Il tratto fondamentale dell'opera di Virgilio Titone è stato comunemente individuato nella fedeltà a se stesso, che mai s'interruppe o registrò cedimenti durante tutto l'arco della sua vita di uomo e di scrittore. Una vita interamente dedicata alla realizzazione di un ideale di libertà che nella sua accezione più vasta fu ribellione alla menzogna, ai pregiudizi e ai fanatismi. Chi lo conobbe sa che tale tensione morale non si allontanò mai da lui, neanche quando gli atti più comuni eppure necessari del nostro vissuto quotidiano, ne richiedono un allentamento. Sicché finanche nel poco tempo che riusciva a dedicare agli amici o alle persone care, che più profondamente amava, notavi una certa impazienza di ritornare al consueto lavoro e cioè a se stesso. Lo notavi soprattutto nei silenzi improvvisi, che calavano tra lui e gli astanti. Ed era un'ansia che riusciva a dominare soltanto nella meditazione e nella scrittura.
La battaglia per la libertà il Titone cominciò a condurla giovanissimo, non ancora ventenne, quando nel '24, all'indomani del delitto Matteotti, in Humanitas, un periodico dell'opposizione che ancora si riusciva a pubblicare a Bari, insieme con la veemente protesta contro l'infamia di quell'assassinio, denunziava, quasi con spirito profetico, quelle che sarebbero state le responsabilità del fascismo nel prossimo avvenire, funeste soprattutto per la vita morale della nazione, dove scetticismo e indifferenza erano mali antichi e causa principale della nostra debolezza.
Più tardi, la pubblicazione, nel '33, di un saggio su Alfredo Oriani costituì l'occasione che lo fece conoscere al Croce. Era un saggio di critica storica e letteraria, privo di polemica politica, e tuttavia egli fu violentemente attaccato da Vittorio Cian, allora direttore del "Giornale critico della letteratura italiana", che lo accusava di antifascismo. Né diversamente poteva essere interpretata l'analisi del Titone che, collocandolo nel suo tempo, smentiva la tesi, -una vera falsificazione storica-, dell'Oriani quale precursore del fascismo, tesi tanto cara al Cian e agli altri servitori del regime, che per espresso ordine di Mussolini ne pubblicarono addirittura l'Opera omnia. Ma la violenza e la volgarità, pari sempre al grado di servilismo dell'animo umano, furono tanto gravi nel Cian da provocare l'intervento del Croce, il quale in una nota della sua "Critica" scriveva: "Una delle rare proteste contro le correnti falsificazioni del pensiero dell'Oriani, è l'opuscolo di Virgilio Titone…che il solito direttore del "Giornale critico della letteratura italiana", con la solita sconcezza di linguaggio, definisce in modo che tenta di essere velenoso, "un documento inverosimilmente anacronistico": ossia eretico e condannabile. Ma il Titone, -continua il Croce- non dice altro che quel che può vedere da sé ogni spregiudicato lettore dell'Oriani".
Cominciò così un colloquio con quella grande anima che spesso si materializzerà negli anni avvenire nelle non rare visite che farà nell'antico palazzo di Via Trinità Maggiore a Napoli.
Epperò la lezione crociana non poteva rimanere inerte o infeconda in una intelligenza come la sua, che, compenetrata da un profondo e sentito umanesimo, sapeva istituire sempre un rapporto con i problemi e le realtà del tempo.
Avvertiva allora -si era negli anni Trenta- dell'inevitabile esito della parabola del fascismo in una guerra catastrofica, che non era punto lucido presagio, bensì il portato teorico della chiara analisi storiografica che andava precisandosi nella sua mente e di cui aveva dato una prima sistemazione in Espansione e contrazione, apparso nel 1934. Per renderne possibile la pubblicazione, evitando la censura, dovette ricorrere a delle piccole quanto inutili astuzie. Il libro fu ugualmente sequestrato. In esso veniva riletta la storia dell'Europa nei secoli XIX e XX, alla luce di un nuovo storicismo, che in una certa misura superava l'impostazione crociana per la quale la storia è un ininterrotto, lineare divenire e progresso, concetto che nelle condizioni presenti, ma soprattutto dopo l'immane tragedia della prima guerra mondiale e della seconda, che il Titone riteneva inevitabile, non poteva non apparire inadeguato, nonostante si potesse o volesse consentire col Croce e con lui parlare di un progresso nel dolore.
Così, un anno dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, in un mirabile articolo, Che cosa è questa guerra, apparso nel primo numero della rivista "La nuova critica" da lui fondata, poteva finalmente e interamente chiarire la sua concezione della storia, che si dispiega in fasi o cicli di espansione e contrazione, una concezione, che se per un momento potrebbe far pensare all'influenza diretta delle teorie cicliche, che dal Vico in poi, attraverso Nietzesche e Spengler, segnano buona parte del pensiero storiografico europeo, in realtà si rivela una costruzione teorica originale e convincente, perché riesce a dare un senso tutto umano alle varie epoche storiche, astrattamente quando non moralisticamente considerate dallo storicismo.
Queste fasi o cicli di espansione e contrazione non devono considerarsi -scriveva il Titone- chiusi in sé, ma tali che gli uni tendano verso gli altri e viceversa, non risultanti di tempo in tempo da aspetti o fenomeni uguali, nel senso che una fase debba ripetere la precedente fase analoga, ma da forme invece diverse e analoghe, non escludenti -questo sì- il progresso, un progresso indefinito e lineare, nel senso comunemente accettato.
"In realtà-chiariva il Titone in Teorica della rivoluzione-, i circoli di cui parliamo non sono né soltanto identici né soltanto diversi, ma diversi e identici a un tempo: diversi del perpetuo divenire della storia, che non può ritornare indietro sul cammino percorso per ripetersi nelle forme del passato, identici di quella fondamentale identità che può osservarsi nei bisogni e negli ideali degli uomini, di quella identità, insomma, che, in fondo, altro non essendo se non la stessa identità della natura umana attraverso i secoli, in nessun modo suppone che due fasi uguali si ripetano l'una nell'altra".
La fase di espansione si esprime attraverso le manifestazioni più nobili dello spirito umano e del suo libero operare, attraverso i miti o ideali universalmente diffusi, e primo fra tutti la fede nell'umanità, in un avvenire migliore, nella scienza, nella libertà e nella sua funzione educatrice, nel carattere umanitario delle istituzioni. Aspetti analoghi dell'espansione sono da vedersi nell'incremento dell'industria e dei commerci, delle nascite, nella libertà dei costumi, nel liberismo economico ecc. Mentre la fase opposta si esprime invece attraverso il socialismo e il classicismo, intendendo per socialismo il Titone non il movimento ottocentesco, che nella sua carica ideale è esso stesso mito di conquista e di lotta e quindi forma dell'espansione, ma più in generale la tendenza dello Stato a sovrapporsi sull'individuo, quando compaiono o vanno man mano instaurandosi i miti dell'autorità, delle disuguaglianze o differenze gerarchiche fra gli individui, le classi, le razze. Ugualmente sono forme della contrazione -aggiunge il Titone- "la sfiducia nel progresso e nell'uomo, la diminuzione delle nascite, la tendenza dell'economia a disporsi in circoli chiusi nei rapporti internazionali e dentro i confini stessi dello Stato, la restaurazione del costume, una letteratura tendente a chiudersi in se stessa e cioè allontanarsi dalla vita e rivolgersi a un pubblico di eletti o d'iniziati, ecc.". Quest'ultima forma della contrazione è precisamente quello che egli chiama il classicismo.
Il passaggio dall'una all'altra fase avviene o per via naturale ché, come in tutte le vicende umane, si ha necessariamente un divenire e un morire, o attraverso la violenza nella quale devono comprendersi talvolta la guerra e la rivoluzione: queste ultime intese come tentativo di perpetuare artificialmente, e quindi violentemente, un progresso e cioè una fase in via di esaurimento, quale fu appunto la guerra di Mussolini.
In questo modo la storia diventa in lui contemplazione del passato in una visione armoniosa e complessiva, nella quale i vari aspetti della vita, come in una pittura o in un quadro si compongono nella rappresentazione del tutto e nello spirito del tempo.
Concezione che se per un verso acquista valore teoretico, dall'altro si propone come metodologia per ogni vera e seria ricerca storica. Il Titone degli anni avvenire rimarrà fedele a questa impostazione.
Nei diversi campi della letteratura, dell'economia, della sociologia ha umanizzato la storia, l'ha liberata dalle incrostazioni ideologiche, dal dogmatismo dei luoghi comuni, dai miti e credi ufficiali che egli analizzava e sottoponeva al prisma della ragione e del suo umanesimo. Perciò aborriva la storiografia dei problemi che prende alla lettera -scriveva- le "idee e i programmi e guarda alle soluzioni che si son date delle questioni da essi poste, come si potrebbero considerare i problemi di fisica o di un sistema filosofico", mentre quasi sempre nei programmi politici e nelle idee devono vedersi il simbolo o una inconsapevole allegoria di realtà più complesse.
Questa singolarità e originalità di pensiero, incastonate in una prosa armoniosa e limpida, nella quale il rigore logico e lo stile fanno un tutt'uno, non ebbero la risonanza che pure meritavano ed oggi dolorosamente dobbiamo registrare la sua assenza financo nelle opere complessive di divulgazione quali sono le enciclopedie, dove a scrittori mediocri e giornalisti altrettanto modesti, viene almeno concesso il ricordo della loro operosità.
Epperò di tutto questo dovremmo chiederci i motivi, ma qui per ragioni di spazio non è possibile farlo, riconducibili tutti ai peculiari caratteri della cultura italiana degli ultimi cinquant'anni, egemonizzata, come scrive Elio Giunta, da una precisa ideologia. Tuttavia, se è vero che i gusti e gli orientamenti hanno condizionato l'editoria italiana, è altrettanto vero che la grande editoria, non libera da condizionamenti ideologici come nel passato, ma sotto diverso segno, crea talvolta ancora oggi gli scrittori, anche quando tali veramente non possono dirsi. E di casi letterari artificialmente costruiti, si possono dare non pochi esempi. Al riguardo mi sembra doveroso aggiungere, mentre il ricordo commosso va ai Palumbo, agli Sciascia, ai Denaro, che Palermo e la Sicilia riconobbero sempre il valore di questo loro grande figlio, cui in certi casi hanno dato più di quel che potevano dare.
Ma una tale personalità non poteva passare inosservata in ambienti estranei alle mafie culturali, letterarie o accademiche, negli ambienti, per esempio, del grande giornalismo italiano, nel quale Titone ravvisava quanto di più valido e perciò socialmente utile si andava scrivendo e si continua a scrivere intorno ai problemi veri della nostra società dall'economia alle manifestazioni della cultura, dell'arte, del costume, ecc.
L'ammirazione e la stima, tramutatesi cogli anni in reciproco e profondo affetto di Panfilo Gentile e di Augusto Guerriero, gli permisero di entrare in quel mondo del "Corriere della sera" che ancora oggi può considerarsi l'Accademia d'Italia, e di cui i due scrittori erano tra le firme più illustri.
Erano gli anni '60, il periodo della direzione al "Corriere" di Alfio Russo, suo grande estimatore. Ne divenne un collaboratore assiduo, firmando elzeviri che recavano l'intestazione Dizionario filosofico, ché in realtà per acume e vivacità di linguaggio e senso dell'attualità poteva degnamente stare accanto al titolo della nota raccolta di voci del Voltaire.
La cultura ufficiale ormai non poteva più ignorarlo, sicché riuscì, vincendo in alcuni casi dei veri e propri veti ideologici, a far breccia nel muro della più prestigiosa editoria italiana. Le origini della questione meridionale, Storia e sociologia, Il conformismo, La storiografia dell'illuminismo in Italia, Machado e Garcia Lorca, per citarne alcuni, sono tutti titoli di quella stagione felice. E tuttavia il Titone rimase un personaggio scomodo, quantomeno da tenere a bada, perché egli rimase sempre se stesso, quello che era stato nella giovinezza, che era stato nella maturità, quello che fu nella vecchiaia, un polemista nell'accezione più vasta e nobile del termine, che non smise mai di combattere con le armi più taglienti contro i demoni di sempre.
Ne pagò il prezzo, quello che si paga alla libertà e si chiama spesso solitudine. Nel '68 la direzione del "Corriere" passò a Giovanni Spadolini, mentre un'altra stagione cominciava, quella della contestazione studentesca, le cui conquiste si vollero trasferire contagiandole alle altre istituzioni sociali, al mondo della scuola e del lavoro. Furono anni di violenza, divenuti ormai materia da sottoporre ad analisi storica. Il che è stato fatto e si continua a fare, come si è fatto pure un preciso computo numerico di quelle violenze, quasi 4.400 contro persone e cose, e la maggior parte delle quali perpetrate nelle Province di Milano, Torino e Roma, e legate tutte a una chiara matrice politica. Ma, nella rassegna degli avvenimenti, gli storici hanno forse dimenticato di sottolineare un elemento importante che contribuì a rendere più grave la situazione di allora: il clima di paura e di viltà comune.
La collaborazione di Titone al giornale si fece sempre più rarefatta, sebbene egli continuasse a inviare articoli e ne sollecitasse la pubblicazione. Quando un giorno gliene chiesi il motivo mi rispose così: "il povero Spadolini non viene più salutato neppure dagli uscieri di via Solferino" e non aggiunse altro. Via Solferino stava e sta ancora oggi a indicare il "Corriere".
Il passaggio al "Tempo" di Roma, diretto allora da quell'indefinibile personaggio che è Gianni Letta, fu una decisione sofferta che tuttavia gli consentì, o credeva gli consentisse, di continuare il suo magistero e la sua battaglia.
Il primo e ultimo articolo pubblicato in quel quotidiano il 26 giugno 1973 recava il titolo: Rievocazione di Manzoni e ottusità dei critici: di esso bisogna qui dar conto, per capire fino a che punto si spingesse con il suo coraggio, quando si trattava di combattere la menzogna o le falsificazioni e l'ingiustizia.
I critici erano Moravia e Montale, ai quali rimproverava giustamente di essersi lasciati coinvolgere in quella pressoché comune tendenza del tempo alla dissacrazione di tutta la nostra letteratura, che "sempre più spesso si paragonava alle grandi letterature europee per metterne in evidenza i motivi retorici, aulici, letterari". Il che, sotto certi aspetti, era giusto che si facesse, ma, unicuique suum, il Titone non tollerava che si esagerasse.
In una nota pubblicata dal "Corriere", il Moravia aveva scritto: "Ciò che caratterizza la letteratura italiana è l'incapacità di far coesistere e fondere impegno e disimpegno, di stabilire cioè un rapporto giusto e necessario con la società. Impegno e disimpegno nella letteratura italiana hanno ambedue un'aria faziosa. L'umile, soave Manzoni è, quanto all'ideologia, né più né meno di tanti, che oggi rifiutano con violenza di aderire a qualsiasi posizione ideologica".
Il Titone, di contro, rilevava gli angusti limiti di quell'analisi, nella quale poco chiari risultavano i concetti di società e di impegno. Di quest'ultimo, -scriveva con il consueto acume-, si possono in realtà distinguere due diverse specie, l'una, per così dire, interna all'autore o necessaria e quasi non voluta, l'altra invece esterna e occasionale. "Tutti i veri poeti, chiariva, sono e non possono non essere impegnati, ma impegnati non verso un programma o una formula ideologica, bensì con se stessi o con l'umanità o piuttosto con l'umano che è in ciascuno di noi: cioè i motivi eterni della vita, di Dio o dell'ignoto o del destino, dell'amore, della morte, del fluire del tempo, quei motivi insomma che comprendono, superandole, le particolari e mutevoli ideologie. In questo senso, impegnatissimi debbono dirsi, per esempio, i tragici greci e Omero o Virgilio o Shakespeare o Leopardi"
Lo fu anche il Manzoni, del quale chiarisce il senso della religiosità che è a fondamento della sua altissima poesia, e che non poteva contemplare quell'impegno di cui parlava il Moravia critico.
Anche al Montale il Titone nega l'anima e la stoffa del critico, epperò non gliene fa un rimprovero. Ma del Manzoni, si ribellava, "che tra l'altro fu un uomo di grande serietà morale, si ha il dovere di parlare con un certo rispetto e questo rispetto richiede che per lo meno non si perda il senso delle distanze e delle proporzioni".
Nell'intervista al "Corriere", il Montale aveva perso l'uno e l'altro: "Ho l'impressione che dopo la scelta della sua religione, il Manzoni abbia ragionato così: ecco fatto, sono un cattolico credente, adesso non se ne parli più". E invece tutti sanno che ne parlò sempre, nelle opere scritte e non scritte, ma soprattutto con se stesso e con coloro che, come il Rosmini, gli furono più spiritualmente vicini. Non averlo capito significa, -insiste Titone -,non aver capito nulla dello scrittore.
Ma il Montale critico non si ferma qui. Sempre in quell'intervista si era lasciato andare ad altri sproloqui come questo: "Con Dante comincia la grande poesia e con Dante finisce. È un fatto alquanto strano che dopo di lui alcuni si siano arrischiati a scrivere versi e abbiano continuato per secoli". Certamente sarebbe strano, argomenta ironico il Titone, se però da allora avessimo avuto solo i Montale, ma, per tacere degli altri, abbiamo avuto il Petrarca, fino al Settecento il più imitato dei poeti europei, e abbiamo avuto il Leopardi. Se un Petrarca o un Leopardi non rientrano nella grande poesia, è lecito chiederci quanti altri poeti in Europa potrebbero rientrarci con maggiore diritto.
Di questo letterario disastro, il Montale vuol darci anche la ragione: "Il fattore economico, che grava da sempre sull'Italia, impedisce la genialità, impedisce tante altre cose". Ce n'era troppo e posso immaginare come ribollisse il sangue nelle vene del Titone: "È questo un linguaggio che non fa pensare neanche a Marx, ma al più volgare marxismo. Se il fattore economico, -mi pare quasi, non già di leggere, ma di sentire la voce stessa impetuosa del Titone-, se il fattore economico con questi funesti effetti grava da sempre sugli italiani, perché non avrebbe impedito la genialità dello stesso Dante o, se non degli altri poeti, cui il Montale la nega, di artisti come Leonardo o Michelangelo o di scienziati come Galilei? E poi perché graverebbe particolarmente sull'Italia?"
Ancora meno indulgente è con Barbiellini Amidei che così aveva presentato l'intervista: "Eugenio Montale parla di Alessandro Manzoni. Cento anni dopo in questa casa di via Brigli a novanta metri dalla casa di via Morone, dove Alessandro morì. Senatore l'uno, senatore l'altro, canonizzato l'uno, in via di canonizzazione l'altro. Glorie di Milano, la prima stanziale, la seconda d'acquisto".
Il commento del Titone, sempre aristocraticamente misurato e indulgente, in quella circostanza registra un sarcasmo che mai ho potuto riscontrare in altre sue pagine: "Insomma -scrisse- un nuovo Manzoni, diverso sì, ma quasi uguale nelle sue dimensioni europee. Parla dell'altro, come Hitler quando parlava di Napoleone: lo chiamava l'altro. Ma chi potrebbe negargliene il diritto? Senatore l'uno, senatore l'altro…"
Il Barbiellini Amidei, con la sua consueta piaggeria, rimane abbarbicato alla redazione del giornale dove continua ad ammannirci ancora oggi le sue stancanti ovvietà.
Or dunque è questa quella costante predisposizione del Titone di cui ha scritto un impudico prefatore alcuni anni fa, a porsi velleitariamente contro corrente, attribuendogli quasi una nota caratteriale di vanità che sicuramente non gli apparteneva, ma che sicuramente era di chi non riesce a comprendere come l'amore per la verità, uguale ad ogni altro vero amore, suppone una foga e un accento e un impeto fuori del comune? Gli imputava, cioè, i motivi, che, tra gli altri, sono alla base dell'efficacia della sua prosa. Ed è questo quel misto di genialità e di follia, come si espresse in una delle sue ultime Stanze Montanelli, poco prima di morire, e ricordandolo come suo amico? In realtà, nonostante le apparenze, non furono mai amici nel senso più nobile della parola, né potevano esserlo. Ma questo è un altro capitolo della storia della sua vicenda umana e intellettuale, da scrivere in maniera meno affrettata di quanto oggi sia stato costretto a fare, se il tempo che mi resta e le mie forze lo consentiranno.
NOTE
(1) Relazione tenuta nella Giornata omaggio a Virgilio Titone, svoltasi a Palazzo Milo di Trapani il 16 maggio 2002.