'America; con piccole modificazioni noi cambieremo la nostra forma Monarchica Costituzionale; il nostro Ruggiero Settimo, l'Eroe della nostra rivoluzione sarà il Presidente della Repubblica[...]" (p. 392)
Il primo semestre del 1849 si apre con una pubblicazione a carattere reazionario e clericale, Il Pensiero della Nazione, influenzata soprattutto dagli avvenimenti romani e dalla fuga del pontefice a Gaeta. "Ogni scossa che essi daranno alla Chiesa sarà fierissimo urto che scuoterà dalle fondamenta il nascente edificio della libertà e dell'indipendenza"( p.443).
Tutti i giornali che si pubblicheranno in questo scorcio del biennio rivoluzionario, reazionari o progressisti, monarchici o repubblicani, saranno tutti caratterizzati dalla delusione per la condotta delle potenze europee, particolarmente della Francia e dell'Inghilterra - vedasi a tal proposito La Democrazia, quotidiano vicino a Giuseppe La Farina - dalle recriminazioni e dalle critiche alla conduzione politica attuata dal governo di Mariano Stabile. Si rimprovererà ad esso di non aver saputo avviare una politica fiscale adeguata, di non aver saputo prevenire i disordini e il caos amministrativo, di non essere riuscito a promuovere una razionale leva militare capace di dar vita ad un esercito che potesse fronteggiare la controffensiva borbonica. Su questa linea si pone soprattutto La Luce, diretto dall'ex ministro delle Finanze Filippo Cordova. Nell'editoriale del primo numero il giornale si rivolgeva ai lettori augurandosi che la "luce tornasse sull'Isola afflitta da le ambizioni, le invidie, le ire[...] La missione di questo foglio periodico è di riparare a questi mali. Esso si propone di giudicare le opinioni, gli atti legislativi e governativi e gli avvenimenti con un'imparzialità che, cento volte promessa, non si ha cuore qui di ripromettere, ma della quale sarà giudice il pubblico." (p. 461)
L'ultima fatica di Salvatore Candido appare fondamentale per illuminarci su un periodo glorioso della nostra storia: il risveglio politico e ideologico di una Sicilia, fino ad allora sequestrata, e il suo ingresso all'interno del mondo culturale europeo da cui si era dolorosamente staccata con la fine della dinastia normanno - sveva, distacco che avrebbe segnato l'inizio per l'Isola di un lungo e oscuro medioevo.
Themis e Dike: mitologia, etimologia e semantica
Le dottrine morali della Grecia, classica ed ellenistica, trassero alimento da antiche ed oscure fonti del pensiero pre-filosofico. Alle medesime fonti si alimentò la poesia dei grandi drammaturghi del V secolo a.C. Da tali fonti i Greci ebbero la prima rivelazione della sacralità della giustizia e trassero il convincimento che il destino dei singoli e dei popoli sia sottoposto a una norma di giustizia, di cui le divinità si fanno garanti, come garanti si fanno dell'ordine universale.
La giustizia, infatti, è un attributo che non riguarda solo l'uomo e l'umana convivenza, ma l'universo in generale; è l'ottemperanza a un ordine divino universale per cui ogni cosa occupa un posto ed ha un compito ben definito.
Nella cultura greca, fin dall'età cosiddetta "arcaica", q°miV e d¤kh espressero l'eterna, profonda esigenza di giustizia insita nell'animo umano(1).
Due termini per il medesimo concetto?
In verità, l'altissimo livello di astrazione concettuale del pensiero greco ci fa intuire che la duplicità terminologica sottintende una diversa sfumatura di significato, come due facce opposte, eppure indissolubili, di una stessa medaglia: "esse indicano due concetti primordiali di origine diversa, ma interdipendenti, almeno nella coscienza evolutiva del fenomeno giuridico"(2).
Non per nulla nella mitologia, che è alla base della storia del pensiero greco, Dike è la figlia di Themis, "sposa primordiale di Zeus salvatore"(3). Così Pindaro nella lirica narrazione delle nozze di Zeus con Themis, figlia di Gea e di Urano e pertanto sorella dei Titani. Furono le Moire a condurre da Zeus, per le nozze, "la celeste Themis, la buona consigliera, con giumente scintillanti, dalle sorgenti dell'Oceano alla salita dell'Olimpo, attraverso splendide strade"(4).
La "buona consigliera" convocava gli dei alle adunanze e nel banchetto olimpico assegnava i posti ai convitati. In terra presiedeva alle assemblee popolari e ne suggeriva le migliori deliberazioni. Era, in primis, la dea delle leggi non scritte e, perché non scritte, indistruttibili nella loro saldezza, alle quali si appella l'Antigone sofoclea nell'aspro contrasto con Creonte: "Leggi eterne, che non sono di oggi né di ieri e nessuno sa da quando sono apparse"(5).
Themis, dea delle leggi eterne, personificava la giustizia per gli altri dei e per gli uomini.
Secondo Esiodo, Zeus dalla "splendida" Themis ebbe come figlie le Ore: Eunomia, l'ordinamento legale, Dike, la giustizia, e la "fiorente" Irene, la pace, "che curano le opere degli uomini mortali"(6). Ordine, giustizia, e pace: "i doni che quelle dee, generate da Zeus con Themis, portarono nel mondo"(7).
Dike era la copia verginale della madre. "La vergine giustizia, nata da Zeus, gloriosa e veneranda tra gli dei che abitano l'Olimpo, sedeva accanto al padre Cronide"(8). Si diceva di lei che vissuta tra gli uomini durante l'età dell'oro, di fronte alla degenerazione dell'umanità, si fosse ritirata quando i mortali cominciarono impudicamente a violare i principi di giustizia(9).
L'ascesa della dea in cielo e la sua dislocazione nella costellazione della vergine "costituiscono la conclusione dei rapporti precedentemente intrattenuti con gli uomini; la metamorfosi astrale scaturisce da un profondo dissenso della divinità nei confronti del comportamento degli antichi protetti, i quali hanno tralignato dalla retta via, macchiandosi di turpi crimini"(10).
Da quanto sopra detto, chiaramente si desume che la nozione di ordine giuridico era un'idea radicata nell'ordine soprannaturale del mondo divino. Ma il passaggio dalla sfera mitica e cultuale a quella concettuale e istituzionale di themis e dike presenta non lievi difficoltà.
La radice qem/ qhm di q°miV viene ricollegata a qe, radice di t¤qhmi, il cui significato è "porre, collocare, mettere". La formazione di q°miV è vicina a quella di q°meqla, che designa "la base, le fondamenta". La medesima radice si ritrova nel verbo qemisteÊw, "rendo giustizia, giudico" ma anche "dò oracoli, responsi", come anche in q°misteV, "decreti, comandi degli dei".
Da ciò si deducono il significato e il valore di themis, "ciò che è posto, la norma, l'idea di una giustizia universale di origine divina": una nozione peculiare del sistema giuridico di tradizione non scritta, in cui le q°misteV, sentite come preesistenti alla comunità, erano ritenute di origine divina: norme di competenza regia e nobiliare in una società che affidava la trasmissione complessiva del suo patrimonio alla parola, non a documenti scritti.
Esse erano l'insieme di quelle prescrizioni ispirate dagli dei, codici non scritti, raccolte di detti, decreti emessi dagli oracoli che determinavano la condotta da seguire ogni qual volta fosse in gioco l'ordine del ghenos. Le q°misteV, quindi, presuppongono una organizzazione politica e una società strutturata gerarchicamente. Non sembra strano, pertanto, che sottratti alla loro validità e forza precettiva fossero i Ciclopi, i quali, discendenti dagli dei, non avendo organizzazione politica né capi, essi stessi erano autori di peculiari q°misteV per le loro mogli e i loro figli.
Le q°misteV non trovano applicazione nel regno dei morti, i quali sono soggetti solamente a Minosse, unico loro giudice (qemisteÊwn).
Al vertice della "gerarchia normativa", secondo l'antico mito teogonico, è Zeus "il cui occhio tutto vede e tutto pensa"(11). Zeus è patrono del diritto (qem¤stioV) e inflessibile custode delle sacre norme riconducibili a un ideale supremo, assoluto di giustizia.
Nelle monarchie omeriche tali norme vengono interpretate e trasmesse agli uomini dai rappresentanti del potere appartenenti alle più grandi famiglie aristocratiche (ghene): re, sacerdoti, giudici. Il potere rimase nelle loro mani fino a quando lo stato gentilizio venne sostituito da una nuova realtà politica, e, conseguentemente, da una nuova forma di stato, la democrazia che, almeno in linea di principio, "voleva abbracciare la cittadinanza nella sua interezza e rappresentarne gli interessi"(12).
Quanto più si afferma la democrazia nella polis, tanto più si rifà viva l'aspirazione a una giustizia che non sia costantemente umiliata e offesa in tutti i reietti (kako¤) della società aristocratica, i quali trovano appoggio e protezione nei "demioergo¤" (demiurghi, che lavorano per il popolo). Questi, forti di mezzi economici ed intellettuali, contendono il potere all'aristocrazia dominante.
Con la rivendicazione, avanzata dal demos, della pubblicazione di leggi valide per tutti, stabili e durevoli, sottratte all'autorità dei ghene aristocratici, comincia un lento processo di svuotamento del sistema orale. A partire dalla seconda metà del VII secolo a.C., a legislatori designati dalle città, di fatto mediatori tra le classi, viene affidato il compito di redigere codici fissi e pubblici, affinché le leggi diventino bene comune, valide per tutti in egual modo, non soggette all'arbitrio dei basileis; un prodotto umano suscettibile di essere modificato ma soltanto per decreto e dopo essere stato sottoposto a discussione.
"Anche se certamente parte del patrimonio giuridico orale trovò posto nei codici, e anche se la codificazione ebbe dietro di sé l'autorità della classe che deteneva il potere, essa nacque come risultato di un compromesso, di una me-diazione tra le preoccupazioni dell'aristocrazia e le rivendicazioni del demos"(13).
I nomoi, le leggi scritte, si sostituiscono alle q°misteV. La codificazione delle leggi rappresenta per l'antica legislazione orale la perdita progressiva di ogni validità giuridica, con inevitabili conseguenze per il potere e le prerogative dei ghene.
In realtà le q°misteV non si perdono del tutto, perché, essendo serie codificata di regole non scritte, tramandate e applicate ex consuetudine, finiscono per divenire, insieme e spesso in antitesi alle leggi umane, il tessuto dell'ordinamento della comunità cittadina. Le norme "umane", infatti, risponderanno sempre a un ordine superiore, a un ordinamento metapositivo, in cui il popolo greco crederà sempre e che rispetterà, almeno fino ai sofisti (14).
Ancora, quindi, fino al IV secolo, circolava una concezione più o meno accentuatamente giusnaturalistica, che collegava la legge come comando generale a un ordinamento dato ed insito nelle cose.
Ecco il senso e il ruolo della dike. Il diritto, in vigore tra gli uomini, ha una sua radice nel diritto divino; è sempre la stessa concezione non mutata, dunque, col trapasso dal vecchio stato aristocratico autoritario al nuovo ordine razionale dello stato secondo il diritto. "La divinità aveva assunto l'aspetto della ragione e della giustizia umana. Ma l'autorità della nuova legge continuava a riposare sulla sua rispondenza alla legge divina o - come si sarebbe espresso il pensiero filosofico dei tempi nuovi - sulla sua rispondenza alla Natura (fÊsiV) "(15).
Dike, quindi, esprime il concetto di ordine immanente, al quale deve uniformarsi l'azione dell'individuo, in quanto membro della collettività. Da qui il rapporto o nesso ideale tra themis e dike, nel senso che questa è una dipendenza logica dall'altra. Aggiungerei anche temporale: infatti, i due concetti non sono contemporanei, dal momento che l'uno nasce quando l'altro comincia a venir meno. E' noto, infatti, che nella mitologia Dike è figlia di Themis, simile alla madre ma ovviamente più giovane(16).
Circa l'etimologia di dike, secondo Biscardi il termine, postulando l'idea di confine, avrebbe indicato la parte o porzione di spazio spettante a ogni cosa o persona. Ciò, a suo parere, "ricondurrebbe all'idea del diritto come limite alla libertà dei singoli nel consorzio civile"(17). Tale tesi, pur essendo suggestiva, non pare sufficientemente argomentata. Ritengo pertanto preferibile seguire la complessa analisi terminologica di Benveniste, secondo il quale d¤kh (contrariamente a themis che già nella sua radice rivela il senso del termine e il suo valore istituzionale) trova la sua giustificazione etimologica nella radice, con apofonia, deik/dik, del verbo de¤knumi "mostrare", radice che è propria del sanscrito dicati e del latino dicere "dire"(18).
Per arrivare al significato di d¤kh "giustizia" bisogna partire dall'analisi del rapporto tra de¤knumi "mostrare" in greco e dicere "dire" in latino.
De¤knumi è, sì, mostrare, ma con parole, non in altri modi. Mostrare, però, implica in sé il fatto di "mostrare con autorità". Lo dimostra il composto latino iu-dex (giudice). Tutta la storia del latino dicere mette in luce un meccanismo di autorità: solo il giudice, di fatto, può dicere ius. De¤knumi è anche usato nell'accezione di mostrare ciò che deve essere, una prescrizione che interviene sulla forma, per esempio una sentenza di giustizia. Unendo queste accezioni del suddetto termine si ha quindi "mostrare con l'autorità della parola ciò che deve essere", che altro non è che una prescrizione imperativa di giustizia.
Quindi, originariamente, la dike è una formula. Rendere giustizia non è una operazione intellettuale che esiga meditazione o discussione. Si trasmettono delle formule che sono applicate a casi determinati e il ruolo del giudice è proprio quello di conoscerle e applicarle.
Questa formula diviene l'espressione della giustizia stessa soltanto in un successivo momento storico, quando la dike interviene per mettere fine al potere della forza (b¤a) e della tracotanza (ÏbriV). Solo allora la dike si identificherà con la virtù di giustizia e chi avrà la dike dalla propria parte sarà d¤kaioV, giusto.
Ecco perché ad un certo momento della storia della civiltà greca il termine dike indicherà "la giustizia della polis, intesa come giustizia correlativa, nel suo contenuto, alle strutture condizionanti dell'ordinamento cittadino"(19).
Da themis a dike, dalla società aristocratica dei ghene alla polis democratica, l'evoluzione è consequenziale.
"E' una nuova giustizia questa, che presuppone l'autonomia della polis, il passaggio cioè dalla società aristocratica ad una comunità di eguali, in cui il cittadino intanto obbedisce alle leggi (nÒmoi), in quanto le "pone", se non altro nel senso che egli stesso accetta liberamente l'ordine costituito, di cui si considera parte integrante ed attiva. Mentre nella società aristocratica vigeva il principio della eteronomia, per cui il soggetto ordinante era posto fuori della collettività, ora invece il nÒmoV è una forza che muove dal di dentro e s'identifica, ancor prima che nella legge in senso proprio, nella struttura stessa dello stato (pÒliV, pol¤teia, pol¤teuma), il quale accoglie in sé e fa propria tutta la tradizione giuridica che avendo le sue radici in themis è diventata in astratto dike, ideale strumento equilibratore della comunità cittadina e delle istituzioni che ne rappresentano, per così dire, il tessuto"(20).
I nÒmoi si presentano come l'unico strumento idoneo a ricevere quest'ordine naturale e il procedimento legislativo è sempre controllato da chi, nella città, detiene il potere politico.
Rispetto all'amministrazione della giustizia nell'età monarchica e al suo rapporto con l'individuazione delle regole di condotta da applicare, il fatto che i nÒmoi siano fissati per iscritto rappresenta uno sviluppo, decisamente voluto, verso la certezza del diritto contro possibili prevaricazioni da parte di organi giurisdizionali.
I nÒmoi e la dike appartengono, pertanto, a due piani affatto diversi. L'elemento decisivo rimane per gli Elleni non l'ordinamento giuridico visibile, la legge positiva, ma l'idea etica della giustizia.Per i Greci la dike era la base indispensabile della comunità, essendo lo stato concretizzazione di un'idea morale.
Eschilo e il problema della giustizia divina
Le figure di Themis e Dike, di Zeus e di Ate, della Moira e delle Erinni forniscono ai tragici categorie e immagini particolarmente idonee ad esprimere poeticamente un'esperienza spirituale molto viva e intensa.
Il punto di partenza è sempre il medesimo: l'intuizione, propria anche di Omero, Esiodo e Solone, che uomini e dei siano protagonisti di una comune vicenda, corresponsabili (suna¤tioi) del bene e del male di cui l'uomo è artefice. La tracotanza (hybris) umana attira la giusta punizione divina, come già aveva affermato Solone(21).
La coscienza greca, già prima del V secolo, si era dunque elevata al pensiero della giustizia divina. Gli dei apparivano come i custodi di un ordine eterno di giustizia, insieme cosmico, morale e civile. Il dramma, che vede uomini e dei ora contrapposti, ora affiancati, è essenzialmente il dramma della giustizia divina, cara agli dei e violata spesso dall'uomo non di rado per malvagia passione, talora per cieca ignoranza ma anche per fatalità tremenda. E poiché la giustizia esige che alla colpa segua la pena, la tragedia diventa la rappresentazione esemplare della sofferenza umana, degli ingiusti e degli innocenti, dei colpevoli e delle loro vittime.
Nella realtà tragica, in cui si intrecciano le passioni e i fatti, spesso si perdono di vista le ragioni di una giustizia superiore: l'eroe tragico si interroga e interroga la divinità. Il significato dell'umano esistere e soffrire sembra per lo più oscuro, a volte, ma raramente, abbastanza chiaro.
Al dramma della sofferenza si aggiunge, in Eschilo, quello della lotta tra le antiche divinità figlie della Terra, e le nuove, figlie del Cielo luminoso, il contrasto cioè tra la concezione pre-razionale e la nuova, razionale, del concetto etico di giustizia. Nel V secolo la riflessione dei tragici sui concetti morali di giustizia, colpa, responsabilità, sembra andare di pari passo con la riflessione dei filosofi contemporanei o anticipare la riflessione filosofica immediatamente successiva.
Anche quella della tragedia è profonda riflessione filosofica, fatta da uomini non filosofi, ma dotati di una sensibilità e di una capacità introspettiva tali da rendere loro possibile cogliere quelle problematiche che tormentavano la coscienza collettiva ellenica del V secolo.
In quel periodo così ricco di fermenti e di incertezze Eschilo assurse a guida morale e intellettuale della sua polis, alla quale volle indicare, attraverso la problematizzazione attualizzata delle vicende mitiche che portava sulla scena, le prospettive etico-religiose e socio-politiche entro cui i cittadini dovevano regolarsi nel loro agire.
Eschilo volle dunque educare dalla scena gli Ateniesi ponendoli di fronte agli interrogativi più scottanti dell'umano esistere. Parlava al suo popolo, non al suo ceto: "non vi è lode, che la tragedia potesse tributare, più alta di quella di possedere una mente nobile, che però non era più eredità di sangue: anche lo schiavo poteva agire nobilmente (genna¤wV), poteva dar prova della sua eccellenza, della sua éretÆ"(22).
Unitaria è la visione cosmica di Eschilo. In essa strettamente congiunti sono per lui il mondo divino e quello umano: "La polis con le sue leggi e le sue istituzioni è il riflesso del kÒsmoV divino; l'uomo agisce all'interno di un consolidato sistema di valori; le ragioni dell'individuo sono ancora legate a filo doppio alle norme della collettività"(23).
La sua concezione della giustizia risente della dicotomia tra accostamento alla religione statale, pubblica, ricca di splendide manifestazioni letterarie ed artistiche, e l'adesione al culto antichissimo della Madre Terra, con tutto il seguito di divinità ctonie che costituirono l'oggetto del primitivo culto delle popolazioni mediterranee(24).
Fu Pisistrato a dare vita, in una sintesi lungimirante, alle varie manifestazioni di religiosità del popolo ellenico. Egli riordinò i culti dei misteri, principalmente il dionisiaco e quello eleusino, che in tal modo divennero culti ufficiali dello stato, pur rimanendo "culti misterici" vincolati dal segreto(25).
Dio è giustizia, stando alla religione anaria della Terra, ma secondo la religione aria è potenza senza alcuna norma, è arbitrio incontrollabile. Eschilo sentì che questi due orientamenti dovevano armonizzarsi in una verità unica, convinto che si trattasse di due anime viventi nell'unica anima ellenica.
Dio è giusto perché il male è punito; non c'è chi possa sfuggire alle conseguenze delle proprie colpe. Ma perché soffre anche chi non opera il male, perché mai soffre il magnanimo Prometeo o il generoso Eteocle?
Due concezioni fondamentali si incontrano, dunque, nel pensiero eschileo: da un lato quella, della religione ctonia, di una giustizia naturale, immutabile e ineluttabile, il cui trionfo non può mancare; dall'altra quella propriamente aria, della eterna, disperata lotta dell'uomo contro un destino invidioso ed ostile.
Onnipresenti sono gli dei nel mondo di Eschilo, onnipresente è anche la giustizia divina. Ma non si tratta di un mondo ordinato. È un mondo che aspira all'ordine, soffocato però dal mistero e dalla paura; un mondo dove la violenza regna sovrana, dove si uccide e si è uccisi: questo mondo di dei, che si vorrebbero giusti, appare popolato da forze terrificanti,connesse a credenze primitive. Il sangue versato non si cancella, anzi riprende vita. I morti tornano, gli uomini sono in preda a incubi e ad orripilanti mostri come le Erinni. Ma in quelle forze spaventose, nel mistero che avvolge il sacro, pur nell'angoscia e nella paura il poeta coglie e invita a cogliere le tracce di una giustizia divina, che difficilmente si scorge perché oscura.
Dike, la Giustizia, è quindi in Eschilo connessa con potenze demoniache, anzi è essa stessa potenza demoniaca(26). Duplice la sua origine, demonico-naturistica e civica: questo "doveva destinarla ad una funzione drammaticamente dialettica nello sviluppo del pensiero greco"(27).
È assiomatico che esista una legge, la legge di Dike, ma quale è, e in cosa consiste essa realmente?
Dike appare oscura, invisibile o incomprensibile. È estremamente significativo un passo delle Coefore (vv. 61-69): "Il traboccare di Dike veloce avvolge nelle tenebre alcuni che stanno in piena luce: altri attende al confine con la tenebra; germogliano le colpe con l'andar del tempo; altri invece opprime la notte priva d'agire. Per sangue bevuto dalla terra nutrice un delitto vendicatore si raggruma senza stillare. Ate dolorosa conduce il colpevole al fiorire di una malattia tremenda"(28).
Presto o tardi, inesorabile, dunque, giunge la vendetta quando la terra per nefando delitto ha assorbito sangue. È la giustizia che fin dalla soloniana Elegia alle Muse (fr. 1 D., vv. 15-16) "taciturna mira, che vede il passato e il futuro e infallibile un giorno torna a chiedere il conto".
Anche se a volte pare che non intervenga, rimane sempre desta la potenza, non eliminabile, del sangue versato nella "terra nutrice" che annienta il colpevole. Dall'idea di giustizia che si delinea problematica, qui si procede all'infallibile legge del sangue che esige espiazione. Perché ci sia giustizia bisogna ammettere che arriverà a qualsiasi costo.
Dike tuttavia è una parola divina: "una caratteristica di tutte le "parole divine" va riconosciuta appunto in uno sdoppiamento antitetico, inerente alla loro sacralità originaria"(29). I personaggi che operano nella realtà tragica spesso hanno dinanzi a sé scelte che pur conformi a giustizia sono in contrasto tra loro. L'eroe tragico è costretto a scegliere ma qualsiasi scelta non può che essere perdente in partenza, dal momento che presuppone in se stessa l'édik¤a. Tale dissidio, drammaticamente enucleato, con la chiara formula Dike contro Dike (Coefore v.461) "corrisponde al ritmo fondamentale del divenire, giacché si risolve in quel contrasto proprio del divino"(30).
La giustizia assoluta non esiste. Le Danaidi temono che la loro dike non si attui; rimane una sola possibilità, che ottengano protezione nel riconoscimento della hybris degli Egizi i quali sono indubbiamente prevaricatori, ma non si può dire conforme a giustizia il comportamento delle Danaidi che, di-sdegnando le nozze, non onorano Afrodite. Tutti gli dei devono essere onorati, per cui, secondo Eschilo, la lotta tra gli Egizi e le Danaidi non è lotta di ingiusti contro giusti ma di ingiusti contro ingiusti, o meglio alla dike delle figlie di Danao si contrappone quella dei figli di Egitto: ogni diritto è necessariamente legato a una colpa. Pelasgo, il re di Argo,accoglie il disperato appello delle Danaidi, che a lui si sono rivolte chiedendo protezione in nome di Themis, "protettrice dei supplici, figlia di Zeus dispensatore del destino" (Supplici v. 360). Egli sa di dover prendere una decisione fra due diritti, ciascuno dei quali implica una colpa. Il contrasto insanabile fra due diritti è colto con la rappresentazione del sovrano tormentato in una situazione senza via di uscita: "Siamo arenati a questo punto: è del tutto inevitabile suscitare una grave guerra o con gli uni o con gli altri, e la nave è inchiodata come se fosse trascinata a riva da argani navali. Senza dolore non c'è via d'uscita" (Supplici vv. 438-442).
Non meno chiara è l'idea nei Sette contro Tebe: Polinice muove contro Tebe, convinto di essere guidato da Dike (v. 646), ma non meno convinto ne è Eteocle (vv. 670-671).
Nell'Agamennone Clitennestra, che si proclama "artefice di giustizia" (v.1406), insiste sulla propria dike (vv.1430-1432), dopo aver biasimato il coro "giudice severo" (v. 1421) delle sue azioni. La dike di Clitennestra si contrappone a quella di Agamennone, così come la dike di Agamennone (vv. 1665-1669) si erge antitetica a quella di Egisto (vv. 1607-1611).
Oreste per onorare Dike, gravemente offesa da Clitennestra, è spinto a nuovi delitti. Il giovane, costretto a commetterli, pagherà con una colpa l'esecuzione ineluttabile della vendetta.
Chiaro ed esplicito si fa, nelle Eumenidi, il conflitto finale dove a un diritto divino si contrappone un altro diritto, anch'esso divino. Infatti le Erinni oppongono la propria dike a quella degli dei nuovi e si rivolgono ad Apollo così apostrofandolo: "O figlio di Zeus, sei un ladro; tu giovane hai travolto vecchie divinità proteggendo il supplice, un uomo senza dio e feroce con i genitori e tu, pur dio, ci hai sottratto il matricida. Quale tra queste azioni potrebbe dirsi giusta?" (Eumenidi vv. 149-154). Evidente il dissenso tra le due stirpi di dei, la più recente delle quali è accusata di violare le antiche norme etiche, dando protezione a un matricida. Proprio le Erinni vedono duplice l'azione di Oreste, quando la definiscono dike e colpa (d¤ka ka‹ blãba v.492), con un efficace ossimoro: non possono disconoscere che si tratti di dike, anche se in antitesi con la loro dike.
Nel dilemma che la scelta tra due azioni comporta, l'eroe tragico spesso non sa quale decisione prendere, come il re di Argo angosciato al pensiero di dovere scegliere se agire o non agire (drçsa¤ te mØ drçsai, Supplici v. 380).
Colpa e responsabilità diventano a questo punto centrali nella problematica del concetto di giustizia del poeta: colpa nel senso che qualcuno deve rispondere di qualcosa, a meno che tutto non sia da attribuire solo agli dei o, meglio, alla moira.
Nella tragedia greca gli dei sono coinvolti anche quando non compaiono sulla scena e l'uomo, stretto ancora da un legame religioso, si domanda, ogni volta, fino a qual punto nel suo agire e patire gli dei siano corresponsabili, se non addirittura responsabili e pertanto colpevoli.
Sulla attribuibilità della colpa la critica si è molto soffermata, ma a mio avviso le correnti si sono polarizzate attorno a due grandi studiosi del passato, Charles Moeller e Rodolfo Mondolfo. Per il primo la responsabilità è solo all'inizio delle vicende e in minima parte attribuibile all'uomo(31). Tutto comincia da un sia pur minimo atto di hybris, che è un traviamento dell'uomo il quale, dimentico della sua condizione di mortale oltrepassa i limiti della swfrosÊnh. Anche se esiste un traviamento fatale la fatalità è nell'uomo: il peccato di hybris nasce sempre da un eccesso che può essere di potenza o di ricchezza o anche di felicità. L'uomo allora diventa nemico degli dei. Nell'istante in cui egli dimentica la sua condizione di mortale, e dunque i suoi limiti, la divinità interviene per impadronirsi di lui; non ha il tempo di riprendersi poichè il destino manda Ate, l'errore, la follia, che pesantemente graverà sulla sua caduta. Come se fossero timorosi che il misero ritorni in sé gli dei chiudono tutte le vie d'uscita. Si direbbe che altro non aspettino che il nihil obstat dell'uomo; il minimo cenno è sufficiente. Allorché lo sventurato vorrà riprendersi non sarà più compos sui.
Per Moeller "se fra i mortali vi sono delitti, è impossibile che essi ne siano interamente colpevoli. Ecco perché la colpa appare sempre come un traviamento, una follia (ênoia parãnoia) come un fatale accecamento, irrazionale e inspiegabile se non con l'intervento degli dei o della fatalità […]. Il delitto di hybris, nato da un istante di oblio della condizione di mortale, è immediatamente rinforzato e appesantito da Ate, l'Errore, mandato dagli dei perché più sicuramente il colpevole si perda. La nozione di colpa è sempre inestricabilmente mescolata a quella di fatalità […]. Il mondo antico è dominato dal determinismo delle cause cieche. L'irrazionale non è nell'uomo, è negli dei. Gli uomini sono spontaneamente "ragionevoli", belli, grandi. Soltanto le cause esteriori li fanno inciampare"(32).
Centrale è quindi in Moeller l'innocenza dell'uomo che, nei suoi delitti, sarebbe strumento e vittima della crudeltà del destino e della malvagità degli dei. Eteocle, Agamennone, Clitennestra, Oreste sono autori di crimini inevitabili, spinti da una funesta eredità di colpe, dalla fatalità del "sangue che chiama sangue", trascinati dall'impulso irresistibile del demone vendicatore (da¤mwn élãstwr), avido sempre di nuove vittime, resi ciechi da Ate e dalle Erinni.
Alla teoria del Moeller si contrappone una schiera di critici, dal Mondolfo all'Adkins all'Untersteiner fino ai più moderni Newiger e Nussbaum(33). Questi studiosi, pur con sfumature differenti, ritengono concordemente quanto meno corresponsabile l'uomo nel commettere misfatti. "La malvagità umana volontaria e libera, nell'Orestiade, come nelle altre tragedie eschilee, è la prima autrice del peccato; solo come conseguenza sua si trasmette poi alla stirpe l'eredità delle colpe. Coopera all'idea di questa trasmissione tutto un complesso di antiche credenze, religiose e magiche, e di concezioni e usanze giuridiche: la credenza nella contaminazione prodotta da ogni contatto o rapporto con persone macchiate di impurità o di peccato, la credenza nel potere magico della maledizione rappresentata da Ate, il costume giuridico-sociale-religioso della solidarietà familiare e dell'eredità, nel ghenos, del tremendo dovere della vendetta, connesso con la religione dei morti (cioè imposto dai morti alle loro progenie) e rappresentato dalle Erinni. Ma la identificazione, che troviamo ripetutamente nella tragedia, di Ate o delle Erinni con lo stesso soggetto colpevole, ci invita a non vedere in questi poteri divini o demoniaci puramente e semplicemente una esteriorizzazione della causa del peccato, un'idea di innocenza e di irresponsabilità del peccatore […]. La colpa corrisponde ad una responsabilità del suo stesso autore, non ad una Ate estranea"(34).
"Ma quando uno si affretta egli stesso, anche il dio coopera" (Persiani v. 742).
In questo consiste la colpa: quando un uomo accelera il proprio destino, allora, e solo allora, intervengono gli dei.
"L'uomo della tragedia agisce secondo la propria responsabilità. La sua azione lo rende colpevole. A rendere interessante anche per noi l'eroe della tragedia e assicurargli la nostra compassione, a renderlo grande, è il fatto che egli non si sottrae alla necessità dell'azione, ma si assume la responsabilità e la colpa"(35).
La tragica catena di delitti, che porta a totale rovina una stirpe maledetta, ha il suo primo anello nella colpa di un antenato, che l'ha freddamente commessa, in piena coscienza e libertà: qualcosa come un "peccato originale, le cui conseguenze di predestinazione al peccato si limitano, nella tragedia, alla discendenza familiare e non possono estendersi oltre"(36).
"A gran voce grida Dike, pretendendo il suo debito e in cambio di colpo mortale, mortale colpo sia restituito: chi ha agito soffra (drãsanta paqe›n): parola tre volte antica così proclama" (Coefore vv. 309-313).
Agire dunque vuol dire soffrire. Ma allora perché agire, perché scegliere, perché non abbandonarsi al destino che la moira ha preparato per l'uomo?
"Il pensiero di Zeus non è facile da comprendere; dappertutto sfolgora anche nella tenebra, con vicissitudini oscure per le genti mortali" (Supplici vv. 87-90).
Il significato della condizione umana e le linee del volto divino appaiono a volte oscuri, a volte -ma è raro- chiari; "più spesso è la penombra resa traslucida dalla fede o invece fatta opaca dal dubbio"(37).
Attraverso l'esperienza del dolore, la difficoltà della scelta, il rimorso delle colpe, l'uomo impara a comprendere il senso della tÊch, che nella realtà esistenziale è la zona incognita entro cui si collocano gli eventi. La sorte è per lo più oscura, ma è anche qe›a tÊch, la divina sorte, un raggio di luce nelle tenebre. Chi sa aprirsi a tale luce è ammaestrato dalla sofferenza stessa. Un aiuto viene proprio da Zeus che "ha condotto l'uomo ad esser saggio, stabilendo che avesse valore l'apprendere attraverso la sofferenza (pãqei mãqoV, Agamennone, vv. 176-178).
"Dike fa pendere la bilancia della salvezza verso chi ha sofferto" (Agamennone, vv. 249-251).
Esiodo aveva detto: "Lo stolto (nÆpioV) impara dopo aver sofferto (Opere e Giorni v. 218). Stolto è colui che è costretto a riconoscere di aver commesso l'imprudenza di ostinarsi irragionevolmente in una contesa inutile. "In Eschilo, non si tratta di riprova spicciola offerta dalle contingenze, ma di una comprensione intellettiva e meditativa per cui l'anima si purifica e si rinnova; e l'esperienza della legge si attua nell'infinità dello spazio e del tempo"(38).
Il pãqei mãqoV rappresenta il fondamento ultimo della religione tragica di Eschilo. È un concetto espresso in un modo e con una profondità del tutto nuovi: daimÒnwn cãriV, dono divino (Agamennone. vv. 182), è l'integrità del senno che attraverso la sofferenza fa comprendere, a chi ne è colpito, quale pregio abbia il drãsanta paqe›n, il patire per chi agisce. Agire e patire sono tutt'uno. "Solo il dolore è compimento all'uomo: esso costituisce il fondamento dell'accadere esistenziale in quanto per mezzo del pãqoV otteniamo il mãqoV, in quanto per mezzo del dolore impariamo chi siamo e che cosa ci tocca"(39).
Il perché fatti tremendi avvengano trascende l'umano. Rimane il mãqoV: "il dolore ricorda ai mortali, tentati di dimenticarlo, la loro condizione di mortali, il limite, cioè, invalicabile fra gli dei beati e gli uomini votati alla morte. La sofferenza è come un segnale d'allarme che funziona quando la frontiera dell'umano viene oltrepassata"(40).
Provvida sventura, perché insegna all'uomo, quando è colpito dal dolore, o quando ne è addirittura colpita tutta una stirpe, a riconoscere il castigo per colpe presenti o passate, proprie o degli altri. Corresponsabili (suna¤tioi) del bene e del male che l'uomo opera sono demoni e dei,ma l'uomo certamente non è éna¤tioV: gravi sono le sue responsabilità.
L'umana tracotanza e stoltezza attirano la giusta punizione divina, come già aveva affermato Solone(41). Anche se subisce l'influsso di un demone vendicativo (da¤mwn élãstwr) che personifica la predisposizione di chi è colpevole -individuo o stirpe che sia- a commettere nuove colpe, l'uomo deve resistere alle pulsioni malvagie e fare di tutto per liberarsi dal male attraverso la pietà e la comprensione.
Se è innegabile che "il tragico è una categoria che non si elimina"(42), nella concezione eschilea rimane vero che "chi soffrendo ha capito si converte alla giustizia vera cioè spassionata, e converte entro di sé il mondo del disordine in mondo dell'ordine. Si placa il mondo: nasce la civiltà"(43).
Dal pãqoV al mãqoV, dunque: è questa la legge che la saggezza di Zeus ha dato ai mortali. Essa supera, senza però distruggerla, la legge più antica che "chi ha fatto patisca".
Ma anche gli dei, non escluso Zeus, come apprendiamo dal Prometeo eschileo, devono soffrire per imparare la nuova legge. Le divinità antiche e nuove combatteranno aspramente in difesa delle diverse concezioni della giustizia, l'antica che vuole "sangue per sangue" e la nuova che guarda all'animo oltre che ai fatti. I nuovi dei, usciti vincitori dal conflitto, instaureranno la nuova giustizia, non più con potere e violenza (krãtoV e b¤a)(44), finché tutti gli dei, antichi e nuovi, comprenderanno che dove regna giustizia non possono esserci né vincitori né vinti e che "se il diritto inesorabile è migliore della forza, la giustizia non ignara di compassione è migliore del diritto"(45). Solo allora, finalmente, ci sarà pace fra i mortali.
È questo il percorso di Eschilo il quale, partendo dalla concezione antica della giustizia, tende alla composizione di tutti i conflitti e al raggiungimento della vera giustizia. Le Erinni diventeranno Eumenidi, le maledizioni benedizioni, la tirannide cederà il posto all'eunomia, il sacro terrore alla venerazione degli dei(46).
Delitto e castigo nei Persiani
I Persiani rappresentano un unicum: Eschilo rinuncia al solito repertorio mitico, rifacendosi al grande evento storico, al quale, otto anni prima della rappresentazione del dramma, insieme a lui avevano partecipato non pochi degli spettatori.
Essi "non sono, però, 'storia drammatizzata'. Non sono un lavoro drammatico patriottico nel senso corrente, scritto nell'ebbrezza della vittoria. Guidato da profondissima sophrosune e consapevolezza dell'umana limitatezza, Eschilo fa anche una volta testimone il popolo dei vincitori, che l'ascolta con raccoglimento, dell'impressionante spettacolo storico della hybris persiana e della tisis divina, che piomba schiacciante sulla prepotenza dei nemici, già certi della vittoria. La storia diventa qui essa medesima mito tragico, poiché ha una sua grandezza e perché la catastrofe umana rivela in guisa così evidente la mano divina"(47).
Si erano scontrate autocrazia persiana e libertà greca. Il cittadino, nella dialettica col barbaro, ha preso coscienza di sé con le caratteristiche tipiche della polis e dell'uomo greco. La tragedia greca, non solo i Persiani, è impensabile al di fuori del contesto politico dell'Atene del quinto secolo(48).
La vittoria dei Greci sui Persiani apparve la vittoria della civiltà contro la barbarie, di Dike contro l'adikia(49). Fu la vittoria del diritto, che per Eschilo era "assolutamente una potenza divina"(50): restaurazione dell'ordine divino universale.
Attori, nel dramma eschileo, sono gli uomini, ma soprattutto le potenze sovrumane. L'uomo è oggetto del destino. Per Eschilo tutto quel che accade è subordinato al problema prevalente della teodicea, come era stato sentito da Solone(51), che per altro si riallacciava all'epos omerico, in particolare al celebre passo dell'Odissea (I, 32 sgg.), dove chiaramente la responsabilità delle umane sventure non è da addebitarsi agli dei, ma all'insipienza degli uomini. E' quanto si rileva attraverso "le linee di una grandiosa progressione che portano dalle strofe angosciate del coro iniziale alla scena di Atossa col racconto del messo, al racconto del messaggero con la descrizione della battaglia (è il monumento più bello per Salamina), all'invocazione di Dario e infine allo scioglimento, con la sconfitta di Serse che incarna sulla scena la catastrofe e suscita il compianto finale, in una tumultuosa atmosfera asiatica"(52).
Personificata in un demone rovinoso Ate è l'accecamento della mente, la follia colpevole della condotta irrazionale che porta a rovina e merita la punizione.
Eric Dodds rileva al riguardo "la precisa interpretazione teologica che fa dell' ate non soltanto una punizione, fonte di rovine fisiche, ma addirittura un inganno voluto, che sospinge la propria vittima a nuovi errori, intellettuali o morali, affrettandone la rovina - l'atroce dottrina secondo la quale quem deus vult perdere, prius dementat"(53).
"Quale uomo mortale eviterà l'inganno astuto di un dio?" (vv. 92-93). Anche Serse ne è vittima, il che potrebbe costituire per lui un'attenuante, ma il giovane sovrano è reo di aver agito contro la Moira, la dea del destino, personificazione della parte assegnata ad ogni uomo e ad ogni popolo, secondo il volere divino.
Al sacrilegio commesso da Serse aggiogando l'Ellesponto è seguita dunque un'altra grave colpa: oltrepassando i limiti della sua "mo›ra" egli ha tentato di imporre il giogo alla Grecia.
Temuta ma non inattesa arriva la notizia dell'immane disastro attraverso il racconto del messaggero che distrugge ogni residua speranza della regina Atossa e dei vegliardi.
Ignaro dell'ordinamento divino, il messaggero attribuisce la sciagura a uno spirito o un nume ostile ai Persiani (élãstwr µ kakÚV da¤mwn), apparso non so da dove" (v. 353).
È evidente che qui interprete della storia non è il nunzio ma il poeta stesso, la cui fede nella giustizia è stata confermata, anzi accresciuta dall'evento, tremendo per i Persiani, per i Greci mirabile. "L'evento nel quale il poeta riconosce il doppio effetto del divino è uno e il medesimo: la battaglia di Salamina… QeÒV e daimon non sono, dunque, concetti rigidi di un dogmatismo teologico, ma designano le due possibili maniere di agire del divino e, per esprimerci ancora più discretamente, le due forme in cui la realtà si manifesta, alle quali l'uomo partecipa in virtù della sua esistenza. La polis vive nella tensione di queste forze"(54). Giustamente viene osservato che "la figura in cui viene veduta la potenza che agisce si modifica insieme col punto di vista di chi osserva"(55). L'evento portava per i vinti l'impronta dell'inesorabile ira divina, della benevolenza divina per i vincitori.
Alla folle sconsideratezza (dusjrÒnh) di Serse si contrappone la saggezza (swjrosÊnh) di Dario, la cui ombra insistentemente è evocata dal Coro. Dario ammonisce anzitutto a non tentare mai più una spedizione in terra greca ("la terra stessa infatti è loro alleata", v. 791)(56). La sua è la voce della più alta sapienza che scopre, smascherandola, la hybris umana che ignora la legge dell'ordine cosmico.
Dal saggio sovrano, che nel regno del mistero tutto vede ormai sub specie aeterninatis, viene la verità su quel che è accaduto: "Su mio figlio Zeus ha scagliato il termine dei vaticini: e io che, non so come, mi illudevo che di qui a lungo tempo gli dei li avrebbero adempiuti! Ma quando uno si affretta egli stesso, anche il dio coopera" (vv. 739-742).
"La potenza dei drammi di Eschilo consiste anche in questo: un equilibrio esistenziale infranto provoca un conflitto insolubile e un fatale regolamento di conti; dopo l'iniziale colpo di pollice, la ruota comincia angosciosamente a girare. A fabbricare un destino di morte contribuiscono con uguale, feroce ostinazione l'errore dell'uomo e il risentimento degli dei"(57).
"Quando uno si affretta egli stesso, anche il dio coopera" (v.742). All'azione dell'uomo privo di un vigile senso del limite, che nella sua folle insipienza vuole affrettare il corso degli eventi, anche la divinità collabora rendendo la colpa irreversibile. E' un punto di fondamentale importanza per la comprensione del pensiero di Eschilo.
L'azione divina trova una giustificazione. "Gli uomini accusano un cattivo Demone e dubitano della giustizia degli dei, che ad essi, nella sventura, appaiono cattivi. In realtà gli dei intervengono e cooperano solo quando scorgono un uomo che vuole accelerare il corso del mondo. Quanto a Serse, si afferma che egli, nella sua arroganza, vuole addirittura costringere gli dei. Dunque l'uomo che accelera si oppone agli dei ed è colpevole e responsabile"(58).
Colpevole Serse, non meno colpevoli i Persiani che "penetrati in Grecia non ebbero ritegno di spogliare le statue degli dei e di bruciare i templi" (vv.809-810).
I Persiani hanno oltrepassato i limiti fissati, perciò "mucchi di cadaveri anche alla terza generazione senza parlare saranno segno agli occhi degli uomini che chi è mortale non deve superbamente pensare. La colpa, infatti, fiorendo dà come frutto la spiga di Ate, donde miete una messe tutta di lacrime" (vv.818-822)
"Zeus sovrasta come vindice dei pensieri troppo superbi, giudice severo (eÎqunoV barÊV)" (vv.827-828).
Hybris-tisis, delitto e castigo. L'impresa di Serse era fallita perché era hybris e Zeus, "vindice dei pensieri troppo superbi", non ha tollerato che fossero travalicati i confini fissati dalle leggi divine, eterne e inviolabili.
L'uomo può liberamente decidere di agire contro quanto è stabilito nell'ordine cosmico, ma deve sopportare gli effetti del suo agire. "E' questa la tragedia dell'uomo; gli impulsi della sua natura, la propria volontà lo irretiscono in un conflitto con l'ordine universale in cui egli, necessariamente, soccomberà(59).
Serse, avendo dissennatamente agito contro tale ordine, ha precipitato sé e il popolo tutto nella rovina. "Eschilo riconosceva qui l'impero di dike e dike riceveva la sua potenza da Zeus(60).
A Dario non resta che esortare i vecchi fidi consiglieri ad aiutare il figlio a prendere coscienza di sé, ispirandogli saggezza con ragionevoli consigli, perchè cessi di lasciarsi accecare dagli dei per la sua presuntuosa baldanza (qrãsei) (vv. 829-831).
In verità, è possibile intravedere già, nelle parole di Dario, un concetto che "rappresenta il fondamento ultimo della religione tragica di Eschilo"(61). Vano non è il dolore ed ha un suo profondo significato: anche dal dolore può venire una lezione di saggezza. E' il pãqei mãqoV, l'insegnamento attraverso il dolore, reso esplicito nella parodo dell'Agamennone (vv.176-178): "Zeus ha condotto l'uomo ad essere saggio, stabilendo che avesse valore l'apprendere attraverso la sofferenza". E ancora nell'Agamennone (vv. 249-251): "Dike fa pendere la bilancia della saggezza verso chi ha sofferto".
"Tutte le opere di Eschilo poggiano su questa grande verità spirituale. Dal Prometeo, l'arco volgendo un po' indietro, attraverso i Persiani, dove l'ombra di Dario enuncia tale nozione, conduce alla dolorosa profondità delle preghiere delle Supplici, dove le Danaidi si sforzano, nelle loro angustie, di intendere le vie imperscrutabili di Zeus; in avanti, conduce all'Orestiade, dove nella solenne preghiera del coro dell'Agamennone, la fede personale del poeta trova la sua forma più alta"(62).
Eteocle l'eroe maledetto
Riempie la lunga scena (vv. 375-649), che ha dato il titolo alla tragedia, il racconto del messo che annunzia l'attacco imminente a Tebe e descrive i guerrieri che assediano la città, i sette condottieri dell'esercito argivo pieni di vita e molto ben caratterizzati.
Al centro dell'azione è Eteocle. Lo è a tal punto da rendere non difficile condividere l'opinione di Gennaro Perrotta: "La tragedia, come bene si intitola i Sette contro Tebe, potrebbe intitolarsi ugualmente bene Eteocle"(63).
Ultima della trilogia tebana, rappresentata nel 467, la tragedia era preceduta da il Laio e l'Edipo. Seguiva il dramma satiresco la Sfinge.
Si ritiene che il Laio e l'Edipo si riferissero al parricidio e all'incesto di Edipo, nonché alla maledizione da lui scagliata contro i figli, i quali avrebbero dovuto "spartirsi le sostanze con l'arma in pugno" (Sette, vv. 788-790)(64). La maledizione atavica come colpa che genera colpa si rifà a quella di Solone per il quale il colpevole prima o poi paga il fio ed anche "la colpa i figli innocenti per lui scontano oppure la più tarda progenie" (fr. I D., vv. 29-39).
Non può dirsi che la tragedia, unica della tetralogia a noi pervenuta, sia un'opera di "attualità" sulla guerra civile.
Eschilo mette in risalto l'atmosfera cupa e angosciosa di una città in grave pericolo che si sta preparando alla difesa e, nel contempo, il dramma di un uomo il quale, conscio della sua responsabilità di capo, deve decidere, nel miglior modo possibile, la difesa della sua città e prepararsi ad affrontare il fratello in una lotta all'ultimo sangue, costretto da una maledizione che per una lunga serie di colpe pesa su di lui non meno che sul fratello.
Nella tragedia che Aristofane definì un "dramma pieno di Ares"(65), il comportamento dei personaggi mostra come tutto sembri già deciso dagli dei. Da una parte è il giovane re, lucido e saggio, che si rivolge agli dei affinché salvino la sua patria, dall'altro un coro di giovani tebane sconvolte dal dolore, che disperatamente invocano dagli dei protezione e salvezza per la città assediata. Alla loro preghiera, colma di greve angoscia, si unisce quella più serena e pacata di Eteocle. Le loro preghiere saranno accolte, Tebe sarà risparmiata, ma la maledizione di Edipo avrà comunque compimento: Eteocle e Polinice non si salveranno. Così gli dei hanno deciso, così sarà.
Gli uomini sembrano in balia di un destino superindividuale che li avvolge e guida. Eteocle muove senza tentennamenti verso il suo destino, mentre il Coro rievoca, premessa e presagio della tragica fine dei figli dell'incesto, la storia di colpe e follie dei Labdacidi, cui l'Erinni si appresta a porre fine.
La superbia degli assedianti sistematicamente è opposta alla virtù degli assediati; la città sarà salva, come era stabilito, i due fratelli periranno l'uno per mano dell'altro, come era stabilito.
I Sette contro Tebe sono "la più fatalistica delle tragedie eschilee che ci sono giunte"(66). Eteocle, infatti, ha accettato di battersi con suo fratello (vv. 672-675) perché vittima di una maledizione, perché il peso di crimini antichi e orrendi grava su di lui innocente e non gli è possibile sottrarsi al suo destino.
Ci troviamo qui di fronte a una giustizia divina che sconcerta gli spiriti moderni: una giustizia che punisce i colpevoli nei loro figli e nel punire provoca nuovi mali e nuovi lutti. Sembra che non ci sia nessuna libertà per i mortali, nessuna possibilità di scelta nell'agire, eppure a tratti la tragedia "mostra in un luogo la lotta tra l'idea della fatalità e la convinzione di una possibilità che ha l'uomo di sottrarsi al dominio di essa"(67).
È il Coro che esorta Eteocle a respingere la violenza delle passioni. Espressioni come "non ti trascini l'accecamento che invade gli animi e infuria con la lancia: scaccia l'inizio di questa passione funesta" (vv. 686-688) rivelano come la decisione non sia affidata a un da¤mwn, vendicatore dei mali della stirpe. L'ultima decisione spetta ad Eteocle. L'autodominio suggerito dal Coro serve per stimolare in Eteocle la resistenza al rovinoso impulso sanguinario, resistenza che può mitigare lo stesso da¤mwn, giacché "forse il nume, mutatosi col tempo, per una conversione della volontà, potrebbe giungere con un soffio più mite" (vv. 705-708).
Eteocle però non è persuaso. Consapevole del proprio destino, è l'eroe tipico della gente aria, tutto funesto furore. Nessun ottimismo si intravede per quel che riguarda il trionfo della giustizia. La sua fede nella protezione degli dei appare secondaria rispetto alla sua intrepida volontà guerriera. Eteocle pensa che a quel destino ostile, che lo vuole avverso al fratello, non possa sfuggire senza essere tacciato di viltà. L'eroe si erge, pertanto, contro il destino e ritenendo di volere ciò che gli dei hanno voluto per lui, brama spezzare il cerchio del destino che lo avvolge, con la sua volontà forte, adamantina. Il destino lo domina, lo costringe a fare ciò che nessun essere umano vorrebbe; egli allora fa del destino lo strumento con cui affermare la libertà del suo spirito. Non accetta passivamente la morte. "Una morte precoce è un vantaggio rispetto a una tardiva" (v. 697), egli dice.
Se il destino è ineluttabile giacché l'imprecazione paterna incombe sulla stirpe maledetta, è meglio accettarlo coraggiosamente, con magnanimità. "Più grande è la vittoria se l'uomo supera sé stesso, se supera ogni affetto, ogni limite della natura, se al di sopra della dura realtà si erge lo spirito puro. Non c'è altro ideale per il guerriero che la gloria"(68).
Tutto ciò rientra perfettamente nella sensibilità di Eschilo. Che l'uomo si sacrifichi per la propria comunità è normale, è giusto, né c'è ingiustizia se così operando va incontro alla rovina. Eteocle sa bene che "l'umano agire è pericolo e riconduce sempre nella situazione disperata in cui la stessa azione significa necessità, dovere, merito e in pari tempo massima colpa"(69). Sa soprattutto che al destino non si può sfuggire, ma questo non gli impedisce assolutamente di compiere fino in fondo, come uomo libero, il suo dovere. Sovrano consapevole della propria responsabilità, prende tutte le misure in difesa della sua città, compresa quella che lo porta a scontrarsi col fratello, a uccidere ed essere ucciso. Sa bene Eteocle fino a qual punto tale duello sia contro natura, ma non esita un solo istante a fare ciò che l'onore e il dovere verso la patria esigono. D'altra parte - sono le sue ultime parole prima di andare a morire -: "Se gli dei la danno non si può sfuggire alla sciagura" (v. 719).
"La morte è la sorte dei mortali e l'uomo ha raggiunto il suo fine se ha colmato la misura che gli è stata assegnata e si è assicurato la sopravvivenza della gloria. Degli eventi l'uomo non è padrone. Ma egli domina il suo destino accogliendo nella sua volontà ciò che necessariamente deve avvenire e trasformandolo così in libera azione etica"(70).
Eteocle tuttavia non è immune da colpe, come d'altronde Polinice ha dalla sua, pur nella sua colpevolezza, una parte di giustizia. Tutt'e due sono assolutamente convinti di combattere per una causa giusta. Questa consapevolezza nasce "dalla parzialità della loro sapienza e dalla passionalità della loro giustizia, oltre che dal rovinoso destino della casa"(71).
Anche nei Sette, come nelle Supplici, è presente lo scontro tra due giustizie ingiuste oltre che un evidente sentimento di hybris. In Eteocle e Polinice la hybris trae origine da un "pervertimento" mentale, da una decisa volontà a non indulgere a sentimenti di pietà che potrebbe essere giustificata dall'amore fraterno. La hybris nasce dall'ostinazione dell'uno e dell'altro a non cedere, indipendentemente da che parte stia la ragione.
Eteocle non ignora che anche l'uomo pio se fa lega con gli empi rovina sé stesso. Poiché difende la patria, egli è nel giusto, ma questo non toglie che egli sia un usurpatore.
Polinice, invece, muove contro la patria per vendicarsi del fratello e ottenere il regno, ma la giustizia della sua causa è annullata dai mezzi che mette in opera per vincere la sua causa.
Ambedue i fratelli si macchiano di un peccato di hybris che è superiore a quello delle Danaidi, la cui lotta rimane circoscritta tra loro e i figli d'Egitto; nessuno soffre al di fuori della loro cerchia, mentre nella lotta tra Eteocle e Polinice soffre tutto un popolo.
Ancora una volta Ate ha accecato i colpevoli. Questi, già macchiati di antiche colpe, pur non ascrivibili a loro, si macchiano di nuove colpe delle quali sono direttamente responsabili. "Scartata la responsabilità di redimersi per la voluta insistenza nella hybris, un dio ha accelerato il corso degli eventi nel peccato e nel castigo. La morte dei fratelli rivali estingue la catena delle successive colpe e il male, promanante da una stirpe maledetta, con la rovina di essa si disperde e si estingue"(72).
Eteocle muore dunque, perché al destino non si sfugge. Non è lui l'autore del fratricidio ma gli dei. Ma se proprio gli dei avessero voluto una prova, quella di resistere al demone suicida? In questo caso Eteocle sarebbe stato non un eroe, ma un debole, non un uomo pio, ma un empio. La mancata salvezza di Eteocle, probabilmente, sta a significare che quest'uomo forte e valoroso, rispettoso dei segni del destino, muore proprio per l'incapacità di capire che un destino voluto dagli dei ai fini di giustizia non può essere forza cieca, contro cui la saggezza e il senso di giustizia dell'uomo si rivelano del tutto impotenti. Forse avrebbe dovuto resistere al demone, compiere un'altra scelta che non fosse quella di sfidare il proprio fratello, piangere e aspettare prodigi piuttosto che cedere al folle impulso sanguinario. Forse per questo, per non essersi sollevato del tutto dal pãqoV al mãqoV, Eteocle, come Serse e diversamente da Oreste, non ha avuto via di scampo"(73).
Ancora una volta giustizia, colpa, responsabilità e destino si intrecciano in modo inestricabile e c'è un'a?t¤a che è insieme causa e colpa. E la tragica fine dei due fratelli è contemporaneamente castigo e misericordia: castigo, per loro, per una colpa antica e per nuove colpe, misericordia per la città e i discendenti, ai quali l'estinzione della stirpe dei Labdacidi risparmia la sventura di avere signori e discendenti macchiati da orrende colpe.
"Il trofeo di Ate si erge alle porte dove essi si colpirono e dopo averli entrambi vinti il nume si è calmato" (vv. 956-960). "Nell'orrore del fratricidio reciproco si placa e si estingue, almeno, la stirpe che non doveva esser nata. La morte del maledetto ha ottenuto la salvezza della sua patria"(74).
Con la fine dei due fratelli si leva il suono di un lamento doloroso e conclusivo. Il gemito di Antigone e Ismene, le infelici sorelle di Eteocle e Polinice, si stende sopra la strage fraterna nella più alta affermazione di quella umanità che si impone al di là di ogni rovinosa hybris.
L'orgoglioso rifiuto delle Supplici
La vicenda delle Danaidi ci porta ad Argo, una Argo pre-ellenica dove regna Pelasgo, figlio di Palachthon (antico suolo), nato a sua volta dalla Terra stessa (ghgenÆs, Supplici v. 250)(75).
Eschilo crede nella religione della Terra, che è madre degli uomini ma anche custode di antichissime leggi di giustizia, di cui vindice è Zeus ctonio. Hybris è violare le sacre norme della giustizia ctonia, giustizia naturale su cui si fonda ogni legge umana. Tali norme indicano in modo particolare i doveri verso gli dei e gli ospiti, insieme al "rispetto dei genitori, scritto come terzo nei precetti di Dike venerabile" (Supplici vv.707-709). Principi universali, norme di giustizia naturali come naturali sono le sanzioni per chi le viola: "Come potrebbe restare puro un uccello che divori un uccello? Come potrebbe essere puro chi sposa una donna contro la volontà di lei, contro la volontà del padre? Anche là fra i morti, come dicono, un altro Zeus emette l'ultima sentenza contro le colpe" ( Supplici, vv. 226-231).
Della sacralità del diritto di ospitalità si fanno forti, per chiedere protezione al re di Argo, le figlie di Danao, fuggite dall'Egitto per sottrarsi alle nozze forzate con i cugini. E' molto chiaro, già all'inizio del dramma, il motivo fondamentale che muove tutta l'azione drammatica. Le Danaidi sono fuggite dall'Egitto non perché avessero commesso qualche colpa ma "per fuggire il matrimonio con uomini della stessa stirpe, aborrendo le nozze e l'empietà dei figli d'Egitto" (vv. 8-10). Chiedono a "Zeus salvatore, difensore degli uomini pii" (vv. 26-27) che gli odiosi pretendenti possano perire "scontrandosi col mare selvaggio, prima di salire sui letti a loro avversi, cui il diritto (q°mis) si oppone" (vv. 35-37). Che si impongano le nozze contro il loro volere è decisamente hybris (v.81).
Certo, "il pensiero di Zeus non è facile da comprendere: dappertutto sfolgora, anche nella tenebra, con vicissitudini oscure per le genti mortali […]. Le vie della mente di Zeus si stendono segrete e ombrose, impenetrabili alla nostra conoscenza. Egli abbatte gli uomini malvagi giù dalle loro speranze alte come torri, né si arma di violenza. Tutto è facile per la divinità: pur restando assiso, ugualmente dalle sacre dimore porta a compimento il suo pensiero per il proprio potere" (vv. 87-102)(76). Chi accoglie e protegge l'ospite è un "pio prosseno": tale è Pelasgo (v. 418), sovrano saggio di uno stato anacronisticamente democratico. A lui che teme di provocare, accogliendo le Danaidi, una guerra "mai vista" (v. 341), le supplici ricordano che Dike "sta dalla parte di chi combatte per lei" (v. 343), mentre si augurano che il loro esilio sia senza danno, sotto lo sguardo di "Temi, protettrice dei supplici, figlia di Zeus dispensatore del destino" (vv. 359-360).
Grave dilemma per il re di Argo, costretto a "scegliere la sorte, se agire o non agire (drçsa¤ te mØ drçsai, v. 380). Lucidamente Pelasgo si pone l'alternativa angosciosa: respingere le supplici significa violare un dovere religioso: le fanciulle, con i ramoscelli di olivo in mano, si sono rifugiate presso l'altare e chiedono, anzi pretendono il diritto di asilo, fondando la pretesa sulla loro discendenza dalla stirpe argiva di Io, la donna amata da Zeus e perseguitata da Era. Da un lato è l'ostilità del demone della vendetta (élãstwr) che perseguiterebbe la città qualora le leggi di ospitalità fossero violate, dall'altro una sicura guerra di rappresaglia(77). Sa bene Pelasgo che "senza dolore non c'è via d'uscita" (v. 442). In un primo momento egli ha dubitato che il comportamento degli Egizi fosse tracotanza e dismisura (vv. 387-391), ma finisce col considerarlo tale. E che così fosse lo sottolineano le supplici dopo avere ricordato l'imparzialità di Zeus, che "attribuisce equamente ai malvagi la pena per la loro ingiustizia, a chi agisce secondo le leggi il premio per la rettitudine" (vv. 402-404). "Giusto è il potere di Zeus" (v. 436). Ad affrettare la decisione del sovrano è il timore di Zeus: "fra i mortali infatti è il supremo timore" (v. 479), ma di non poco peso è la minaccia delle supplici: se non saranno accolte si impiccheranno alle immagini stesse presso cui sono prostrate: il loro suicidio avrebbe inquinato tutta la città (v. 457 sgg.).
La decisione ultima spetta al popolo di Argo (vv. 368-369). "Pelasgo affida all'assemblea cittadina la ratifica della sua decisione: nella prospettiva religiosa ed etica della tragedia si esprime pure un principio politico in quanto all'organizzazione sociale della comunità viene ricondotta l'applicazione pratica di quelle norme che indirizzano il vivere dell'uomo secondo giustizia"(78). L'assemblea popolare decide "non con disparità di pareri […]; l'aria vibrò per le destre alzate all'unanimità" (vv. 605-608). Il voto popolare per ciò che riguarda la politica estera è molto saldo; non c'è autorità che sia ad esso superiore, come ribadisce il re argivo all'araldo, mandato dagli Egizi con la richiesta perentoria che sia seguito dalle donne, volenti o nolenti. L'araldo proclama la legalità della sua azione, poiché le leggi egizie imponevano alle figlie di Danao il matrimonio con i cugini(79). Ma le supplici non possono essere condotte via loro malgrado: "tale voto unanime ha emesso la città per volontà popolare" (vv. 942-943).
"L'antitesi drammatica su cui è basata l'azione delle Supplici non è un contrasto tra la hybris dei figli d'Egitto e l'a?d˜s delle Danaidi, intesa come " pudore o anche "ribrezzo" a sottomettersi alla legge nuziale, ma un contrasto tra la hybris degli Egittidi, che con violenza vogliono ottenere le nozze, e la hybris delle cugine, che alla forza altrui oppongono la violenza propria, offendendo per di più una legge d'amore che dèi e natura ritengono basilare e necessaria per il conseguimento dei fini umani"(80).
La colpa delle Danaidi è nella resistenza alla legge dell'amore: hanno oltrepassato i limiti del giusto, essendo la loro avversione contro gli Egizi sfociata in una avversione contro il matrimonio, contro l'istituto matrimoniale, come è evidente nella chiusa delle Supplici dove il semicoro delle ancelle esorta a riconoscere la potenza di Afrodite.
Nelle parole delle ancelle è il senso ultimo della tragedia: accanto ad Artemide, la dea vergine, vanno rispettate Afrodite ed Era, le dee dell'amore e delle nozze. "Qualunque cosa vuole il destino può compiersi" (v. 1047): il destino di donne, secondo il volere degli dei, ha il suo compimento nelle nozze.
L'esito degli eventi è lasciato in sospeso.
La perdita delle altre tragedie, facenti parte della trilogia, rende arduo comprendere come il poeta sia riuscito a conciliare le contraddizioni insite nello stesso dato mitico: ognuna delle Danaidi, misantrope e pavide, si trasforma in una virago omicida la prima notte di nozze. Solo una, Ipermestra, non uccide il marito e, perché rispettosa di Afrodite, verrà premiata.
Il Prometeo e la giustizia di Zeus
Nessuna tragedia di Eschilo è stata più discussa del Prometeo incatenato(81). All'origine delle controversie le non poche differenze che si rivelano, rispetto alle altre tragedie a noi pervenute, nel linguaggio, nello stile, nella metrica, nella tecnica teatrale. Ma la contestazione sulla paternità eschilea del Prometeo si è basata soprattutto sul suo contenuto ideale, sul pensiero religioso dell'autore, ben diverso dal resto della produzione eschilea(82).
In realtà il Prometeo presenta delle particolarità che giustificano i dubbi sulla sua autenticità.
E l'unica tragedia in cui la rappresentazione si svolge tutta tra esseri immortali, ma in particolare è l'unica in cui il principio della giustizia divina (alla quale Eschilo crede fermamente, anche se talvolta il senso di essa gli appare oscuro) sembra non essere né affermato né confermato, quasi che nella rappresentazione del mito il poeta senta minacciata la propria fede nella giustizia del dio supremo, dominatore e protettore del Kosmos.
Controversi sono anche la collocazione temporale, la ricostruzione delle opere che facevano parte della trilogia e l'ordine che tali opere avevano nella trilogia stessa(83).
E impossibile tentare la ricostruzione dei drammi perduti; si possono analizzare, pertanto, solo le situazioni generali e il modo in cui il poeta concepì e sviluppò i vari momenti del mito.
Nell'opera a noi pervenuta, Prometeo è "apportatore di luce all'umanità. Il fuoco, forza divina, si fa per lui simbolo della civiltà"(84). Ma donando agli uomini il fuoco, prerogativa del mondo divino, egli ha vanificato il proposito di Zeus di annientare la stirpe umana per generarne una nuova. Proprio per questo, per essere benefattore degli uomini (filantropo, come lo chiama Eschilo, coniando un termine nuovo che esprime l'amore del Titano per l'umanità), Zeus lo punisce, facendolo incatenare da Efesto, che appare animato da sentimenti di pietà ma è sorvegliato da Kratos e Bia, cinici esecutori del volere di Zeus, dio oltremodo crudele e spietato. Il Titano viene inchiodato in una rupe della Scizia, ai confini della terra; lui, immortale, vivrà perennemente esposto a tutte le intemperie, mentre un'aquila gli divorerà in eterno il fegato destinato a rigenerarsi continuamente, perché così vuole la spietata vendetta di Zeus.
E difficile collocare quest'opera in un contesto generale di opere alla cui base è la fede nella giustizia divina.
È propria di Eschilo l'aspirazione alla giustizia, la ricerca almeno di tracce di ordine nell'apparente disordine del mondo. A questo punto l'enigma della giustizia divina si può risolvere soltanto alla luce di tutte le vicende della trilogia.
Nel Prometeo incatenato, Zeus appare ancora implacabile nella vendetta (Prom. vv. 159-162)(85). Però, quando Io domanda a Prometeo: "Ma chi sarà il liberatore se Zeus non vuole?" (Prom. v. 771), Prometeo sa già che a Zeus "il tempo che invecchia tutto finisce per insegnare" (Prom. v. 981); "insegnerà cioè la necessità di spezzare la catena delle vendette - giustizia ingiusta, giustizia di maledizioni, catena di peccati - e di sostituirla con una giustizia giusta e misericordiosa, giustizia di benedizioni"(86).
Nel Prometeo incatenato il Titano è il protagonista indiscusso della lotta contro un antagonista ostile a lui e alla razza umana, che lo punisce spietatamente perché "ladro del fuoco, ha mancato contro gli dei fornendo i loro privilegi agli effimeri" (Prom. vv. 945-946). Eppure, suo grande merito era stato renderli "da infanti, quali erano, razionali e capaci di pensiero" (Prom. vv 443-444), "portandoli fuori dall'originale stato ferino" (Prom. vv. 228-254).
In maniera quasi ossessiva Prometeo parla di Zeus come del "tiranno" che come tutti i tiranni è ingrato, avendo egli dimenticato che deve a Prometeo l'aver trionfato nella lotta contro i Titani (Esiodo, Teog. 617 sgg.). "Questa malattia infatti è insita nel potere, non fidarsi degli amici" (Prom. vv. 224-225).
Sovrano dell'ultima generazione divina, definitivo vincitore della contesa per il dominio dell'universo, Zeus è ben lontano dall'essere colui che il Coro nell'Agamennone (vv. 170-171) esalta per "aver condotto l'uomo ad esser saggio". Egli si avvale del suo potere assoluto, da poco conquistato, per violare ogni principio di giustizia.
Prometeo è chiaramente rappresentato come la vittima di un dio brutalmente ingiusto. Ma, dall'altro lato, c'è la sua arroganza. A nulla valgono i consigli di moderazione di Oceano, padre delle Oceanine, che esorta il ribelle: "Impara a conoscere te stesso e modifica il tuo atteggiamento in uno nuovo… Orsù, sventurato, rinuncia al tuo carattere… Di una lingua troppo superba la ricompensa è questa… non parlare con troppo ardire… O non sai, tu che sei eccezionale per sottigliezza di mente, che una lingua vanesia si attira una punizione?" (Prom. vv. 309-329 passim). Siamo qui in pieno mondo etico eschileo, dove hybris è arroganza di chi dimentica la propria condizione di mortale e supera i limiti ad essa imposta. La t¤siV segue inesorabile. Quel che vale per gli uomini vale dunque per gli immortali. La hybris di Prometeo, che ha ostacolato i piani di Zeus e ha violato un ordine fissato secondo una giustizia cosmica, giustifica la sentenza di Zeus.
Che il Prometeo incatenato sia la rappresentazione della colpa del Titano è indubitabile. Ma il poeta, dopo che nel prologo ha presentato l'atto di Prometeo secondo Zeus punitore, sembra quasi tessere l'apologia del reato.
Certo il Titano appare accecato dalla hybris e il peccato è talmente radicato in lui da non fargli ammettere di meritare il castigo. Pur riconoscendo la colpa, infatti, crede che il suo Íbr¤zein trovi liceità in un'altra hybris. Dice infatti: "E' inevitabile che chi commetta una colpa perseveri in essa" (Prom. v. 970)(87).
Già nel prologo la colpa di Prometeo è definita èmart¤a, cioè "deviazione", "smarrimento", e nasce da un duplice reato, commesso in due tempi: il furto del fuoco "origine di tutte le arti" (Prom. v. 7) e il dono di esso agli uomini (v. 8).
La deviazione non può essere sanata da un perdono senza contraccambio di patimento che non sia pena (= dike). La durata dei pãqh non dipende da chi punisce ma da chi è punito. Prometeo sarà lasciato al suo martirio fino a quando avrà imparato ad amare il potere assoluto (= tÊranniV) di Zeus, cioè fino a quando vi si piegherà per convinzione cosciente, ed avrà compreso l'errore dell'eccessivo amore verso gli uomini […]. Prometeo non è soggetto a morte, ha dinnanzi a sé l'infinito. Se la comprensione arriverà tardi, non sarà colpa del Cronide. Questo prevede che passeranno millenni perché il titano torni alla swfrosÊnh, ma non incide con la sua volontà sul libero arbitrio del dio punito"(88).
Ermes esorta Prometeo ad "avere il coraggio di ragionare di fronte alle sofferenze presenti" (vv. 999-1000), ma invano. Il pãqei mãqoV è estraneo al titano ribelle, presentato come vittima della violenza di Zeus, accanto al quale sta la forza bruta (Kratos e Bia), non la vergine Dike, come nelle altre tragedie eschilee.
Vittima della violenza del re degli dei non è solo Prometeo, benefattore degli uomini e creatore della civiltà, ma anche Io, amata da Zeus e abbandonata alla vendetta di Era.
Ingiusto e odioso, secondo le Oceanine, Zeus "in nome delle leggi nuove esercita un potere al di fuori della giustizia e annienta ora le potenze di un tempo" (vv. 149-151)(89). Egli dunque all'inizio dei tempi non è un dio giusto; ma è il nuovo signore; suo è il diritto di governare, giusto e legittimo il suo governo (anche se esercitato con Kratos e Bia). "Tuffandosi nell'età leggendaria delle teogonie e delle teomachie, Eschilo sembra dunque suggerire che anche presso gli dei la giustizia è frutto del tempo"(90).
Lo scontro è dunque fra due divinità, le antiche e le nuove(91). Il contrasto comunque non è nella religiosità di Eschilo: è il contrasto delle due anime dell'antica Grecia, che poi si sono fuse in un'unica anima(92). Di fronte alla potenza efferata degli dei che nella religione aria erano solo temuti, c'è un'altra schiera di divinità che vuole che l'ignoranza sia dissipata, che non ci siano limiti al benessere umano. Eschilo nel Prometeo pensa allo Zeus di Omero, a quel lato oscuro del divino, le cui decisioni sono imperscrutabili. Ma non manca anche questa volta uno spiraglio. Nell'economia della tragedia la disperazione alla fine è vinta dalla speranza. La liberazione un giorno avverrà, il conflitto sarà risolto "senza dissolvimento della sovranità di Zeus e all'interno del suo ordine cosmico"(93). Il re degli dei, infatti, "sarà di animo malleabile un giorno e modererà la sua indole implacabile" in un legame di amicizia di cui anche Prometeo sarà bramoso (vv. 188 sgg). Si realizzerà il ricongiungimento tra le antiche e nuove divinità e tra le divinità e l'umanità.
"La religione di Eschilo non è una pietà devota fatta di abitudini passivamente accettate, non è sottomessa per natura. La condizione miserevole dell'uomo ispira al poeta credente un sentimento di ribellione contro l'ingiustizia degli dei […]. Ma la ribellione è solo un momento del pensiero di Eschilo. In lui esiste un'altra esigenza, altrettanto imperiosa: il bisogno di ordine ed armonia"(94). Ecco perché alla fine le due anime opposte della Grecia antica si concilieranno. Zeus e Prometeo si combattono e formalmente si odiano, ma fondamentalmente si cercano. E la conciliazione avverrà quando Zeus si accorgerà che "il dominio non si regge se non si concilia con l'umanità, se non diviene la forza di una più buona giustizia, quando non sarà più tirannide"(95).
C'è da ritenere che tutto ciò avvenisse nel Prometeo liberato, del quale abbiamo solo alcune informazioni indirette e pochi frammenti. Ne abbiamo quanto basta, però, per credere che Zeus rinunciasse al suo capriccio per la donna che secondo la profezia di Themis, di cui Prometeo è depositario, gli avrebbe dato un figlio da cui sarebbe stato detronizzato e vi rinunciasse per non gettare il mondo in nuovi disordini, dimostrandosi degno così di rimanere il signore e il custode dell'universo.
A questa vittoria di Zeus su se stesso ne seguiva un'altra: egli deponeva la sua collera contro Prometeo, dando così piena soddisfazione alla Giustizia.
Prometeo, a sua volta, faceva atto di sottomissione e pentendosi di quel tanto di orgoglio e di errore che c'era nella sua ribellione, si inchinava di fronte al re degli dei, diventato degno di esser tale.
In tal modo i due avversari, dopo avere riportato una vittoria su se stessi, vincevano le loro passioni smodate per un fine supremo: l'ordine del mondo.
"Le forze misteriose che, secondo Eschilo, determinavano il destino e l'evoluzione del mondo - forze puramente arbitrarie e in origine fatali - piano piano si piegano a una legge morale. Il dio supremo dell'universo, così come il poeta lo concepisce nei millenni che lo hanno preceduto, è un essere che muta e diviene, e il suo divenire - esattamente come quello delle società umane, da cui quest'immagine della divinità procede - si compie in nome della Giustizia"(96).
L'Orestea: giustizia umana e giustizia divina
Sia che il mito si sviluppi nei tre drammi, sia che venga rappresentato nel breve spazio di una sola tragedia, l'azione rivela sempre la necessità della vittoria divina. In ogni tragedia la colpa non viene pensata come inespiabile; c'è sempre la possibilità del riscatto, del pentimento che portano chi si riconosce colpevole alla salvezza. Ma il superbo, l'uomo che una volta compiuta l'azione non si pente, non arresta la sua hybris, non trova pace e in questo caso la caduta sarà ineluttabile.
In ogni tragedia è espressa la superiorità del volere divino e la necessità di una giustizia superindividuale. Nella trilogia delle Danaidi la vittoria è chiaramente di Afrodite. Nella trilogia tebana dei Labdacidi, in cui ogni personaggio ha indubbiamente la sua parte di colpa, tutti cadono nel momento in cui vogliono sfruttare gli eventi a proprio vantaggio, schiacciati dal volere di un dio. Più evidente ancora è il rapporto di hybris e tisis, colpa e castigo, nei Persiani. Qui anche se Serse non verrà punito con la morte (ad una conclusione del genere si opponeva la verità storica) la realtà della sconfitta e la perdita di una moltitudine di uomini è pena ben più grave della morte. Nel Prometeo e nell'Orestea, il ravvedimento di chi ha sbagliato agendo contro giustizia porta alla salvezza dei colpevoli e alla vittoria di Apollo e Zeus.
L'Orestea è l'unica trilogia di Eschilo pervenutaci nella sua interezza e, pertanto, ci permette di cogliere meglio, nella concatenazione dei drammi, lo sviluppo del pensiero del poeta e, soprattutto, la sua concezione della giustizia. Essa rappresenta l'ultimo tentativo del poeta di trovare nella sua coscienza e davanti al suo popolo un accordo tra Necessità (énãgkh) o Destino e Giustizia.
Sulla scena viene portato un remoto fatto del passato, quando mito e storia erano tutt'uno ma l'antica vicenda viene rivissuta nella meditazione della realtà presente. Un omicidio compiuto da una donna colpevole (Clitennestra che uccide il marito Agamennone), un altro omicidio compiuto da un uomo innocente (Oreste che uccide Clitennestra, sua madre) e, infine, un processo, al quale partecipano uomini e dei. La prima tragedia è dunque quella del matricidio, la seconda quella della vendetta, la terza quella del giudizio e del perdono.
Nell'insieme la trilogia mette in scena l'intervento della divinità in una stirpe maledetta, quella degli Atridi, di cui Agamennone e Oreste sono gli ultimi rappresentanti(97). Nell'Orestea, come nelle altre tragedie, l'azione divina ancora una volta è presentata come quella di un destino terribile, che si accanisce contro gli Atridi, deciso a distruggerli.
La catena di colpe e di sventure, con cui Ate infierisce sulla dinastia degli Atridi, ha termine soltanto con la riconciliazione dell'ultimo suo rappresentante con la giustizia e la misericordia divina.
Per quanto temibile, la giustizia divina lascia all'uomo una via di uscita, un residuo di libertà che, con l'aiuto di Apollo e di Atena, divinità benevole, gli permette di trovare la strada della salvezza. Oreste la trova attraverso tante sofferenze e una prova durissima: l'uccisione della madre che provoca un intervento persecutorio da parte delle Erinni, le dee della vendetta, ossessionato dalle quali il matricida diviene preda di una follia spaventosa che gli offusca la mente. Con la salvezza finale di Oreste la trilogia afferma la fiducia nella giustizia degli dei: giustizia difficile da conquistarsi, ma certa ed eterna. Per vedere meglio come opera la potenza del destino che si esplica tramite la giustizia - non umana, dapprima, perché di esclusiva competenza divina, convertita poi, in giustizia umana, perché affidata a una giuria di uomini -, è necessario analizzare più da vicino l'intera trilogia, che si articola seguendo uno sviluppo tendente ad instaurare una migliore, più alta giustizia.
Apre la trilogia l'Agamennone. La scena è ambientata ad Argo nel giorno seguente la notte della presa di Troia(98). I vecchi argivi, che costituiscono il coro, ignorando ancora l'esito della guerra, sono preoccupati. Memori ancora dei vaticini di Calcante, che aveva predetto la vittoria dei Greci, ricordano tuttavia che Calcante aveva preannunziato mali oscuri, terribili. Per un istante la gioiosa notizia della vittoria li libera dell'angoscia che li opprime, ma è solo un attimo. Il Coro non ha dimenticato che il re ha imposto al suo popolo una guerra luttuosa, per vendicare il rapimento di una donna "dai numerosi compagni" (v. 61).
Il sovrano è ancora più colpevole perché "con cuore impuro, empio, sacrilego", aveva sacrificato la figlia Ifigenia, per ottenere da Artemide venti propizi alla spedizione. Le colpe del re, il Coro lo sa bene, non possono restare impunite. C'è una colpa di fondo che agisce in tale situazione: Agamennone, figlio di Atreo, paga anche il fio della colpa del padre, la cui prole era stata maledetta da Zeus.
Quando il Coro spinge il re ad una seria, profonda riflessione, prima di prendere una decisione, richiama la legge di dike, alla quale "il potere di Zeus è conforme": Mario Untersteiner così ben traduce l'esortazione del Coro (vv. 433-437): "Ciò devi sapere: di fronte a questo problema per i tuoi figli e per la tua stirpe è stabilito (dal Fato) che, secondo, tu affronti tale bivio devi scontare in maniera corrispondente la punizione (themis) sicura. Rifletti a quanto ti proclamo: il potere che viene da Zeus è conforme alle leggi di dike". Ed aggiunge: "Qui non si tratta di semplice "punizione", ma in quanto la punizione consiste nella legge del taglione, rivela il suo significato originario e, in modo specifico, si riferisce al concetto gentilizio dell'unità della stirpe e della corresponsabilità fra gli appartenenti a essa. Ma anche nel presente caso, come in Eumenidi 413-414, la legge di dike impone il medesimo principio"(99).
Non è facilmente comprensibile la giustizia degli dei. C'è da espiare la somma delle colpe della stirpe maledetta cui Agamennone appartiene, colpe addebitate ai suoi avi, alle quali si aggiungono quelle da lui commesse. Il destino è il complesso di tutte queste colpe che esigono riparazione. Per Eschilo si tratta di una delle leggi più dure della vita, inesorabili; nessuno può dire di non essere, almeno in parte, responsabile di un delitto o di un peccato. Le colpe dei padri ricadono sui figli e ne segnano il destino. Tuttavia è la stessa vita di Agamennone, una serie di errori e gravi colpe, a scatenare la vendetta divina che già lo minacciava come discendente di Atreo. Agamennone si trova in una situazione nella quale non è possibile una libera azione esente da colpe. La sua colpa più grave è quella di avere sacrificato la figlia Ifigenia, ma se non l'avesse fatto l'intera spedizione sarebbe stata bloccata dalla bonaccia. Quando l'oracolo dice che gli dei non concederanno alla sua flotta di raggiungere Troia se egli non verserà il sangue della figlia ha inizio in lui una tremenda lotta interiore. Gli uomini gia soffrono la fame e i venti provenienti dallo Strimone, costringendo gli uomini all'ozio, "avvizzivano il fiore dagli Argivi" (Ag. 197). Se Agamennone non avesse soddisfatto il volere di Artemide, sarebbero morti tutti, compresa Ifigenia. Costretto dalla necessità (énãgkh) egli deve scegliere, ma qualsiasi scelta fa di lui un colpevole. Tra le due alternative non ce n'è una che sia preferibile o innocua. La prima reazione è quindi d'ira e di angoscia: "Pesante destino è il non ubbidire, ma pesante pure, se ammazzerò mia figlia, gioia della casa, e con fiotti di sangue virgineo infetterò le mani paterne davanti all'altare. Quali tra queste decisioni è priva di male? Come potrei tradire le navi venendo meno ai patti?" (Ag. 206-213)(100). D'ora in poi Agamennone comincia a cooperare interiormente con la Necessità, facendo in modo che i suoi sentimenti non siano discordanti dai voleri del fato. Dal momento in cui egli prende questa decisione si trasforma in un collaboratore, in una vittima accondiscendente. È chiaro dalla sofferta decisione: "Un sacrificio che faccia cessare i venti e sangue virgineo con ira rabbiosa è giusto bramare. E sia bene così". (Ag. vv. 214-217). Un atto atroce, considerato il crimine minore tra due, per Agamennone diventa addirittura giusto (themis, v. 217), come se avesse risolto il conflitto eliminando del tutto l'altra soluzione. La decisione lo porta a dare una giustificazione non soltanto all'azione in sé ma anche alla passione con cui la compie. Se è giusto ubbidire a un dio è giusto il volerlo, il desiderarlo intensamente. Agamennone sembra pensare, dunque, che se un'azione è giusta è bene volerla, anzi bramarla. Perciò egli passa dall'incolpevole "quale tra queste decisioni è priva di mali?" al colpevole: "E sia bene così". "Agamennone dunque non soffre né comprende ed è fuori di giustizia"(101).
Cadrà, perciò, sotto la scure di Clitennestra e insieme a lui cadrà Cassandra.
Clitennestra si giustifica adducendo a movente della sua azione il diritto di vendicare la figlia, ma in realtà la passione per Egisto ha un enorme peso nella sua furia omicida. È un altro anello con cui la catena di colpe non si spezza. Il Coro ha cantato: "C'è un vecchio, antico detto tra i mortali, che la felicità di un uomo, giunta a compimento e divenuta grande, genera figli e non muore senza prole, ma dalla buona sorte germoglia per la stirpe dolore insaziabile. Diversamente dagli altri io ho un pensiero mio. È l'opera empia che ne genera un'altra più grande dopo di sé, simile alla sua stirpe. Dalle case rette nella giustizia proviene una sorte ricca di bella prole sempre. Suole un'antica colpa generare tra le disgrazie dei mortali una nuova colpa, prima o dopo […]. Dike invece risplende nelle case fumose ed onora chi è retto" (Ag. vv. 750-775). "Non è la felicità umana che attira il castigo, ma la colpa su cui benessere e prosperità si fondano. Gloria e ricchezza di Agamennone poggiano su colpe di hybris. Per l'uomo pio quella felicità di tiranno è apparente, perché sa che potrà precipitare da un momento all'altro. Ma chi colpisce nell'ombra sarà lui stesso colpevole se fuori di giustizia"(102).
La tragica fine di Agamennone, permessa dagli dei quale conclusione di una serie di delitti, è profeticamente annunziata da Cassandra, sconvolta nel corpo e nella mente dalla terribile visione in cui è presente il re che sta per essere trafitto, ma anche lo strazio dei figlioletti di Tieste e la spada vendicatrice di Oreste.
Dopo l'assassinio, al coro che piange il sovrano "prostrato da un destino traditore" (v. 1495) per mano di Clitennestra, questa risponde che la responsabilità non è sua, ma dell' "antico aspro genio vendicatore (élãstwr) di Atreo" (v. 1501), il quale ha assunto le sue sembianze. Ma il Coro la riporta alla sua piena responsabilità, precisando che il demone della stirpe può essere considerato solo sullÆptwr (v. 1508), complice dell'azione di cui Clitennestra è massimamente responsabile(103).
Clitennestra - solo personaggio comune a tutta la trilogia - è rappresentata come la terribile personificazione dell'odio coniugale, odio covato per dieci anni durante l'assenza del marito, il quale "la sua stessa figlia aveva immolato, carissimo frutto delle sue doglie, propiziazione dei venti traci (Ag. vv. 1417-1418). Ma per uccidere ha avuto altri motivi. Primo fra tutti la sua passione per Egisto: "Questa leonessa a due zampe ha giaciuto accanto al lupo nell'assenza del nobile leone" (Ag. vv. 1258-1259).
L'assassinio, dunque, ha le sue radici nell'odio per colui che ha sacrificato la figlia e nella passione per Egisto "uno scudo non piccolo per il suo ardire" (Ag. v. 1437). Tutto questo Clitennestra cela dietro una maschera che cade non appena il delitto è compiuto. Essa giustificherà il suo gesto senza arrossire, senza pentirsi, anzi se ne vanterà crudelmente. Il discorso di trionfo che la regina pronuncia dopo il gravissimo fatto di sangue (Ag, vv 1372 sgg.) non può ingannare; la sua azione è diversa da quella di Agamennone quando uccise la figlia. Non c'è stato per lei un conflitto tragico che la costringesse a scegliere tra due mali. Volontariamente si era unita ad Egisto; con lui vuole continuare a regnare come aveva fatto in assenza di Agamennone. Non si trova in uno stato di necessità.
Il Coro pur convinto che "la stirpe è avvinta ad Ate" (Ag. v. 1566), anche se riconosce nell'uccisione di Agamennone una motivazione legata alla stirpe e alle colpe del sovrano, confidando in Zeus, tuttavia prevede la punizione della regina e del suo amante: "Saldo rimane, finché rimane Zeus attraverso il tempo, che chi ha fatto subisca: questa è giustizia" (Ag. vv. 1563-1564).
Ma la sofferenza mandata da Zeus a chi è colpevole o lo stesso destino di sventura che a volte affligge tutto un ghenos, al quale non dà pace il demone vendicatore della stirpe, sono strumenti a un tempo di afflizione e di purificazione. Viene in tal modo ristabilito un ordine oggettivo di giustizia e, nel contempo, l'uomo perviene alla coscienza del bene e del male, perché "Zeus ha condotto l'uomo ad esser saggio, stabilendo che avesse valore l'apprendere attraverso la sofferenza" (Ag. vv. 176-178). Egli conduce l'uomo sulla via della coscienza e pertanto della salvezza secondo la legge del pãqei mãqoV. Questo mãqoV è una cãriV (Ag. v. 182), un favore concesso da Zeus stesso, un bene che egli realizza negli uomini, anche se nolenti, un dono della divinità che conduce l'uomo al frone›n e alla visione della Necessità. "Solo la coscienza del mondo concilia gli opposti: la gioia di conoscere come le cose sono costituisce l'unica vera autonomia dell'uomo"(104).
Non è pensabile, secondo Eschilo, che l'uomo possa salvarsi da solo, senza l'aiuto degli dei. Ma neppure è pensabile che gli dei vogliano salvarlo senza di lui. Una cosa del genere svilirebbe le precipue qualità dell'uomo: l'intelligenza e la responsabilità. L'uomo può, perciò, solo salvarsi mediante il conoscere (mãqoV) che è dono e conquista insieme. "Conquista difficile (…) ed Eschilo ne è ben consapevole. Egli l'ha negata finora ai suoi eroi. Soltanto agli dei l'ha consentita, come Prometeo e Zeus. Ma perfino gli dei l'hanno raggiunta soltanto attraverso millenni di sofferenza, divinamente smisurate"(105).
Eschilo aveva negato la possibilità di conoscenza ai Persiani(106), alle Danaidi, ai Tebani e agli Argivi. L'aveva concessa agli dei solo come risultato di una millenaria purificazione. Ma nel finale dell'Agamennone la donna, che mai aveva conosciuto moderazione, mostra di avere appreso una grande lezione dal pãqoV. Sembra infatti intraprendere timidi passi verso la salvezza, allorché ritrovando lucidità e misure umane, rinunciando a difendere ancora il suo crimine come opera di giustizia, ad Egisto, che minaccia dure reazioni al comportamento del Coro e, quindi, del popolo ostile, dice parole di moderazione: "No, o carissimo tra gli uomini, non compiamo altri mali. Già anche questi sono molti da mietere, infelice raccolto; ci sono già abbastanza sciagure; non sporchiamoci di sangue (Ag. vv. 1654-1656).
È un primo barlume di coscienza morale, tanto che nelle Coefore Clitennestra farà compiere le offerte rituali dall'infelice Elettra, sua figlia, alla tomba di Agamennone. Rimane però nella sua ingiustizia, legata com'è ancora ad Egisto, complice ed istigatore di colpe.
La via della salvezza, che per tale motivo le viene preclusa, sarà invece percorsa da Oreste.
Nelle Coefore vi è un solo assassino, Oreste, e vi sono due vittime: Clitennestra e il suo amante. Questa dovrà soccombere insieme al suo drudo, punita dai suoi stessi crimini, per mano del figlio, vendicatore del padre.
Dietro ordine di Apollo, perché sia resa giustizia ai morti, Oreste nelle Coefore passa dal matricidio, di cui ha piena consapevolezza, a vittima tormentata delle Erinni. Ossessionato da queste, per sconfiggere l'angoscia che lo sconvolge fino ad essere accecato da una lucida follia, immagina le intollerabili sofferenze da cui sarebbe colpito se volesse sottrarsi al compito. Cosa impossibile per vari motivi. "Molti impulsi a un solo punto convergono e gli ordini del dio e il grande lutto del padre. E ancora mi opprime l'essere privato delle ricchezze e il desiderio che i concittadini […] non siano più sottomessi a due donne: femmineo è infatti l'animo di lui (Egisto)" (Coef. vv. 298-306).
Costretto dal demone paterno, incitato dagli dei, commosso dal dolore di Elettra, Oreste dunque subisce il suo compito di vendicatore, ma anche lo vuole; o meglio, vuole ciò che la vendetta renderà possibile: strappare all'usurpatore il potere regio. Per questo suo volere e subire insieme, e per volere un fine giusto con mezzi ingiusti, Oreste sarà doppiamente un giusto ingiusto"(107).
Due opposte esigenze lo crucciano: uccidere ed essere punito per avere ucciso oppure non uccidere e quindi violare gli ordini divini. Siamo nuovamente di fronte ad un conflitto tragico. Oreste, come già Agamennone, è posto di fronte a due scelte l'una non meno dolorosa dell'altra. Ma l'adesione di Oreste al compito immane è meno convinta di quella del padre: il conflitto tragico verrà risolto "da buon agente"(108), come osserva Martha Nussbaum, secondo la quale Oreste, sostanzialmente buono, non manifesterà "sentimenti di autocompiacimento, ancor meno sentimenti di entusiasmo per l'azione scelta. Egli mostrerà nel suo comportamento emotivo e, perciò, sentirà veramente che quell'azione gli ripugna profondamente ed è contraria al suo carattere. Sebbene egli debba fino ad un certo punto agire come una persona che "nel nome porta il marchio/del più grande dei mali", egli mostrerà di essere completamente diverso, nelle disposizioni emozionali che formano il suo carattere, da una persona dominata da "furore". E dopo l'azione ricorderà, proverà rincrescimento, e, se possibile, farà riparazione. La sua emozione sarà di rimorso […], strettamente collegata con il riconoscimento del male che egli, seppur agendo con riluttanza, ha provocato"(109).
Comprensibili le sue esitazioni in particolare durante il matricidio. Oreste chiede all'amico Pilade: "Che devo fare? Avrò ritegno ad uccidere mia madre?" (Coef. V. 899). E Pilade: "E dove andranno in futuro le profezie del Lossia date a Pito e i fidati giuramenti? Fatti nemici tutti quanti piuttosto che gli dei" (Coef. vv. 900-903)(110).
Dopo questa incitazione la decisione è presa e Oreste uccide. E nell'istante in cui uccide egli ancora una volta proclama di essere strumento della giustizia divina. Rivolgendosi alla madre dice: "Tu ucciderai te stessa, non io" (Coef. v. 923). Ma subito cade in preda al delirio, per cui gli pare di vedere immagini "simili a Gorgoni con neri manti e con le chiome intrecciate di fitti serpenti" (Coef. vv. 1048-1050), "stillanti dagli occhi odioso sangue" (v. 1058), la cui provenienza è per il matricida chiara: sono le "cagne infuriate della madre" (v. 1058). Solo "il Lossia, pitico profeta" (v. 1030) potrà liberarlo. Ma l'interrogativo con cui si chiude il secondo dramma della trilogia: "Dove mai avrà termine, dove mai placata cesserà la furia di Ate? (Coef. vv. 1075-1076), è presagio della fosca, nuova situazione che attende Oreste.
Strana giustizia quella che obbliga Oreste ad uccidere la madre per poi abbandonarlo alla vendetta delle Erinni!
Ma Eschilo, come è noto, crede profondamente nell'ordine e nella imperscrutabile giustizia di Zeus. Così, nelle Eumenidi, egli mostrerà come un uomo, animato da sincero pentimento e da sincera fede, innocente quanto un uomo travolto dal destino può esserlo, attraverso un processo al quale è pronto in anticipo a sottoporsi, riesca a purificarsi dal delitto imposto dalla fatalità e a ritrovare una libertà nuova, nella riconciliazione con il mondo divino. "La persecuzione delle Erinni sarà castigo, ma anche dono di grazia […]. La legge che solo dal pãqoV si giunga al mãqoV è confermata e nello stesso tempo meglio chiarita […]. La sofferenza che lo salverà non sarà infatti una sofferenza qualsiasi, seppur lunga e terribile; sarà la sofferenza connessa al passaggio dalla verità inautentica alla verità autentica. Non solo la conoscenza nasce dalla sofferenza, ma anche implica una qualità particolare di sofferenza"(111)
L'espiazione di Oreste insieme al raggiungimento di una giustizia più giusta è tutta nelle Eumendi.
La scena principale del dramma è quella del giudizio di Oreste, che ha luogo sull'Acropoli, davanti ad un antico tempio di Atena. Là il matricida si è rifugiato, perseguitato dalle Erinni che vogliono la debita, per loro giusta, punizione. Inginocchiato il misero prega in silenzio. Appare Atena e per decidere la sua sorte istituisce un tribunale, composto di giudici, uomini non dei. Davanti ad esso le Erinni sostengono l'accusa dichiarando che a sangue versato deve rispondere necessariamente sangue versato. Apollo è il difensore(112); egli ricorda l'atrocità della morte di Agamennone e chiede che il suo assistito sia assolto. I voti dei giurati sono divisi in parti uguali fra l'assoluzione e la condanna, ma Atena aggiunge, a favore dell'imputato, il suo voto a quello di coloro che dichiarano Oreste innocente, ed egli è assolto. D'ora in poi delitti come quelli che hanno funestato la casa degli Atridi non saranno più puniti secondo le leggi della vendetta privata, ma verranno giudicati da un tribunale fondato da una dea, composto da uomini, che decideranno secondo coscienza la sorte degli imputati. La costituzione di un tribunale umano, l'Areopago, è segnata dal passaggio dall'antica giustizia prerazionale dei vecchi dei a quella razionale dei nuovi dei(113). Uno scontro epocale: è il contrasto tra due mondi divini, tra le antiche potenze ctonie e le nuove olimpiche, tra le antiche leggi delle divinità mediterranee e i nuovi principi di giustizia banditi da Apollo e consacrati da Pallade Atena.
Un nuovo principio giuridico subentra a quello antichissimo della legge del taglione, di cui le Erinni rappresentano la memoria. Punizione inesorabile, dal momento che si riteneva che il crimine non contaminasse solo il singolo, ma l'intera comunità. Per la necessaria purificazione, secondo l'antichissima legge, la vendetta doveva essere compiuta dal parente più prossimo della vittima. "Lo spirito del morto che esige di essere vendicato è l'ipostasi della difesa eretta dalla comunità contro chi ne viola le leggi. Ma il principio del taglione è al tempo stesso un pericolo per la comunità, in quanto provoca una catena inarrestabile di stragi. Ora la comunità, con i principi dettati dai nuovi dei, assume in proprio l'amministrazione della giustizia: si afferma come norma suprema della vita sociale, che nella sua complessa articolazione non considera soltanto il delitto in sé, bensì le circostanze e i moventi e potrà così porre fine al ciclo delle uccisioni, imponendo l'atto sovrano della pacificazione, l'assoluzione"(114). Viene valutato in tal modo il valore soggettivo dell'atto criminoso in rapporto all'esigenza obiettiva di giustizia. A questo punto si viene a distinguere tra omicidio volontario e involontario e si va alla ricerca delle scriminanti. La responsabilità non viene valutata da un punto di vista obiettivo ma soggettivo. C'è qui il trapasso dalla giustizia naturale alla giustizia civile, che non esclude la prima, ma la completa. E il culmine della nuova giustizia sarà proprio il tribunale dove i giudici, dopo aver giurato, saranno degni di giudicare con equità le azioni umane e dare le giuste sanzioni.
"La giustizia civile organizzata salverà l'individuo come cittadino, restituendolo alla comunità di cui torna a far parte, assoggettandosi al processo ed accettando la sentenza […]. Così nella nuova concezione giuridica si realizza la conciliazione della giustizia naturale, che supera l'individuo, con quella civile,che è espressione della coscienza degli individui organizzati nella vita politica"(115).
Ma al di sopra di tutto per Eschilo rimarrà sempre Zeus, che ha anteposto la voce di dike a quella di themis, ha preferito una giustizia fondata in particolare sul riconoscimento del bene a una fondata sul timore della vendetta e della punizione divina.
Ciò che salva Oreste e spezza la catena delle colpe e dell'espiazione è soltanto il favore divino che opera attraverso Atena, la quale agisce secondo la volontà di Zeus, di cui è figlia prediletta. È Atena che istituisce la norma secondo cui l'imputato viene assolto in caso di parità di voti. Atena riesce a placare le Erinni che, non paghe della sentenza, hanno minacciato l'Attica di ogni sorta di mali. Per suo merito i canti di rovina e di morte si mutano in canti di benedizione. "L'antica giustizia del sangue è assunta e trasfigurata nella nuova giustizia della coscienza, l'antica pietà della paura nella nuova pietà del rispetto per la superiorità morale degli dei"(116).
"Le Erinni si convertono in Eumenidi, ministre della giustizia nuova, che non vuol più alcun castigo macchiato da colpa come era quello imposto dalla legge della vendetta, bensì misericordioso e fecondo soltanto di bene"(117).
NOTE
(1) Nel seguito della trattazione i termini più volte ricorrenti qemiV e dikh saranno traslitterati in themis e dike, e saranno altresì distinti dalla maiuscola o dalla minuscola a seconda che si tratti della divinità o della nozione.
(2) A. BISCARDI, Diritto greco antico, Giuffrè, Milano 1982, p. 351.
(3) PINDARO, frammento 10.
(4) PINDARO, ibid.
(5) SOFOCLE, Antigone, vv. 454-456.
(6) ESIODO, Teogonia, vv. 901-902.
(7) K. KERENYI, Gli dei e gli eroi della Grecia, Garzanti, Milano 1978, p. 96.
(8) ESIODO, Le Opere e i Giorni, v. 254-sgg.
(9) La digressione dedicata alle ere del mondo e gli interventi di Dike nella storia dell'umanità, ampiamente trattati da Esiodo nelle Opere e i Giorni (vv.111-202), ispirerà Arato nei Phaenomena (vv.100-133) e sarà ripresa in seguito da Giovenale (VI, 14-27).
(10) L. LANDOLFI, Il volo di dike, da Arato a Giovenale, Patrono ed., Bologna 1996, p. 13.
(11) ESIODO, Le Opere e i Giorni, v. 267.
(12) M. POHLENZ, L'uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 189. Per approfondire il passaggio dalle monarchie pre-omeriche alle poleis democratiche cfr. G. THOMSON, Eschilo e Atene, nella traduzione di Laura Fua, Einaudi, Torino 1959.
(13) M. CORSARO, Themis. La norma e l'oracolo nella Grecia antica, Congedo Ed., Galatina (Lecce) 1988, p. 6.
(14) I sofisti risolveranno il contrasto tra l'ordine naturale e la legge positiva affermando la validità soltanto di quest'ultima e identificando la giustizia con le regole di condotta poste dal potere politico all'interno delle varie organizzazioni sociali."La connotazione giusnaturalistica non assumerà quindi, nella società attica del V e IV secolo, un valore assoluto, universalmente riconosciuto: essa sarà solo uno dei poli della concreta dialettica tra diverse concezioni della legge" -M. BRETONE, M. TELAMANCA, Il diritto in Grecia e a Roma, Laterza, Bari 1981, p. 62.
(15) W. JAGHER, Paideia vol.I., trad. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 552.
(16) Tanto giovane che R. GRAVES, - I miti greci, Ed. CDE su licenza Longanesi, Milano 1983 -, considera Dike una divinità artificiale creata dai primi filosofi; ma l'idea non mi sembra plausibile, in quanto Dike come divinità era già presente in Esiodo (VII secolo a.C).
(17) A. BISCARDI, Diritto greco antico, cit. p. 355.
(18) E. BENVENISTE, Le vocabulaire des istitutions indo-europeennes, Le editions de Minuit, Paris 1970, pp. 107-sgg.
(19) A. BISCARDI, Diritto greco antico, cit. p. 355.
(20) A. BISCARDI, ibid. 355-356.
(21) SOLONE, fr. 1 D, vv. 27-32; fr.3 D, vv.15-16.
(22) M. POLHENS, La tragedia greca, cit. p.42.
(23) M. PINTACUDA, R. TROMBINO, Hellenes, vol. III, tomo I, Palumbo, Palermo 2000, p. 35.
(24) Le nomadi tribù arie che nelle terre in cui si stabilirono e, pertanto, anche in Grecia, portarono le loro concezioni religiose e morali, non poterono evitare che l'antico culto delle divinità autoctone, legate alla Madre Terra, si continuasse a celebrare in segreto. Tra questi due culti ci fu un apparente scambio di nomi: lo Zeus ctonio, infatti, non fu mai lo Zeus olimpico e le olimpiche divinità femminili formarono un tutt'uno con quelle della religione ctonia. Nei due culti si ritrova un'unica anima ellenica, quella aria e la pre-ellenica. La religione aria non aveva in sé alcunché di mistico. Gli dei erano sentiti come forze superiori alla natura umana, non diversi da questa se non per particolari privilegi, primo tra i quali l'immortalità negata agli uomini. Nei rapporti con i mortali gli dei operano solo in base a criteri di simpatia o di antipatia personale. Nella totale assenza di ogni concetto di bontà divina si sviluppa il mito dell'eroe, mito comune a tutte le popolazioni arie. L'eroe agisce in nome della propria dignità umana per affermarsi con la sua areté e conquistarsi un nome glorioso. Ma il culto della Madre Terra continua a vivere nel sottosuolo del nuovo assetto sociale della Grecia. La Terra, che genera e dà la vita al mondo animale e vegetale, è la stessa che poi inghiotte nel proprio seno ciò che precedentemente ha generato. Dopo la parentesi, più o meno lunga, di vita terrena,gli esseri tornano là donde la vita è venuta. Due dunque le ipostasi della Terra: essa è la madre dei vivi (Demetra) e la regina dei morti (Persefone). Il regno di Demetra è la terra più che il cielo; il suo è il mondo della vegetazione e della coltivazione delle messi. Religione agraria lontana e diversa da quella civica e olimpica degli altri dei; le è affine la religione di Dioniso, il cui mondo è pure quello della vegetazione e della coltivazione, non delle messi ma della vite. I primi agricoltori avvertivano nella loro opera l'adempimento di un rito religioso; ritenevano che la vita, per loro consistente nella coltivazione dei campi, non potesse svolgersi senza un ordine determinato, senza norme fisse e precise. Madre della vita, la Terra è signora della legge. Ma c'è da evidenziare un altro suo aspetto: essa inghiotte i viventi, custodisce i morti. Dalla terra usciva il grido, l'esigenza implacabile della vendetta necessaria. Ecco un'altra ipostasi della Terra come regina dei morti: le Erinni rappresentano l'idea tormentosa, assillante del delitto che esige vendetta e rende il colpevole un infelice, un folle. Colui che ha ucciso è impuro, ma è impuro anche chi non vendica il parente ucciso. La macchia del delitto si riversa in tal modo sui viventi. Lo Zeus ctonio appare così come il custode della legge eterna, sentita come legge della Madre Terra. Proprio per questa sua funzione venne identificato con lo Zeus delle genti arie, potentissimo e terribile, simbolo dell' autorità suprema.
(25) Il comportamento di Solone, che invano tentò di impedire la tirannide di Pisistrato, e la sua sofferta decisione di cooperare con lui per il bene di Atene, si spiegano appunto con le benemerenze acquisite dal tiranno. La tirannide pisistratea fu molto lontana dall'abuso di potere, dispoticamente arbitrario, di qualche tiranno contemporaneo. Pisistrato contribuì all'elevamento culturale ed economico del popolo ateniese il quale, grazie ad esso, maturò all'autogoverno e alla democrazia. Sulle origini della tirannide nonché sulle grandi trasformazioni economiche e sociali ed anche sull'azione culturale della tirannide cfr. G. THOMSON, Eschilo e Atene, trad. L. di Fua, Einaudi, Torino 1959; W. JAEGER, Paideia, vol I, trad. di L. Emery, La Nuova Italia, Firenze 1982.
(26) Dike, figlia di Zeus e di Themis; unisce in sé la natura ctonico-titanica della madre e l'essenza celeste-olimpica del padre.
(27) M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. p. 525.
(28) La traduzione dei passi d'ora in poi riportati è quella di Giulia e Moreno Morani in Tragedie e frammenti di Eschilo, UTET, Torino 1987.
(29) Ibid., p. 529.
(30) Ibid., p. 540.
(31) Cfr. C. MOELLER, Saggezza greca e paradosso cristiano, Morcelliana, Brescia 1951, pp. 57-58.
(32) Ibid., p. 68.
(33) Cfr: M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, Einaudi, Torino 1955; A W. H. ADKINS, La morale dei greci, trad. di A. Ambrosiani, Laterza, Bari 1964; R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, La Nuova Italia, Firenze 1967; H. J.NEWIGER, Colpa e responsabilità nella tragedia greca, trad. di G. A. Privitera in <<Belfagor>>, Firenze, settembre 1986; M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, trad. di M. Scattola, Il Mulino, Bologna 1996.
(34) R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, pp. 421-422.
(35) H. J. NEWIGER, Colpa e responsabilità nella tragedia greca, cit. p. 499.
(36) R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, cit. p. 422.
(37) N. BOSCO, Idee e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, Ed. di Filosofia, Torino 1968, p. 72.
(38) C. DEL GRANDE, Hybris, colpa e castigo nella espressione poetica e letteraria degli scrittori della Grecia antica, Ricciardi, Napoli 1947, p. 126.
(39) M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. p. 478.
(40) C. MOELLER, Saggezza greca e paradosso cristiano, cit. p. 147. Solo EMANUELE SEVERINO (Il Giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989, p. 38) non vede la funzione catartica del pãqoV, attraverso il quale l'uomo accerta la propria natura e accetta la sua condizione esistenziale. A suo parere "il dativo pãqei non è un dativo strumentale, ma significa in relazione al dolore, attraverso il dolore, nel senso di attraversare il dolore portandosi al di là di esso… significa allora: rispetto al dolore il sapere vero ha potenza (su di esso)".
(41) SOLONE, fr. 3 D., vv. 5-8; fr. 5 D, vv. 9-10; fr. 8D.
(42) M. UNTERSTEINER, L'origine della tragedia e del tragico, cit. p. 539.
(43) A. MADDALENA, Storia della letteratura greca, Mursia, Milano 1967, p. 256.
(44) Kratos e Bia, nel prologo del Prometeo incatenato, sono personificazioni del potere e della violenza, legate agli inizi del regno di Zeus ancora giovane, sovrano dispotico e violento, timoroso di essere detronizzato (lo Zeus giovane della Teogonia esiodea), molto diverso dallo Zeus garante della dike, "che mai si arma di violenza" (Supplici, v. 99), più volte invocato dalle Danaidi come protettore.
(45) N. BOSCO, Idee e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit p. 74.
(46) Alla luce dei concetti su cui finora ci siamo soffermati, nei prossimi paragrafi cercheremo di evidenziare, attraverso i drammi superstiti, il percorso di maturazione del concetto eschileo di giustizia.
(47) W. JAEGER, Paideia, vol. I, cit. pp. 449-450
(48) (48) Sull'autonomia, libertà e indipendenza della polis e dell'individuo greco, cfr. M. POHLENZ, La libertà greca, trad. di M. Bellincioni, Brescia 1963; sul collegamento tra storia politica, nascita, sviluppo e declino della tragedia attica , cfr. J. DE ROMMILLY, Actes du Colloque de Strasbourg, 5-7 novembre 1981, Université des Sciences Humaines de Strasbourg, Leiden 1983, pp. 215-216.
(49) (49) "Senza quella vittoria, che fu guadagnata per merito esclusivo degli Ateniesi e del loro capo geniale (Temistocle), la grande fiaccola della civiltà greca, che appena allora aveva cominciato ad illuminare il mondo, non avrebbe potuto più risplendere tra le genti; Atene non sarebbe risorta mai più dalle sue rovine fumanti o, in ogni caso, ridotta a una grossa borgata povera e schiava, non avrebbe mai apprestato per le generazioni future il meraviglioso retaggio del secolo di Pericle" (G. GIANNELLI, Trattato di storia greca, Tumminelli ed., Roma 1954, pp. 208-209).
(50) (50) A. LESKY, Storia della letteratura greca, vol.1, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 322.
(51) (51) Fr. 1 Diehl.
(52) (52) A. LESKY, Storia della letteratura greca, vol. I, cit. p. 326
(53) (53) E. R. DODDS, I Greci e l'Irrazionale, trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 53
(54) (54) M. UNTERSTAINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. p. 491.
(55) (55) Ibid.
(56) (56) Ciò che ritorna nella luce non è l'ombra di Dario, ma la voce del culmine della sapienza, che smaschera le "vane speranze" (kena›sin §lp¤sin, v. 804) di cui si nutre hybris, la violenza che ignora la legge del tutto. La verità esce dal regno dei morti, e quando l'ombra di Dario scompare, rimane a illuminare il cammino dei vivi (vv. 845-848).
(57) (57) ALBINI BORMANN, La letteratura greca, vol.11, Le Monnier; Firenze 1973; p. 26.
(58) (58) H. J. NEWIGER, Colpa e responsabilità nella tragedia greca, traduzione di G. A. Privera, in "Belfagor", Firenze, 30 settembre 1986, p. 489.
(59) (59) M. POHLENZ, La tragedia greca, cit. p. 169.
(60) (60) Ibidem.
(61) (61) W. JAEGER, Paideia vol. I, cit., p. 464.
(62) (62) W. JAEGER, ibid.
(63) (63) G. PERROTTA, I tragici greci, D'Anna, Messina- Firenze 1966, p. 76.
(64) (64) Il mito è noto. Responsabile primo della rovina della stirpe dei Labdacidi è Laio. L'oracolo delfico per tre volte avverte il sovrano che se non avrà figli salverà Tebe; se il re avesse disobbedito le conseguenze sarebbero state fatali a lui e a tutta la sua stirpe fino alla terza generazione (Sette, vv. 745 sgg.). L'oracolo è ricordato nella ÍpÒqesiV alle Fenicie euripidee. Laio non diede retta al monito di Apollo e "vinto dalla sua imprudenza generò a sé stesso la morte, il parricida Edipo che osò seminare nel sacro campo di sua madre, dove era stato formato, una radice sanguinosa (Sette, vv. 750-756).
(65) In pochi versi è qui sintetizzata la trilogia: Laio è ucciso dal figlio inconsapevole. "Vinta la Sfinge, infamia della città di Tebe" ( Sette, v. 539) , che divorava coloro i quali non sapevano rispondere ai suoi enigmi; Edipo sposa Giocasta, la vedova di Laio e da essa genera Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. La conoscenza della orrenda realtà spingerà Giocasta a impiccarsi, Edipo ad accecarsi e a rinunciare al regno. Le imprecazioni di Edipo - di cui si ignorano i motivi - contro Eteocle e Polinice ("scagliò indignate maledizioni, ahimè, con amara lingua, che essi un giorno si dividessero le sostanze, spartendosele con l'arma in pugno", Sette, vv. 784-790) - hanno compimento nello scontro tra i fratelli maledetti, Eteocle, re e difensore della città, e Polinice che gli ha mosso guerra, alleandosi con Adrasto, re di Argo, e con gli altri duci argivi.
(66) (65) ARISTOFANE, Rane v. 1021.
(67) (66) R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, cit. p. 415.
(68) (67) Ibid.
(69) (68) G. QUADRI, I tragici greci e l'estetica della giustizia, cit. pp. 26-27.
(70) (69) A. LESKY, Storia della letteratura greca, vol. I, cit. p. 330.
(71) (70) C. DEL GRANDE, Tragƒd¤a. Essenza e genesi dalla tragedia, Ricciardi, Napoli 1952, p. 114.
(72) (71) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit. p. 78.
(73) (72) C. DEL GRANDE, Hybris, cit. pp. 98-99.
(74) (73) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit. p.79.
(75) (74) R. CANTARELLA, Letteratura greca, cit. p. 165.
(76) (75) Lineare la vicenda inserita nella sacra storia di Io. Secondo il mito, da Epafo, figlio di Io, erano nati due figli, Danao ed Egitto. Le cinquanta figlie di Danao, per sottrarsi alle nozze che i cinquanta figli di Egitto volevano loro imporre, si erano rifugiate con il vecchio padre ad Argo. Costrette ad accettare le odiose nozze, nella prima notte si erano liberate dei consorti uccidendoli. Una soltanto, Ipermetra, risparmiò la vita del marito. Sarebbe stata, perciò, premiata con una discendenza regale, dalla quale sarebbe nato Eracle, l'eroe invincibile, mentre le sorelle avrebbero avuto la meritata punizione. (cfr. R. GRAVES, I miti greci, cit. p. 179 sgg ). Sul mito delle Danaidi Eschilo compose una trilogia, di cui ci è pervenuta la prima tragedia: Supplici. Sono andate perdute le altre due tragedie, Egizi e Danaidi , insieme al dramma satiresco Amymone.Incerta è la data di rappresentazione. La tragedia a noi giunta, fino a metà del secolo XX , era ritenuta la più antica delle opere eschilee. La questione cronologica è sub iudice da quando è stato ritrovato un frammento papiraceo (Papiro di Ossirinco 2256, fr. 3, pubblicato nel 1952), da cui risulta che Eschilo con quella trilogia aveva avuto il primo premio, Sofocle il secondo; il terzo premio era toccato ad un poeta a noi ignoto, Mesato. Poiché Sofocle iniziò la sua carriera di tragediografo nel 469-468, si ritiene che la trilogia delle Danaidi sia stata rappresentata qualche anno prima dell'Orestea (dopo il 467). Sulla suddetta questione cfr. M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. pp. 376-377, n. 3.
(77) (76) La temperie religiosa è assai vicina a quella dell'Agamennone (vv. 772-781). Se ragioni metriche e stilistiche giustificano la posizione degli studiosi che attribuiscono le Supplici alla fase più arcaica della storia della tragedia, la concezione eschilea dello Zeus di questo dramma e i riferimenti politici in esso presenti, sembrano dare ragione a quanti, forti del ritrovamento del frammento di Ossirinco, di cui alla precedente nota, spostano la data di rappresentazione della trilogia alla maturità del poeta. Del resto, "poiché un'altra testimonianza antica informa che un decreto ateniese aveva concesso di riproporre drammi di Eschilo anche dopo la sua morte, non è escluso che si possa attribuire a una ripresa di tale genere la data tarda, che comporta come terminus post quem soltanto la presenza di Sofocle al medesimo concorso" ( D. DEL CORNO, Eschilo: Supplici, cit. p. X. Sulla stessa linea M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. pp.376-377, n.3).
(78) (77) La legge del drãsanti paqe›n, che nelle Coefore si impone come legge universale, è sottintesa. "E' la prima volta che un personaggio della tragedia si trova a dibattere il dubbio in cui risiede l'essenza stessa del 'tragico'come categoria del pensiero umano" (D. DEL CORNO, Supplici, cit. p. x ).
(79) (78) Ibid., p. VIII. Dalle parole di Pelasgo alle supplici, incapaci di intenderle in quanto abituate al potere assoluto, risulta chiaro come le gravi decisioni di politica estera siano di competenza dell'Assemblea popolare. "Dette l'anno prima della riforma di Efialte, quelle parole sono una presa di posizione sui poteri dell'Assemblea popolare: la riforma consistette appunto nel togliere all'Areopago una serie di competenze accumulatesi nelle sue mani e nel restituirle al Consiglio dei 500 ed all'Assemblea" (L. CANFORA; Storia della letteratura greca, Laterza, Bari 1986, p. 139).
(80) (79) "I congiunti maschi più prossimi alle Danaidi hanno su di loro come un diritto di prelazione; dall'altra Egitto ha nelle mani il potere regio e le nipoti , come suddite, non possono ribellarsi al suo volere, che le vuole spose dei figli" (C. DEL GRANDE, Hybris, cit. p. 89 ).
(81) (80) Ibid., p. 90
(82) (81) Zeus che, grazie all'aiuto di Prometeo, ha riportato la vittoria sui Titani, è spietato con Prometeo perché, contro il suo volere, ha rubato il fuoco agli dei e ne ha fatto dono agli uomini. Emblematici della brutalità con cui Zeus perseguita e punisce il Titano ribelle sono Kratos e Bia (forza e violenza), che ingiungono ad Efesto di incatenare Prometeo ad una rupe della Scizia. Cercano di lenire le sue sofferenze le Oceanine, che costituiscono il Coro. Invano il padre di queste, Oceano, tenta di convincere il Titano a sottomettersi a Zeus. Vittima della violenza di Zeus non è soltanto Prometeo, lo è anche Io costretta, dall'amore di Zeus e dall'ira di Era, a un continuo vagare e a vicissitudini di cui Prometeo presagisce la fine, predicendo anche la stirpe che nascerà da lei (suo discendente sarà Eracle che libererà Prometeo quando Zeus sarà costretto a venire a patti per salvare la sua signoria). Impavido il Titano, dopo aver fieramente rifiutato di svelare ad Ermes il segreto fatale al re degli dei, sfida la folgore di Zeus che lo inabissa nel Tartaro.
(83) (82) Cfr. tra gli altri H. J. GLLOYD, in "Dioniso", 1969, p. 211. E' stato sostenuto che il Prometeo incatenato non appartenesse a Eschilo, ma a un suo più giovane contemporaneo (cfr. per es. G. PERROTTA, I tragici greci, Bari 1932). Ma afferma ALBIN LESKY (Storia della letteratura greca, vol. I, cit. p. 337) "Oggi prevale l'opinione che il testo non sia spurio", pur aggiungendo: "Non approviamo, tuttavia, parecchi studiosi dei giorni nostri che non riconoscono affatto l'esistenza di una "questione del Prometeo" e non fanno parola di tanti elementi che esigono una valutazione accurata".
(84) (83) Le altre due opere che completavano la trilogia erano, quasi certamente, il Prometeo liberato (di cui ci rimangono solo alcuni frammenti) e il Prometeo portatore del fuoco. Tradizionalmente si era convinti assertori della successione: I) Prometeo portatore del fuoco; II) Prometeo incatenato; III) Prometeo liberato, supponendo che nella prima fosse trattato il furto del fuoco da parte del Titano. Oggi, però, più comunemente accettata è l'ipotesi secondo cui Prometeo portatore del fuoco sarebbe l'ultimo dramma in quanto rappresenterebbe non il motivo del furto, ma quello finale del dono legittimo, con il consenso dello stesso Zeus. Una cosa è comunque certa: Prometeo, dopo essere stato "incatenato", veniva "liberato". A mio avviso l'argomentazione risolutiva sembra essere quella di CARLO DEL GRANDE (Hybris, cit. p. 101): "In detta trilogia, Prometeo non veniva liberato se non quando aveva compreso l'eccellenza del pensiero di Zeus e la dirittura della sua giustizia. Chiudere il mito a questo punto sarebbe stato sciuparne la significazione più intensa. Se si fosse trattato di un semplice eroe, giunti allo scioglimento della hybris, la vicenda si sarebbe esaurita. Ma si trattava di un dio condannato per un'azione benefica verso l'umanità, benefica almeno nel fine, anche se fatta contro la volontà di Zeus. Poiché Prometeo veniva liberato soltanto dopo il palese riconoscimento della colpa, rimaneva da salvare Zeus e la sua giustizia. Di qui la necessità di un dramma che seguisse il LuÒmenoV, e cioè il PurfÒroV".
(85) (84) W. JAEGER, Paideia, I, cit. p. 459.
(86) (85) "Egli nel suo continuo rancore, con inflessibile decisione del pensiero, intende domare la stirpe di Urano…" (vv. 162-165); "in modo così triste Zeus esercita il potere con leggi proprie, manifestando sugli dei di un tempo un dispotismo superbo" (vv. 402-405). Sono le meste considerazioni delle Oceanine, che nel commiserare Prometeo piangono la fine di un'epoca, la preolimpica, preellenica dal punto di vista storico. "Il tema è il medesimo che ricorrerà nelle Eumenidi e, come nell'Orestea, anche qui sarà la fine della trilogia a ricomporre una pace fondata sull'accettazione della nuova sovranità da parte degli antichi dei che avranno anche loro un posto" (G. e M. MORANI, Tragedie e frammenti di Eschilo, UTET, cit. p. 349, nota 1).
(87) (86) R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, cit. p. 428.
(88) (87) Questo pensiero ritengo che si possa riallacciare all'accorata riflessione di Dario: "Quando uno si affretta egli stesso, anche il dio coopera (Pers. v. 472).
(89) (88) M. DEL GRANDE, Tragƒd¤a, cit. pp. 72-73.
(90) (89) "Il Coro appartiene alla più antica stirpe divina, la stirpe dei vinti; perciò il suo giudizio nei confronti del nuovo assetto cosmico e del potere di Zeus è simile a quello di Prometeo. Tuttavia avverrà in esso una progressiva maturazione che, nulla togliendo alla simpatia verso Prometeo, lo porterà a biasimarne l'atteggiamento" (G. e M. MORANI, Tragedie e frammenti di Eschilo, cit. p. 333, nota 2)
(91) (90) J. DE ROMILLY, La tragedia greca, cit. p. 57.
(92) (91) La posizione di Prometeo di fronte a Zeus nell' "Incatenato" è parallela a quella, come vedremo nelle Eumenidi, delle Erinni di fronte ad Apollo prima che Atena le convinca e le plachi. Nel Prometeo è detto che i nuovi dei imperano inflessibilmente con leggi proprie, mentre quelli uranidi sono stati messi da parte (vv. 149-152). Nelle Eumenidi le Erinni accusano Apollo di umiliare le divinità antiche (v. 150) e di volere con " gli dei più giovani tutto dominare, al di là di giustizia" (vv. 162-163), calpestando le antiche leggi (vv. 778-779). Nel Prometeo spesso si ritorna sul concetto dell'assoluta signoria di Zeus, cui tutti gli dei devono sottostare; nelle Eumenidi Apollo invita le Erinni "a paventare i responsi suoi e di Zeus e a non renderli privi di frutto" (vv. 713-714): ai suoi oracoli che muovono da Zeus non è possibile opporsi senza contrastare nel contempo il dio supremo.
(93) (92) Per il contrasto tra l'antica religione minoico-ctonia e quella aria, vedi supra, p. 72
(94) (93) A. PERRETTI, in "Maia", IV, 1951, p. 22.
(95) (94) A. BONNARD, La tragedia greca, cit. p. 159.
(96) (95) G. QUADRI, La tragedia greca e l'estetica della giustizia, cit. p. 39.
(97) (96) A. BONNARD, La civiltà greca, trad. di E. Spagnoli, Bompiani, Milano 1964, p. 159
(98) (97) "Persiste tremenda, pronta a risollevarsi, aggirantesi per la casa, subdola, memore, l'ira che vuole vendetta per i figli" (Ag. vv. 154-155).Eschilo non risale nel mito alle colpe di Pelope e Tantalo, ma a quella di Atreo, padre di Agamennone e Menelao, offeso dal fratello Tieste che aveva sedotto sua moglie e insidiato il suo trono e si era vendicato di lui uccidendone i figli e dandogli in pasto le carni durante un banchetto di "riconciliazione". Unico dei figli, sfuggito alla strage, era stato Egisto. Tieste, conosciuta l'orrenda realtà, aveva scagliato una terribile maledizione contro Atreo e i suoi discendenti. "Il manifestarsi inesorabile della legge di dike trova una significativa applicazione nell'ossessivo ripetersi di delitti fra consanguinei, che incatena la stirpe degli Atridi al cerchio apparentemente senza fine di colpa e di contaminazione" (R. SEVIERI, Eschilo, Coefore, Marsilio, Venezia 1995, p. 14)
(99) (98) Secondo la tradizione Agamennone sarebbe stato signore di Sparta insieme a Menelao. L'ambientazione ad Argo della vicenda mitica potrebbe essere legata ad eventi contemporanei. Quando nel 458 a.C. venne rappresentata l'Orestea, l'antagonismo di Atene e Sparta era in atto. Pochi anni prima era stata stipulata l'alleanza Atene-Argo (la tradizionale avversaria degli Spartani nel Peloponneso). Nella pacificata, non più tragica atmosfera del finale delle Eumenidi Oreste, dopo tanto soffrire redento dalle colpe ereditarie della stirpe e dalla maledizione del matricidio grazie ad Atena, pronto a tornare ad Argo sul trono paterno a lui spettante, promette con giuramento agli Ateniesi la perenne gratitudine e l'alleanza della sua città (Eu. vv. 762-777).
(100) (99) M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. p. 522.
(101) (100) Da come sono presentate le alternative da Agamennone si capisce che scelta migliore sarebbe l'orrendo sacrificio. Il futuro indicativo "se ammazzerò mia figlia" (e? t°knon da¤xw, v. 208) non corrisponde al debole congiuntivo dubitativo di "come potrei tradire le navi" (lipÒnauV g°nwmai, vv. 212-213).
(102) (101) C. DEL GRANDE, Hybris, cit. p. 106.
(103) (102) Ibid.
(104) (103) Quel genio vendicatore ha sacrificato un adulto Agamennone, figlio di Atreo, ai piccoli figli di Tieste (vv. 1501-1504).
(105) (104) M. UNTERSTEINER, Le origini della tragedia e del tragico, cit. p. 579.
(106) (105) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit. p. 82.
(107) (106) Nei Persiani non mancano tuttavia spunti in questa direzione v. supra. p. 124.
(108) (107) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit p. 84
(109) (108) M. C. NUSSBAUM, La fragilità del bene, cit. p. 110.
(110) (109) Ibid.
(111) (110) E' questa l'unica battuta di Pilade che ha il compito di ricordare autorevolmente all'amico fraterno il volere degli dei e di far comprendere agli spettatori che Oreste uccide non per cieco impulso omicida, ma per ubbidire ad Apollo.
(111) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit. p. 85.
(112) Apollo dichiara di essere venuto a difendere (xundikÆswn, v. 579), l'uomo supplice e ospite suo. Quella del xÊndikoV era una figura giuridica ben precisa: l'avvocato difensore o l'avvocato che veniva assunto dal popolo o da una tribù.
(113) Atena istituisce il tribunale dell'Areopago, un consiglio di giudici "intangibile da amore di denaro, venerabile, d'animo severo" (Eum. vv. 704-705). Il collegio, di tendenza oligarchica, era delegato al controllo delle cariche e della proponibilità delle leggi; tra le sue competenze la giurisdizione sui delitti di sangue. Proprio nel tempo in cui veniva rappresentata l'Orestea, il leader dei democratici, Efialte, gli aveva lasciato solo tale giurisdizione privandolo delle altre competenze. Un'eco degli attacchi contro l'Areopago e delle tensioni interne della polis potrebbe essere nel consiglio di Atena "di non portare rispetto per l'anarchia né per la tirannide" (Eum. vv. 697-698), "provando riverenza secondo giustizia per questo augusto tribunale" (Eum. v. 700).
(114) D. DEL CORNO, Eschilo, Agamennone-Coefore-Eumenidi, Mondatori, Milano 1995, p. XXVIII.
(115) G. QUADRI, I tragici greci e l'estetica della giustizia, cit. p. 109.
(116) N. BOSCO, Idea e concezioni della giustizia nelle civiltà occidentali, cit. p. 86.
(117) R. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, cit. p. 429
Il Mediterraneo è stato una fucina di civiltà, infatti, sulle sponde di questo mare sono sbocciate, sono fiorite e si sono confrontate tutte le grandi civiltà dell'antichità classica; dalle più remote e misteriose all'intraprendenza navale dei Fenici, alla grandiosità degli Egizi, all'industriosità terrestre e marittima degli Etruschi e dei Cartaginesi, alla poliedricità del mondo ellenico che seppe raggiungere le più elevate espressioni del pensiero umano e produrre forme artistiche di insuperata bellezza. I Romani ebbero fin dai primi anni della Repubblica la necessità di avvalersi del commercio marittimo ('Navigare necesse est') per cui si trovarono a confrontarsi sul mare sia con le maggiori potenze navali del Mediterraneo, sia con i pirati. La guerra piratica condotta nel 67 a.C. da Pompeo Magno troncò questa minaccia e la sicurezza sul mare venne definitivamente assicurata dalle vittorie navali riportate da Marco Agrippa, ammiraglio di Ottaviano, contro le nuove flotte 'piratiche' di Sesto Pompeo e contro la flotta egizia di Antonio e Cleopatra con la vittoria navale di Anzio (2 sett. 31 a.C.) e il successivo sbarco in Egitto, Roma aveva completato la propria espansione su tutte le rive del Mediterraneo. Venne così instaurata la Pax Augusta (poi detta Pax Romana) che di fatto fece cessare il Mediterraneo di essere 'Mare Nostrum' favorendo l'apertura alle vie al mondo allora conosciuto. Oggi con l'espandersi di nuovi e più larghi orizzonti il Mediterraneo riassume in sé le originali civiltà dei popoli dell'area per rilanciarle oltre gli 'stretti' che determinavano gli antichi confini.
In fondo questo ampliarsi del mondo si ispira al pensiero di Jacques Maritain e concretizza il suo progetto ideale di dialogo con le grandi culture non-cristiane. Di fatto, il Mediterraneo è (e dovrà sempre più) diventare luogo d'incontro, di studio, di ricerca delle componenti spirituali, culturali e politiche della regione mediterranea. Le civiltà del mondo mediterraneo sono collegate tra loro non solo da una storia, ma anche da un destino comune; il loro futuro è forzatamente condizionato dalla realtà quotidiana che ha come progettualità, sia l'analisi delle identità culturali e del processo di modernizzazione dell'area del mediterraneo, sia il pluralismo della cultura e alla loro convergenza nel mondo mediterraneo. Proprio nell'ambito di quell'umanesimo integrale di Jacques Maritain, è stato ripetutamente scritto, che "dobbiamo essere in grado di rileggere in comune i documenti della nostra storia per ripensarla insieme e superare così le divergenze ad opposizioni politiche attuali in un dialogo interculturale fondato sulla stima e sul senso della persona".
Tra le grandi civiltà che distinguono il percorso millenario dell'uomo, quella della letteratura come veicolo mediato di 'conoscenza', non è certo seconda ad alcuna. Poiché ci occupiamo del Mediterraneo come area di civiltà dell'uomo, credo opportuno parlare, anche se in modo succinto, dello sviluppo della letteratura nei territori dell'Africa del Nord, non trascurando di citare qualche autore di grande valenza con radici differenti, ma pur sempre africane.
Restringendo il campo all'assunto propostomi penso che gli scrittori d'Africa, che fino a qualche tempo fa guardavano ai modelli europei per imbastire le loro opere letterarie, oggi hanno trovato la chiave giusta per proporre schemi e storie socio-culturali propri, anche se in qualcuno, in verità, persiste ancora il richiamo a scrittori di stile e struttura europea o di quelli così vari e originali del continente americano o comunque estranei all'antica tradizione europea. Non dimentichiamo che celebri 'africani' hanno lasciato un'impronta indelebile nella letteratura latina; Apuleio Terenzio, Tertulliano. Imperatori di Roma sono stati Settimio Severo e Gordiano. E ancora: Sant'Agostino, Santa Perpetua e Santa Felicità, martirizzate a Cartagine, fulgide testimonianze della civiltà latino-cristiana conclusasi nel settimo secolo con l'avvento dell'Islam nell'Africa del Nord e con l'inserimento della Tunisia nel mondo arabo-mussulmano.
"Non mi sembra che sia ora il caso di citare tali letterature che spesso si sono imposte per il tramite di scrittori e di poeti dalla voce originale e penetrante sovrapponendosi ad altre voci, pure importanti, di scrittori e poeti dell'area europea. Non penso dunque a Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la letteratura, nato in Bulgaria da una famiglia ebraica di origine spagnola, il quale ha soggiornato a lungo a Marrakech e ha scritto Le voci di Marrakech dopo aver creato altri libri, allorché 'sente il bisogno di confrontarsi con un universo d'idee e di uomini altro e diverso: l'universo permeato dalla religione di Allàh, popolato di cammelli, di mendicanti e cantastorie', e neppure mi riferisco allo scrittore egiziano Naghib Mahfuz, anch'egli premio Nobel per la letteratura, autore di Vicolo del mortaio, Il nostro quartiere, Il ladro e i cani, Miramar e altri tra cui Il caffè degli intrighi e recentemente La via dello zucchero; non certamente a questi penso bensì al marocchino Mohamed Choukri, autore di Pane nudo, all'egiziano Yasup Idriz, autore di The cheapest nights, una raccolta di racconti scritti in prosa ritmica dove la musicalità della lingua diventa significato, oppure mi riferisco al marocchino Driss Chraibi, autore di Le passé simple, Les Boucs e di Nascita all'alba, la cui narrazione scorre dall'elegiaco all'ironico, all'epico in un intarsio linguistico che unisce al francese elementi berberi e arabi; penso alla maggiore scrittrice del Senegal Aminata Sow Fall che ha pubblicato Le revenement, La grève du Battu, opera questa che ha ottenuto il Grand Prix Littéraire de l'Afrique Noire, nonché L'appel des arènes, Prix International Alionne Diop e L'ex Père de la Nation".
"Penso a 'Chinua Achebe e quindi agli Igbo o Ibo, un gruppo etnico del sud del Niger, l'odierno Biafra. In Italia si conosce di lui il libro Dove batte la pioggia, che comprende i romanzi Il crollo, Ormai a disagio e La Freccia di Dio, nonché Un uomo del popolo, Viandanti della storia (Anthillis of the Savannah) che tratta il tema della dittatura militare. Già nel 1972 aveva pubbicato una raccolta di racconti dal titolo Girls at war and other stories. Ma vi è un altro senegalese morto precocemente, appartenente alla seconda generazione dei poeti di Négritude, emuli del grande Léopold Sédar Senghor, intendo parlare di David Diop, nipote del più noto Alionne Diop, il fondatore di Présence Africaine, che ha lasciato una sola raccolta di poesie Coup de pilons nei cui versi non manca la protesta. Vorrei qui ricordare l'intellettuale marocchino Tahar Ben Jelloun che ha scritto Moha il folle Moha il saggio, dove 'Moha parla della follia secondo le tradizioni dei cantori popolari del Maghreb, dove moha è la voce degli esclusi, è il folle che strappa la maschera a tutta la società', ma Jelloun è stato riconosciuto importante con Le pareti della solitudine, vincitore del premio Goncourt 1987, ma è autore di Notte fatale e di altri libri quali Creature di sabbia, Giorno di silenzio a Tangeri, La preghiera dell'assente. Ma la schiera degli scrittori di terra africana è lunga e piena di fascino. V'è, per esempio ancora uno scrittore del Senegal, Pap Khouna col suo Io, venditore di elefanti, il tunisino Salah Methnani, autore di Immigrato, giunto in Italia proprio attraverso la porta mediterranea di Mazara del Vallo. E ancora posso ricordare l'algerino Rachid Boudjedra, uno tra i più accaniti sostenitori del recupero della complessa identità maghrebina, con le sue contraddizioni e con la sua volontà di riscatto - come è stato già tante volte scritto e detto - dal pedaggio storico del colonialismo, autore di Il ripudio e La pioggia dove, nell'arco di sei notti insonni, in piena stagione delle piogge, una giovane donna fa i conti col proprio passato. Citerò anche Assia Djebar per il suo Donne d'Algeria nei loro appartamenti, uno spaccato di vita insolito!: 'un affresco prezioso e intenso dedicato alle donne algerine sullo sfondo di un secolo di storia..' lei, l'Assia Djebar, di La soif, che fece scalpore nel 1957 descrivendo la vita e le aspirazioni delle giovani figlie della borghesia alberina d'ambiente urbano; di Les enfants du nouveau monde e nel 1967 di Les alouettes naives, dove l'autrice, prima scrittrice algerina a tematizzare i problemi sociali ed esistenziali delle donne in un paese islamico, ha affrontato l'argomento relativo alla relazione di coppia. La Djebar ha in corso di stesura un'opera storico-autobiografica in quattro sezioni intitolata, appunto, Quartetto arabo di cui ha già scritto le prime due parti: l'amore, il gioco della guerra (1985) e Ombre sultane (1987)".
In diversi paesi dell'Africa, in quelli più prossimi al bacino del Mediterraneo e quindi più allertati della cultura europea a seguito dei più facili e agevoli scambi di persone e di opere, si attuò quel particolare fenomeno che aveva determinato nei singoli paesi quella sorta di rivoluzione culturale. Scontata la storia passata che si compendiava, almeno per la faccia africana del mediterraneo e per il vicino oriente, nella presenza delle potenze occidentali in quei territori che, pur appartenendo all'area dell'impero Ottomano, si sottrassero a quel potere, come avvenne per l'Egitto e l'Algeria. "E da quel contatto scaturì la nuova svolta letteraria; cioè il contatto con gli europei che determinò il nuovo interesse verso le forme letterarie occidentali, quali il romanzo, la novella e il teatro, generi sconosciuti in generale al mondo arabo, forte, invece, di una letteratura classica ricca di opere in versi e in prosa".
La vera esplosione del romanzo e della novella all'occidentale, che prendeva in esame la realtà della società, con carattere di genuinità e autonomia, poté realizzarsi concretamente solo negli anni susseguenti alla seconda guerra mondiale allorché i contatti tra i popoli da e per l'Europa furono più liberi e frequenti.
Potrei ricordare l'egiziana Nawal al Sa'dawi che con Firdaus, storia di una donna egiziana, ha conosciuto presto un gran successo e significativi divieti di molti paesi arabi. La scrittrice è nota per aver pubblicato, oltre a numerosi racconti, La donna e il sesso, L'uomo e la sensualità, La femminilità e l'origine e non ultimo Il volto nudo della donna araba mentre il poeta dell'immaginario tropicale alla ricerca dell'uomo, Sony Labou Tansi, del Congo, nella sua La vita è mezza parla di 'una nuova coscienza collettiva', intesa in chiave spirituale, egli che è anche l'autore de Le sette solitudini di Lorsa Lopez; poeta e soprattutto uomo di teatro, con i drammi Antoine mi ha venduto il suo destino e Io, vedova dell'impero, ha ricevuto il premio Enrico Mattei. Questo uomo, parlando della cultura, ha detto: "Il concetto di letteratura com'è vissuto in Europa è ignoto in Africa: la maggior parte della gente vive l'arte e la letteratura come un tutto che raccoglie insieme la musica, la scultura, la danza, la pittura. La cultura africana ha resistito così agli influssi esterni, ai tentativi di cancellarla o denigrarla per affermare una superiorità culturale occidentale".
Questo pensiero non è soltanto suo; esso è condiviso, con sfumature sottilissime, da moltissimi scrittori e uomini di cultura dell'Africa. Seguiranno il tunisino Abdelwahab Meddeb di Phantasia e lo storico della Guinea Djibril Tamsir Niane con Sundiata, Epopea mandinga, uno dei principali esponenti di quella letteratura che tende al recupero della grande tradizione orale africana: cioè Sundiata, il fondatore dell'impero Mali che tra l'XI e il XVII secolo fu una delle grandi civiltà dell'Africa islamizzata: i griots - questi consiglieri di re e precettori dei loro figli - sono gli incaricati alla conservazione della storia e delle tradizioni considerato che le tradizioni sono affidate all'insegnamento dei maestri del villaggio, dove 'ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia'; i griots chiamano Sundiata 'il settimo conquistatore del mondo'. "Se vogliamo ancora allargare il discorso su questo importante filone della letteratura di terra d'Africa, bisogna parlare con più respiro portando alla ribalda altre voci come la nigeriana Buchi Emecheta con la Cittadina di seconda classe e Miriam Makeba che ha scritto La mia storia e tanti altri come il Nobel nigeriano Wole Soyinka, di cui ricordo La foresta dei mille demoni; Mia Couto del Mozambico con Voci all'imbrunire o Pepatela con Mayombe, dove la guerra di liberazione angolana è raccontata da uno dei protagonisti, Arthur Carlos Mauricio Pestana dos Santos (Pepatela è il suo pseudonimo) che, assieme a José Luandino Vieira (pseudomino José Vieira Mateus Da Graca), portoghese di nascita ma africano per cultura ed elezione, è oggi ritenuto lo scrittore più noto e ammirato della letteratura angolana. Di lui ricordiamo i racconti Luuanda. E ancora due altri importanti nomi: Sembène Ousmane, senegalese, sostiene che bisogna diffidare della Négritudine senghoriana la quale, tuttavia, conserva oggi solo il 'suo carattere storico', mentre quella di cui egli è portatore è la conoscenza di una triste realtà che per secoli ha dominato i neri. Tra i suoi romanzi: Lo scaricatore nero (Le cocker noir), in cui raccoglie l'amara testimonianza di un emigrato; Le mandat dove racconta di un disoccupato di Dakar che riceve un inatteso vaglia postale da Parigi che non incasserà mai perché gli sarà impossibile produrre i documenti necessari ad attestare la sua esistenza e poi Il fumo della savana che ci racconta le varie tappe della costruzione della ferrovia che collegava Dakar-Thies-Bamako dove i lavoratori scioperano per ottenere un salario pari a quello percepito dai 'bianchi' e che riporta anche al riscatto della donna africana. Il titolo originale del libro Les Bouts de bois de Dieu è la traduzione in francese dell'espressione 'wolof' Banty mam yall (pezzi di legno di Dio) con la quale si indicano gli esseri viventi. Il titolo italiano Il fumo della savana indica invece il nome che i senegalesi avevano dato al treno che univa la città del Senegal a quella del Mali (allora chiamato ancora Sudan) e i popoli tra loro diversi: Wolof, Bambara Fulbe e altri. Sembène fa anche del cinema ma non abbandona definitivamente il romanzo e pubblica Xala ove stigmatizza la borghesia africana e con Le dernier de l'empire del 1981 realtà e fantasia si mescolano per narrare ancora una volta veri episodi di storia africana. Poi c'è Tahar Djaout, scrittore e giornalista algerino, morto a 39 anni con tre pallottole in testa nel maggio del 1993 per mano di gente che certamente non amava né la letteratura né la stampa specialmente quando denuncia l'oscurantismo e il fatalismo. Tahar Djaout ha pubblicato in Francia tre romanzi. Il primo Les Chercheurs d'os in cui racconta la storia degli abitanti di un piccolo villaggio cabilo; in L'invention du désert narra la storia di un uomo che vuole scrivere il racconto di una dinastia medievale venuta dal Sahara, il nulla vasto e giallo come dicono gli arabi, per sottomettere tutto il Maghreb. Si tratta di una riflessione sulla nascita del deserto come mito o come realtà. Col terzo libro Tahar Djaout s'imporrà come romanziere importante proprio con Les Vigiles, storia kafkiana di un giovane professore che inventa una macchina e cerca di farla brevettare. Un romanzo severo sulla società algerina d'oggi, con tutti i suoi conflitti, i suoi mali e la sua disperazione.
Ci sono poi quelli sconosciuti e poco noti al grande pubblico che s'interessa di letteratura quali John Munonye, Mje Mangi, Marianna Ba, Camara Layen, Antonio Jacinto, senza voler dimenticare altri scrittori maghrebini oltre a quelli citati. Penso a Kateb Macine, Habib Tengour, Edmond Amran e Maleh, Mahammed Dib, Rachid Mimouni, algerino come lo è Mouloud Mammari, che è ritenuto il più famoso scrittore algerino, morto tragicamente qualche anno fa. E ancora: Nobile Farès. Costoro hanno portato una vera e propria ristrutturazione all'interno della lingua di Racine, Flaubert e Camus. Scrittori, poeti, novellieri e drammaturghi, che hanno fatto esclamare a qualcuno: 'Africa hic sunt scriptores', tanto è ricco di messi letterarie quel continente. Non posso non accennare a qualche scrittore del Sudafrica come Wilbur Smith con Il Dio del fiume; Lewis Nkosi di Sabbie nere; Olive Schreiner di Storia di una fattoria africana e di Milleottocentonavantanove, Thomas Mofolo con Chaka scritto nel 1948. Egli è per molti da ritenere il padre della narrativa africana moderna; Sipho Sepamla, soprattutto poeta, con Soweto; Bestie Head con La donna dei tesori; Peter Abrahams con Dire libertà. Memorie del Sudafrica; Arthur Maimane con Vittime e Hamadu Hampaté Ba del Mali con L'interprete briccone e poi Morgane Wally Serate, Athol Fugare. E che dire del nigeriano Ben Okri che con The Famished Road, magico intreccio di realtà e misticismo, (come è stato definito da Tristan Ashman) vince il prestigioso 'Booker Prize', di Gabriel Okara con La voce e infine il dimenticato Amos Totuola con l'affascinante Bevitore di vino di palma. E altri ancora. Comunque posso concludere che, Algeria, Egitto, Marocco e Sudafrica sono gli stati che hanno offerto, per mezzo dei loro scrittori e poeti, maggiori contributi alla conoscenza delle aspirazioni sociali parlandoci schiettamente della vita profonda e propria del continente africano.
V'è da aggiungere ancora il Nobel per la letteratura Nadine Gordimer, una scrittrice di razza nata a Johannesburg, con al suo attivo una ventina di opere, che ha parlato precipuamente delle 'differenze razziali' in Sud Africa e che il grande pubblico europeo ha conosciuto nel 1989 con la pubblicazione di una raccolta di saggi dal titolo "The essential gesture"; opera che ebbe tanto successo di pubblico e di critica.
Ho parlato degli autori che più mi hanno impressionato e senza ritenermi uno specialista ho esibito i nomi come bandiere di una libera alleanza tra quanti combattono una battaglia civile per l'egemonia della cultura, sia come fatto di conoscenza sia come portatrice di nuove linfe e di nuovi interessi di approfondimento della civiltà dei popoli.
Come appare vi sono presupposti seri per parlare di una letteratura di temi e contenuti propri alla gente d'Africa, anche se non mancano in alcuni autori, come spesso anche accade, riferimenti biografici in situazioni velatamente o largamente protestatarie.
Per quanto ci riguarda possiamo affermare che c'è un consistente flusso di letterature di origine africana, come già prima vi era stato un passaggio rapido tra la loro cultura di tradizione, mantenuta dal racconto orale, e una cultura scritta, via via formatasi per una più radicale presa di coscienza di quei popoli e divulgata mediante la pubblicazione di libri sia di poesia sia di narrativa.
1. - Motivazioni economiche di un espatrio di massa
È opinione comune tra gli studiosi di fenomeni sociali che Alia sia stato tra i primi paesi del Meridione d'Italia, dove abbia avuto inizio l'emigrazione verso gli Stati Uniti d'America. Si tratta di un anticipo di circa dieci anni di quello che diventerà, dopo il 1900, un eccezionale e diffuso fenomeno di massa, dal quale il grosso centro agricolo delle Pre-Madonie continuerà a essere coinvolto con pesanti perdite demografiche.
Francesco Renda, uno degli storici della Sicilia più sensibili ai problemi sociali, dopo avere dimostrato che il mondo rurale isolano fu duramente colpito dall'emigrazione, sostiene, con maggiore precisione, che Alia era tra i 35 comuni della Sicilia e dei 21 della provincia di Palermo "che accusavano una diminuzione effettiva di popolazione"(1). A registrare ciò, spiega Renda, è il Censimento della popolazione del Regno d'Italia del 10 Febbraio 1901. Da esso si evince che: "Evidentemente nelle campagne del palermitano l'emigrazione aveva già acquistato quel carattere di massa che nel decennio successivo sarebbe stato comune a tutto il movimento migratorio isolano"(2). Da allora, tranne una breve parentesi di ripresa durante il periodo fascista, ad Alia si rileva un'oscillazione demografica con tendenza decrescente, che, nel corso di un secolo e mezzo, anche a causa di altri flussi emigratori verso varie parti del mondo, come America meridionale, Canada, Australia, Germania, Francia, Belgio, Gran Bretagna e Italia settentrionale, ha più che dimezzato il numero dei residenti.
Dai 6.297 abitanti, censiti nel 1881, la popolazione odierna si è ridotta a poco più di tremila anime, sul quale numero grava il fenomeno dell'urbanesimo, ossia delle molte famiglie che, per svariati motivi, sono anagraficamente residenti in paese, ma, di fatto, abitano e lavorano in città. Una recente indagine promossa dal comune di Alia e condotta in collaborazione dei vicini centri di Vicari, Montemaggiore Belsito, Aliminusa, Lercara Friddi, Roccapalumba e Valledolmo, rilevando l'andamento demografico, ha indicato Alia come il comune in cui si è registrato il più alto tasso di emigrazione. È venuto fuori che, nell'ultimo trentennio 1970-2000, hanno abbandonato il paese circa 2.592 persone e gli abitanti, che nel 1970 avevano toccato la punta di 6.494, nel 2000 sono scesi a 3.872(3).
Alia, oggi, proprio a causa dell'emigrazione, è un paese fantasma, dove è altissima la percentuale delle persone superiori ai sessant'anni di età, mentre, anche a ragione della forte riduzione delle nascite nell'ultimo trentennio, è sempre di meno il numero dei giovani. In un'area di due chilometri quadrati, quant'è il suolo del centro abitato di Alia, è sproporzionato il rapporto tra il numero dei nuclei familiari e il numero delle case, nel senso che quest'ultimo è di gran lunga superiore al primo. In molte case, infatti, non c'è più vita. Le loro porte raramente vengono riaperte. Sono le antiche dimore degli emigrati, che magari speravano di potere un giorno fare ritorno, ovvero sono le abitazioni di coloro, che, permanendo per parecchi mesi all'anno in altri comuni d'Italia o del resto d'Europa, sono soliti rientrare ad Alia in occasione delle grandi festività o nel periodo estivo.
Dalla fondazione di Alia o di Lalia, come originariamente il comune era denominato, avvenuta con licentia populandi del 7 marzo 1615 concessa dal re spagnolo Filippo III al barone Don Pietro Celestri, la popolazione era stata in continua crescita. Il primo censimento del 1714 aveva appena registrato una presenza stabile di 605 individui distribuiti in 198 famiglie. Da quell'anno sino al 1881, per via di una campagna di colonizzazione nei paesi viciniori, si ebbe uno straordinario e irripetibile incremento.
"In poco più di un trentennio - si legge in una recente e documentata storia di Alia - l'evoluzione fu tangibile. A confermarla giunsero i dati dei riveli degli anni 1747 e 1748. La popolazione era aumentata, rispetto al 1714, di oltre il 400 per cento ed era passata a 2.651 anime, con 1.610 maschi e 1.041 femmine. I nuclei familiari erano saliti a 356 e ognuno di essi contava in media più di 7 membri. Basterebbe questo solo elemento per indicare l'evidente equilibrio raggiunto dalla colonizzazione. Ma si era semplicemente a una tappa di un graduale progresso, perché, appena qualche decennio dopo, e per l'esattezza nel 1798, la popolazione avrebbe raggiunto le 3.855 anime. Lalia si avviava ormai a diventare un grosso centro e a mettersi in diretta concorrenza con i paesi limitrofi"(4).
Questa la situazione in cifre nel decennio 1851-1861 ricostruita attraverso i registri dell'Ufficio Anagrafe di Alia:
Anno Nascite Matrimoni Morti Totale
1851 231 65 93 389
1852 240 23 128 391
1853 168 34 97 299
1854 175 30 207 412
1855 186 68 126 380
1856 205 54 188 447
1857 208 62 119 389
1858 221 54 132 407
1859 218 58 139 415
1860 207 43 181 431
1861 231 78 215 524
TOTALE 2290 569 1625 4484
In appena 50 anni, si avrà, come si è detto, un altro consistente raddoppio demografico. Dai censimenti è facile rilevare, qua e là, le prime conseguenze dell'emigrazione. A tal proposito sono abbastanza eloquenti i dati rilevati nel 1907 dal pubblicista aliese Ciro Leone Cardinale nella voce "Alia", scritta per il Dizionario illustrato dei comuni siciliani a cura di Francesco Nicotra. Tali dati riguardano, appunto, la popolazione aliese secondo i risultati dei censimenti che rilevano 5.499 abitanti nell'anno 1861, 4.566 nel 1871, 6.297 nel 1881e 6.045 nel 1901.
L'oscillazione demografica nel quarantennio 1861-1901 è evidente. Tra il 1861 e il 1871 si registra una perdita complessiva di 933 individui, mentre dal 1871 al 1881, certamente per un rimpiazzo di manodopera agricola col sistema della colonizzazione, si ha un incremento di 1.731 unità, che subiscono la flessione di 252 nel ventennio successivo. Ad attribuire all'emigrazione la causa del mancato sviluppo demografico di Alia, così come si era attestato sin dalla fondazione del comune è lo stesso Ciro Cardinale, che così scrive: "Per effetto della continua emigrazione di abitanti la popolazione decresce. L'emigrazione è per gli Stati Uniti d'America (New York, New Orleans, Pennsylvania, Colorado, California ecc.) dove dimorano più di tremila aliesi"(5). La nota di Leone Cardinale, scritta nel 1907, ha valore di testimonianza per chiunque voglia affrontare il tema dell'emigrazione di un piccolo centro rurale come Alia. Ed è impressionante quella cifra di tremila aliesi, i quali, durante il sessantennio precedente, prima singolarmente e poi in massa, presero la via degli Stati Uniti d'America. Da allora sarà una cifra in costante crescita sino a triplicare dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Rimane una dolce, svanita immagine quella che nel 1866, in un discorso ufficiale passato alla stampa, aveva dato del paese il senatore Andrea Guarneri. "La città di Alia, signori, nel brevissimo corso di due secoli, - aveva detto il parlamentare - ha saputo trasformarsi da umile casale in ricco e popolare Comune. Essa dal 1715 al 1853, cioè in 138 anni, ha elevato la sua popolazione da 605 abitanti a 4652. Essa ha reso otto volte maggiore, formando uno degli esempi eccezionali di rapidissimo accrescersi di popolazione, e ciò nonostante che non siasi emancipata dalla mano baronale, che da men che mezzo secolo"(6).
I motivi di tale e tanta emigrazione vanno ricercati nella situazione di miseria in cui viveva la stragrande maggioranza della popolazione. Leone Cardinale parla addirittura di "angherie feudali"(7), che tenevano la classe rurale assoggettata ai grossi proprietari terrieri del luogo. In effetti i contadini, nella loro condizione di braccianti o di jurnatara (giornalieri, perché erano pagati a giornata di lavoro e, per lo più, in natura) o di mezzadri (coltivatori della terra del proprietario, con il quale dividevano al cinquanta per cento i prodotti), erano succubi del padrone di turno.
Tra le persone più anziane circolano ancora ad Alia significative strofe di canzoni popolari, espressione genuina dello stato d'animo della povera gente, che affidava al canto melanconico e rassegnato il racconto delle proprie irreversibili sofferenze. Eccone uno straziante che dovette essere molto diffuso tra i jurnatara aliesi che si avventurarono sullo sconosciuto mare per raggiungere gli Stati Uniti d'America:
Madonna, quant'è àutu stu suli!
Pi carità facìtilu cuddàri!
Non lu facìti, no, pi lu patrùni,
ma pi sti puvureddi iurnatàri
ca, sìdici uri a facciabbuccùni,
li rini si li màncianu li cani...
Iddu si vivi 'u vinu all'ammucciùni
e nui vivemu l'acqua di vaddùni
unni mèttinu a moddu li liàmi!(8)
A questo canto, qualche secolo dopo, faranno eco, quasi a testimonianza di una tragica realtà vissuta da molte generazioni, i versi, anch'essi laceranti, di un poeta dialettale aliese, Pino Marchiafava, emigrato negli Stati Uniti d'America negli ultimi anni '50 e, attualmente, residente in un centro dell'Arizona. Egli appartiene a una famiglia di poeti in vernacolo siciliano. Altri due fratelli Vito e Nino, anch'essi partiti assieme ai genitori per l'America, compongono apprezzabili poesie dialettali, nelle quali prevalgono i loro sentimenti di emigrati, costretti a risiedere lontani da Alia. Riportiamo di seguito i versi di Pino Marchiafava, in cui, stavolta, a differenza di altri suoi componimenti, prevale la tendenza a esprimersi in un siciliano italianizzato:
Oh Alia, paisetto di montagna,
fusti la culla di l'infanzia mia.
Ja ti lassaiu quannu avia vint'anni,
n'aju settanta e sempri pienzu a tia.
Chiancìa quannu ti lassaiu,
comu si eri la matruzza mia.
Tuttu na la menti m'arristau
e dintra l'uocchi la fotografia.
Parlari ti putìa di tanti genti
e di li beddi amici chi tinìa.
Pittàri ti putissi cu un pennellu
e picch'issu tiegnu tanta nostalgia.
La curpa nun fu tua e mancu mia,
quannu partìu e nun ti salutaiu.
La curpa è stata di lu pussidenti,
ca a tutti quanti schiavi ci tinia.
Quannu chiù nun potti suppurtari
senza pinzari a chiddu chi facìa,
pigghiaiu lu treno e m'alluntanaiu
lassannu dietru a mia tanti ricordi
li chiù beddi di la vita mia.
[...](9).
Meno gravosa, ma non certamente prospera fu la sorte di coloro che erano riusciti ad avere qualche spezzone di terreno con il cosiddetto contratto di enfiteusi.(10) Quest'ultimo comportava lo spezzettamento dei latifondi e la concessione perpetua dei lotti a destinatari che avevano il pieno usufrutto del fondo con l'obbligo di bonificarlo e di pagare un canone annuo al proprietario. Gli spezzoni erano di varie dimensioni, ma non eccessive: giungevano, per lo più, a un massimo di cinque o sei tumuli, distribuiti in una o più contrade e, talvolta, cumulabili nelle mani di un solo enfiteuta. Il tumulo ad Alia misura circa 1.300 metri quadrati. I proprietari dei feudi nel luogo erano gli eredi dei Santacroce e, più direttamente, i Principi di Sant'Elia. Anche la chiesa locale aveva concesso in enfiteusi buona parte dei terreni che, nel tempo, le erano pervenuti in donazione.
I rapporti di enfiteusi, in certo qual modo, tamponarono l'emorragia dell'emigrazione, ma non risolsero i problemi dei contadini, i quali, sebbene sfruttassero al massimo lo spezzone di terra di cui disponevano, tuttavia erano sempre in difficoltà di fronte all'incalzare del carovita. Spesso erano anche le "male annate" con siccità, carestie, epidemie, a mettere in ginocchio o a buttare sul lastrico intere famiglie, che, di conseguenza, finivano stritolate dagli usurai, veri e propri "vampiri" come era solito chiamarli don Luigi Sturzo, attento conoscitore della zona e severissimo critico del fenomeno.
Ogni famiglia in disgrazia faceva automaticamente crescere il numero degli aspiranti a raggiungere la "lontana Merica" dalla quale cominciavano a pervenire non solo allettanti notizie sul benessere conseguito dai primi emigrati, ma anche pressanti inviti di familiari, parenti e amici, ivi ormai residenti, i quali, in lunghe e appassionate lettere (magari scritte da scrivani volontari o a pagamento), si rivolgevano ai propri cari sollecitandoli a prendere la coraggiosa decisione, dicendosi pronti a ospitarli in attesa di un lavoro e di una definitiva sistemazione e, spesso, dando la loro piena disponibilità per l'anticipazione o, addirittura, l'offerta della somma necessaria all'acquisto del biglietto.
Un ruolo di vera e propria assistenza pastorale svolse la chiesa locale a favore degli emigrati aliesi. Non fu un atteggiamento isolato, perché la parrocchia di Alia in questa attività si tenne in stretto collegamento con la Curia vescovile di appartenenza, quella di Cefalù, che, a sua volta, prendeva direttive dalla Santa Sede, allora diretta da un Pontefice particolarmente attento ai problemi degli operai, Leone XIII, il papa della Rerum novarum. In Vaticano era la Congregazione del Concilio a occuparsi della questione dell'emigrazione a tenere il coordinamento tra le Diocesi italiane(11). Il parroco spesso interveniva personalmente per assicurare una degna sistemazione a chi partiva. Ciò avveniva tenendosi in rapporto con l'Ufficio Emigrazione Diocesano ovvero, tramite corrispondenza, con coloro che avevano raggiunto l'America e che, per un motivo o l'altro, scrivevano al sacerdote per informarlo e per essere informati e, molto spesso, per raccomandare un'attenzione nei riguardi dei familiari rimasti in paese. Ciò spiega la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aliesi ebbe come prima destinazione - per molti rimasta definitiva - la Louisiana, uno dei pochi Stati dell'Unione con prevalenza di cattolici. Gli aliesi, per affinità di provenienza e di religione, divennero un tutt'uno con la comunità cefaludese, con la quale, tuttora, le nuove generazioni continuano a mantenere ottimi rapporti. Notizie della residenza o del passaggio di emigrati siciliani e, soprattutto, aliesi si hanno in molte parrocchie della diocesi cattolica di Baton Rouge, con maggiore frequenza in quelle di Ascension, East Baton Rouge, Iberia, Iberville, Jefferson, St. Bernard, St. James, St. Mary e Tangipahoa(12).
Si deve a tale stato di cose se non trova riscontro in Alia e nei pochi emigrati aliesi rimpatriati il pur interessante dato messo in evidenza da Francesco Renda nella sua Storia della Sicilia, secondo cui gli "americani" tornati ai loro paesi d'origine, avrebbero assunto atteggiamenti di indipendenza non solo nei confronti dei proprietari terrieri, i loro antichi padroni, ma anche nei confronti della Chiesa. Egli afferma testualmente che "non pochi americani si sono convertiti al protestantesimo e, tornati in paese, si danno alla predicazione della nuova fede, conquistano adepti, aprono chiese, spesso costituite da un ambiente a pianterreno di qualche decina di metri quadrati, dove si riuniscono a celebrare i loro riti"(13). Don Antonino Disclafani, parroco da circa 30 anni della locale Chiesa madre, da noi interpellato, ha dichiarato che, a sua memoria, non si è verificato alcun caso ad Alia di quelli accennati da Renda, né esiste traccia di ciò nelle carte dell'Archivio parrocchiale relative ai secoli scorsi.
2. Le prime esperienze in terre ospitali
Giuseppe Panepinto è il primo emigrato aliese a New Orleans di cui si ha notizia ufficiale grazie alla registrazione del suo matrimonio nella locale parrocchia di Sant'Antonio. A riportare questo dato è lo statistico Albert J. Robichaux Jr. in una sua interessante raccolta di dati ricavati dai registri dell'anagrafe di Alia: "The first documented proof of a native of Alia arriving in Louisiana is found not on ship passengers' list but in the sacramental records of St. Anthony's Church in New Orleans. On March 4, 1878, Giuseppe Panepinto, age 26 years, native of Alia, married Nunzia Di Maggio, native of Contessa"(14).
Anche se non si hanno documenti sull'arrivo del giovane Panepinto in Louisiana si presume che egli, assieme ad altri aliesi, vi sia sbarcato negli anni '60 del XIX secolo. La mancanza di notizie precise è spiegata dallo stesso Robichaux, il quale, fra l'altro, scrive che "unfortunately, the passenger ship lists of the 1860s and 1870s do not provide the name of the town of birth of the immigrants; instead, the only reference cited is either Sicily or Italy". E, per quanto specificamente ci interessa "it is possible that Giuseppe Panepinto arrived in the United States through the Port of New York as his name doesn't appear on any ship lists of vessels arriving at New Orleans"(15).
I quotidiani di New Orleans dell'epoca, quali "The Daily Picayune" e il "Times Democrat" non ignoravano l'arrivo di italiani in Louisiana. "Reports of arrivals in newspapers during the decades of the 1860s and 1870s - ci informa Robichaux - were primarily interested in the goods that were exported and imported between Italy and the Port of New Orleans(16). Nei decenni successivi cronache di questo genere si faranno più frequenti e più dettagliate.
Nell'edizione pomeridiana di martedì 16 dicembre 1880, in un lungo articolo titolato Immigrants from Italy, Two Hundred and Ten Passengers from Palermo Arrive on the British Steamship Scindia, "The Daily Picayune" scrive che
The immigrants are mostly from Palermo, and vicinity. Of course the first few days at sea they were all affected with sea-sickness. Nearly at the men are stout, [illegible] fellows. The scene on the wharf when the baggage was landed for the inspection by the Custom-House officials was interesting and amusing to a spectator. Green boxes and long white canvas bags were the favorite recepticles for the goods and chattels of the immigrants. [...] The men and women all evinced their love of bright colors in the way of gay handkerchiefs, which were tied around the heads of the women and the necks of the men. The cape worn by the men were, however, of worsted knitted. Black and brown velvet jackets and trowsers with boots like the English riding boot were worn by many of the men. The ears of both sexes were adorned with rings; those of the women in some cases touching the shoulders of the wearers. The meeting between the immigrants with their friends who had preceded them to this country, was in accordance with the manners and customs of the passionate, warm-hearted people of the Southern (illegible). Bearded men clasped each other around the body and kissed like school girls, and all talked and chattered as only Italians and Spaniards can(17).
Indescrivibili le peripezie, cui, durante la traversata da Palermo a New York o a New Orleans, andavano incontro i nostri emigrati. Al riguardo "The Times Democrat" di giovedì 15 ottobre 1889, in un articolo, titolato Italian Immigrants, Over 800 arrive on One Steamship and are Warmly Greeted by Their Friends, racconta la triste sorte di un bambino siciliano nei seguenti termini: "During the voyage the finest possible weather was experienced and there was no sickness on board. When one day out of Palermo an infant who had been ill on being brought on board died and was buried at sea". Era questa, purtroppo la fine, che, in quelle navi ancora sprovviste di celle frigorifere mortuarie, per ragioni igienico sanitarie sostenute da una precisa norma del Codice della Navigazione, toccava a chi avesse avuto la disgrazia di morire durante la traversata.
Tra questi emigranti - che, provenienti "from Palermo and the vicinity" attiravano la curiosità dei quotidiani di New Orleans - è facile immaginare i giovani disoccupati e i contadini aliesi che aprivano gli occhi a una realtà interamente diversa da quella che avevano lasciato. Ebbene Giuseppe Panepinto, negli anni precedenti all'unificazione d'Italia, certamente, fu tra questi pionieri. E non solo lui. In una recente Exhibition presso il Museum Louisiana State sul fenomeno dell'immigrazione negli ultimi due secoli è stata esposta al pubblico una foto che riproduce un gruppo di sei giovani, provenienti "from Alia (Palermo)" dell'età media di 30 anni, e indicati nella didascalia come alcuni dei primi immigranti siciliani. Questi i loro nomi: Joe Ditta, Gaetano Ortolano, Gaetano Taulli, Frank Taulli, Sam Centanni, Carlo Ditta.
Nella mostra, manifestatasi di grande interesse storico e sociologico, vi sono altre foto di aliesi, tra le quali quella della coppia Gaetano e Rosalia Taulli nel giorno del loro matrimonio avvenuto nel 1900. Le foto erano state fornite agli organizzatori dell'Exhibition da Mr. John Volts, famoso avvocato, che è stato U.S. Attorney, ossia avvocato dello Stato Federale a New Orleans. Questi, poiché la madre era d'origine aliese, dispone di una ricca collezione di fotografie della fine del secolo XIX e dell'inizio del secolo XX relative all'emigrazione aliese.
Siffatti arrivi alla spicciolata, furono seguiti da un movimento di massa che portò in Louisiana numerose famiglie aliesi. "The first passengers' lists to identify Alia as the place of origin of the immigrants - scrive Albert J. Robichaux - was that of the S.S. Scandanavia which arrived from Palermo and Naples on November 6, 1882. On the 261 steerage passengers aboard the Scandanavia, 91 were from Alia"(18). Il massiccio arrivo non fu un caso isolato, perché si ripeté per tutto il periodo della "Grande Emigrazione" che, come è noto, va dal 1889 sino a tutto il 1910.
A testimonianza di ciò, vi sono anche i numerosi articoli e documenti oggi conservati all'American Italian Museum and Risearch Library (507 S.Peters Street) di New Orleans. Consultando il catalogo(19) per cognome ci si imbatte in articoli di giornale che trattano la storia di singole famiglie o in veri e propri appunti di testimonianze orali annotate qua e là da chi si è occupato della raccolta o addirittura scritti di pugno dai protagonisti delle stesse storie. Gli articoli di giornale riportano per lo più le esperienze di successo degli italo-americani soprattutto a New Orleans e nell'ambito del commercio o del turismo.
La conferma all'eccezionale flusso di aliesi nell'ex colonia francese ci perviene, anche e indirettamente, dall'esiguo numero di costoro registrato dal Center For Immigration Research Balch Institute (18 South 7th Street, Philadelphia, PA 19106) per quanto concerne i loro sbarchi nel Nord degli Stati Uniti e, quindi, nel porto di New York. In uno scambio di e-mail avuto con il direttore, Ira A. Glazier, il noto storico e sociologo dell'immigrazione americana, mi sono fatta la convinzione, per i risultati gentilmente fornitimi, che negli anni 1900 e 1901 era stato esiguo - a differenza di quanto da circa un quarantennio avveniva a New Orleans - lo sbarco di aliesi nel Porto di New York, sul traffico del quale ritengo che il Center For Immigration Research Balch Institute disponga di una ricca documentazione.
Negli anni successivi, sino al secondo dopoguerra, gli emigrati aliesi preferiranno o saranno costretti a viaggiare su navi dirette a New York, ma, per la maggioranza di loro, la destinazione immediata rimaneva sempre New Orleans, che essi da New York, per lo più, raggiungevano in treno. A dimostrazione del loro passaggio sono i numerosi nomi scolpiti, assieme a quelli di altri paesi, ai piedi della Statua della Libertà. E molti di costoro si riscontreranno in Louisiana. Per il biennio 1900-1901, in ogni modo, Ira A. Glazier ha tirato fuori dal suo schedario "15 immigrants from Alia to the U.S. in the year 1900" e "15 or 20 names for the years 1900 and 1901"(20).
3. - Insediamenti e disagi
New Orleans, per gli aliesi giunti in Louisiana, fu il centro di smistamento: "Many of the newly arrived - informa The Daily Picayune - will remain here in this city; the rest will be distributed among the plantations up and down the cost"(21). Gli aliesi, in maggioranza di origine contadina, non solo trovarono lavoro nelle piantagioni di zucchero nelle campagne a Sud e a Nord di New Orleans lungo le sponde del Mississippi, ma anche si adattarono facilmente al clima locale.
In area cattolica, per un'immediata e adeguata assistenza agli emigrati, furono istituite delle associazioni o società di mutua benevolenza tra gli oriundi di uno stesso paese o di una stessa zona. Gli aliesi, sino in tempi recenti, non ebbero una loro società. Non ne avvertirono l'esigenza, in quanto di essi, secondo alcune testimonianze per lo più orali, si prendeva prevalentemente cura la "Società di Mutua Beneficenza Cefalutana" e, in parte, anche la "Contessa Entellina Society" e la "San Bartolomeo Society". Quest'ultima raccoglieva gli immigrati provenienti dall'isola di Ustica.
Siamo in grado, grazie alle carte di cui disponiamo, di indicare gli insediamenti dei primi aliesi emigrati in Louisiana. Per un immediato esame del movimento, abbiamo ricavato dalle carte consultate il prospetto che segue:
INSEDIAMENTO DELLE PRIME FAMIGLIE ALIESI IN LOUSIANA DAL 1860
Contea di San James Parish
Nicolosi, Nasca, Barcellona, Sedita, Todaro, Chimento, Spedale, Gattuso, Lamendola, Miceli, Rotolo, Scaccia, Tripi Leone, Marchiafava, Macaluso, Dispenza.
Contea di Assuntion Parish (Napoleonville)
Puglisi (Politz), Territo, Russo, Martino, Pusateri, Guarino.
Contea di Palquemine Parish (Sud di New Orleans)
Di Carlo, Orfanello, Volpe, Falcone, Mulè
New Orleans e periferie (Marrero, Harvey, Gretna)
Di Salvo, Ditta, Federico, Vicari, Traina, Spera, Scaccia, Montagnino, Rotolo, Centanni, D'Amico, Celino, Todaro, Veninata.
Baton Rouge Metropolitan area
Macaluso, Runfola, Guccione, Alello, Marchiafava, Spedale, Granata, Panepinto, Cardinale, Miceli, D'Andrea, Gattuso, Pusateri, Biondolillo, LoSavio, Mascarella, Mazzarisi, Vicari, Viverito, La Mendola.
A queste famiglie si aggiunsero altre nel secondo dopoguerra, che si stabilirono, soprattutto, a New Orleans e nei paesi West di New Orleans quali Marrero, Harvey, Gretna. Diversi nuclei, come i Mormino, Marchiafava, Cardella, Lo Bue, Milazzo, Panepinto, Privitera, dalla Lousiana si diressero verso Chicago e da qui alcuni, come i Cardella, proseguirono per lo Stato dell'Arizona, dove il clima è molto simile a quello della Sicilia. Contemporaneamente famiglie aliesi trovarono lavoro e fissarono la loro residenza negli Stati di New York (Teresi, Concialdi), New Jersey (Lo Savio, Puglisi, Valenza), Texas (Mortellaro, Martino) e Colorado (Lo Savio, Marchiafava, Chimento, Miceli, Todaro).
Molte di queste famiglie, come si deduce dalle carte e testimonianze orali o manoscritti di storie vissute raccolti dal Museo italiano di New Orleans, hanno qualcosa da raccontare. Sono piccole storie biografiche di famiglie sradicate dalla loro comunità di appartenenza e trapiantate in una terra ignota, dove pure la lingua era un mistero. Sono anche storie d'amore e di dolore, come quella tra Giuseppe Mortillaro e Michela Martino, che nel 1887 raggiunse la Louisiana per sposare il fidanzato espatriato l'anno precedente. I due, successivamente, si trasferirono nel Texas, dove, dopo un decennio di benessere conseguito con i prodotti dei campi venduti al supermarket di San Antonio, perdettero ogni loro bene con l'alluvione del 25 marzo 1899 e dovettero ripararsi a Houston. Qui, per alcuni mesi, furono ospiti del compaesano Sam Bova, il quale fu generosissimo nei loro confronti, ma, avendo un'abitazione abbastanza piccola, poté offrire agli amici la vicina stalla, dove il 15 settembre 1900 - giorno del funesto uragano che distrusse la città di Galveston provocando ben 10mila vittime - nacque il figlio Giuseppe. Il bambino portò fortuna ai due coniugi, che presto trovarono lavoro e, con i risparmi del guadagno, comprarono 15 ettari di terra in San Filipe Road.La terra, lì per lì, consentì loro di andare avanti con minori sacrifici, ma, qualche anno dopo, divenne parte del centro della Città di Houston e fu una benedizione divina per i Mortillaro e per i loro discendenti che raggiunsero una posizione economica di piena agiatezza, tuttora conservata.
Altrettanto interessanti le vicende della famiglia Notarianni, stabilitasi nel 1900 a Hammond, in Louisiana. Una famiglia numerosa, che lavorò, comprò molta terra e costruì in solidarietà un'abitazione per ogni componente. Più di dieci case. Oggi la strada è denominata Notarianni Road. A poca distanza, altre loro residenze, costruite da Sam, figlio del capostipite Giuseppe. E, anche qui, la toponomastica richiama la presenza della numerosa famiglia Notarianni o meglio il loro paese natio: Lane Alia è la denominazione di una strada che sbocca in Notarianni Road.
Alia non fu completamente immune dal fenomeno delle "vedove bianche", cioè delle mogli dimenticate o abbandonate, le quali, per anni o per sempre, non ricevettero notizie dai mariti emigrati, magari tra abbracci e lagrime e con il "fermo proposito" di "fare soldi e tornare" o di richiamare l'intera famiglia. I casi, per l'esattezza, non furono molti, ma ci furono e con tutte le caratteristiche dell'abbandono della donna da parte dell'uomo. Talvolta si ebbe qualche recupero. E qui la chiesa locale ebbe la sua parte tramite la mediazione dei parroci protempore. A darcene testimonianza è sempre il reverendo don Antonino Disclafani, che è stato felice artefice di più recenti riconciliazioni o passivo osservatore di separazioni coniugali irreversibili.
Alla base dei casi difficili o impossibili c'erano e ci sono le drastiche prese di posizione dell'uno o dell'altro coniuge. La moglie normalmente non perdonava al marito di essere stata abbandonata "come una donnaccia", mentre questi, a sua volta, andava al contrattacco giustificando il prolungato silenzio con l'attribuire alla moglie la colpa di non essere stata disposta a raggiungerlo in America o di essersi comportata male durante la sua assenza ... così come da informazioni a lui pervenute tramite lettere anonime o da parte di persone malvagie, che, di solito, "nun si fannu i fatti propri".
Per ovvi motivi di riservatezza in cui si trincera la gente comune, è molto difficile riuscire a reperire lettere di quel tipo. In un solo caso, che, stando al testo delle missive, non sarebbe da confondere con gli altri, abbiamo avuto l'opportunità di esaminare una corrispondenza, risalente agli ultimi anni '40 e relativa a fatti avvenuti nei primi anni del secolo XX. Ma su questo caso torneremo più avanti, mentre, adesso, vogliamo fare riferimento alla lettera di un emigrato di Campofranco, la quale lettera, data la vicinanza tra questo centro e Alia, potrebbe essere considerata un'esemplare delle tante riguardanti gli italo-americani di origine aliese.
La lettera, inviata in data 10 gennaio 1916 all'arciprete don Giuseppe Randazzo, è riportata nel contesto di una relazione dallo storico Cataldo Naro al citato convegno di studi su Chiesa ed emigrazione a Caltanissetta e in Sicilia nel novecento. Ebbene, al povero mittente avevano fatto sapere dal paese natìo che la moglie lo tradiva ed egli si rivolgeva al parroco affinché la riprendesse e le proponesse di raggiungerlo immediatamente negli Stati Uniti. In merito a un suo ritorno in paese "mancu a parlarni", perché, con la moglie disonorata, non sopporterebbe mai gli sguardi e le risate della gente.
La lettera si riferisce a una precedente corrispondenza in cui la moglie aveva espressamente dichiarato di non volere partire per paura dei sottomarini tedeschi che minacciavano la sicurezza delle navi dirette in America:
Rispondo - scriveva l'emigrato all'arciprete - alla sua lettera la quale mi dichiara riguardo alla infedele mia moglie che essa è pronta affare vita comune e di oggi in poi essere fedele e essa non vuole venire in America che ave troppo paura del suo passato poco onesto e chi sa io non vendicherò sopra a essa e di poi ave paura del mare, dei bastimenti che affondano causa della guerra e lei mi dice di io ritornare all'Italia e andarmi in un paese vicino abitare con essa e che essa è risoluta che non viene in America. Ora io dico che il mio pensiero è che se essa vuole venire qui io la perdono con sicurezza e non avesse paura e si vende tutto e viene. Se essa vuole ricomprare il suo onore questo solo rimedio ciè [...] questa lettera mi fà il piacere di chiamare a essa e leggirla a essa [...] questa lettera ci la deve leggere impresenza di essa e non mnnca a lei di persuaderla. Mi devi fare la gentilezza di rispondermi di quello che dice. Riguardo alla guerra oggi stesso a venuto persona di Casteltermini. Ogni giorno vengono persone e non ciè paura di quello che dicono, ci vuole la buona volontà [...] tanti saluti alla sua famiglia da me e bacio le mani ai miei genitori e mille baci ai miei fìgli e ci bacio la destra e mi segno il suo amico [...] (22).
Il caso dell'emigrato aliese, Giuseppe R. (l'anonimato e l'eliminazione dei nomi di persona di possibile identificazione sono stati richiesti da chi ci ha gentilmente fornito le lettere), si presenta in apparenza ben diverso. Giuseppe emigrò da Alia nel 1907. Dal giorno che mise piede a New York non diede più sue notizie alla famiglia. La cosa impressionò familiari, parenti e amici, sia perché mancavano i presupposti per un atteggiamento del genere, sia perché i rapporti con la moglie e i cinque figli erano stati ottimi. Si pensò, lì per lì, a qualche sorpresa, ossia a un suo immediato ritorno in patria per ragioni di disadattamento in America. Ma il tempo, intanto, passava e le preoccupazioni per la famiglia crescevano. Si temeva che l'emigrato fosse rimasto vittima anonima di qualche catastrofe, quali alluvioni e uragani, di cui, molto spesso, in Italia giungevano notizie tramite lettere e giornali.
Una delle figlie di Giuseppe non si rassegnò mai al pensiero che il padre avesse potuto soccombere in una tragedia del genere. Lei presentiva la sua esistenza, magari fatta di privazioni e di sofferenze, e non desistette mai dall'interpellare autorità italiane e americane per avere notizie del padre, dallo scrivere a parenti e amici residenti negli Stati Uniti affinché l'aiutassero nella sua ricerca, dal rivolgersi a quanti da Alia partivano per l'America pregandoli di trovarle un collegamento con qualcuno che avesse conosciuto o incontrato il padre. Per più di un quarantennio le delusioni si accumulavano e il silenzio di anno in anno diventava più fitto.
La donna, di fronte all'infrangersi di tante speranze, trovava la forza di continuare soltanto nella fede in Dio e non cessava di raccomandarsi al Cielo. E il miracolo, così lo considerarono in quella famiglia, avvenne. Era l'agosto del 1948. La figlia di Giuseppe venne a sapere da fonte sicura che il padre era ricoverato presso lo State Hospital Tewksbury, Mass., U.S.A.. Il primo pensiero fu quello di partire per l'America per raggiungerlo. Ma, dati i tempi, prudenza consigliò che, intanto, sarebbe stato più opportuno scrivergli. Egli personalmente o altri per lui avrebbero dato riscontro alla lettera.
La risposta giunse nel giro di due mesi. Trascriviamo qui di seguito i brani più significativi della lettera:
Mia carissima figlia [...],
rispondo alla tua amata e benvenuta lettera di cui solo poche righe non ne ho potuto che leggere, dato il mio pianto e la commozione al cuore. Il resto di essa l'ho sentita leggere da questo amico che ora scrive per me, ché a come vedi questo non è il mio manoscritto. Non scrivo di proprio pugno perché la mia mano è diventata alquanto instabile, specialmente ora che mi trema assiemamente al mio cuore per la commozione apportatami dall'impressione della tua quasi inaspettata lettera. Quegli che scrive per me è pure un paziente di questo Istituto il quale malgrado i suoi affanni conserva ancora la mano ferma e più spedita della mia ed a questo momento più lucidità di mente. Ma parliamo di noi. [...] Il mio lungo silenzio cara figlia, non è stato punto causato da disaffezione, bensì per la mia sfortuna di essere caduto malato e non volevo scrivervi per non affliggervi, però ora mi avvedo che ho fatto peggio, vi ho fatto soffrire nelle incertezze. Che vuoi, tale è lo stato mentale che non so nemmeno io che faccio. Durante tutto questo tempo però, non ho mai cessato di pensare a voialtri costà, mai cessato a volervi bene e pregare per voi, che al contrario di me il Signore vi avesse reso la più solida salute e fortuna. Ma tu mi assicuri di limitarti a darmi altre notizie che quelle superficiali per non disturbarmi, è segno evidente che ogni cosa non vi va tanto bene. [...] Per farti la mia triste storia in breve, volevo ripartire per l'Italia, quando caddi ammalato, per rivedere il sangue mio e quando Iddio mi avesse chiamato di morire felice, ché senza dubbio è una felicità passare all'altra vita fra il fiato di coloro che ami e sei riamato. Ma Iddio non credo che mi darà tale felicità. Il console non volle concedermi il passaporto proprio perché ero in cattivo stato di salute. La malattia s'incalzava così che dopo speso quel po' di moneta che avevo accumolata, colla speranza di guarire, ma il destino non volle così. Il destino volle che venissi a finire in una Istituzione per gli ammalati, vecchi e indigenti. Ciò non è una vergogna poiché ognuno potrebbe capitarci. E ci siamo capitati. Grazie a Dio e al Governo Americano, non ci si sta tanto male quantunque sia un simile asile, ma considera il mio morale trovarmici. [...] Ebbi uno shock che mi paralizzò mezza vita a sinistra. Col tempo e grazie alla Provvidenza Divina la paralisi mi si è sciolta bastantemente che posso camminare coll'appoggio di un bastone, però sono rimasto come si suol dire intirizzito e debole, cammino pianamente e poco, solo attorno alla mia corsia e d'estate esco a sedermi fuori su qualche banco per prendere un po' di sole ed aria. Alle volte mi assalgono dei colpi che mi fanno restare degente per pochi giorni, poi mi risento meglio come al mio normale abituale di ora. - La questione verte ora: guarirò? Stento a crederci, data la mia età. Potrei dirti una cosa per un altra per incoraggiarmi ed incoraggiarvi, ma a qual prò? Iddio ci ha destinati così e noi dobbiamo accettare il nostro destino. Parlando di religione, come tu desideri essere informata di quel che faccio. Ecco, la religione in questi giorni di tristezza è un sollievo per l'anima mia. Qui a parte di due cappellani Cattolici che girano l'ospedale tutti i giorni, ancora, abbiamo una Cappella dove vengono celebrate due messe alla domenica ed i giorni festivi, abbiamo un Frate italiano a farci visita e confessarci e comunicarci ogni primo venerdì del mese. Sei contenta dunque che io mi sono rimesso a Dio? Lo faccio con tutta la fede e non cesso mai di pregare per voi. Sembra che stiamo facendo una storia alquanto lunga, forse ti sarai annoiata di leggerci perciò rimandiamo il resto quando avrò ricevuto un'altra tua cara. Tanto, nemmeno possiamo seguitare più perché il mio pianto è continuato, perdonami figlia. Ora che abbiamo scritto tanto a te, credo superfluo di rispondere al grato biglietto della zia [...], dalle tanti baci per me dicendole che un'altra volta scriverò anche ad essa. Augurale il Buon Natale colla famiglia, lo stesso farai con [...] e famiglia. Dì a tua madre di star bene e si dasse coraggio, non dubitate di me, non vi affliggete perché c'è un Dio che tutto vede e provvede e noi dobbiamo sottostarci alla sua Divina Volontà.
Con paterni baci a tutti colla benedizione di Dio mi dico Il tuo amato padre, Giuseppe [...]
P.S. - Buon Natale e Felice Capodanno a tutti
La corrispondenza, imperniata sull'affetto e sui valori religiosi, continuò fitta e frequente per quasi un anno. Essa presto si estese a tutti i componenti della famiglia, ricordati da Giuseppe con molta nostalgia e con un profondo senso di colpa per averli lasciati soli e senza aiuto. Improvvisamente l'ultima lettera, in data 18 ottobre 1949, non più firmata da Giuseppe, ma dall'amico scrivano, che comunicava alla figlia il passaggio del padre "a miglior vita". Era una lettera che i familiari non avrebbero voluto mai ricevere, anche perché rimaneva sempre nel desiderio di tutti la speranza di potere un giorno riabbracciare il congiunto. Essa, lunga come le precedenti, conteneva, fra l'altro, il rammarico dell'amico, anch'egli gravemente ammalato, di non essere nelle condizioni fisiche di potere uscire dall'ospedale per deporre un fiore sulla tomba di Giuseppe.
"La salma del caro defunto - egli proseguiva - venne seppellita nel Camposanto della nostra Istituzione: Pine Hill Cemetery. Questo è il nome del Camposanto che dista solo un miglio da l'Ospedale. Io andai a visitare questa terra santa il primo anno che mi trasferii in questo Asile, dieci anni or sono. Rincresciosamente ed è comprensibile che ora, anzi anche da prima, non è forza mia a fare quel lungo cammino. Mi contento soltanto di potermi aggirare attorno e dentro l'Ospedale per cercare di portare una parola di conforto a quelli più infelici di me ed aiutarli a quel che posso". E il tutto anche in suffragio di "quel carissimo amico Giuseppe", il cui "soave ricordo [...] sta ancora impresso nel mio cuore per la sua bontà e per l'amore e fiducia reciproca fra noi due [...]"(23).
4. - Tradizioni e "arrangiamenti" linguistici
Il rispetto delle tradizioni del luogo di provenienza è uno degli aspetti di maggiore rilievo nella vita delle comunità italiane negli Stati Uniti d'America. Dalla ricerca effettuata personalmente a New Orleans, a Baton Rouge e in qualche altro centro della Louisiana, e da notizie raccolte, per vie diverse, ho potuto constatare che gli emigrati aliesi si sono distinti e si distinguono nel tenersi collegati al comune d'origine anche attraverso la celebrazione di particolari ricorrenze e di riti.
Si tratta, in prevalenza, di tradizioni religiose, ma non mancano quelle laiche di tipo folcloristico. Occorre rilevare che tali manifestazioni si svolgono in maniera molto fedele a quelle alle quali gli emigrati erano soliti assistere o partecipare quando ancora vivevano nel loro paese natio, laddove magari le stesse manifestazioni, a causa di una certa modernizzazione dei costumi, hanno subito modifiche o addirittura sono state ridotte o si sono vanificate. Ciò significa che, se si volesse fare un serio studio sociologico o storico sulle tradizioni locali in Italia, non si potrebbe prescindere dal condurre un'indagine sull'attuale svolgimento delle tradizioni presso le comunità italo-americane in modo da coglierne lo spirito e l'originalità.
Un valore altamente significativo riveste nelle comunità italo-americane di origine aliese la festività della Madonna delle Grazie, patrona di Alia, ricorrente il 2 luglio. La data della celebrazione, in America, non è, per lo più, osservata, in quanto motivi di lavoro costringono gli emigrati a scegliere la giornata di domenica, ma, per il resto, i festeggiamenti sono uguali a quelli che si svolgevano e, per certi aspetti, continuano a svolgersi in paese. Si pensi che ogni comunità dispone di una statua identica a quella che si venera nel Santuario della Madonna delle Grazie di Alia. Sono simulacri realizzati da scultori italiani su commissione di comitati promotori, appositamente eletti o nominati all'interno delle comunità e impegnati anche nella raccolta dei dollari necessari.
Attualmente i centri di maggiore richiamo per la festività della Patrona sono Tickfaw in Louisiana e Hackensack nel New Jersey. Suggestivo un articolo, apparso il 17 luglio 1985, a firma di Laura Deavers, sul "Catholic Commentator", il giornale della Diocesi di Baton Rouge. La giornalista racconta che, con molta devozione, partecipavano al sacro rito oriundi aliesi provenienti da tutte le parti dell'America e, in particolare, da Chicago. Numerosi fedeli, proprio come avviene ad Alia, erano a piedi scalzi per ringraziare la Madonna di qualche beneficio ottenuto o per supplicarla per la concessione di qualche grazia. Gli uomini, per la loro parte, facevano a gara per avere l'onore di portare la statua(24).
Laura Deavers riferisce anche che, durante la processione, si raccoglievano molti dollari e gioielli che venivano appesi con uno spillo su un nastro pendente dal simulacro e che tali somme sarebbero servite in parte per i bisogni della parrocchia e in parte per i preparativi della festa dell'anno successivo. La giornalista ricorda che questa festa, riallacciandosi a un'antica tradizione di Alia, ebbe origine a Tickfaw nel 1927 a opera della signora Maria La Spica, una donna aliese molto devota alla Madonna, in onore della quale essa si prodigò affinché venisse costruita una cappella(25).
I festeggiamenti ad Hackensack si svolgono alla stessa maniera. Ma quivi, da qualche decennio, esiste un Comitato permanente addetto al culto mariano. Negli ultimi anni si è anche creato un collegamento diretto con Alia. Si tratta di un vero e proprio gemellaggio che è servito a creare un rapporto con le nuove generazioni e a impegnare le rispettive parrocchie e le amministrazioni comunali. Quella di Alia, durante questi anni, ha inviato ad Hackensack, in segno di solidarietà, una propria rappresentanza in occasione delle solenni celebrazioni. Il gesto è stato particolarmente gradito, tanto che gruppi di emigrati, accompagnati da figli e nipoti nati negli Stati Uniti, hanno ricambiato, a loro volta, la visita. E ciò, ovviamente, per dimostrare la perenne validità di un legame che unisce i "padri pellegrini" aliesi e i loro discendenti, ovunque essi si trovino, con il paese d'origine. Il fatto, oltre all'aspetto religioso, ha una rilevanza culturale e sociale di grande importanza, poiché crea proficue occasioni di incontro e di conoscenze.
Ad Hackensack la statua della Madonna è costantemente esposta nel grande salone delle assemblee della sede sociale della comunità aliese. I soci considerano questo centro come la loro casa. Ecco perché hanno ritenuto opportuno metterlo sotto la protezione della Madonna delle Grazie e collocarne la sacra immagine nel luogo più bello e più frequentato. È qui che essi festeggiano le ricorrenze più importanti dell'anno e, talvolta, si riuniscono anche per i ricevimenti nuziali. Sono circostanze in cui si crea con spontaneità un clima tipicamente familiare e consente l'incontro degli anziani e dei giovani, di coloro i quali partecipano con la nostalgia del paese natio e di coloro che vorrebbero saperne di più sulle loro origini.
Nella sede sociale, attorno alla Madonna, si organizzano spesso serate ricreative e culturali. In una di queste il poeta dialettale Nino Marchiafava, oriundo da Alia e residente a Chicago, ha intrattenuto i compaesani con la recita di alcune delle sue poesie che si richiamano al paese d'origine. La manifestazione, che è stato un successo, ha avuto un'eco nelle altre comunità aliesi degli Stati Uniti, alcune delle quali hanno invitato Marchiafava a tenere un identico recital presso le loro sedi. La notizia, diffusasi ad Alia nella passata estate tramite alcuni emigrati in vacanza, è giunta anche a noi e riteniamo che sia una testimonianza da tenere in conto poiché informa sulla vita sociale di quelle comunità.
Nella serata tenuta ad Hackensack Nino Marchiafava ha esordito con i seguenti versi:
Chi gioia chista sira chi pruvaiu
a vidirvi tutti quanti ni sta sala.
Gente ca nun vidia da trentanni,
lu me cori s'allarga e si fa granni,
e l'uocchi mi sfavillanu comu du' stiddi;
abbrazzarvi vi vurria tutti quanti
pi' fari lu me cori cuntenti [...](26).
Oltre al valore artistico dell'intero componimento, molto espressiva e commovente è la finale che il poeta, a mo' di preghiera, rivolge alla Madonna:
[...]
Madunnuzza mia
bedda e amurusa,
Tu pi nuatri alisi si' ogni cosa,
si' lu suli, la luna e la stidda
e si' priziusa.
Ora Ti prigamu Madunnuzza
pi' chiddi ca cu nuatri nun su chiù,
ca sutta lu To mantu
sànnu addummisciutu,
portali cu Tia a lu paradisu
e Ti prigamu pi' nui
e pi' li figghi ca ci ài datu(27).
Festa religiosa, ricca di folclore e di sapori gastronomici, è la ricorrenza del 19 marzo, dedicata a San Giuseppe. Ad Alia e negli altri paesi siciliani non ha più la solennità e la partecipazione di una volta. Sembra essere tramontata, tanto che per la Chiesa non è festa di precetto e da qualche decennio è stata declassata a un comune giorno feriale. È questo uno dei casi, come si diceva più avanti, che, per una ricostruzione in senso sociologico o storico, occorrerebbe effettuare un'apposita ricerca in America per cogliere i valori e gli aspetti originali della tradizione.
Per gli italo-americani aliesi, in ogni modo, la festa di San Giuseppe non ha perduto niente dell'antico fascino ed è solennemente celebrata nello spirito dei padri e nel rispetto di ogni particolare religioso e mondano. Ogni anno, nelle e tra le loro comunità, si fa a gara per onorare San Giuseppe e per sottolinearne il titolo di "Padre della Provvidenza", ossia di protettore dei poveri. È d'obbligo, infatti, l'usanza di bandire grandi tavolate di vitto d'ogni genere, con diverse e varie portate, per il pranzo dei poveri, affinché anche costoro, almeno in quella santa giornata, possano essere sottratti alla fame. Si tratta della "tavolata di li virgineddi", ossia della mensa delle ragazze e dei ragazzi appartenenti a famiglie bisognose. Ovviamente, al pranzo, per non lasciare soli i "virgineddi", prendono normalmente parte anche gli organizzatori e i benefattori(28).
"Celebrated on March 19, St. Joseph's Feast Day - si legge nel quotidiano The Advocate di Baton Rouge del 13 marzo 1997 - honors St. Jospeh, the patron saint of Sicily. The day is celebrated by preparing an immense St. Joseph's Altar laden with foods to distribute to everyone in a community, rich and poor alike, in gratitude for blessings". Il giornale, ricordando che la festa fu istituita in Sicilia molti secoli addietro durante un periodo di carestia, sottolinea la devozione dei siciliani a San Giuseppe per averli salvati dalla fame(29).
In his honor, - continua - they erected an altar with three levels to present the Holy Trinity. The altar with three levels to represent the Holy Trinity. The altar was draped in white and adorned with flowers. Foods were prepared for the altar, and donations of grain, fruits, vegetables, seafood and wine were added. When erected, everyone from the community was invited to share in prayer and festivity. The custom and devotion continues to this day. Each year, St. Joseph's Altars are erected throughout South Louisiana [...](30).
La giornalista, Anne Nola, si sofferma, quindi, a descrivere con quale e quanto amore, da un anno all'altro e per parecchi giorni, viene preparata la festività di San Giuseppe, e osserva che i "participants joyously accept this work as a form of sacrifice and a labor of love" . E, poi, con evidente piacere, si diletta a illustrare i piatti che addobbano l'altare in attesa di essere messi a disposizione dei conviviali e che, tuttora, conservano un loro specifico valore simbolico. Ci troviamo dinanzi a un ricco campionario gastronomico della cucina siciliana, nella quale anche i cibi aliesi hanno un posto d'onore(31).
The wreath-shaped Cuchidati, - prosegue - large golden brown bread loaves finished with eggwash and topped with sesame seeds, symbolize the Crown of Thorns. Other breads and cookies are shaped like hearts for the Sacred Heart of Jesus and Mary; crosses for the crucifixion; a chalice for the water and wine; palmes; doves; fish; and many more. The usual cookies include biscotti, fig cakes, pignolati (pine coneshaped pastries which represent the pine cones Jesus played with as a child), coconut bars, cannoli, Bibleshaped layer cakes and sfingi (Italian-style beignets)". Una lieve differenza, rispetto alle tavolate siciliane, è data dalla presenza del pesce, che, come è noto, in Louisiana abbonda e, in questa occasione, prevale sulla carne. Ma, in compenso, "Pasta Milanese is the major entree on the altar. The pasta is topped with fried seasoned bread crumbs in place of cheese. The bread crumbs represent the sawdust of St. Joseph, the carpenter. The vegetables are often served in omelets or frittatas, and stuffed artichokes are usually featured. Green fava beans are also served in frittatas or a garlic sauce [...](32).
La pasta milanese, denominata ad Alia anche pasta incasciata, - cui accenna Nola - non ha niente a che vedere con la cucina ambrosiana. Era un piatto prettamente siciliano, sostituito in seguito dalla comune "pasta a forno". Solo che, in tempi antichi, non essendoci l'odierna facile disponibilità del forno, si provvedeva a cucinarla sui fornelli e in tegami sui cui coperchi veniva posta la brace viva, proprio per ottenere l'effetto forno.
Ma ecco, nello scenario della festa, un particolare, che non sfugge alla cronista e che ad Alia aveva una rilevante importanza: "Most churches who continue the St. Joseph's Feast Day tradition will also re-enact the Holy Family coming to dine at the St. Joseph's Altar. Children often play the roles of Jesus, Mary and Joseph. Sometimes angels or favorite saints will accompany them"(33).
Ampio resoconto sulla festività di San Giuseppe in Louisiana è fatto anche su "The Cattolic Commentator" del 12 marzo 1997 a firma di Laura B. Duhe che, fra l'altro, rileva che "the faithful also fashion altars laden with traditional foods and dedicated to a saint who according to costum has been kind to Italians " e aggiunge che "in Baton Rouge Diocese and other parts of South Louisiana the tradition of St. Joseph Altars is alive and well, having arrived with immigrants from Sicily and other parts of Italy. Several parishes and organizations continue the tradition by building the elaborate displays of foods"(34).
Gli italo-americani d'origine aliese sono tra i primi a impegnarsi per la buona riuscita della festività di San Giuseppe e per l'osservanza della tradizione nel suo duplice aspetto religioso e gastronomico. Essi si prodigano in ogni modo e non nascondono l'orgoglio di avervi contribuito. Gli aliesi, in altri termini, sono consapevoli d'avere dato un notevole impulso alla conservazione di questa e di altre tradizioni. Riconoscimenti in tal senso provengono loro da tutte le parti, come quello autorevole del rev. Anthony J. Rousso, docente di storia nelle Scuole Cattoliche e appartenente alla Curia Vescovile di Baton Rouge, il quale, dopo avere rilevato che "when the student of history, during the course of research, delves into the ancient records of different nations and peoples, he finds that their customs stand out most prominently" e dopo avere ricordato che "when the Italians came to America, they brought many of their customs with them" e che, per il suo significato storico e per la sua importanza sociale, la "Saint Joseph Tables or [...] more frequently called Saint Joseph Altars, [...] always remained most popular " indica proprio Alia come fonte primaria dell'antica tradizione siciliana(35). Egli scrive testualmente:
In the little town of Alia, Sicily, there is church named St. Joseph's. On the 19th of March, the faithful flock to it in order to pay honor to St. Joseph by hearing Mass and going to Communion. Mass having ended, the good people gather for a procession. A large statue of the Saint is placed on a platform and those taking part visit the different Altars, where food is distributed to the poor. The large loaves of bread are broken and given to those who care for it. This bread is kept in the home the same as Blessed Palm. Tradition or legend has it, that in several instances during storms, a piece of it, thrown out into the weather, calmed the winds and rains. It has been related of a pious soul that, during a severe storm, her home was in danger of collapsing. She broke a portion of this bread into four pieces, then placed a piece in each corner of the house and at once the violent trembling of the building ceased. The occupants immediately fell on their kness and gave thanks to God who protected them through His great Saint(36).
Si è voluta riportare la lunga citazione non solo perché vi si trovano ulteriori elementi in aggiunta a quelli conosciuti tramite altre testimonianze, ma anche perché Alia è considerata da Anthony J. Rousso come una delle fonti originarie della tradizione concernente la festività di San Giuseppe e non può essere ignorata dal sociologo interessato allo studio delle tradizioni o dallo storico attento alla ricostruzione del passato. Ciò, d'altra parte, spiega l'impegno degli italo-americani aliesi nel tutelare un'usanza che, in certo qual modo, li riporta in casa o, quanto meno, consente ai più anziani di loro di ricreare un clima identico a quello lasciato nel paese natio e ai più giovani di immaginarlo.
Anche in campo strettamente gastronomico alcuni piatti - e non solo quelli tradizionali della festività di San Giuseppe - ci riportano ad Alia. È significativo il fatto che la giornalista la quale cura sull' "Italian American Digest" la rubrica Cooking all'Italiana, Phyllis Ditta, sia oriunda da Alia e che, descrivendo e consigliando determinate bibite e pietanze, si richiama spesso alle ricette della nonna o della madre. E non solo. Perché, come si legge in uno dei suoi articoli di folclore, con il quale introduce la classica ricetta degli Italian Almond Macaroons, Phyllis Ditta, nonostante non abbia mai messo piede in Italia, rivendica di essere italiana(37), affermando:
On college application in the blank requesting nationality, I stated Italian! My brother corrected and informed me I was American. I questioned that, since we have always referred to ourselves as Italian. Baby, he said, you were born here. In fact, my parents were also born in the United States but we deeply rooted in the ethnic community in which we lived called Harrey, Louisiana. Our customs were those of the old country. All but one of my grandparents were from a town in Sicily, west of Palermo, called Alia". Phyllis Ditta, nel raccontare la storia della sua famiglia, che, per molti aspetti, come lei dice, è comune a quella di tanti altri emigrati, così continua : "As my brother tells the story of grandfather Ditta, his family lived next door to a macaroni factory in Alia and when a wall collapsed, killing his sibling, his mother used the funds from the settlemen as an opportunity to send her offspring to America. Great-grandmother suggested my grandfather to bring his twin sister, Sarah, to America so she could meet someone and marry and live in the new country, therefore buying one rould-trip and one-way tickets. Grandfather suggested buying three one-way tickets, taking his brother Sam, and work here to earn return passage back to Sicily. So it was, but Gramp had other intentions. He often stated, When they threw the rope disconnecting the boat from shore, I waved good-bye to Sicily, knowing I would never return to the impoverished soil of my birth(38).
La storia della famiglia Ditta continua attraverso il racconto di Phyllis, una delle sue ultime discendenti, americana di nascita e - come lei stessa ha confessato - italiana "per aspirazione". La giornalista trova immenso piacere nel fare conoscere ai lettori le vicende dei suoi genitori, dei suoi nonni e dei suoi bisnonni, la cui vita, per la verità, non è segnata da grandi fatti. Ci torna spesso, nel corso dei suoi articoli, a parlare di Alia, delle sue origini, a dare notizie sempre nuove sulla sua famiglia. E lo fa con il gusto del giornalista che ama suscitare interesse nell'opinione pubblica, e, soprattutto, con l'orgoglio di chi vuole fare sapere che le proprie radici, anche se povere, sono italiane, sono "From Italy", ossia - come era solito specificare il vecchio Teresi - la terra di Dante, di Colombo e di Mazzini.
Un discorso analogo a quello per le tradizioni presso gli italo-americani di origine siciliana lo si può fare in questa sede anche per il dialetto, che si è potuto conservare meglio che nel territorio di origine, laddove le influenze radiofoniche e televisive hanno messo in atto un vero e proprio processo di italianizzazione. La storiografia ha, per altri versi, più volte sottolineato che la lingua è stata una delle principali barriere che si sono frapposte tra i primi emigrati e la società americana, ritardandone di almeno una generazione la loro totale integrazione. A prolungare una certa forma di isolamento linguistico presso le comunità italiane furono le stesse donne che, chiuse tra le pareti domestiche, non sentivano affatto l'esigenza di imparare l'inglese. I discorsi in casa, al mercato o sul ciglio della porta, venivano svolti, per lo più, in dialetto anche perché gli italiani, mossi da vincoli di parentela o amicizia, tendevano a concentrarsi in alcune zone e svolgevano lì tutte le attività relative alla loro vita quotidiana(39).
Questi emigrati, partiti pochi anni dopo l'Unità d'Italia, non godettero di quella unificazione scolastica, che ha portato, nel tempo, le popolazioni della penisola a trascurare il loro dialetto regionale e a tentare di attenersi, nella lingua parlata e scritta, strettamente all'italiano standard. Gli emigrati aliesi, a loro volta, per quanto riguarda l'apprendimento della lingua, non ebbero un comportamento diverso dagli altri siciliani. Tuttavia, come è possibile dedurre dalle testimonianze raccolte, molti di essi, non appena sbarcati in America, si affrettarono a cambiare il loro nome e cognome nel corrispettivo inglese e a coniarne dei nuovi laddove era impossibile la traduzione. È il caso di nomi come Conjetta (Concetta), Anthony (Antonio), Pethrucio (diminutivo di Pietro), Ignace (Ignazio) e Russell (Rosolino) e di cognomi come Politz (Puglisi), Cardinal (Cardinale), Maggie (Maggio).
Chiunque, ancora oggi, dovesse imbattersi a parlare con quei pochi emigrati rimasti, che lasciarono la Sicilia nei primi anni dello scorso secolo, troverà non poche difficoltà nel decifrare sia quelle parole appartenenti ad un siciliano per noi arcaico, sia quelle appartenenti ad un americano sicilianizzato. Il loro è un vero e proprio American Italian Dialect che già, sin dagli anni venti dello scorso secolo, aveva attirato l'attenzione di alcuni linguisti come Henry Louis Mencken e, prima di lui, - come egli stesso ricorda - il francese Rémy de Gourmont ed Arthur Livingston.
Mencken scrive testualmente che il critico francese Rémy de Gourmont - come si rileva dalla sua opera su L'Estetique de la Langue Française (Paris 1889) - "was the first to call attention to the picturesqueness of the Americanized Italian spoken by italians in the United States; unlukily his appreciation of its qualities has not been shared by American Romance Scholars"(40). E più avanti specifica che l'unico ad occuparsene è stato Arthur Livingston nella sua ricerca su La Merica Senemagogna(41), laddove questi osserva che gli altri "American Philologists have curiously disdained it"(42). Mencken attribuisce a questo studioso il merito di avere raccolto un numero di interessanti esempi dalle colonne pubblicitarie di un giornale italiano edito a New York. E ciò dopo aver messo in evidenza che presso le comunità italiane "all the common objects of life tend similarly to acquire names borrowed from American English, sometimes bodily and sometimes by translation. In the main, these loan-words are given Italianized forms and inflected in a more or less correct Italian manner".
Il riferimento è a Il Progresso Italo-Americano, un giornale tra i più diffusi anche nella comunità aliese, il quale, se originariamente aveva adottato il criterio di riportare gli articoli nella forma corretta italiana, successivamente aveva abbandonato questa pratica per uniformarsi all'American-Italian Language "because poorer results were obtained from advertisements restored to the literary tongue". Come se questo linguaggio fosse più facilmente compreso dagli italiani di New York rispetto alla lingua di origine. L'autore, a conferma della stranezza della trasformazione del linguaggio, riporta alcuni termini quali: ghenga (gang), indiccio (ditch), sechenze (second-hand), grosseria (grocery), marchetto (market), pinozze (peanuts), livetta (elevated), loffari (loafers), globbo (club), ghella (girl) etc.
Alcune di tali storpiature, come ad esempio ghella sono riscontrabili nel linguaggio di aliesi tuttora residenti in America o tornati ad Alia. Ma vi è una serie di altri termini che, come ho avuto modo di constatare durante le interviste da me condotte, vengono comunemente usati presso gruppi di immigrati aliesi di seconda e terza generazione. Si tratta, per esempio, delle parole nunna nel significato di suora (dall'inglese nun) e non in quello del corrente siciliano ruffiana, oppure loffa (da loaf) per indicare la pagnotta, macina per indicare la wash-machine, e così ponti per pound, rivera per river, checche per cake, chenti per candy, carru per car, ccianza per chance, teléfùni per telephone, denssis milke per dense milk. In questo contesto si inserisce felicemente il termine muffuletta che, nel vocabolario siciliano-italiano, indica il pane "molle e spugnoso"(43), mentre in una guida universitaria di New Orleans lo si trova tra le pietanze del local menu, insieme al Gumbo e al Crawfish, e sta per "a fat sandwich of meat, cheese, and olive salad, all stuffed between big, thick buns"(44).
Il fenomeno linguistico, come è noto, è stato sinora studiato, nel maggior numero dei casi, da un punto di vista sociologico. In particolare l'apprendimento o meno dell'American-English da parte degli italiani è stato considerato come uno degli indici che permettevano di misurare l'identità culturale del gruppo etnico e la sua propensione ad integrarsi o meno nella società americana. Di conseguenza, si è spesso sottovalutato il fatto che nelle comunità italiane - eterogenee anche nel loro interno perché raccoglievano emigrati provenienti dalle varie regioni della Penisola - l'Inglese rappresentava l'unica parlata unificante tra i vari dialetti. Tra veneti e siciliani, per esempio, finì per intendersi più con termini inglesi, magari storpiati, che con quelli dialettali delle rispettive regioni di provenienza.
Ciò che scaturì da questa esigenza può essere considerato un vero e proprio "arrangiamento" dalla lingua di origine alla lingua inglese con la nascita dell'Italian-American Language, Italoamericanese, di cui, nelle loro ricerche, si sono occupati Mencken, Gourmont e Livingston. E, se si vuole riportare il di-scorso in campo sociologico, si può dire che tale linguaggio, sorto per necessità, si aggiungeva alle caratteristiche che distinguevano, per lo più, gli italiani dagli altri gruppi etnici, come l'origine contadina, la struttura familiare patriarcale, il primato della famiglia sulla comunità e la forte valutazione dei legami familiari.
NOTE
(1) F. RENDA, L'emigrazione in Sicilia, Palermo, Ed. Sicilia al Lavoro, 1963, p. 47.
(2) Ibidem
(3) Cfr.Una lenta fuga dai paesi che ha svuotato la provincia, in "L'Ora", 26 settembre, 2001. E anche: Alia, indagine del comune - Si svuotano i paesi della provincia - Negli ultimi trent'anni crollo dei residenti in sette centri, in "Giornale di Sicilia", 26 settembre, 2001.
(4) E. GUCCIONE, Storia di Alia 1615-1860, Caltanissetta - Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1991, pp. 88-89.
(5) C. LEONE CARDINALE, Alia, in F. NICOTRA, Dizionario illustrato dei comuni siciliani, vol.I, Palermo, Società Editrice del Dizionario, 1907, p. 246. Cfr. anche Atti dei censimenti della popolazione del Regno negli anni 1861, 1871, 1881 e 1901, pubblicati dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica, Roma.
(6) A. GUARNERI, La città di Alia e il suo territorio, Palermo, Nocera, 1866.
(7) C. LEONE CARDINALE, op. cit., p. 255.
(8) Madonna, quant'è alto questo sole! / Per carità, fatelo tramontare! / Oh, non lo fate, no, per il padrone, / ma per questi infelici giornalieri / che, sedici ore di stare a bocconi, / senton le reni azzannate dai cani... / Lui il vino se lo beve di nascosto / e noi beviamo l'acqua del torrente / dove ammolliscono vinchi per legare!
Il canto fa parte di una raccolta ancora inedita, effettuata, con un nuovo metodo d'indagine demologica applicato in ambito scolastico, dal prof. Luigi Ricotta, appassionato e profondo cultore di tradizioni popolari.
(9) Da "La Voce", 3/98, p. 17.
(10) Trattavasi, come è stato definito in campo giuridico, "di un rapporto di natura reale, in forza del quale è concesso sopra un fondo, in genere rustico, ma che può anche essere urbano, a favore di una determinata persona (detta enfiteuta, od utilista), contro un corrispettivo di carattere periodico, generalmente annuo, il diritto alienabile ed ipotecabile di utilizzazione perpetua, o temporanea (ma non inferiore ai vent'anni) del fondo stesso, del suo sottosuolo e delle accessioni, facendo propri i frutti relativi, con l'obbligo di migliorarlo", in F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, Giuffrè, 1952, vol.II, 1, p.1
(11) Non esiste ancora uno studio sulla Chiesa di Cefalù di fronte al fenomeno dell'emigrazione, ma per le notizie comuni a tutto il territorio siciliano e a quello più specifico di Alia, paese limitrofo alla provincia di Caltanissetta, sono abbastanza istruttivi gli atti del convegno di studi organizzato a Caltanissetta dal 2 al 5 ottobre 1986 dall'Istituto Teologico "Mons. G. Guttadauro" A tal proposito cfr. AA.VV., Chiesa ed emigrazione a Caltanissetta e in Sicilia nel novecento, a cura di P. BORZOMATI, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1988. Di particolare interesse è la relazione di C. NARO, Chiesa nissena ed emigrazione agli inizi del '900, ivi, pp.201-240.
(12) Dalle carte dell'Archivio Personale di Mr. Vincent Dispenza, Presidente dell'Associazione A.L.I.A., 8951 Tallyho Ave, Baton Rouge, Louisiana 70806 - 8631, U.S.A..
(13) F. RENDA, Storia della Sicilia dal 1860 al 1870, II, Palermo, Sellerio, 1985, pp.272-273.
(14) Cfr. A. J. ROBICHAUX, Italian - American Roots, Volume I (1851 - 1861), Civil Records of Births - Marriages - Deaths of Alia, Sicily, Rayne, Louisiana 70578, Hébert Pubblications, s.d. (probabilmente del 1995), p.XIII. Questo volume è un prezioso strumento in mano degli emigrati aliesi per la ricerca dei propri antenati. È stato questo lo spirito che ha sollecitato l'editore, autore e i collaboratori a stampare in un volume i registri dello stato civile di Alia. L'impresa, certamente, non è tra le più facili, ma l'opera è già iniziata ed è uscita la prima raccolta di 540 pagine relativa al decennio 1851-1861. Ci risulta che sono in cantiere gli altri volumi, per i quali sono impegnate, tra Baton Rouge e Alia, decine di persone.
(15) Ibidem.
(16) Ivi, pp. XIII-XIV.
(17) Italian Immigrants, Over 800 arrive on One Steamship and are Warmly Greeted by Their Friends, in "The Times Democrat", Thursday, December 16, 1880.
(18) A. J. ROBICHAUX, Italian - American Roots, Volume I (1851 - 1861), cit., p. XIII.
(19) Non si tratta di un vero e proprio catalogo ma piuttosto di un mobiletto in cui in ordine alfabetico sono inserite dei fascicoli che contengono articoli di giornali o altri documenti relativi a famiglie italo-americane residenti tuttora a New Orleans o nelle zone circostanti. A curarsi della raccolta è stato in tutti questi anni Mr. Salvatore Serio oriundo da Cefalù nonché Presidente della Società cefalutana di mutua beneficenza.
(20) E-mail del 3 agosto 2001 e del 30 agosto 2001in mio possesso.
(21) Immigrants from Italy, cit., in "The Daily Picayune", Thursday, December 16, 1880.
(22) La lettera da Trento negli Stati Uniti è conservata tra le carte personali di mons. Giuseppe Randazzo. È riportata, come è stato accennato sopra, da C. NARO, Chiesa nissena ed emigrazione agli inizi del '900, in cfr.AA.VV., Chiesa ed emigrazione a Caltanissetta e in Sicilia nel novecento, cit., p. 225.
(23) Fotocopia dell'originale della lettera in mio possesso.
(24) L. DEAVERS, Tickfaw procession honers Mary, in "The Chatolic Commentator", July 17, 1985.
(25) Ibidem.
(26) N. MARCHIAFAVA, Chi gioia, in "La Voce", febbraio 1995, p. 7.
(27) Ibidem.
(28) Per la versione aliese della tradizione cfr. C. LEONE CARDINALE, Alia, in "Dizionario illustrato dei comuni siciliani", vol.I, Palermo, 1907.
(29) A. NOLA, St.Joseph's Altar represents a labor of love, in "The Advocate", Thursday, March 13, 1997, p.3G.
(30) Ibidem.
(31) Ibidem.
(32) Ibidem.
(33) Ibidem.
(34) L. B. DUHE, Italians construct traditional St. Joseph Altars as thanks giving, in "The Catholic Commentor", march 12, 1997, pp. 6-7.
(35) Trattasi di un articolo scritto da A. J. ROUSSO per l'associazione italo-americana "I nipotini d'Italia". Molto probabilmente è stato pubblicato su "The Catholic Commentator", tuttavia è possibile reperire l'articolo presso il museo italiano di New Orleans.
(36) Ibidem.
(37) PH. DITTA, Cooking all'Italiana, in"Italian American Digest ", Winter, 1998, p.12.
(38) Ibidem
(39) Quartieri come il French Quarter di New Orleans, nei primi anni del novecento, venivano chiamati "Little Italy" o addirittura "Little Palermo" proprio per l'altissima concentrazione di italiani e, in particolare, di siciliani provenienti dalla provincia di Palermo. Cfr. MARTIN HINTZ, Passaport's Guide to Ethinic New Orleans, , Passaport Books, 1995 p. 97
(40) Cfr. H.L.MENCKEN, The American Language (an inquiry into the development of English in the United States), Jonathan Cape, Eleven Grower Street, London 1922, p.408.
(41) Senemagogna significa son of a gun.
(42) Ivi p.409.
(43) Cfr. la voce "muffuletta" in A. TRAINA, Vocabolario siciliano-italiano, Poligrafica Marotta, Napoli, 1991, p. 613. Trattasi di una ristampa anastatica dell'edizione del 1868.
(44) Cfr. Loyola Intensive English Programm, student handbook, New Orleans, 2001/2002. E anche The American Heritage Dictionary , fourth ed. 2000, alla voce "muffuletta" dove si legge: "The New Orleans muffuletta is one of the few large American sandwiches not made with a long crusty roll. Instead, it is made with a round loaf of Italian bread. The bread's shape and the presence of the olive salad distinguishes the muffuletta from the submarine sandwich. Marian Burros of the New York Times traces the creation of the muffuletta to Salvatore Lupa's Central Grocery in New Orleans in 1910. The sandwich was a favorite lunch for Louisiana farmers on their trips into town".
Le carte dell'archivio familiare Cuffari a Naso
L'archivio privato della famiglia Cuffari, di cui ho avuto il privilegio di consultare le carte, è costituito da una raccolta di atti relativi alla permanenza di questo antico casato presente a Naso fin dagli inizi del XVI secolo, da cui è stato possibile ricostruire la formazione dell'albero genealogico e le dirette appartenenze riguardanti l'asse ereditario, a cominciare dall'illustre medico Giovan Giacomo Cuffari, cioè dal Seicento sino ai nostri giorni. La minuziosa ricognizione dei documenti è stata fattibile grazie alla generosa disponibilità del compianto Santino Cuffari, attento e geloso custode delle memorie familiari(1).
Le preziose testimonianze manoscritte, anche se pervenute in modo poco organico, mi hanno consentito di ricostruire la linea parentale di una delle principali e più antiche famiglie di Naso, in assenza di atti pubblici o dei diari personali che avrebbero completato il quadro delle relazioni interpersonali oltre che penetrare nelle vicende e negli specifici interessi del casato(2). Si è trattato, pertanto, di accertare i percorsi e gli intrecci degli imparentamenti attraverso l'affidabilità dei dati e delle sparute informazioni desumibili dai rogiti notarili inerenti, soprattutto, ai contratti dotali e alle disposizioni testamentarie sui lasciti e sui legati oppure di ricostruire la consistenza patrimoniale attraverso i dispositivi di compravendita e di donazione, alcuni databili fin dalla seconda metà del XVI secolo, che hanno colmato in modo eccezionale il vuoto dovuto alla mancanza degli atti ufficiali andati perduti.
A queste carte, quindi, viene affidata la memoria storica della casa e della famiglia Cuffari per poter attestare le prerogative ed il ruolo che questo nucleo familiare svolse, con la sua costante presenza, nella partecipazione alla vita pubblica cittadina attraverso alcuni dei loro componenti che furono valenti professionisti, medici ed uomini di legge, e membri attivi di una nobiltà civica oltre che personalità emergenti nelle cariche religiose ed efficaci promotori di benemerite istituzioni e di iniziative a carattere sociale.
In verità, anche se l'archivio Cuffari è costituito da un numero di documenti poco ordinati cronologicamente, tuttavia esso riesce a dare un quadro abbastanza completo della sequenza delle successioni primogeniturali, oltre che consentire di identificare con certezza i rami familiari secondari e le parentele per linea femminile di cui non abbiamo indicazioni nei riveli o nei rogiti notarili, lasciando irrisolta e problematica l'individuazione dei ceppi parentali derivanti per via materna. Qui, certo, non ci troviamo in presenza di un archivio gentilizio capace di tramandare alle generazioni future il senso di appartenenza ad un ceppo nobiliare preminente; ma queste carte inedite possono costituire nel tempo un serbatoio di informazioni e di dati utili per arricchire la microstoria locale, sì da meglio definire le vicende della vita civile ed economica di Naso al di fuori di una persistente storia della feudalità.
Alla ricerca nell'archivio Cuffari, che costituisce sicuramente un unicum, per il particolare ambito di conoscenza di un ben definibile gruppo familiare, è stata affiancata quella delle fonti pubbliche costituita dai riveli che sono serviti a completare le informazioni sulla consistenza patrimoniale dei vari nuclei familiari a partire dalla seconda metà del XVI secolo, cioè fin dall'epoca dei censimenti ufficiali, cui dovranno aggiungersi i dati anagrafici, laddove esistono, desumibili dall'archivio parrocchiale.
2. Le prime testimonianze dei Cuffari a S. Marco d'Alunzio e a Palermo
Il primo documento, ritrovato tra le carte private, che attesta la presenza di un componente della famiglia Cuffari a Naso è costituito da un contratto originale stipulato tra un tale Andrea Morteo, forse rappresentante della chiesa di San Pietro dei Latini, e mastro Federico Cuffari per la concessione ad enfiteusi di un uliveto posto nella contrada Rumbiali o della Vergine Maria; l'atto fu redatto dal notaio nasitano Pietro Todaro in data 22 ottobre 1509, e rimanda ad una precedente stipula con il presbitero Matteo Cuffari risalente al 1505. Questa testimonianza è particolarmente interessante perché documenta l'esistenza di un notaio che certamente rogava tra il '400 ed i primi del '500 di cui si sconosceva l'esistenza, né risulta nel lungo elenco dei notai compilato da Carlo Incudine nel libro Naso illustrata, edito nel 1881, dei quali troviamo scarse tracce nell'Archivio messinese(3).
La presenza relativa ad un omonimo gruppo familiare è testimoniata nel 1482 ed è attestata dalla registrazione del nome di due funzionari regi, Francesco e Riccardo Cuffari, originari della vicina terra di S. Marco, che vengono qualificati come commissari della Corte, per la riscossione delle tande, cioè il donativo destinato alla Corona; un Antonino Cuffari è residente nel 1489. Nel 1492 Francesco Cuffari viene incaricato dal viceré d'Acuña di esigere la riscossione delle tasse dovute alla giudaica di S. Marco(4).
In una lista di un centinaio di creditori in cui potrebbero figurare anche cittadini nasitani, presentata dal mercante eoliano Anfuso Bellacera (†1499) alla Cancelleria a Palermo nel 1487, al fine di riscuotere somme di denaro, si rileva il nome di un Giovanni Cuffari, di cui non abbiamo trovato ulteriori indizi circa la provenienza(5). Dal testo quattrocentesco viene desunto che il Bellacera doveva richipiri alcuni summi et quantitati di dinari di multi et diversi persuni precise dili terri et lochi di Valdemine, tra l'altro nel documento si ribadisce, li quali erano et su obligati per li servici dilu trappitu di cannameli che fachia in lu territoriu di Nasu; evidentemente, si fa riferimento all'antico trappeto che venne dato in affitto dal conte Artale Cardona nel 1467; l'azienda zuccheriera era gestita dal figlio Giacomo e dal genero Giovanni Pietro Blundo, soprastante(6).
La fiorente attività economica del mercante di Lipari venne messa in crisi dai creditori insolventi, come è testimoniato da un documento del 1487 relativo ad un importo di 400 ducati dovuti dal suo concittadino Cola Cauteri, di cui si erano perdute le tracce, per una partita di 200 càntara di zucchero. Nello stesso periodo il Bellacera doveva riscuotere un credito di 50 onze dal notaio Filippo Arcabaxio di Ficarra per la vendita di tessuti di panno e di berretti(7).
La famiglia Bellacera coltivava forti interessi economici nel territorio; infatti, il fratello Paolo arrendatario nel 1473 di un arbitrio di cannamele a Patti richiese nel 1492 alla Cancelleria la licenza di costruire in flomaria Sancti Juliani territorii et districtus terre Nasi quandam turrim seu casam fortem: la contrada di S.Giuliano si trova sulla sponda opposta della Fiumara di Naso posta a levante al confine con il territorio di Ficarra, a quel tempo appartenente alla famiglia Lanza(8). La motivazione della richiesta di fortificarsi veniva giustificata da un'esigenza vitale, per defensione et tutela arbitrii vostri cannamelarum sive zuccarorum: questa precisazione ci informa che l'antico trappeto di zucchero non era localizzato a Malvicino.
Il 13 aprile 1491 Anfuso aveva chiesto alla Regia Corte di poter fortificare il baglio nel trappeto di cannamele della Milicia vicino Palermo, segno evidente che la stabilità dell'attività economica in quel territorio gli suggeriva di proteggersi da eventuali aggressioni dall'interno e dalla costa; nel 1481 l'imprenditore originario di Lipari è riconosciuto cittadino palermitano.
Sulla presenza dei Cuffari, stanziati a S. Marco, abbiamo sparute indicazioni nei riveli del 1593, in cui troviamo un nucleo familiare costituito dal capofamiglia Giuseppe di 37 anni, dalla moglie Paola e dal figlio Pietro di 13 anni, Domenico di 8 e Melchiorra; egli gestiva una bottega nella piazza principale del centro urbano ed un vigneto nella contrada Calandrone. Un Antonino Cuffari, nato nel 1572, risiedeva nel centro aluntino assieme alle sorelle Caterina ed Isabella con un nipotino di tre anni; una vedova di nome Agatuzza abitava assieme al figlio Paolo (a.18), oltre ad una Giovanna Cuffari(9). Girolamo Cuffari, originario della stessa terra, richiese alla Corte la concessione di tabellionatus per l'esercizio di pubblico notaio nel 1619.
Da queste scarne informazioni possiamo trarre alcune considerazioni sull'esatta dizione onomastica, così come ci viene tramandata dalle fonti originali, che permane nella forma Cùffari e non Coffàro o Cuffàro, come indica nelle sue varianti il Mango nel Nobiliario di Sicilia, in cui l'autore annovera un ramo palermitano nobilitato nel 1798 per il matrimonio tra Pietro Cuffari, nipote di Antonino maestro razionale (1735) e segretario della Suprema Giunta di Sicilia, con Maria Maddalena Ristori dando origine al casato dal doppio nome, estintosi per via maschile agli inizi del XX secolo(10).
Tra i principali esponenti della famiglia Cuffari nel XVI secolo, secondo il Mango, viene annoverato un Giuseppe, che fu generale del duca d'Alba, insignito nel 1558 dell'ordine militare di S.Giacomo della Spada, deceduto nell'assedio di Ostia; il nipote di questi Giuseppe fu nominato Maestro di Campo dell'esercito ispano: quindi, ci troviamo in presenza di valenti uomini d'arme al servizio della Corona.
Un Ottavio Cuffari ricoprì la carica di giudice pretoriano a Palermo sin dal 1577, successivamente della corte civile dal 1591 al '93; di un omonimo abbiamo traccia in un documento inedito datato 16 ottobre 1585 in cui Livia Spatafora offrì in locazione per 70 onze annuali una domus magna che apparteneva a Ludovico Spatafora, ubicata nella strada della parrocchia di S.Nicolò dei Latini alla Kalsa, distrutta nel 1853, vicino l'attuale sito della fontana detta del cavallo marino; forse, ci troviamo in presenza dello stesso personaggio, che occupò importanti cariche civiche a Palermo nel XVI secolo.
Girolamo Lazzaro, maiolicaro, fratello di Paolo e di Cono, diede nel 1599 a Giovan Domenico Rubino una catenella d'oro che gli fu affidata da fra Giuseppe d'Eterno dei M. O. di S. Maria di Gesù di Palermo per la donazione fattagli da Ottavio Cuffari UJD, allo scopo di istituire la dote ad una giovane orfana, da cui si desume che il Cuffari palermitano traeva origine da Naso. In una nota di spese presentata dall'Ospedale degli Incurabili di S. Bartolomeo a Palermo si registra, nel 1730, l'onere di 10 onze da prelevare sul lascito dell'eredità di Ottavio Cuffari per officiare delle messe. A riguardo della presenza dei nasitani a Palermo dobbiamo ricordare Giovanni Raffaele, personaggio illustre che si distinse nella professione di medico e fu eletto sindaco della città nel 1879/80; autore di importanti opere a carattere scientifico, alla sua morte avvenuta nel 1882 il Municipio palermitano gli intestò una strada(11).
Sono ben noti, d'altronde, i frequenti rapporti economici fra questo centro dei Nebrodi e la capitale del Regno, aspetti inediti che meriterebbero un maggiore approfondimento ed una più attenta considerazione da parte degli storici locali.
3. La presenza dei Cuffari a Naso nel '500
I rapporti tra Carlo Ventimiglia e l'Universitas di Naso, identificabile nel suo complesso di norme e di privilegi sanciti dai Capitoli assegnati alla civitas il 5 aprile 1539 da Susanna Gonzaga vedova di Pietro Cardona e da Antonia Cardona contessa di Collesano, furono fortemente intaccati da un episodio che rimase impresso nell'animo dei nasitani ed incrinò il rapporto di fiducia nei confronti del nuovo feudatario, il quale richiese al presidente Carlo Aragona principe di Castelvetrano la concessione del titolo di conte di Naso, che gli venne accordata il 20 maggio 1575 e ratificata il 1° giugno 1582 dal re Filippo II(12). Il Ventimiglia del ramo di Geraci aveva ricoperto la carica di pretore di Palermo negli anni dal 1568 al '70, fu strategoto di Messina nel '72 ed elevato a deputato del Regno nel 1579 e nell'82; inoltre, gli era stato donato dalla Corte, con privilegio emanato da Madrid il 2 settembre 1567, un vitalizio di onze 216.20 all'anno pari a 500 ducati, che dovevano essere prelevate dalla Secrezia di Palermo.
Venendo alla questione tra l'Università di Naso ed il Ventimiglia, il 25 settembre 1575 fu convocato il consiglio civico in un giorno festivo ed al suono delle campane, come era consuetudine, nell'atrio del castello alla presenza di un nutrito consesso di cittadini e dei giurati in carica, Francesco Nasitano, Giovan Battista Capucci, Pietro Vitale e Lorenzo Cardona, allo scopo di risolvere la questione dell'imposizione e riscossione di una nuova tassa di 25 grani per ogni macina di olive.
I deputati chiamati a dirimere la questione tra le parti in contrapposizione furono Giovan Giacomo Lanza UJD, Cono Pietrasanta, Cono Vitale e Francesco Pandolfo, che richiesero ai presenti il voto su una decisione presa all'unanimità, di cui è interessante registrare la presenza per comprendere l'importanza ed il ruolo che essi avevano nella partecipazione alla vita pubblica cittadina; infatti, il nome dei giurati era preceduto dal titolo di magnifico ed onorevole, proprio per indicare i membri di una nobiltà civica di cui facevano parte Vincenzo Rizzo UJD, Giovanni Cuffari, Giuseppe Lanza, Giovan Matteo La Dolcetta secreto della città, Gaspare Galbato, Giacomo Mercurio, Matteo Lo Cicero, Francesco Rizzo e Cono Calcerano seguiti da un folto gruppo di cittadini(13). L'atto fu ratificato dal notaio Pettinato alla presenza dei magnifici e nobili Giovanni Calogero Pandolfo, Vincenzo Rizzo UJD e Giovan Francesco Rubino.
Il 25 marzo 1576 l'Università di Naso presentò una petizione alla Corona spagnola per chiedere lo scioglimento dal vincolo feudale e passare al regio demanio.
Il 18 aprile di quell'anno il notaio Pettinato registra la stipula dell'affitto di tutti i trappeti d'olio del territorio che furono concessi ad Antonino Bergo e Giovan Giacomo Rubino; l'anno successivo il Rubino chiede alla Cancelleria il rilascio del brevetto per un tipo di telaio ad acqua utilizzabile per segare porfidi, diaspri, marmi ed altri tipi di pietre.
L'abbate di S. Maria de Lacu, Ottavio Perrello, concesse nel 1589 la gabella dell'olio a Giovanni Calogero Pandolfo; i possedimenti di questa antica chiesa esistente nel territorio di Naso facevano parte nel 1581 dei beni dell'abbazia di S. Anastasia di Castelbuono, assieme alle proprietà della chiesa di S. Vincenzo di Mistretta, a quelle del casale di S. Stefano e di S. Giovanni di Caltavuturo, che davano una rendita di onze 120.23; nel 1520 la carica di abbate di S. Maria era stata affidata al reverendo Cesare Imperatore, fratello di Vincenzo e Federico(14).
Tra i numerosi componenti del consiglio civico del '75 troviamo, forse, lo stesso Giovanni Cuffari che richiese nel 1597 l'assenso alla Cancelleria regia per rimondari olivi et insitare ogliastri, assieme a Giovan Francesco Zafarana, per effettuare la potatura e per sgargionarsi, ciò allo scopo di far fruttificare meglio gli alberi; una regia prammatica vietava ai coltivatori l'estirpazione delle piante di ulivo, a conferma del grande valore economico che si attribuiva a quella coltura(15). Il dottor Giovanni Cuffari risiedeva nel quartiere di S. Pietro detto della Marchesana, dal nome di una delle porte urbiche, e confinava con i dottori in medicina Antonino Mercurio ed Antonino Cuffari.
Secondo la testimonianza resa da Cono Pietrasanta (n.1531) il 10 febbraio 1604, viene attestato che il parrastro Paris Calderaro, procuratore del duca di Montalto Antonio Aragona, secondogenito di Antonia Cardona, incominciao a fabricari et far fabricari lo trappito delli cannameli in lo territorio di detta terra nella contrada della Piana et dallora in poi si nomao Malvicino la quali fabrica si pigliao dalli fondamenti con farsi primo li fossi(16). La dichiarazione fatta da Pietrasanta è interessante perché smentisce la presunta continuità dell'attività zuccheriera in quella contrada fino dal XV secolo. Allora che si incomenzao detta fabbrica in detto loco non vi era nessuna sorti di fabrica né edificio ma una terra aratoria del quondam Giovan Pietro Galluzzo della detta terra che allora confinava con li terri del quondam presti Antonio Neglia.
La proprietà di Neglia fu alienata il 16 settembre 1572, e successivamente venne impiantato un agrumeto adiacente al tappeto; poi passò assieme alle terre del dottor Giovan Giacomo Mercurio ad Ottavio Cuffari(17).
Il 31 agosto 1570 il dottor Pietro Marino aveva ceduto a Nicola Gentile, residente a Messina nel 1566, tutto lo zucchero che era stato prodotto in quell'anno, il che dimostra come la forte richiesta del mercato spingesse i mercanti genovesi ad accaparrarsi il prezioso alimento fin nelle zone periferiche rispetto ai principali centri di produzione(18).
Il 27 ottobre 1570 il duca di Montalto stipula un contratto d'affitto a favore di Giovan Domenico Garifo di Termini, per la durata di cinque anni, in cui furono inventariati gli impianti del trappito et arbitrio di Naso seu di Bonvicino esistenti in lo dicto territorio cù tutti soi stantii turri magaseni taverna et tutti altri universi raduni; dal contratto vennero escluse le terre limitrofe della Masseria. I fratelli Francesco e Giuseppe Pietrasanta prendono a gabella il trappeto di cannamele nel 1600 dopo che furono consegnati dal procuratore Paride Pietrasanta al segreto di Naso Francesco Zafarana tutti gli arnesi dell'arbitrio e registrati alla presenza del notaio Giuseppe Astone(19).
In un contratto stipulato dal notaio Luca Giordano nel 1606 troviamo la locazione del trappeto di Malvicino da parte di Girolamo Ioppolo a Giovanni Pietrasanta, padre di Francesco († 1623), per 300 onze annue.
Giovan Francesco Zafarana, padre di Turiano, alienò nel 1595 una serie di appezzamenti di terra a favore di Giuseppe De Angelis; un Francesco De Angelis era stato capitano di giustizia a Naso nel 1576. Il 3 febbraio dello stesso anno Francesco Zafarana assieme alla moglie Beatrice vende alcuni spezzoni di terra per 22 onze disposti nella contrada Rudo al Vallone o di Piraino, nel luogo nominato Cozzolordina alla calcara vicino la Masseria e la prisa delli cannameli sopra via limitrofi alle proprietà del notaio Giovan Francesco Corona(20).
Il 21 marzo 1595 viene stipulata la vendita di Naso tra gli Starrabba ed il messinese Girolamo Ioppolo per una cifra pari a 44000 onze con l'obbligo di armare due cavalli come veniva imposto ai feudatari componenti il Braccio Militare, oltre al privilegio di nomina degli ufficiali della terra tramite il procuratore, compresi gli oneri dei capitali e degli interessi dovuti ai creditori della gestione precedente.
Nel consiglio civico indetto il 5 marzo 1576, confermato il 9 successivo e rinnovato il 1° aprile di quell'anno, furono imposte alcune gabelle allo scopo di reperire fondi necessari al riscatto dal mero e misto impero, onde sottrarre l'Università all'autorità del Ventimiglia; questo antico privilegio feudale di esercitare la giustizia civile e criminale era stato concesso ad Artale Cardona il 29 dicembre 1457 ed acquistato il 28 maggio 1539 per 650 onze da Antonia Cardona, moglie di Antonio Aragona duca di Montalto.
Nella lista dei fuochi del Valdemone del 1570 si registrano a Naso 834 unità pari a 3268 anime, una media di circa quattro abitanti a fuoco (famiglia); nella numerazione del 1582 ne risultavano 961 pari a 3690 abitanti distinti in 1928 maschi, di età compresa tra i 18 ed i 50 anni, costituiti dagli uomini validi alla difesa (852 + 1076), e 1762 donne, che formavano il 48% della popolazione residente(21). Queste cifre tornavano utili all'amministrazione regia per stabilire la quantità di farina che occorreva al sostentamento delle comunità in caso di necessità; poiché queste terre erano scarsamente seminative, l'approvvigionamento di frumento veniva prelevato da altre zone agricole ed importato dai mercanti che traevano un notevole lucro da questa preziosa ed indispensabile mercanzia. Questo fu un problema che si era tentato di risolvere sin dal XV secolo, come si rileva da un documento della Regia Cancelleria del 18 giugno 1476 in cui Bernardo Contruxeri, giurato di Naso, lamentava la mancata consegna di una partita di grano prelevata da Andrea Russo nel territorio di Montalbano(22).
I fratelli Bernardo e Filippo Contruxeri avevano un luogo nella contrada Umbrìa nel 1485(23).
Nell'assemblea civica del 1576 venne discusso il modo di reperire i fondi necessari alla finalizzazione dell'obiettivo prefissato, visto che l'Università doveva provvedere al salario degli avvocati, dei delegati e di altri ufficiali idonei a perorare la causa dinanzi alla regia Corte; la conferma della delibera presa dal consiglio civico trovò ratifica a Palermo il 9 settembre di quell'anno con l'obbligo che venisse rinnovata ogni triennio(24). Furono imposte le gabelle su alcuni generi di consumo a cominciare dal frumento, con una tassa di 4 tarì a salma, e sulla carne, un grano per ogni rotolo, sui salumi e sull'olio con l'imposizione di tre tarì a càntaro, un tarì per ogni salma di mosto, 5 tarì su ogni càntaro di lino, un tarì per ogni libbra di seta, e sulla vendita dei tessuti, sugli utensili di metallo ed altre mercanzie affini, oltre che sul pescato.
Giuseppe Letizia richiese la carica di credenziere o collettore delle gabelle delle marine di Naso nel 1593 per la morte di Antonello Mannuccio, che l'aveva occupata sin dal 1564(25). Un altro ruolo pubblico disposto per le esazioni fiscali era esercitato dal vice portolano addetto al controllo dei traffici marittimi che si svolgevano lungo la costa; quest'ufficio era stato assegnato il 26 settembre 1573 a Pietro Caruso per la morte di Gian Domenico Lanza; nel 1587 egli ricopriva la carica di proconservatore di Naso e di notaio del vice portolano Cono Galluzzo.
La gabella del tarì venne imposta anche sul luogo della fiera nel piano di Bazia e doveva essere pagata sia dai cittadini che dai forestieri, stante il privilegio di franchigia di cinque giorni che era stato concesso nel 1362, rinnovato nel 1539 e nel 1571 durante la fiera di San Cono.
La gabella sulla macina del frumento fu affidata nel 1582 a Santoro Arduino, Cono Todaro e Cono Germanà e nel 1637 a Gaspare Zafarana, quella sul pescato a Giuseppe Cògita e la gabella del luogo e del pilo per la fiera di Bazia a Cono Aglì.
Il 24 marzo 1577 il conte di Naso, Carlo Ventimiglia, dovette presentare una dettagliata relazione al viceré Marco Antonio Colonna, attraverso l'invio di un memoriale, al fine di dare una giustificazione ai gravi episodi che si erano verificati l'anno precedente contro una compagnia di soldati e di cavalieri, cui venne negata la possibilità di alloggio in quel paese(26). Alla richiesta avanzata dal comandante seguì infatti una repentina e violenta reazione, che spinse molti cittadini ad impugnare le armi al grido di fora spagnoli; alcuni di quei malcapitati caddero sotto i colpi micidiali di un nutrito fuoco di archibugi; alcuni soldati rimasero uccisi ed altri feriti, costringendo il drappello a darsi a precipitosa fuga.
Per ordine del luogotenente generale arrivò ben presto un'altra compagnia al comando del capitano Martin Dragot, che fu accolta questa volta dal Ventimiglia; ma dopo otto giorni di permanenza si verificarono altri tumulti che indussero la soldatesca ad un definitivo allontanamento, costringendo il conte ad esercitare il diritto di giustizia colpendo in modo esemplare gli elementi più facinorosi. Ma la tenace opposizione dei nasitani mise in serie difficoltà l'attuazione del pugno di ferro messo in atto dal nobile feudatario, boicottando il suo disegno repressivo; nella notte precedente alla data delle esecuzioni capitali si verificarono alcuni episodi consistenti in minacciosi atti di sfida che lo impensierirono seriamente, come ad esempio il ritrovamento della corda del patibolo troncata e sostituita da una alabarda, oltre alla presenza di numerose scritte inquietanti e disoneste, affisse nelle strade e nelle piazze. Visto il clima pesante di paura e di intimidazione, il conte fu indotto a rinunziare all'applicazione della giustizia perché (sono parole dello stesso conte) si può senz'altro considerare la pertinacia et durezza di quella gente indomita et incorregibile.
Questo avvenimento getta nuova luce su fatti e situazioni che dimostrano la palese ostilità nei confronti dei contingenti militari spagnoli, forse per reazione alle frequenti manifestazioni di eccesso e per l'arroganza che essi mostravano nei confronti delle popolazioni locali. L'episodio è taciuto da Carlo Incudine, il quale nel suo libro su Naso ci propone un avvenimento analogo, relativamente al 1545, attestato da un presunto tentativo di assalto alle mura della cittadina da parte di un manipolo di armati Turchi che si erano sganciati dall'assedio di Lipari per intraprendere alcune azioni di disturbo sul litorale opposto in direzione di Patti e diretti verso alcuni paesi rivieraschi; di contro, essi trovarono una forte resistenza armata e furono ricacciati indietro, anche con l'intervento, come si tramanda, del santo protettore Conone Navacita. E' significativo al riguardo il motto apposto nel sigillo civico di Naso, che suona quasi a perenne ammonimento: Libera devotos et patriam a peste, fame et bello(27).
E' significativo riportare un altro episodio che mette in evidenza lo spirito combattivo ed il valore di questa gente, relativo ad una richiesta avanzata al presidente del regno Carlo Aragona il 3 settembre 1573 da parte del nasitano Antonio Corasì, al fine di ottenere la licenza di portare armi da fuoco per la difesa personale, poiché gli era pervenuta la notizia del disegno di vendetta tramato nei suoi confronti da parte di Giovan Battista Proiti di Castanea e da altri accoliti al fine di vendicare la morte del fratello Francesco, notorii et famosissimi delinquentis descursoris campanee per multos annos, che lo stesso Corasì aveva decapitato(28).
Il salario delle squadre dei provvisionati del capitano per la prosequutione di banniti, che altro non erano che cacciatori di taglie, gravava sul bilancio civico per 10 onze all'anno, oltre a quello dei guardiani delle marine - i cosiddetti cavallari -, che ammontava ad 80 onze; altre somme erano utilizzate per l'approvvigionamento della polvere da sparo, piombo e meccio, da fornire ai soldati della milizia territoriale e per le munizioni occorrenti alla difesa del presidio marittimo del castello di Capo d'Orlando(29).
Il 18 maggio 1586 viene convocato il consiglio civico con l'autorizzazione del viceré, il conte Alvadaliste, di imporre una nuova tassa per il pagamento delle guardie lungo la costa; precedentemente, il 24 novembre 1583, era stato dato incarico ad Andrea Caruso di fornire le somme necessarie a questa occorrenza. Era tanta la penuria di denaro nelle casse civiche che fu imposto di prelevare 30 onze per pagare il padre predicatore; inoltre, l'11 luglio 1591 venne convocato di nuovo il consiglio cittadino per applicare una tassa di 153 onze occorrenti al salario di due tesorieri, di cui uno si doveva occupare della gestione delle tande regie, mentre l'altro dell'amministrazione civica; nel 1621 venne eletto il dottor Pietro Cuffari, con il salario di 2 onze annue assieme al detentore dei libri contabili, il notaio Luca Giordano, con lo stesso salario; l'altro tesoriere designato fu Mario Piccolo(30).
Il 3 marzo 1622 i giurati di Naso eleggono come sindaco il dottor Giovan Vito Piccolo e contatore per la revisione dei conti Giovan Giacomo Lanza, al posto del dimissionario sindaco, il dottore in medicina Antonino Mercurio, e per la morte del revisore dottor Vincenzo Astone(31).
4. I fedecommessi Pettinato, Pronobis e Riscazzo
Proseguendo nella disamina dei documenti dell'archivio Cuffari, sono stati rilevati alcuni atti notarili riguardanti la famiglia Pettinato per l'imparentamento matrimoniale tra Flavia, figlia in seconde nozze del notaio, con Giovan Giacomo Cuffari, il medico nasitano autore fra l'altro di opere a carattere scientifico e di alcune di contenuto morale e religioso; tra le prime pubblicazioni ricordiamo: I biasmi del tabacco, edito a Palermo nel 1645, sugli effetti nocivi del tabacco da fiuto per la salute dell'uomo.
Il 17 marzo 1577 viene registrato il testamento di Bartolomea, vedova di Cono Pettinato, in cui figura tra gli eredi designati il figlio Giovanni, notaio a Naso dal 1574 al 1597, sposato in prime nozze con Sebastiana Pronobis, figlia di Francesco, dalla quale non ebbe eredi, e poi con Margherita Riscazzo (o Racinazzo) madre degli altri due figli, Susanna e Placido(32).
Nelle ultime disposizioni dettate dalla madre del notaio furono devoluti alcuni legati a conventi e confraternite esistenti a Naso, assegnando 15 tarì al convento di S. Maria di Gesù per le spese di sepoltura e per le messe di suffragio, la stessa somma di denaro fu destinata alla confraternita del Ss. Rosario fondata nella chiesa di S. Pietro dei Latini. La Madonna del Rosario aveva un culto particolare a Naso; infatti, in un consiglio civico del 2 marzo 1581 fu accordato dal viceré Colonna di destinare uno stanziamento straordinario di 60 onze, dato lo stato di povertà in cui versava quel clero, per il completamento della cappella e l'esecuzione di un dipinto che si trova ora collocato sull'altare maggiore della chiesa di San Giovanni Battista, dopo la distruzione dell'antica parrocchia di San Pietro(33). La cappella del Rosario venne ornata ad opera dello scultore palermitano Bartolomeo Travaglia, secondo una attestazione confermata da un documento ritrovato a Palermo, che porta la data del 27 ottobre 1649, in cui si rileva che la decorazione a marmi mischi doveva essere eseguita sul modello di quella realizzata nella chiesa palermitana di Santa Cita; la cappella barocca, dopo la demolizione della chiesa, venne ricostruita nella Chiesa Madre di Naso(34).
Dal lascito testamentario di Bartolomea Pettinato si rileva la vendita a favore del figlio di una casa solerata per 55 onze, oltre ad un censo lasciato alla figlia Angelica; altri eredi furono i figli Paolo ed Elisabetta Astone; qui è da rilevare che il conservatore degli atti del Pettinato fu Giuseppe Astone, dal che possiamo ipotizzare un legame parentale tra le due famiglie. Bartolomea diede, inoltre, alla figlia Mariuccia un censo di onze 4.21, che fu imposto sulla conceria a Bazia gestita da Antonino Martino, da cui possiamo dedurre che l'attività legata alla concia delle pelli e del cuoio era connessa certamente con l'esistenza in quel luogo del macello.
Antonino Martino si trovò indebitato con il fisco; infatti, il 20 gennaio 1584 venne dichiarato prosequuto per l'insolvenza di alcuni debiti, e per questo gli furono sequestrati beni immobili consistenti in una proprietà sita nella contrada della Maddalena(35).
Il 22 aprile 1588 fu depositato il testamento della prima moglie di Giovanni Pettinato, Sebastiana Pronobis, in cui la testatrice dispose di essere seppellita alla sua morte nella parrocchia di S. Pietro, alla quale legò un'onza pro fabrica, lasciando 60 onze ai fratelli Antonino, Giuseppe, Pasquale e Cono, non avendo avuto eredi diretti dal marito(36). Da questo lascito furono beneficati l'antico convento francescano di Santa Maria di Gesù fuori le mura, le chiese parrocchiali del Ss. Salvatore e di San Cono, l'ospedale del Monte di Pietà, la confraternita del Ss.Rosario e l'altare della Madonna dell'Itria posto nella Chiesa Madre, nonché la vedova di Francesco Spinola, Costanza, madre del chierico Paolo, suora nel monastero di Santa Caterina a Naso; non sappiamo se lo Spinola fosse imparentato con la omonima famiglia di origine genovese residente a Palermo.
Passando a un altro legato testamentario, depositato il 24 giugno 1620 presso il notaio Luca Giordano, veniamo a conoscere il ramo parentale di Antonino Riscazzo, costituito dal fratello Giacomo (n.1528) e da Sebastiano, che fece testamento presso lo stesso notaio il 31 agosto 1603; la figlia Costanza, generata da Elisabetta, andò in sposa all'avvocato Giovanni Artale La Dolcetta, rampollo di un'antica famiglia di origine catanese che si era stabilita a Naso fin dalla prima metà del XVI secolo(37). Tra i vari componenti del ceppo familiare troviamo un Giovanni La Dolcetta magister exubearum a Catania nel 1511, e Matteo La Dolcetta, che ricoprì la carica di maestro notaio a Naso nel 1530 e di regio procuratore fiscale in Val di Noto nel '36, e morì nella città etnea nel 1551; gli subentrò come erede universale il nipote Giovan Matteo secreto(38). Un Francesco La Dolcetta fu credenziere della secrezia ed acatapano a Catania nel '50 e Pietro La Dolcetta, residente nel quartiere della Marchesana, fu giurato di Naso nel 1614; era ammogliato con Domenica Collovà, figlia di Francesca, che gli diede due figli, Francesco nato nel 1607 e Giovanna(39). Il dottor Francesco La Dolcetta , figlio di Pietro, ebbe dalla moglie Maria tre figli maschi: Francesco, Pietro e Giuseppe, che rispettivamente nel 1637 avevano l'età di 10, 6 e 2 anni; la sua abitazione si trovava nel quartiere di San Cono vicino alla casa di Orazio Sapienza e alla strada pubblica(40). Un altro figlio di Francesco, Placido, nato nel 1637, sposò Paola, da cui ebbe sei figli maschi: Don Giovanni (n.1665) che divenne arciprete di Petralia, Giuseppe (n.1667), Don Luigi (n.1669), Don Antonino († 1668) e Francesco sacerdoti, Bernardo († 1760) futuro parroco della chiesa di San Pietro(41).
I rapporti di parentela tra i gruppi familiari Cuffari e La Dolcetta si susseguono con una certa frequenza tra i vari esponenti: Maria figlia di Placido UJD prese in marito Carlo Cuffari (1672), proveniente dal ramo del dottor Giovan Francesco Cuffari (n.1568); la figlia di Giuseppe (†1729) e Maria La Dolcetta, Atonia, andò in sposa ad Andrea Cuffari (1703), figlio del dottor Giacomo e Maria.
Da Giuseppe Cuffari La Dolcetta, nato nel 1741, giurato di Naso nel 1797/98, discende Salvatore († 1854), capitano di giustizia nel 1812/13, sposato in prime nozze con Margherita Gamberi († 1825). Antonino Riscazzo - cognome diffuso a Naso nel XVI secolo - lasciò eredi universali la sorella Margherita già vedova del notaio e l'altra sorella Francesca, anch'essa vedova di Giuseppe Scavone.
L'11 marzo 1605 il notaio Luca Giordano effettua un atto di permuta tra Antonino Riscazzo e la contessa Laurea Ioppolo Ventimiglia per una salma di terra posta nella contrada di Santa Lucia a Forno, confinante con le terre di Francesco Pronobis e con quelle dell'abbazia di Santa Maria de Lacu, per un'altra terra posta nella contrada Piana al Piraino o Salicò, di cui 5 tumoli appartenevano a Francesco Rizzo, vicino alle terre del notaio Pettinato, e a Cono Letizia, ed altri erano di proprietà di suor Caterina Ruggeri Merendino.
Il testatore, di cui non conosciamo l'attività professionale, lasciò a Margherita per i buoni servigi resigli la casa solerata nel quartiere di San Giovanni, cum omnibus stivilis et arnesiis, vicino la casa in cui risiedeva la sorella. Dispose, inoltre, il lascito di tre onze a favore di Vincenzo e Francesco Quovadis, da destinare ad opere di ripristino nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in cui volle essere seppellito e donò 12 onze al nipote, il diacono Cono Biscazzo, per la celebrazione di messe. Assegnò una serie di legati una tantum per lavori di manutenzione in alcune chiese, e 10 onze furono donate al santuario di Santa Maria sul monte a Capo d'Orlando, fondato nel 1599; altri lasciti furono destinati alle confraternite del Ss. Rosario nella chiesa di San Pietro e di San Michele Arcangelo nella parrocchia di San Cono e per la costruzione della cappella della Madonna della Grazia nell'omonima contrada, oltre che per la chiesa della Maddalena.
Tra i testimoni dell'atto risultano Giovan Francesco Cuffari, dottore in ambedue le leggi, il fratello Antonino medico, il notaio Giovan Domenico Buttà (1610-27), il sacerdote Pacifico Merendino, Giuseppe Guaiello, Francesco Todaro, Giuseppe Lento e per ultimo l'abbate Francesco Causagrano, tutti personaggi di spicco nell'ambito cittadino.
5. Il patrimonio del notaio Pettinato
Il 29 aprile 1579 il notaio Giovanni Pettinato effettua la permuta di una potiga nella piazza detta di Filippo, vicino le botteghe di Giovannello Cicone e del reverendo Vincenzo Faxello, forse parente di Benedetta, moglie di Vito Cuffari, ricevendo in cambio un appezzamento di terra che era di proprietà del notaio Bartolomeo Germanò (1539) e del figlio Giuseppe, coltivato da Giovannello Consiglio in parte a lino ed a lavuri, posto nella contrada Piana vicino alle terre di Martino Caranca e Andreotta Caruso e limitato dalla strada regia.
Di un mastro Andrea Caruso si fa riferimento in un atto di cessione di un luogo in contrada Umbrìa tra Francesco Gugliotta e mastro Michele Calabrò, che porta la data del 22 novembre 1552, rogato presso un notaio palermitano, soggetto ad un censo alla chiesa nasitana di San Basilio, filiale dell'archimandritato messinese del Ss. Salvatore lingue fari; Calabrò risiedeva nel quartiere di San Giovanni vicino alla casa di Cono Abiuso e all'abbazia di Santa Caterina.
Nel quartiere di Tutti i Santi o della Porta di Piazza si trovavano alcune botteghe che appartenevano ad Aliberto Manfrè confinante con Cono Di Maio, un'altra di Vincenzo D'Amico era adiacente a quella di Cono Calcerano; Vincenzo Astone teneva una bottega nel quartiere della piazza di Filippo limitrofa a quelle di Pietro Caruso e di Benedetto Marino, il messinese Santo Di Vera ne gestiva una nel quartiere di San Pietro.
Delle cinque potighe a Bazia, due erano di Paolo e Giovanni Lazzaro maiolicari, adiacenti a quelle di Giovanni Copronica, di Pietro Bevilacqua e di Giuseppe Collovà, forse specializzate nella produzione di vasellame in terracotta. Paolo Lazzaro, procuratore del fratello Cono, venne incaricato di saldare un debito di 40 onze a Francesco Palmeri nel 1609; Alonza Palmeri, residente a Naso, dichiara alcune proprietà a Palermo nel 1573 ed un Anto-nino Palmeri (1554) abitava nel quartiere della chiesa madre: pare che questa famiglia provenisse da Pisa.
Nel 1610 venne redatto a Palermo l'inventario dell'aromataria di Antonino Francesco Ponziano, ubicata nel piano di San Sebastiano alla Marina, in cui furono elencate 29 bornie di Naso, ciò a riprova che i prodotti ceramici provenienti da questo centro nebroideo erano particolarmente apprezzati e diffusi(42).
Una delle botteghe ubicate nella piazza detta di Filippo apparteneva nel 1614 a Domenico Babbao alias Failla, e in essa si commerciava seta cruda di manganello; le altre erano gestite da Antonino Pronobis e dall'aromataro Giovan Domenico Scaffidi originario di Piratino, che risiedeva a Naso nel quartiere di Tutti i Santi, vicino alle case degli eredi di Francesco Pietrasanta, Paris e Giovanni, il quale ultimo abitava vicino alla casa-torre di Giovan Giacomo Piccolo (1587); la speziaria di Scaffidi era stata danneggiata, assieme ad altre abitazioni, dal terremoto del 25 agosto 1613, che provocò a Naso ingenti danni alle strutture edilizie. Certamente la violenza del sisma non risparmiò neanche gli edifici religiosi; tra questi subì danni irreparabili l'antico monastero di S. Caterina, che si ridusse in uno stato di completo abbandono, perciò venne deciso il 18 settembre 1622 di imporre una nuova gabella biennale di 2 grani su ogni rotolo di carne che potesse dare un introito di 40 onze l'anno da utilizzare nelle opere di ricostruzione dell'edificio(43). L'altra bottega di speziale vicino a quelle del dottor Giovan Francesco Cuffari, Francesco Zafarana e Giacomo Bergo era gestita da Giovanni Galbato che possedeva una proprietà agricola coltivata ad ulivi, gelsi ed altri alberi, posta nella contrada Rumbiali.
Lo Scaffidi, cinquantenne nel 1614, era sposato con una certa Delfina, da cui aveva avuto due figli a quell'epoca minorenni, Delizia (a. 15) e Gaspare; sembra che fosse rimasto vedovo di Laurea Collovà, figlia di Antonino, gestore del fondaco di San Gregorio nel 1576, come si desume da un atto datato 29 dicembre 1590 redatto da un notaio palermitano, concernente il recupero della proprietà che era stata concessa in dote alla figlia(44).
Alcune delle botteghe ubicate nella piazza di Filippo appartenevano al genovese Cono Botta (a.36); in una di esse a pianoterra era un forno sottostante ad una casa solerata, confinante con Santoro Cartella e Giovanni Galipò; altre tre botteghe, vicino alla chiesa della Misericordia, erano in comune proprietà con i fratelli, di cui una veniva locata per onze 6.5, un'altra apparteneva al fratello, il notaio Giovan Domenico (1610-27), la terza era utilizzata come merceria di sitanzi, terzanelli imbottiti, passoli, fico, chiovami, cordami, azaro, causetti, drogari, candeli ed altre mercanzie.
Francesco Marino (a.33), soldato della nuova milizia, gestiva una bottega di ferraro, per la vendita di attrezzi agricoli e di utensili di ferro nel 1614.
Il notaio Pettinato aveva acquistato per 60 onze un luogo nella contrada Vena o Gazzì da Giovan Pietro Galipò, vicino alle terre di Cono Cianciolo, di Francesco Causagrano e a quelle di Giacomo Crasà alias Mustazzola; tra i testimoni dell'atto, stipulato il 15 gennaio 1594, dal notaio Luca Giordano (1560), figurano Giuseppe Letizia e Giuseppe Guaiello.
Si ha notizia dell'acquisto da parte del notaio Pettinato di un'altra proprietà che era appartenuta a Giovan Michele Pandolfo; l'atto fu redatto il 1° luglio1583 dal notaio Giovan Francesco Corona (1582-1604), abitante nel quartiere di San Giovanni vicino alle case dei fratelli Giovan Matteo ed Assenzio Lanza, di Giovanni Artale Vitale e di Cono Galluzzo; il notaio Pettinato risiedeva a fianco della casa di Vincenzo Astone. Il 7 agosto 1596 venne stipulato dal notaio Luca Giordano un atto di compravendita tra Pettinato e la contessa di Naso per l'acquisto di un luogo che era di Angela Vurrelli detta la Carbonara, confinante con le terre di Duccio e Petruzzo Collovà nella contrada Margi. L'acquisizione di beni fondiari da parte degli Ioppolo viene registrata in date posteriori al 16 aprile 1595, cioè a partire dalla ratifica nella Cancelleria dell'atto di vendita di Naso presso il notaio palermitano Arcangelo Castanea, stipulato il 21 marzo 1595 tra Giovanna Ventimiglia, a quell'epoca già vedova del conte Carlo Ventimiglia († 1583), e Girolamo Ioppolo marito di Laurea Fiordilegge, figlia di Antonio Ventimiglia barone di Sinagra, la quale entrerà in possesso di questa terra per una sentenza della Corte Pretoriana di Palermo emessa l'11 febbraio1593 contro Pietro Afflitto(45). Lo Ioppolo prese l'investitura ed il possesso di Naso l'8 agosto 1595 a Palermo; i due rami familiari Ioppolo-Ventimiglia si unirono con un atto matrimoniale stipulato il 24 febbraio 1588, in cui venne sancito solennemente il vincolo di sangue impresso nelle insegne nobiliari, oltre al testamento comune depositato agli atti del notaio Pettinato il 28 dicembre 1596.
Giovanni Pettinato nel periodo di notariato esercitato a Naso nell'arco di 23 anni, i cui atti erano costituiti da 69 fascicoli andati dispersi, si può considerare il testimone diretto dei principali avvenimenti succeduti a Naso nella seconda metà del XVI secolo; tra l'altro egli aveva redatto l'atto di ratifica della vendita di Naso da parte degli Starrabba ai Ventimiglia il 26 maggio 1580. L'ultimo documento depositato presso il notaio nasitano fu il testamento di Nicola Milio di Ficarra, che porta la data del 1° settembre 1597, anno della sua morte. La figlia di Pettinato, Flavia, era rimasta vedova di Cono Calcerano, depositario e tesoriere delle gabelle nel 1578, il quale ricopriva un incarico di responsabilità nella gestione del denaro pubblico che doveva essere ripartito tra gli oneri fiscali imposti dal governo per sopperire alle spese che gravavano sulle povere casse civiche(46).
6. Le testimonianze sulla famiglia Cuffari desunte dai riveli
I dati desumibili attraverso i riveli a partire dalla seconda metà del XVI secolo ci inducono ad una serie di considerazioni di natura socio-economica, anche se è difficile accertare la veridicità delle dichiarazioni presentate, che veniva affidata alla fedeltà del dichiarante ed avallata dal maestro notaio, che comunque riescono a dare una chiave di lettura sui dati anagrafici, relativi alla composizione ed alla consistenza dei nuclei familiari.
L'indicazione dell'età del capo famiglia e dei figli ci permettono di risalire a quella dei componenti maschi per cercare di individuare la linea parentale di successione diretta; altri dati utili valgono ad accertare la consistenza patrimoniale che si può desumere dagli elenchi dei beni mobili e stabili, questi ultimi costituiti dalle proprietà fondiarie urbane ed agricole, oltre alle gravezze stabili che incidevano sul valore patrimoniale assieme alle gravezze mobili.
Dall'elenco dettagliato dei beni dichiarati si trae un valore che viene capitalizzato in base ad un tasso prefissato in un tarì ogni 50 onze per redditi fino a 150 onze ed incrementato fino a 18 per cifre superiori. Da qui è chiaro che le tassazioni desunte dal reddito netto colpivano i cespiti più elevati e sarebbe interessante capire se la frammentazione delle proprietà agrarie costituiva una scappatoia al sistema fiscale, basato sul ricavato delle coltivazioni agrarie. Le annotazioni, quindi, del capo di casa sulla consistenza del proprio nucleo familiare formato dalla moglie, dai figli, dai servitori e dalle persone a carico, ci danno una fonte inesauribile di informazioni sui gruppi sociali e particolarmente su quelli ad alto reddito, costituiti da un ceto professionale dinamico che formava l'elemento trainante per la crescita e lo sviluppo economico del centro abitato e del suo territorio.
Attraverso la formazione dei riveli di Naso, soprattutto quelli compresi tra gli anni 1614-16, anche se pervenuti incompleti, si possono individuare tra i dichiaranti i rami principali della famiglia Cuffari, costituiti dal medico Antonino e da Giovan Francesco, avvocato, oltre a un Giovanni, forse anche lui medico, che abitava nel quartiere della Marchesina, di cui non troviamo precise indicazioni anagrafiche(47). Dei due primi personaggi, nati rispettivamente nel 1567 e nel '70, non possediamo ulteriori dati fino ad ora, per poter accertare il ceppo comune di parentela; ciò potrebbe desumersi dagli atti di battesimo, laddove esistano, conservati nell'archivio parrocchiale della Matrice a Naso.
Il medico Antonino Cuffari aveva avuto dalla moglie Arcangela sette figli, tra i quali il sacerdote Giovan Francesco nato nel 1589, Giovan Giacomo del '96 anch'egli medico, Giovan Pietro di 15 anni nel 1614, Giuseppe nato nel 1606 diverrà dottore in ambedue le leggi, oltre alle tre figlie Giovanna (a. 16), Dorotea (a. 7) e Maria (a. 4); di quest'ultima conosciamo l'anno della scomparsa, avvenuta nel 1674.
Il reddito dichiarato dal medico nasitano ammontava a 867 onze ed era costituito da una serie di beni fondiari del valore di 638 onze, compresa la sua abitazione nel quartiere della Marchesana stimata 120 onze, limitrofa alla casa del dottor Giovanni Cuffari UJD e a quella di Giacomo Gentile; sotto certi aspetti sarebbe interessante chiarire quali intrecci legavano i vari gruppi familiari rispetto alle dislocazioni territoriali, un fenomeno di aggregazione sociale il cui accentramento è possibile accertare a Naso attraverso le unità familiari legate da vincoli di parentela che si aggregano fisicamente in spazi urbani limitrofi(48).
Le numerose proprietà del medico, costituite dai beni stabili, erano frammentate in vari appezzamenti di terra dislocati in diversi punti del territorio, di cui uno impiantato a gelsi ed ulivi ed a colture differenziate nella contrada Catanzaro stimato per 250 onze assieme alla casa di nutricato, ossia le strutture edilizie agricole destinate all'allevamento del baco da seta; ricordiamo che il territorio nasitano era specializzato nella coltivazione a gelsi e prevaleva nella produzione della seta grezza. Sarebbe interessante capire il meccanismo di acquisizione delle proprietà: se esse provenivano da lasciti patrimoniali, da doti matrimoniali, oppure dai rapporti di clientela tra venditore ed acquirente, tramite le attività professionali svolte dai vari componenti del gruppo familiare, queste ultime invero difficilmente accertabili.
L'avvocato Giovan Francesco Cuffari aveva quattro figli, due maschi e due femmine, tutti nati tra il 1591 ed il 1606: Petronilla primogenita, Pietro nato del 1595 e coetaneo di Giovan Giacomo Cuffari, Giuseppe di 14 anni nato nel 1600 ed ultima Beatrice di 8 anni; la moglie era la figlia della vedova Paola Vitale che coabitava a quell'epoca nella casa del genero. Tra i beni stabili del dichiarante figura una casa solerata con un magazzino, ubicata nel quartiere di San Giovanni adiacente alla casa di Assenzio Lanza e prospiciente la strada pubblica; le proprietà immobiliari dell'avvocato, comprese quelle agricole, formavano un patrimonio di 1060 onze su 1679 complessive, e certamente ci troviamo in presenza di uno dei cespiti più cospicui di quel periodo. Nel rivelo dei beni rusticani figura il possesso di un luogo a gelsi ed ulivi con due case di nutricato nella contrada Rumbiali, vicino alle terre di Antonino Aliberto, Giovanni Artale Vitale, Pietro Antonio Corasì, Cono Consagra e alla strada pubblica, stimato 300 onze. Nell'elenco dei beni mobili, valutati circa 641 onze, furono dichiarati 30 cantàra di olio, circa 24 quintali rimasti dall'anno precedente, per il valore di 100 onze.
Il reddito del dottor Giovanni Cuffari nel 1614 ammontava ad onze 535.25, di cui 271 costituivano parte del valore delle proprietà situate nelle contrade Catanzaro, Sant'Anna, Bollato, Salicò e Samperi, le stesse terre che figuravano nel 1595.
Nel rivelo del 1651 la vedova di Giovan Giacomo Cuffari, Flavia Pettinato, residente nel quartiere di San Giovanni, vicino alla casa di Giuseppe Cuffari, con il figlio Ignazio, ventenne, ed Agnese, dichiara un reddito di onze 247.11; altre proprietà a S. Martino e nella contrada Umbrìa furono valutate 247onze(49).
Il dottor Pietro Cuffari, secondogenito di Giovan Francesco UJD, di 42 anni nel 1637, aveva 5 figli maschi: Giuseppe che diverrà arciprete nel 1652, Francesco nato nel 1626, Giovanni (a. 7), Carlo (a. 5) ed Ottavio (a. 2) e una figlia, Anna; a quella data non figura la moglie, dal che si deduce che il capo di casa era rimasto vedovo con una prole minorenne; occupò la carica di pro conservatore nel 1636(50). Il suo reddito ammontava ad 831 onze ed abitava in una casa solerata a quell'epoca valutata onze 142.27, posta nella contrada di San Pietro dei Latini, confinante con le case di Antonino Piccolo, Assenzio Lanza e Pietro La Dolcetta.
L'illustre medico Giovan Giacomo Cuffari, che aveva l'età di 42 anni nel 1637, probabilmente era rimasto vedovo a causa del terremoto del 1613 in cui perirono 53 persone travolte dal crollo della chiesa di San Pietro; le cronache dell'epoca annoverano tra le vittime la prima moglie del dottor Cuffari, di cui non conosciamo il nome, e quella del notaio Pietro Calabrò. I figli procreati dalla seconda moglie Flavia Pettinato, vedova di Cono Calcerano, furono Giuseppe (a. 13), Placido (a. 10), Antonino (a. 7), Ignazio (a. 5) ed, infine Arcangela, omonima della nonna paterna, che entrerà nel monastero di Santa Caterina con il nome di suor Beatrice Borromea, ancora in vita nel 1677, ed Agnese, tutti nati a partire dal 1623. L'ammontare del patrimonio del dottore consisteva in 466 onze, compresa la proprietà dell'abitazione posta nel quartiere di San Pietro, attualmente ubicata nella strada che gli venne intestata; nel 1645 egli aveva preso in affitto i trappeti d'olio di Naso.
Il dottor Giuseppe Cuffari, trentenne nel 1651, figlio del quondam Giovan Giacomo, da cui si evince che il padre a quell'epoca era già scomparso, aveva avuto dalla moglie Caterina Martines un figlio di nome Antonino, che fu avviato agli studi ecclesiastici, ed altri due: Pietro (a. 8) ed Andrea (a. 4), oltre alle femmine Agnese, omonima della zia, ed Innocenza(51).
Del ramo familiare proveniente dal medico Giovan Giacomo Cuffari siamo in grado ora di ricostruire la linea diretta delle successioni maschili fino ai nostri giorni, attraverso gli imparentamenti del figlio Ignazio († 1714), nato nel 1632, il quale sarà l'alfiere della professione paterna, legatosi in matrimonio con Anna Maria Nardo († 1679). Uno dei figli di quest'ultimo, Placido († 1733), verrà eletto parroco nella chiesa di San Pietro nel 1710, mentre Giuseppe eserciterà la professione di medico, portata avanti dai discendenti della famiglia fino ai nostri giorni dal dottor Alfredo Cuffari (n. 1958). Il dottor Giuseppe Cuffari fece il suo testamento presso il notaio Pietro Franchina il 27 dicembre 1722 e in esso designò eredi universali la moglie Argentina Marchiolo ed i figli Ignazio, Gaetano ed Antonia; l'inventario dei beni venne redatto il 16 ottobre 1741 presso il notaio Vincenzo Lo Re (1721-78).
7. I beni stabili della famiglia Cuffari
Il 27 aprile 1580 agli atti del notaio Giuseppe Astone venne stipulato l'atto di vendita di una proprietà nella contrada San Martino da parte del sacerdote Belmonte, procuratore di suor Cherubina Balsamo, abbatessa del monastero di Santa Barbara a San Fratello, a favore di Colella Corasì e Domenico Forgiaro di Naso per la cifra di 40 onze, con il consenso dell'arcivescovo di Messina, poiché si trattava di alienazione di beni ecclesiastici(52). Il Corasì (1545) abitava nel quartiere delle Mura, vicino a Giuseppe Corasì e Giuseppe Marcazzò, mentre Forgiaro risiedeva nel 1585 nel quartiere del Ss. Salvatore a Naso vicino a Vito Forgiaro e Giovanni Manera.
La ratifica del precedente contratto venne fatta il 7 luglio 1580 in notar Simone Picciuca di Mirto; sono descritti i confini: terras scapulas que erant quondam mag.ci Vincentii Caronisi in territorio Nasi et in contrata Sancti Martini et della Cala confinantes cum terris existentis d.ni Thome de Amato et cum terris existentis d.ni Jo.Jacobi Lanza: questa proprietà venne donata al monastero dalla figlia di Caronisi, Ramondetta Piccolo. Non sappiamo con certezza quando questo possedimento passò in casa Cuffari; forse vi fu traslato dall'eredità dei beni del notaio Pettinato; infatti, tra gli immobili dichiarati da Cono Galluzzo nel 1614 troviamo una terra aratoria di tre tumoli, pagata per tre onze, posta al confine delle proprietà di Pettinato, ed un'altra di cinque tumoli coltivata a frumento, vicino alle terre del barone di San Gregorio e alla via regia.
Il 25 dicembre 1584 venne stipulato da parte del segreto di Naso, Antonio Bergo, un atto di gabella a metà tra Antonino Corasì e Giovannello Di Leo del fondaco di San Gregorio costituito da turrim et magasenum, per sei onze l'anno(53). Ricordiamo che la contrada San Martino si estendeva a monte del territorio una volta di Naso ed ora di Capo d'Orlando sino ad arrivare al borgo marinaro di San Gregorio, di cui abbiamo una testimonianza nella relazione descrittiva del 1583, relativa al dispositivo di difesa marittima indicato dal Camilliani, a partire dal territorio di Brolo fino ad arrivare alla torre di Capo d'Orlando.
In un atto testimoniale del 2 aprile 1598 depositato da Giovanni Martino nella lite insorta tra il conte di Naso e Francesco Lo Cicero, il quale si fregiava del titolo di barone di S. Gregorio, forse imparentato con l'omonimo notaio Giovan Matteo, viene dichiarato: Si fanno anni vintidui (1576) in circa secondo lo suo recordo che Antonino Colliva fici fabricari certi stantii et turri nello suo loco esistenti in lo territorio di Sancto Martino de Marmore et San Gregorio territorio di questa terra di Naso al presente possesso per il dottor Francesco Lo Cicero et che ditto de Colliva in ditti stancii ci inchiudia vino dila sua vigna, con la facoltà di tenervi un fondaco. Antonino Collovà ed il Ventimiglia avevano stipulato precedentemente un accordo per la concessione in gabella del fondaco di S. Gregorio, secondo un contratto depositato presso il notaio Pettinato.
Il dottor Lo Cicero aveva acquistato da Collovà il luogo di San Gregorio il 18 febbraio 1597 con un atto di compravendita registrato presso il notaio palermitano Giovanni Aloisio Gandolfo e trascritto dal notaio nasitano Giovan Francesco Corona, assieme alla concessione, cum jure fundacandi et turri magna de supra mare et scaro nuncupato di sancto Gregorio in contrata di Marmora et sancto Martino secus terras d.no Joannis Jacobi Lanza UJD et heredum quondam Thome de Amato confinantem cum littore marino ex una et terris Nicolai… terris Joseph Gali parte ex altera via regali et aliis confinibus; quindi, dalle indicazioni dei proprietari confinanti si deduce che si tratta dello stesso luogo che fu donato da Vincenzo Caronisi e poi acquistato da Domenico Forgiaro.
Il 27 luglio 1597 Lo Cicero ingabella a Salvatore, Domenico ed Antonino Rappa, padre e figli di Lipari, il fondaco con la torre nella contrada di San Gregorio. Nel rivelo del 1623 troviamo il possesso del luogo di San Gregorio, consistente in un tenimento di terre, vigne ed altri alberi con torre e case dentro nominato la baronia di San Gregorio, confinante con le terre degli eredi del Dr. Antonino Riscasi e con gli eredi di Cono Galluzzo(54). Il sito, ubicato nelle vicinanze di San Gregorio, ci riporta alla mente la torre denominata dei Quadaranini, circondata da magazzini, case di nutricato e con l'annessa chiesetta, posti su un poggio dominante la sottostante contrada detta di Vagnoli. Sulla torre di Bagnoli, come più propriamente viene indicata in alcuni documenti del XVIII secolo, abbiamo una dettagliata relazione nei beni pervenuti in possesso della famiglia Sandoval, trasmessi agli eredi di Giuseppa Sandoval Ioppolo Ventimiglia, principessa di Castroreale, mediante il testamento registrato il 19 agosto 1788 presso il notaio palermitano Antonino Maria Magliocco.
Il 30 dicembre 1799 viene stipulato presso lo stesso notaio l'atto di enfiteusi tra il Dr. Giuseppe Germanà di Sinagra e le religiose Giovanna Rosalia, Giuseppa Antonia ed Isabella Emanuele Sandoval, moniali nel monastero di Santa Caterina al Cassaro di Palermo, eredi del fratello Cono Giuseppe, per una cifra di 100 onze annuali(55). Gli immobili rurali e quelli urbani, consistenti in una casa grande posta nella contrada del Ss. Salvatore a Naso vicino ad una casa-torre, ammontavano ad onze 631.6. Le case di Bagnoli, formate dalla torre, dalla chiesetta, dalla loggia di manganello e dalle case per il verme, furono stimate onze 544.9, secondo una dettagliata relazione presentata da mastro Filippo Vasile Spaticchia, capomastro municipale, il quale as-sieme a Francesco Giuffrè, aveva l'incarico di sovrintendere alla manutenzione delle strade e delle fontane del territorio di Naso con un salario complessivo di 12 onze annue nel 1802/03.
Il 2 settembre 1786 agli atti del notaio Cono Pizzino viene stipulata una compravendita tra Pasquale Cuffari Lanza e Vincenzo Santaromita per un tumulo di terra sciarosa, posta nella contrada di San Gregorio vicino alla grotta del Bue marino o di Bruca ed al luogo del monastero di Santa Caterina, appartenente agli eredi di Giacomo Lanza, al confine con la spiaggia, per un'onza.
Nell' atto di donazione del 1867 da parte di Ignazio Cuffari Milio ed Anna Cuffari Gamberi a favore del figlio Placido, troviamo l'indicazione relativa al possesso di alcune proprietà costituite da un fondo nella contrada di San Martino coltivato ad ulivi, fichi, gelsi ed altre colture arboree, confinante con Antonino Santaromita, probabilmente figlio di Vincenzo, con l'antica via regia, con il fondo di Vincenzo Di Raimondo, quelli di Cono Raneri e di Basilio Reale e con la riva del mare(56). Il 26 giugno 1825 Placido Cuffari Lanza dichiara che nel fondo a San Martino, contiguo alla sua casina, vi era una antica chiesetta di jus patronatus, dedicata alla Madonna del Rosario.
Oltre alla proprietà a Sant'Anna coltivata ad uliveto, confinante con la strada che conduceva a Munidari e con il luogo degli eredi di Vincenzo Petrelli e di Rosario Lo Presti, viene assegnata una casa posta nella strada a quell'epoca intestata a Giovan Giacomo Cuffari, delimitata dalla casa di Andrea Cuffari adiacente a quella di Domenico Cuffari ed Ignazio Milio, in vico D'Ondes Reggio; di contro, Placido Cuffari rinunziava al padre la terza parte spettantegli dal fondo a Santa Lucia del valore di Lit. 600, che gli proveniva dall'eredità di D. Giacomo Cuffari Lanza. Una parte di questo fondo, consistente in un vigneto, venne espropriata il 13 dicembre 1890 per la costruzione del tronco ferroviario Brolo-Zappulla. La proprietà a Santa Lucia coltivata a vigneto ed agrumeto venne venduta il 19 marzo 1891 a Gaetano Letizia fu Cono per il prezzo di Lit. 3500, secondo un contratto stipulato dal notaio nasitano Gioacchino Buttà (1881), con il diritto di ricomprarla allo stesso prezzo entro 5 anni. Il valore complessivo degli immobili urbani e delle proprietà agricole ammontava a 450 onze, pari a Lit. 5737.50.
E' interessante riportare il valore dell'immobile agricolo a San Martino e quello della proprietà urbana, che furono stimati rispettivamente il 13 settembre 1887 dall'agronomo nasitano Carmelo Bontempo (a. 64) fu Cono per Lit. 11825, mentre la casa fu valutata Lit. 12088.97 dall'ingegnere Raffaele Giordano di Salvatore, residente a Caprileone, secondo una perizia datata 19 dicembre 1889.
I beni patrimoniali donati da Ignazio Cuffari al figlio Placido pervennero per un contratto matrimoniale stipulato il 16 giugno 1844 da Salvatore Cuffari, padre di Anna Cuffari Gamberi, registrato agli atti del notaio Francesco Paolo Incudine, in cui allo sposo viene assegnato il luogo a San Martino stimato 400 onze, pari a 1200 ducati, compresa la proprietà di un casino in quel fondo rustico oltre ad un contante di 2400 ducati (800 onze), pari ad una somma di denaro dotata alla moglie. Il patrimonio immobiliare di Anna Cuffari consisteva in beni valutati 600 ducati, ed era formato da un fondo rustico impiantato a gelsi, a vigneto, ad alberi di fichi e di ciliegi, con case rurali, posto nella contrada Munidari, limitrofo alle proprietà di Ignazio Petrelli Craxì, di Gaetano Bontempo ed altri confini.
Salvatore Cuffari assegna in dote un trappeto d'olio nella contrada delle Mole, assieme ad un castagneto a Santa Domenica, confinante con il fondo agricolo del dottor Francesco Paolo Milio e con quello del cavalier Ignazio Denti, dotario della moglie Anna Trassari; il fratello della sposa Andrea aveva sposato il 26 novembre 1842 Antonia Trassari. Infine, viene donato un fondo agricolo di 800 ducati nella contrada Umbrìa confinante con quelli degli eredi di Placido Cuffari († 1835), degli eredi di Filippo Cangemi e di Giuseppe Lanza.
Nel rivelo del 27 novembre 1651 presentato dalla vedova di Giovan Gia-como Cuffari, Flavia Pettinato, troviamo il luogo a San Martino, adiacente alle proprietà del dottor Giuseppe Cuffari, valutato 42 onze; di un altro luogo nella contrada Rùpila o Catanzaro, acquisito originariamente dalla famiglia Cuffari, si ha notizia in alcuni contratti che indicano con certezza la provenienza di queste proprietà acquisite nel tempo(57).
Il presbitero Giuseppe Aglì, tramite D. Girolamo Lanza STD, procuratore della Chiesa Madre, aveva venduto un fondo impiantato ad oliveto nella contrada Rùpila ad Antonino Cuffari AMD il 4 aprile 1609. Il 3 agosto 1636, in notar Cono Pigadaci (1629-51), Fiorella vedova di Vincenzo Pagano, assieme ai figli Giuseppe e Caterina, stipula l'atto di vendita per 25 onze a favore di Giuseppe Cuffari UJD, figlio dell'AMD Antonino, di una proprietà sita nella contrada Munidari adiacente a quelle dell'acquirente e di mastro Cono Letizia con il patto di ricomprarla; la contrada Munidari è posta a levante rispetto a quella di Sant'Antonio, sulla direttrice stradale Naso-Castellumberto. Un altro possedimento appartenente alla famiglia Cuffari si trovava nella contrada Vina, il cui uso proveniva da un contratto di enfiteusi accordato con un compenso di 12 tarì all'anno tra Pietro Spagnolo e Cono Controxeri, figlio di Domenico, sul luogo sito nella contrada Gazzì, impiantato a castagneto, confinante con il concedente e coi fondi di Pasquale Galipò e Pietro Pipi. Il notaio nasitano Luca Giordano in data 15 gennaio 1594 alla presenza di Giuseppe Letizia e Giuseppe Guaiello redige l'atto di vendita per 60 onze a favore del notaio Pettinato del luogo di Vina, confinante con Cono Cianciolo, Francesco Causagrano e con gli eredi di Giacomo Crasà alias Mustazzola († 1580).
Di un altro luogo appartenente alla famiglia Cuffari abbiamo notizia della vendita effettuata il 21 settembre 1597 da parte di Ottavio Astone al dottore in medicina Antonino Cuffari, sito nella contrada Piana o Serro di Samperi vicino le terre di Giovanni Cuffari AMD, di Pietro Aliberto e degli eredi di Giacomo Bergo(58).
Sulla proprietà in contrada Catanzaro venne effettuata la stima in data 24 luglio 1688; di essa abbiamo la valutazione: per il bosco 35 onze, per gli alberi ed il frutto dei castagni 21 onze, per 120 sacchi di fronda ricavabili dagli alberi di gelso si ha un valore di 80 onze, per 24 salme di olive 85 onze, oltre alla stima delle terre incolte 15 onze e del castagneto vicino il luogo di Mario Gamberi 12 onze; le case rurali attrezzate per la nutrizione del baco da seta furono stimate 24 onze. L'importo totale di questo patrimonio fondiario fu valutato 300 onze compreso il valore delle terre poste in contrada delle Mole (12 onze) ed a Sant'Anna (16 onze).
Nel luogo sito in contrada Umbrìa o Cammà era impiantato un gelseto; esso era attrezzato con una casa rurale difesa da una torre, fornita di cisterna d'acqua e di una pennata, delimitata dalla proprietà di Cono Giuseppe Bongiorno AMD e dall'uliveto di Ignazio Cuffari AMD; un gelseto con abitazione e fondaco si trovava nel Piano di Bazia, vicino a proprietà di Giuseppe Di Marco, alla casa di Cono Pintaloro ed al vallone detto di Giallongo.
La già consolidata presenza dei Cuffari a Naso, sin dalla seconda metà del XVI secolo, viene attestata dall'atto di concessione ad Antonino Cuffari, da parte del parroco della chiesa di San Pietro dei Latini, di un altare dedicato originariamente a Santa Lucia, allo scopo di fondare una cappella di jus patronatus intitolata al Ss. Crocifisso, secondo un contratto stipulato dal notaio Giovanni Bartolomeo Germanò il 18 agosto 1569.
Il 9 aprile 1677 il sacerdote Cono Cuffari concede ai fratelli Ignazio, Francesco ed Ottavio, tramite il procuratore della parrocchia di San Pietro D. Cono Zafarana, di collocare nella loro cappella una immagine dipinta del Ss. Crocifisso e di celebrar messe; forse trattasi della stessa tela esistente nella chiesa di San Cono.
Nel 1672 il parroco di San Pietro D. Giuseppe Cuffari, arciprete in carica sin dal 1662 continuativamente per 14 anni, fu nominato esecutore testamentario dell'eredità di Cono Martino UJD, iscritto all'università di Messina intorno al 1634, divenuto procuratore del tribunale di Palermo, così come risulta nell'ultimo dispositivo conservato presso il notaio palermitano Giuseppe Furno l'11 febbraio 1670, aperto e pubblicato l'11 maggio 1672. Il testatore dispose che alla sua morte venisse inumato nella cappella dell'Immacolata nella chiesa palermitana di San Pietro la Bagnara vicino al Castellammare, distrutta nel 1784, in cui era un dipinto raffigurante San Cono e San Nicola. Ricordiamo, qui, l'esistenza di una tavola dipinta da Vincenzo da Pavia intorno al 1536, raffigurante San Cono circondato da alcune scene della sua vita, che si trovava collocata nella chiesa di Santa Maria di Portosalvo a Palermo.
Il dottor Martino nominò erede universale la sorella Maria, moglie del notaio Pietro Argidione di Tortorici, assieme alla nipote Margherita, suora nel monastero di Santa Caterina di Naso sin dal 1664, al tempo dell'abbadessa Antonina Lanza; lasciò un capitale di 200 onze all'altra nipote Margherita, figlia del dottor Carlo Mirabella, per sopperire alla dote di monacazione richiesta per entrare nel convento di Santa Margherita a Palermo. Martino dettò le seguenti disposizioni: Voglio che la mia casa existente in detta terra di Naso nella piazza nominata di Filippo cioè la parte superiore di essa dopo la morte di detta mia erede si venda o si dia a censo restando sempre le poteghe e furno alla parte inferiore di detta casa senza potersi vendere né alienare.
Non sappiamo quali rapporti di parentela intercorressero tra l'avvocato Cono Martino e quel Giuseppe Martino, forse sacerdote, che nel testamento del 17 maggio 1609 dispone la sua sepoltura nella chiesa palermitana di Santa Maria della Neve nella contrada del Ponticello, in loco ut dicitur sotto li cordi delli campani della ditta ecclesia nudo senza vestimenti eccepto un sacco di confratria grosso, con una cintura del Rosario et cordone di San Francesco con un pezzo di zimbili sotto ex quo sic voluit et mandavit(59). Nominò erede universale la sorella Francesca Pietrasanta, destinando un lascito alla chiesa di San Pietro pro fabrica ipsius ecclesie ed al convento di Santa Maria di Gesù a Naso; infine, lasciò due quadri depositati nella chiesa del Ponticello, raffiguranti un San Michele ed un Ecce Homo, che dovevano essere traslati nella cappella della chiesa di San Pietro.
Il 20 gennaio 1776 Domenico Cuffari STD dispose nel suo testamento, depositato presso il notaio nasitano Nicola Francesco Lo Re (1746-93), di essere tumulato nella cappella del Carmelo; egli era nato nel 1695 da Giacomo e Maria Cuffari, era fratello di Giovan Giacomo UJD, sposato con Francesca Faraci, e di Andrea (n. 1703), marito di Antonia La Dolcetta.
L'arciprete nel suo lascito testamentario nomina erede la nipote Benedetta, figlia di Giovan Giacomo, ed il nipote Placido sacerdote, figlio di Andrea Cuffari. Il testatore donò alla Chiesa Madre di Naso una pisside d'argento e 100 onze da ripartire tra i rispettivi nipoti Francesco e Giuseppe.
Nel 1790 il dottor Francesco Maria Cuffari, figlio di Giovan Giacomo UJD e di Francesca Faraci, redige il suo rivelo, in cui dichiara la consistenza patrimoniale degli immobili costituiti da una casa grande adiacente alle chiese di Santa Maria degli Angeli e di San Nicola lo Vecchierello, che era di sua proprietà. La terza parte indivisa delle proprietà apparteneva agli eredi del dottor Carlo Greco e consisteva in 13 camere ed 8 magazzini, di cui il rilevante poteva utilizzare soltanto 3 stanze e 3 magazzini a causa dei danni provocati dai terremoti del 1783 e del 1786. Nel testamento, stipulato il 29 settembre 1801 in notar Calcedonio Papa di Naso, vengono poi date disposizioni relative alla sepoltura nella chiesa di San Pietro, davanti all'altare del Ss. Crocifisso (1677), il cui parroco a quell'epoca era Antonino Francesco Xilone, visitatore del convento di Santa Caterina, di cui la sorella Benedetta era l'abbadessa. Gli eredi furono la moglie Antonina Cuffari Lanza (n. 1771) ed i figli Maria Teresa, monaca con il nome di suor Francesca († 1876), Rosaria moglie di Nicola Trassari, Giacomo tesoriere della confraternita del Ss. Rosario nel 1819/20 e marito di Petronilla Drago, Gaetano sacerdote († 1882), Benedetta moglie di Emanuele Drago ed, infine, Andrea. Il 18 marzo 1813 agli atti del notaio Papa (1799/1824), residente nella contrada dei Cappuccini, venne registrata la donazione dei beni patrimoniali da parte di suor Francesca ai fratelli: il dottor Giacomo e don Gaetano.
In occasione del terremoto del 5 marzo 1823, l'abbadessa di Santa Caterina, Agnese Milio Gamberi, elesse detentore dei libri del monastero Pasquale Cuffari (n. 1764), figlio di Gaetano Cuffari Marchiolo (1724† 1790), marito di Tommasa Milio, forse parente della suora. Pasquale Cuffari fu un personaggio che percorse tutte le cariche civiche, eletto giurato nell'anno 1790/91, capitano di giustizia nel 1810/11, e infine elevato alla carica di sindaco nel 1835.
Un Gamberi aveva sposato Argentina Cuffari, mentre l'altra sorella Antonia (1771) aveva preso in marito Francesco Cuffari Faraci.
8. L'istituzione del Peculio frumentario, l'Ospedale di San Giovanni di Dio e l'eredità D'Oppo
Le famiglie nasitane Cuffari e Mercurio si resero artefici di importanti istituzioni civiche nel XVII secolo; la prima diede vita alla fondazione di un Monte frumentario detto Peculio, mentre gli eredi del dottor Mercurio furono i promotori della creazione di un nuovo ospedale, che venne fondato nel 1682 sotto il titolo di San Giovanni di Dio detto dei Fatebenefratelli
Il 9 luglio 1645 furono redatti i capitoli relativi alla formazione del Peculio frumentario, depositati agli atti del notaio nasitano Cono Pigadaci (1629-51), per volontà dei sacerdoti D. Giovanni Francesco Cuffari († 1646) e D. Gaspare Graziano, i quali destinarono 150 onze a favore dell'università, rappresentata dai giurati Ludovico Aglì, Placido Riaca e dal notaio Ottavio Spadaro(60). Furono designati sei deputati, fra cui il fratello del fondatore, il dottor Giuseppe Cuffari († 1674), figlio del quondam Antonino, l'arciprete Giuseppe Cuffari († 1682), figlio del quondam Pietro, l'altro suo fratello dottore in medicina Giovan Giacomo Cuffari, il sacerdote D. Giovan Giacomo Mercurio, assieme a D. Pietro Comito e al dottor Giovanni Antonino Albergo(61).
Nei capitoli venne disposto che i deputati fossero eletti dall'arciprete e dai giurati civici il 1° di luglio di ogni anno nella persona di due negoziatori o rabacoti, cioè custodi ed amministratori, i quali potevano acquistare grano in qualunque luogo o tramite dei compratori, che ricevevano un compenso di 5 onze comprese le spese del paliato, l'affitto di un magazzino per il deposito del grano, oltre al salario del misuratore.
Sulla gestione ed amministrazione del Peculio frumentario a Naso si trova soltanto un volume del XVIII secolo, oggi custodito nell'Archivio di Stato di Palermo, relativo al 1738/43, in cui risultano in carica nel 1741 l'arciprete Antonino Piccolo († 1747), tesoriere, e Carmelo Fogliano (1716), figlio di Antonino, negoziatore, oltre ai deputati Ignazio Gamberi, Ignazio Petrelli e Francesco Cuffari, il quale aveva ricoperto la carica di regio collettore negli anni 1734-35(62).
Alcuni componenti della famiglia Cuffari ricoprirono la carica di proconservatore di Naso, a cominciare dal dottor Pietro, nominato con patente regia a Palermo il 26 gennaio 1636. Il dottor Francesco subentrò il 9 dicembre 1655 a Francesco Pronobis eletto nel '45, un omonimo Cuffari occupò la stessa carica il 23 luglio 1680, sostituito dal dottor Giovan Vito Piccolo il 3 dicembre 1687, Giacomo Cuffari fu incaricato nel 1772.
Nella Relazione delle persone facoltose che possiedono la somma di limpio di onze 800 sopra delle città e terre soggette alla milizia ordinaria, del 1° febbraio 1717, troviamo i nomi di alcuni cittadini nasitani con redditi superiori alle 800 onze: al primo posto in elenco Giacomo Cuffari, con 1628 onze, segue Cono Ioppolo con 1433 onze, Blasi Lanza con 1334 onze, Benedetto Di Leonardo con 854 onze ed Antonino Martines con 808 onze; ricordiamo che la popolazione di Naso nel 1714 era di 2174 anime e quasi raddoppiò a 4325 abitanti nel 1792(63).
In un documento risalente al 1712 troviamo in carica Francesco Marino (1703-44), notaio del Peculio, e giurati il sacerdote D. Placido Cuffari († 1733), luogotenente dell'arciprete Cono Aglì, il dottor Ignazio Piccolo, che verrà eletto arciprete nel 1715 e D. Giovan Giacomo Lanza giurato seniore, assieme a D. Cono Augello, D. Giacomo Cuffari e D. Giuseppe La Dolcetta, i quali dovevano decidere sulla proposta avanzata dal Marino circa la riduzione biennale del suo salario, nonostante l'offerta gratuita del notaio Pietro Franchina (1690-1727), che non venne accolta, allo scopo di favorire l'università per la nova fabrica della casa et magaseni [che] si stanno fabbricando, che era nella strada del Castello, confinante con i magazzini d'olio, mentre la parte superiore fu utilizzata come teatro pubblico nel 1828, luogo in cui verrà costruito il nuovo edificio nel 1873 su progetto dell'ingegnere catanese Lorenzo Maddem.
Il 27 dicembre 1647 fu redatto dal notaio Cono Sansiveri (1631-77) il testamento di Ludovico Mercurio UJD, in cui dispone la sua sepoltura nella cappella di San Francesco a S. Maria di Gesù, istituendo una donazione di 400 onze per la fondazione del nuovo Monte di Pietà, i cui Capitoli furono redatti dal fratello Giovan Giacomo UJD, dal dottor Giovanni Astone e da Giuseppe Piccolo(64). Alla morte degli eredi il testatore dispose che i loro beni dovessero essere devoluti all'ospedale del Monte di Pietà, assieme a quelli della sorella Ninfa, vedova dell'avvocato Rocco Arcabaxio di Ficarra, da cui aveva avuto una figlia di nome Marzulla. Inoltre, fece donazione a Lorenzo Faraci di un quadro raffigurante San Giovanni Battista, alto due palmi, che era stato dato in custodia ad Antonino Di Leo residente a Palermo, in attesa che venisse traslato a Naso; potrebbe essere una copia di quello esistente nella chiesa omonima.
Nel 1661 il Di Leo, secreto di Naso, concesse la gabella della carne a Giovan Matteo Galbato, quella della seta e dell'olio a Giovanni Aliberto, la gabella dei mulini a Giuseppe Collica e dei trappeti d'olio a Girolamo Lanza.
Il 23 marzo 1654 presso il notaio Decio Caputo (1628-63) venne eseguito l'inventario dei beni del sacerdote Giovan Giacomo Mercurio UJD, fratello di Ludovico; il testamento, redatto dal notaio Antonino Martino, fu aperto il 18 marzo di quell'anno alla presenza dei rappresentanti dell'ospedale, i consiglieri Girolamo Lanza UJD e Giovanni Martino. Tra le proprietà inventariate si trovava quella nella contrada di San Giorgio, con case di nutricato, pennata, giardino e fontana, confinante con proprietà del notaio Cono Sansiveri, di Francesco Galluzzo, di Francesco Sangari e col luogo di Cono Amatore. Sull'esistenza di beni patrimoniali urbani rileviamo un tenimento di case nel quartiere della Porta Marchesana, adiacente alle case del quondam Pietro Lanzarola e di Giacomo Giallanza, oltre ad una casa solerata delimitata dalla strada pubblica ed adiacente a quella degli eredi del medico Antonino Cuffari.
Ricordiamo che il dottor Antonino Mercurio ed Antonino Cuffari fecero parte della deputazione di sanità durante l'epidemia di peste del 1624, in cui venne istituito uno stretto cordone sanitario intorno ai quartieri urbani, assegnando al dottor Girolamo Piccolo quello della Madre Chiesa, al dottor Giovan Giacomo Cuffari quello di San Giovanni, il presidio del Ss. Salvatore fu affidato al dottor Carlo Germanà ed il quartiere di San Cono venne destinato al dottor Giuseppe Galbato. Furono nominati i chirurghi, Pietro Ricca e Francesco Martino, dal comitato sanitario presieduto dai deputati Francesco Quovadis, Mario Piccolo, Giovan Francesco Corona, Blasco Galbato, Pietro Riaca, Giovanni Antonio Albergo e Giovanni Martino.
Il 22 febbraio 1681 venne redatto l'atto di fondazione dell'ospedale San Giovanni di Dio a Naso, i cui capitoli furono stilati dal notaio Giovanni Drago in data 7 aprile. Nei Capitoli, di cui abbiamo rinvenuto una copia manoscritta del 1781, viene stabilito che la gestione della nuova istituzione fosse affidata a cinque padri della compagnia ospedaliera dei Fatebenefratelli, con l'obbligo di custodire la chiesa e di provvedere a tutte le incombenze relative alla cura ed all'assistenza degli infermi, affiancandovi anche una sezione per le donne(65). La struttura sanitaria doveva avere l'aromataria, cioè la farmacia; inoltre, fu stabilito che i medici e i chirurghi venissero nominati dai responsabili dell'ospedale e che i locali fossero avulsi dal contesto del Monte di Pietà. Nel 1693 i governatori del Monte di Pietà di Naso, Diego Martines barone di San Giorgio a Morabito, il sacerdote D. Antonino Piccolo e Placido Cuffari, affidarono l'incarico di chirurgo dell'ospedale a Giuseppe Canciglia di San Salvatore di Fitalia con un salario annuo di 8 onze; nel 1721 un Antonino Martines occuperà la carica di capitano di giustizia di Naso.
Di un'altra benemerita istituzione si rese artefice il reverendo Domenico D'Oppo, relativa alla gestione di un fondo patrimoniale che doveva servire per la formazione della dote da assegnare ad una giovane appartenente al ramo parentale femminile sino al quinto grado di affinità o ad una fanciulla povera, destinando un contributo di 200 onze che dovevano essere prelevate dalle sue rendite. Il testamento del sacerdote venne stipulato dal notaio Cono Giordano il 18 settembre 1663, aperto e pubblicato il giorno 25 dagli esecutori testamentari, che furono l'avvocato Giuseppe Cuffari (n.1621) e Scipione Nardo, nominati fidecommissari del patrimonio del sacerdote D'Oppo.
Il 4 novembre 1666 furono soggiogate, con atto registrato presso lo stesso notaio Giordano, 4 onze annue da parte dei fidecommissari al dottore in medicina Ignazio Cuffari Pettinato, figlio del dottor Giovan Giacomo. I beni immobili ipotecati, soggetti a questo censo, furono la casa solerata sita nel quartiere di San Giovanni, il luogo a San Martino limitrofo a quello di Scipione Nardo, proprietario nel 1661 della torre e fondaco di San Gregorio, oltre a quelli in contrada Umbrìa, a Rùpila ed al luogo con fondaco e botteghe nel piano di Bazia.
Le famiglie Cuffari e Nardo si imparentarono tramite il matrimonio di Ignazio, nato nel 1632, con Anna Maria Nardo († 1679), da cui nacquero Arcangela, D. Placido futuro parroco di San Pietro (1707) ed il medico Giuseppe († 1741), nipote dell'omonimo avvocato che gestiva i beni dell'eredità D'Oppo.
Note
(1) Le carte dell'archivio privato della famiglia Cuffari (AFC) di Naso in provincia di Messina, da cui nel 1927 si è staccato il comune di Capo d'Orlando, sono state consultate personalmente nell'abitazione del geom. Santino Cuffari nell'anno 2001. Alcuni di questi documenti inediti sono stati utilizzati dalla Dott. S. Gugliotta per la tesi di laurea in Giurisprudenza (Università di Messina, anno accademico 1998/99, relatore L. Sorrenti) dal titolo: Diritto e società nella Sicilia Borbonica. La gestione dei patrimoni familiari in un comune dei Nebrodi, tesi che ho consultato in copia dattiloscritta.
(2) R. Bizzocchi, In famiglia. Storia di interessi e affetti nell'Italia moderna, Bari 2001.
(3) I nomi dei più antichi notai di Naso riportati dall'Incudine sono Antonino Germanò (1503/1553), Giuseppe Germanò (1504/1559), mancano indizi relativi ai notai del XV secolo di cui ho rinvenuto il nome di Nicola Marino che rogò l'atto di gabella del trappeto di zucchero di Pietra di Roma il 24 gennaio 1495 tra il conte di S. Marco e Giovanni Bonfiglio.
(4) B. e G. Lagumina, Codice diplomatico dei Giudei di Sicilia, Palermo 1884, voll. 3, doc. MXXII.
(5) ASPa. Cancelleria 161, a. 1486/87, f. 362; 3 febbraio,V, 1487.
(6) Tra i residenti del quartiere della Kalsa del 1480 troviamo i componenti del gruppo familiare di Anfuso (Affusio) Bellacera, costituito dalla moglie, dalle due figlie femmine di età a partire da 14 anni e da tre figli maschi di età minore a sette anni, forse il frutto di un secondo matrimonio (cfr.A. Di Pasquale, La popolazione del quartiere della Kalsa nel 1480, Palermo 1975, pag.74). La permanenza di Bellacera a Palermo in quel periodo ci viene confermata da un contratto di enfiteusi di quattro case terrane, poste nella contrada della Gancia, concesse il 5 giugno 1480 da Benedetto Pompeo UJD. Nel testamento di Anfuso redatto a Palermo il 29 agosto 1496 troviamo i nomi degli eredi maschi, Francesco, Simone e Artale.
(7) ASPa. Protonotaro 125, a.1487/88, f.125.
(8) ASPa. Cancelleria 180, a.1491/92, f. 8v.
(9) ASPa. TRP, vol.1256, a.1593, Riveli di San Marco, ff. 607, 665, 673, 897.
(10) A. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Palermo 1912, vol. II, pag. 247. Cuffari-Ristori; pag.265, La Dolcetta.
(11) Giovanni Raffaele nacque a Naso il 24 giugno 1804 e morì a Palermo il 4 ottobre 1882; fu un illustre medico, autore di un trattato di ostetricia in due volumi (1841) e di un Trattato del chòlera asiatico, Napoli 1837. Partecipò alla vita politica siciliana fin dal 1848 e fu ministro del nuovo Regno; ritiratosi a Palermo, venne eletto sindaco della città (cfr. M. Di Liberto, Nuovissimo stradario storico della città di Palermo, Palermo 1993, pag. 414).
(12) A. Palazzolo, La terra di Naso dalla feudalità alla Contea, Palermo 1998, cfr. cap. 3, Carlo Ventimiglia conte di Naso e la vendita agli Starrabba, pagg. 15/18.
(13) A. Palazzolo, Il territorio di Naso nel secolo XVI, in Libera Università di Trapani, 1991, pagg.129/175; cfr. doc. n° 2, pagg.158/163.
(14) ASPa. FND, 2511, a.1520/21; 5 ottobre, IX, 1520.
(15) ASPa. Conservatoria 232, a.1596/97, f.221; 10 maggio, X, 1597.
(16) ASPa. Archivio Moncada di Paternò, vol.1327; 10 febbraio, II, 1604.
(17) ASPa. Archivio Notarbartolo Sciara, vol.71; 16 settembre, I, 1572, Nr. Giovan Matteo Lo Cicero.
(18) ASPa.TRP, N.P. 1329, Cautele di Nicolò Gentile mercante genovese, a.1565/66; cfr. L.Salamone, La numerazione provvisoria del Tribunale del Real Patrimonio nell'Archivio di Stato di Palermo, in ASMe, 73, 1997, pagg.7/94.
(19) ASPa. Archivio Notarbartolo Sciara,vol.4,f.5; 3 gennaio, XIV, 1600, Nr. Giuseppe Astone di Naso; cfr. C. Trasselli, Storia dello zucchero siciliano, Caltanissetta-Roma 1982.
(20) ASPa. Archivio Notarbarto Sciara, vol. 71, ff. 1/87: Raccolta e notamento distinto delle terre del territorio di Naso comprate, vendute, legate, donate, rilassate e permutate dall'Ill.mi s.ri Conti di detta terra, incominciando dal sig.D.Carlo Ventimiglia, sig. D. Girolamo Ioppolo seniore, sig.a D. Laurea e sig. D. Antonino Ioppolo e Ventimiglia, sig.ri D. Girolamo, D.Flavia e D. Emanuele Cottone sino all'Ecc.mo sig. D. Girolamo Ioppolo e Ventimiglia duca di Sinagra e conte di Naso (1662); cfr. G. Tricoli, La Deputazione degli Stati e la crisi del baronaggio siciliano, Palermo 1966.
(21) ASCPa. 3Qq.B.69, ff. 426, 446: Ristretto della numerazione del regno di Sicilia fatta d'ordine del viceré il marchese di Pescara (1570).
(22) ASPa. Cancelleria 135, a.1475/76, f. 259.
(23) ASPa. Protonotaro 119, a.1485/86, f.29.
(24) ASPa. Cancelleria 452, a.1576/77, f.12v.
(25) ASPa. Cancelleria 523, a.1593, f.128.
(26) ASPa. Cancelleria 453, a.1576/77, f. 486.
(27) C. Incudine, op.cit., pagg.38-39. A questo presunto, ma non documentato, episodio l'Incudine, figlio del notaio Francesco Paolo (1807-54), attribuisce la distruzione degli archivi notarili di Naso (!).
(28) ASPa. Cancelleria 442, a. 1573/74, f. 5v.; 6 settembre, II, 1573.
(29) ASPa.TRP, Vol. 1356, a.1584, Riveli dell'Università di Naso.
(30) ASPa.Cancelleria 625, a.1620/21, f.212; 14 giugno, IV, 1621.
(31) ASPa.Cancelleria 629, a.1621, f.2 02; 4 marzo, V, 1622.
(32) AFC. Naso, 17 marzo, VI, 1577, Nr. Giovan Matteo Lo Cicero (1569/77).
(33) ASPa.Cancelleria 464, a.1580/81, f. 393v.
(34) ASPa.FND, 1528, II, a.1649/50; 27 ottobre, III, 1649; cfr. R. Termotto, Contributi documentari sulla decorazione seicentesca del presbiterio della cattedrale di Cefalù, in Cefalù e le Madonie contributi di storia e di storia dell'arte tra XVII e XVIII secolo, 1996.
(35) ASPa. Conservatoria 1613, a.1576/85, f. 184.
(36) AFC.Naso, 22 aprile, I, 1588, Nr. Pietro Rizzo(1580/1605).
(37) AFC. Naso, 24 giugno, III, 1620, Nr. Luca Giordano(1590/1638).
(38) ASPA. Cancelleria 362, a. 1552, f. 85, 27 aprile, X,1 551, Nr. Pietro Covello di Catania.
(39) ASPA. TRP., Vol. 1357, a.1614, Riveli di Naso.
(40) ASPA, TRP, Vol. 1362, a.1637/51, Riveli di Naso.
(41) AFC. Naso, 30 maggio, X, 1702, Nr. Lorenzo Vitanza,(1678/1703), testamento di Placido La Dolcetta; cfr. A. Pettinano, Memorie ritrovate. Il testamento di Bernardo La Dolcetta nasitano insigne, Naso 1987, pagg. 1/34, in cui si nota tra i beni inventariati il 6 marzo 1760: Li ritratti del fu Dr.D.Placido La Dolcetta sr. mio padre, del fu D.Giuseppe mio fratello, del fu D.Placido jr.suo figlio mio nipote, del beato Aloisio Dolcetta della compagnia di Gesù mio fratello, del fu Dr.D. Giovanni mio fratello arciprete di Nicosia, il ritratto mio da sacerdote oltre quello nella sala da secolare; testamento di Bernardo La Dolcetta in Nr. Vincenzo Lo Re 12 maggio, II, 1754.
(42) ASPa. FND 8713, a.1610; cfr. Li maduni di lustro dei maiolicari di Naso,1986.
(43) ASPa. Cancelleria 631, a.1622/23, f. 69v; atto di conferma registrato il 17 dicembre, II, 1622.
(44) ASPa. FND. 11612, a.1589/91.
(45) ASPa. Cancelleria 554, a.1599/1600, f.12; investitura di Girolamo Ioppolo su Naso.
(46) ASPa. Protonotaro 371, a. 1579/80, f.340; 12 gennaio, VIII, 1580.
(47) ASPA, TRP. Vol.1357, a.1614/16, Riveli di Naso, 9 febbraio, XII, 1614.
(48) G. Delille, Famiglia e proprietà nel regno di Napoli, Torino 1988.
(49) ASPa. TRP. Vol. 1362, a. 1637/51, Riveli di Naso.
(50) ASPa. TRP. Vol. 1361, a. 1637, f.106. Riveli di Naso.
(51) ASPa. TRP. Vol. 1363, a.1651, Riveli di Naso.
(52) AFC. Naso, Contratti di compra di stabili rusticani ed urbani della casa Cuffari di Naso (1789).
(53) ASPa. Archivio Notarbartolo Sciara, vol. 9, f .21.
(54) ASPa. TRP. Vol. 1358, a.1623, Riveli di Naso.
(55) ASPa. Archivio Notarbartolo Sciara, vol.313; Idem, FND. 38175, f. 779.
(56) AFC. Naso, 16 giugno1844, Nr. Francesco Paolo Incudine. Contratto matrimoniale tra Ignazio Cuffari Milio, figlio di Pasquale e di Tommasa, ed Anna Cuffari Gamberi, figlia di Salvatore e della prima moglie Margherita (= 1825); dalla loro unione nacque Giovanni nel 1853, che sposò nel 1881 Maria, figlia di Ignazio Petrelli Craxì e di Francesca Marchiolo, originari di Galati.
(57) AFC.Naso, Contratti di beni stabili rusticani della casa Cuffari Lanza di Naso.
(58) AFC.Naso, Compra di beni stabili rusticani della casa Cuffari Lanza di Naso, luogo della Piana seu Serro di Samperi oggi detto della torre che lo tiene D. Placido Cuffari Dolcetta STD.
(59) ASPa. FND, 15917, a.1608/09, f. 26v.
(60) C. Incudine, op.cit., pagg. 226-227.
(61) ASPa. Archivio Notarbartolo Sciara, vol. 68, f.59.
(62) ASPa. TRP, N.P., vol. 1316, Conti del peculio frumentario di Naso (1738/43).
(63) BCRS, mas. XIV.D.3/4.
(64) S. Di Matteo-F. Pillitteri, Storia dei monti di Pietà in Sicilia, Palermo 1973, pagg. 407/08.
(65) S. Leone, Storia dei Fatebenefratelli nella provincia romana, voll. 2, Palermo 1999, pagg. 277/82.
Il tratto fondamentale dell'opera di Virgilio Titone è stato comunemente individuato nella fedeltà a se stesso, che mai s'interruppe o registrò cedimenti durante tutto l'arco della sua vita di uomo e di scrittore. Una vita interamente dedicata alla realizzazione di un ideale di libertà che nella sua accezione più vasta fu ribellione alla menzogna, ai pregiudizi e ai fanatismi. Chi lo conobbe sa che tale tensione morale non si allontanò mai da lui, neanche quando gli atti più comuni eppure necessari del nostro vissuto quotidiano, ne richiedono un allentamento. Sicché finanche nel poco tempo che riusciva a dedicare agli amici o alle persone care, che più profondamente amava, notavi una certa impazienza di ritornare al consueto lavoro e cioè a se stesso. Lo notavi soprattutto nei silenzi improvvisi, che calavano tra lui e gli astanti. Ed era un'ansia che riusciva a dominare soltanto nella meditazione e nella scrittura.
La battaglia per la libertà il Titone cominciò a condurla giovanissimo, non ancora ventenne, quando nel '24, all'indomani del delitto Matteotti, in Humanitas, un periodico dell'opposizione che ancora si riusciva a pubblicare a Bari, insieme con la veemente protesta contro l'infamia di quell'assassinio, denunziava, quasi con spirito profetico, quelle che sarebbero state le responsabilità del fascismo nel prossimo avvenire, funeste soprattutto per la vita morale della nazione, dove scetticismo e indifferenza erano mali antichi e causa principale della nostra debolezza.
Più tardi, la pubblicazione, nel '33, di un saggio su Alfredo Oriani costituì l'occasione che lo fece conoscere al Croce. Era un saggio di critica storica e letteraria, privo di polemica politica, e tuttavia egli fu violentemente attaccato da Vittorio Cian, allora direttore del "Giornale critico della letteratura italiana", che lo accusava di antifascismo. Né diversamente poteva essere interpretata l'analisi del Titone che, collocandolo nel suo tempo, smentiva la tesi, -una vera falsificazione storica-, dell'Oriani quale precursore del fascismo, tesi tanto cara al Cian e agli altri servitori del regime, che per espresso ordine di Mussolini ne pubblicarono addirittura l'Opera omnia. Ma la violenza e la volgarità, pari sempre al grado di servilismo dell'animo umano, furono tanto gravi nel Cian da provocare l'intervento del Croce, il quale in una nota della sua "Critica" scriveva: "Una delle rare proteste contro le correnti falsificazioni del pensiero dell'Oriani, è l'opuscolo di Virgilio Titone…che il solito direttore del "Giornale critico della letteratura italiana", con la solita sconcezza di linguaggio, definisce in modo che tenta di essere velenoso, "un documento inverosimilmente anacronistico": ossia eretico e condannabile. Ma il Titone, -continua il Croce- non dice altro che quel che può vedere da sé ogni spregiudicato lettore dell'Oriani".
Cominciò così un colloquio con quella grande anima che spesso si materializzerà negli anni avvenire nelle non rare visite che farà nell'antico palazzo di Via Trinità Maggiore a Napoli.
Epperò la lezione crociana non poteva rimanere inerte o infeconda in una intelligenza come la sua, che, compenetrata da un profondo e sentito umanesimo, sapeva istituire sempre un rapporto con i problemi e le realtà del tempo.
Avvertiva allora -si era negli anni Trenta- dell'inevitabile esito della parabola del fascismo in una guerra catastrofica, che non era punto lucido presagio, bensì il portato teorico della chiara analisi storiografica che andava precisandosi nella sua mente e di cui aveva dato una prima sistemazione in Espansione e contrazione, apparso nel 1934. Per renderne possibile la pubblicazione, evitando la censura, dovette ricorrere a delle piccole quanto inutili astuzie. Il libro fu ugualmente sequestrato. In esso veniva riletta la storia dell'Europa nei secoli XIX e XX, alla luce di un nuovo storicismo, che in una certa misura superava l'impostazione crociana per la quale la storia è un ininterrotto, lineare divenire e progresso, concetto che nelle condizioni presenti, ma soprattutto dopo l'immane tragedia della prima guerra mondiale e della seconda, che il Titone riteneva inevitabile, non poteva non apparire inadeguato, nonostante si potesse o volesse consentire col Croce e con lui parlare di un progresso nel dolore.
Così, un anno dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, in un mirabile articolo, Che cosa è questa guerra, apparso nel primo numero della rivista "La nuova critica" da lui fondata, poteva finalmente e interamente chiarire la sua concezione della storia, che si dispiega in fasi o cicli di espansione e contrazione, una concezione, che se per un momento potrebbe far pensare all'influenza diretta delle teorie cicliche, che dal Vico in poi, attraverso Nietzesche e Spengler, segnano buona parte del pensiero storiografico europeo, in realtà si rivela una costruzione teorica originale e convincente, perché riesce a dare un senso tutto umano alle varie epoche storiche, astrattamente quando non moralisticamente considerate dallo storicismo.
Queste fasi o cicli di espansione e contrazione non devono considerarsi -scriveva il Titone- chiusi in sé, ma tali che gli uni tendano verso gli altri e viceversa, non risultanti di tempo in tempo da aspetti o fenomeni uguali, nel senso che una fase debba ripetere la precedente fase analoga, ma da forme invece diverse e analoghe, non escludenti -questo sì- il progresso, un progresso indefinito e lineare, nel senso comunemente accettato.
"In realtà-chiariva il Titone in Teorica della rivoluzione-, i circoli di cui parliamo non sono né soltanto identici né soltanto diversi, ma diversi e identici a un tempo: diversi del perpetuo divenire della storia, che non può ritornare indietro sul cammino percorso per ripetersi nelle forme del passato, identici di quella fondamentale identità che può osservarsi nei bisogni e negli ideali degli uomini, di quella identità, insomma, che, in fondo, altro non essendo se non la stessa identità della natura umana attraverso i secoli, in nessun modo suppone che due fasi uguali si ripetano l'una nell'altra".
La fase di espansione si esprime attraverso le manifestazioni più nobili dello spirito umano e del suo libero operare, attraverso i miti o ideali universalmente diffusi, e primo fra tutti la fede nell'umanità, in un avvenire migliore, nella scienza, nella libertà e nella sua funzione educatrice, nel carattere umanitario delle istituzioni. Aspetti analoghi dell'espansione sono da vedersi nell'incremento dell'industria e dei commerci, delle nascite, nella libertà dei costumi, nel liberismo economico ecc. Mentre la fase opposta si esprime invece attraverso il socialismo e il classicismo, intendendo per socialismo il Titone non il movimento ottocentesco, che nella sua carica ideale è esso stesso mito di conquista e di lotta e quindi forma dell'espansione, ma più in generale la tendenza dello Stato a sovrapporsi sull'individuo, quando compaiono o vanno man mano instaurandosi i miti dell'autorità, delle disuguaglianze o differenze gerarchiche fra gli individui, le classi, le razze. Ugualmente sono forme della contrazione -aggiunge il Titone- "la sfiducia nel progresso e nell'uomo, la diminuzione delle nascite, la tendenza dell'economia a disporsi in circoli chiusi nei rapporti internazionali e dentro i confini stessi dello Stato, la restaurazione del costume, una letteratura tendente a chiudersi in se stessa e cioè allontanarsi dalla vita e rivolgersi a un pubblico di eletti o d'iniziati, ecc.". Quest'ultima forma della contrazione è precisamente quello che egli chiama il classicismo.
Il passaggio dall'una all'altra fase avviene o per via naturale ché, come in tutte le vicende umane, si ha necessariamente un divenire e un morire, o attraverso la violenza nella quale devono comprendersi talvolta la guerra e la rivoluzione: queste ultime intese come tentativo di perpetuare artificialmente, e quindi violentemente, un progresso e cioè una fase in via di esaurimento, quale fu appunto la guerra di Mussolini.
In questo modo la storia diventa in lui contemplazione del passato in una visione armoniosa e complessiva, nella quale i vari aspetti della vita, come in una pittura o in un quadro si compongono nella rappresentazione del tutto e nello spirito del tempo.
Concezione che se per un verso acquista valore teoretico, dall'altro si propone come metodologia per ogni vera e seria ricerca storica. Il Titone degli anni avvenire rimarrà fedele a questa impostazione.
Nei diversi campi della letteratura, dell'economia, della sociologia ha umanizzato la storia, l'ha liberata dalle incrostazioni ideologiche, dal dogmatismo dei luoghi comuni, dai miti e credi ufficiali che egli analizzava e sottoponeva al prisma della ragione e del suo umanesimo. Perciò aborriva la storiografia dei problemi che prende alla lettera -scriveva- le "idee e i programmi e guarda alle soluzioni che si son date delle questioni da essi poste, come si potrebbero considerare i problemi di fisica o di un sistema filosofico", mentre quasi sempre nei programmi politici e nelle idee devono vedersi il simbolo o una inconsapevole allegoria di realtà più complesse.
Questa singolarità e originalità di pensiero, incastonate in una prosa armoniosa e limpida, nella quale il rigore logico e lo stile fanno un tutt'uno, non ebbero la risonanza che pure meritavano ed oggi dolorosamente dobbiamo registrare la sua assenza financo nelle opere complessive di divulgazione quali sono le enciclopedie, dove a scrittori mediocri e giornalisti altrettanto modesti, viene almeno concesso il ricordo della loro operosità.
Epperò di tutto questo dovremmo chiederci i motivi, ma qui per ragioni di spazio non è possibile farlo, riconducibili tutti ai peculiari caratteri della cultura italiana degli ultimi cinquant'anni, egemonizzata, come scrive Elio Giunta, da una precisa ideologia. Tuttavia, se è vero che i gusti e gli orientamenti hanno condizionato l'editoria italiana, è altrettanto vero che la grande editoria, non libera da condizionamenti ideologici come nel passato, ma sotto diverso segno, crea talvolta ancora oggi gli scrittori, anche quando tali veramente non possono dirsi. E di casi letterari artificialmente costruiti, si possono dare non pochi esempi. Al riguardo mi sembra doveroso aggiungere, mentre il ricordo commosso va ai Palumbo, agli Sciascia, ai Denaro, che Palermo e la Sicilia riconobbero sempre il valore di questo loro grande figlio, cui in certi casi hanno dato più di quel che potevano dare.
Ma una tale personalità non poteva passare inosservata in ambienti estranei alle mafie culturali, letterarie o accademiche, negli ambienti, per esempio, del grande giornalismo italiano, nel quale Titone ravvisava quanto di più valido e perciò socialmente utile si andava scrivendo e si continua a scrivere intorno ai problemi veri della nostra società dall'economia alle manifestazioni della cultura, dell'arte, del costume, ecc.
L'ammirazione e la stima, tramutatesi cogli anni in reciproco e profondo affetto di Panfilo Gentile e di Augusto Guerriero, gli permisero di entrare in quel mondo del "Corriere della sera" che ancora oggi può considerarsi l'Accademia d'Italia, e di cui i due scrittori erano tra le firme più illustri.
Erano gli anni '60, il periodo della direzione al "Corriere" di Alfio Russo, suo grande estimatore. Ne divenne un collaboratore assiduo, firmando elzeviri che recavano l'intestazione Dizionario filosofico, ché in realtà per acume e vivacità di linguaggio e senso dell'attualità poteva degnamente stare accanto al titolo della nota raccolta di voci del Voltaire.
La cultura ufficiale ormai non poteva più ignorarlo, sicché riuscì, vincendo in alcuni casi dei veri e propri veti ideologici, a far breccia nel muro della più prestigiosa editoria italiana. Le origini della questione meridionale, Storia e sociologia, Il conformismo, La storiografia dell'illuminismo in Italia, Machado e Garcia Lorca, per citarne alcuni, sono tutti titoli di quella stagione felice. E tuttavia il Titone rimase un personaggio scomodo, quantomeno da tenere a bada, perché egli rimase sempre se stesso, quello che era stato nella giovinezza, che era stato nella maturità, quello che fu nella vecchiaia, un polemista nell'accezione più vasta e nobile del termine, che non smise mai di combattere con le armi più taglienti contro i demoni di sempre.
Ne pagò il prezzo, quello che si paga alla libertà e si chiama spesso solitudine. Nel '68 la direzione del "Corriere" passò a Giovanni Spadolini, mentre un'altra stagione cominciava, quella della contestazione studentesca, le cui conquiste si vollero trasferire contagiandole alle altre istituzioni sociali, al mondo della scuola e del lavoro. Furono anni di violenza, divenuti ormai materia da sottoporre ad analisi storica. Il che è stato fatto e si continua a fare, come si è fatto pure un preciso computo numerico di quelle violenze, quasi 4.400 contro persone e cose, e la maggior parte delle quali perpetrate nelle Province di Milano, Torino e Roma, e legate tutte a una chiara matrice politica. Ma, nella rassegna degli avvenimenti, gli storici hanno forse dimenticato di sottolineare un elemento importante che contribuì a rendere più grave la situazione di allora: il clima di paura e di viltà comune.
La collaborazione di Titone al giornale si fece sempre più rarefatta, sebbene egli continuasse a inviare articoli e ne sollecitasse la pubblicazione. Quando un giorno gliene chiesi il motivo mi rispose così: "il povero Spadolini non viene più salutato neppure dagli uscieri di via Solferino" e non aggiunse altro. Via Solferino stava e sta ancora oggi a indicare il "Corriere".
Il passaggio al "Tempo" di Roma, diretto allora da quell'indefinibile personaggio che è Gianni Letta, fu una decisione sofferta che tuttavia gli consentì, o credeva gli consentisse, di continuare il suo magistero e la sua battaglia.
Il primo e ultimo articolo pubblicato in quel quotidiano il 26 giugno 1973 recava il titolo: Rievocazione di Manzoni e ottusità dei critici: di esso bisogna qui dar conto, per capire fino a che punto si spingesse con il suo coraggio, quando si trattava di combattere la menzogna o le falsificazioni e l'ingiustizia.
I critici erano Moravia e Montale, ai quali rimproverava giustamente di essersi lasciati coinvolgere in quella pressoché comune tendenza del tempo alla dissacrazione di tutta la nostra letteratura, che "sempre più spesso si paragonava alle grandi letterature europee per metterne in evidenza i motivi retorici, aulici, letterari". Il che, sotto certi aspetti, era giusto che si facesse, ma, unicuique suum, il Titone non tollerava che si esagerasse.
In una nota pubblicata dal "Corriere", il Moravia aveva scritto: "Ciò che caratterizza la letteratura italiana è l'incapacità di far coesistere e fondere impegno e disimpegno, di stabilire cioè un rapporto giusto e necessario con la società. Impegno e disimpegno nella letteratura italiana hanno ambedue un'aria faziosa. L'umile, soave Manzoni è, quanto all'ideologia, né più né meno di tanti, che oggi rifiutano con violenza di aderire a qualsiasi posizione ideologica".
Il Titone, di contro, rilevava gli angusti limiti di quell'analisi, nella quale poco chiari risultavano i concetti di società e di impegno. Di quest'ultimo, -scriveva con il consueto acume-, si possono in realtà distinguere due diverse specie, l'una, per così dire, interna all'autore o necessaria e quasi non voluta, l'altra invece esterna e occasionale. "Tutti i veri poeti, chiariva, sono e non possono non essere impegnati, ma impegnati non verso un programma o una formula ideologica, bensì con se stessi o con l'umanità o piuttosto con l'umano che è in ciascuno di noi: cioè i motivi eterni della vita, di Dio o dell'ignoto o del destino, dell'amore, della morte, del fluire del tempo, quei motivi insomma che comprendono, superandole, le particolari e mutevoli ideologie. In questo senso, impegnatissimi debbono dirsi, per esempio, i tragici greci e Omero o Virgilio o Shakespeare o Leopardi"
Lo fu anche il Manzoni, del quale chiarisce il senso della religiosità che è a fondamento della sua altissima poesia, e che non poteva contemplare quell'impegno di cui parlava il Moravia critico.
Anche al Montale il Titone nega l'anima e la stoffa del critico, epperò non gliene fa un rimprovero. Ma del Manzoni, si ribellava, "che tra l'altro fu un uomo di grande serietà morale, si ha il dovere di parlare con un certo rispetto e questo rispetto richiede che per lo meno non si perda il senso delle distanze e delle proporzioni".
Nell'intervista al "Corriere", il Montale aveva perso l'uno e l'altro: "Ho l'impressione che dopo la scelta della sua religione, il Manzoni abbia ragionato così: ecco fatto, sono un cattolico credente, adesso non se ne parli più". E invece tutti sanno che ne parlò sempre, nelle opere scritte e non scritte, ma soprattutto con se stesso e con coloro che, come il Rosmini, gli furono più spiritualmente vicini. Non averlo capito significa, -insiste Titone -,non aver capito nulla dello scrittore.
Ma il Montale critico non si ferma qui. Sempre in quell'intervista si era lasciato andare ad altri sproloqui come questo: "Con Dante comincia la grande poesia e con Dante finisce. È un fatto alquanto strano che dopo di lui alcuni si siano arrischiati a scrivere versi e abbiano continuato per secoli". Certamente sarebbe strano, argomenta ironico il Titone, se però da allora avessimo avuto solo i Montale, ma, per tacere degli altri, abbiamo avuto il Petrarca, fino al Settecento il più imitato dei poeti europei, e abbiamo avuto il Leopardi. Se un Petrarca o un Leopardi non rientrano nella grande poesia, è lecito chiederci quanti altri poeti in Europa potrebbero rientrarci con maggiore diritto.
Di questo letterario disastro, il Montale vuol darci anche la ragione: "Il fattore economico, che grava da sempre sull'Italia, impedisce la genialità, impedisce tante altre cose". Ce n'era troppo e posso immaginare come ribollisse il sangue nelle vene del Titone: "È questo un linguaggio che non fa pensare neanche a Marx, ma al più volgare marxismo. Se il fattore economico, -mi pare quasi, non già di leggere, ma di sentire la voce stessa impetuosa del Titone-, se il fattore economico con questi funesti effetti grava da sempre sugli italiani, perché non avrebbe impedito la genialità dello stesso Dante o, se non degli altri poeti, cui il Montale la nega, di artisti come Leonardo o Michelangelo o di scienziati come Galilei? E poi perché graverebbe particolarmente sull'Italia?"
Ancora meno indulgente è con Barbiellini Amidei che così aveva presentato l'intervista: "Eugenio Montale parla di Alessandro Manzoni. Cento anni dopo in questa casa di via Brigli a novanta metri dalla casa di via Morone, dove Alessandro morì. Senatore l'uno, senatore l'altro, canonizzato l'uno, in via di canonizzazione l'altro. Glorie di Milano, la prima stanziale, la seconda d'acquisto".
Il commento del Titone, sempre aristocraticamente misurato e indulgente, in quella circostanza registra un sarcasmo che mai ho potuto riscontrare in altre sue pagine: "Insomma -scrisse- un nuovo Manzoni, diverso sì, ma quasi uguale nelle sue dimensioni europee. Parla dell'altro, come Hitler quando parlava di Napoleone: lo chiamava l'altro. Ma chi potrebbe negargliene il diritto? Senatore l'uno, senatore l'altro…"
Il Barbiellini Amidei, con la sua consueta piaggeria, rimane abbarbicato alla redazione del giornale dove continua ad ammannirci ancora oggi le sue stancanti ovvietà.
Or dunque è questa quella costante predisposizione del Titone di cui ha scritto un impudico prefatore alcuni anni fa, a porsi velleitariamente contro corrente, attribuendogli quasi una nota caratteriale di vanità che sicuramente non gli apparteneva, ma che sicuramente era di chi non riesce a comprendere come l'amore per la verità, uguale ad ogni altro vero amore, suppone una foga e un accento e un impeto fuori del comune? Gli imputava, cioè, i motivi, che, tra gli altri, sono alla base dell'efficacia della sua prosa. Ed è questo quel misto di genialità e di follia, come si espresse in una delle sue ultime Stanze Montanelli, poco prima di morire, e ricordandolo come suo amico? In realtà, nonostante le apparenze, non furono mai amici nel senso più nobile della parola, né potevano esserlo. Ma questo è un altro capitolo della storia della sua vicenda umana e intellettuale, da scrivere in maniera meno affrettata di quanto oggi sia stato costretto a fare, se il tempo che mi resta e le mie forze lo consentiranno.
NOTE
(1) Relazione tenuta nella Giornata omaggio a Virgilio Titone, svoltasi a Palazzo Milo di Trapani il 16 maggio 2002.