IL SISTEMA PENITENZIARIO BORBONICO NELL'ULTIMO LAVORO DI GIOVANNI TESSITORE di Gabriella Portalone

Ancora una volta Giovanni Tessitore dà vita ad un pregiato lavoro di ricerca (L'utopia penitenziale borbonica. Dalle pene corporali a quelle detentive,Milano, Franco Angeli, 2002.) che spazia dalla storia al diritto penale, dalla sociologia al pensiero economico. L'oggetto della ricerca, il sistema penitenziale borbonico in Sicilia, spazza via molti luoghi comuni, così come avviene in tutte le opere precedenti del nostro autore che si rivela, appunto per questo, uno storico revisionista, libero da pregiudizi d'ogni tipo, difficilmente influenzabile dalla storiografia precedente e, soprattutto, interessato a trarre conclusioni solo sulla base di documenti d'archivio, consultati a centinaio con appassionata puntualità. Si scopre così che non solo i "famigerati Borboni" avevano un regime penitenziale fra i meno disumani d'Europa, ma che progettarono, prima d'ogni altro stato europeo, una riforma in tal campo che tenesse conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. Se tale riforma che Tessitore chiama utopia non diede luogo agli effetti desiderati, ciò fu dovuto essenzialmente all'ostruzionismo della burocrazia siciliana, alle continue rivoluzioni che il Regno dovette subire dal 1820 al 1860 e all'arretratezza della mentalità locale.
Il riformismo borbonico venne senz'altro influenzato dalla presenza inglese in Sicilia tra il 1799 e il 1814; durante la conquista napoleonica dell'Italia, infatti, la corte borbonica si rifugiò nell'Isola che divenne il baluardo inglese contro l'avanzata delle forze francesi. La Sicilia rappresentò, in quell'occasione, l'unico lembo d'Europa che fosse rimasto esente dalla conquista napoleonica e ciò avrebbe purtroppo rappresentato, nel tempo, un grande handicap per l'evoluzione politica e culturale della regione. Gli inglesi contagiarono la corte borbonica in esilio con il loro riformismo che, in parte venne imposto, come nel caso della Costituzione siciliana del 1812, in parte venne volontariamente subito, come nel caso delle teorie relative alla riforma carceraria che in Inghilterra aveva avuto il suo caposcuola nell'utilitarista Bentham. Ferdinando nel suo nuovo Regno, inaugurato dopo la fine dell'Impero napoleonico, parto della fantasia dei congressisti di Vienna, ebbe il coraggio, a differenza di altri sovrani europei, di mantenere il codice napoleonico del 1810, introducendo, peraltro, opportune e moderne modificazioni. Nel regno delle Due Sicilie, peraltro, erano stati accolti, almeno teoricamente, i principi innovatori che la rivoluzione francese aveva diffuso in campo giudiziario: negazione del potere indiscriminato del sovrano sulla vita dei sudditi, relativa dolcezza delle pene, declino di quelle corporali, previsione normativa di precetti e sanzioni uguali per tutti i sudditi, rispetto delle norme processuali. (p.10).
In tale clima politico e culturale, nel 1845, subito dopo l'inaugurazione del nuovo carcere di Palermo, l'Ucciardone, ritenuto dal punto di vista architettonico il più moderno d'Europa, veniva promulgato dai Borboni un decreto sulla legislazione carceraria che, se fosse stato integralmente applicato, avrebbe reso il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva: la classificazione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell'età e del delitto commesso e la loro separazione in strutture diverse, per evitare contaminazioni. La destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all'interno degli stessi penitenziari; l'istruzione religiosa e morale ai carcerati. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.
Fra i carceri palermitani, prima dell'inaugurazione dell'Ucciardone, il principale e più affollato era la Vicaria, nome, peraltro, con cui venivano chiamati i carceri delle principali città del regno. Il carcere sito al di là della Porta Felice e affacciantesi sull'odierna via Vittorio Emanuele, occupava i locali oggi adibiti ad uffici dell'amministrazione delle Finanze, ospitava, nei primi anni dell'Ottocento, tra i 1000 e i 1500 detenuti, la maggior parte dei quali in attesa di processo. Gli altri carceri cittadini erano Castellammare, fin quando non fu distrutto e la Quinta casa, già convento dei gesuiti, sito nell'odierna via dei Cantieri.
L'autore fa, quindi, una puntuale panoramica sui vari tipi di pene e sulla loro evoluzione nei secoli.
Nel Medioevo, prima che si formassero gli stati centralizzati, la principale pena contro i vari tipi di reato consisteva nella vendetta privata o nel pagamento di un risarcimento in denaro, frutto di accordi fra le parti, detti composizioni. Nel regno di Sicilia l'amministrazione della giustizia era influenzata dalle leggi del periodo normanno e svevo e poteva considerarsi apprezzabilmente funzionante. Pur essendo la vendetta privata ancora praticata, gradualmente veniva sostituita col risarcimento in denaro, mentre si cominciava a diffondere la pena detentiva come alternativa alle sanzioni corporali particolarmente cruente. Sul finire del XVI secolo, pur restando la pena di morte la sanzione applicata per i delitti più gravi, le altre pene come i castighi fisici, le mutilazioni e la gogna cominciarono ad essere sostituiti con altri tipi di sanzioni capaci di assicurare allo stato un ritorno economico, pur mantenendo la loro funzione di terribile castigo per il reo. Si cominciò, allora, a ritornare a tre tipi di pene già note nell'antichità classica: l'utilizzo dei rei nelle galere, la deportazione e i lavori forzati.
Fu, come al solito, l'Inghilterra a farsi promotrice di tali riforme; si comprese, infatti, che invece di relegare i rei in putride carceri a marcire per la sporcizia, la mancanza di cibo o le epidemie che in quei luoghi, fin troppo spesso, scoppiavano, sarebbe stato ben più utile impiegarli ai remi, servendosi della loro forza per il trasporto di merci e persone o, meglio, utilizzarli nei lavori più duri, ai quali soltanto i disperati avrebbero potuto sottomettersi. Così nella "civilissima" Inghilterra furono fatti i primi esperimenti di prigioni galleggianti; si trattava di vecchie navi, quasi sempre in disarmo, che venivano ancorate in determinati punti del Tamigi e che arrivavano ad ospitare fino a trecento prigionieri, i quali ogni mattina venivano trasportati su chiatte dove, per lo più venivano impiegati nel terribile lavoro del dragaggio del fiume. Malgrado si trattasse di fatiche durissime sostenute in condizioni ambientali terribili, i rei preferivano tale tipo di castigo, nonostante fossero costretti a lavorare tutto l'anno all'aperto con qualsiasi tipo di clima, senza riparo alcuno, alla prigionia nell'ozio, senza mai poter vedere il cielo e respirare un'aria che non fosse quella puzzolente e malsana degli ambienti chiusi sporchi e superaffollati dove erano stati costretti a vivere. Sempre gli inglesi sperimentarono la pena della deportazione che consisteva nel condannare i rei ai lavori forzati nelle colonie inglesi d'oltremare. Alla fine del settecento questo tipo di sanzione permise alla Corona inglese di colonizzare con pochissima spesa un intero continente come l'Australia.
Tuttavia, in tutta l'Europa, agli albori del Seicento, i rei cominciarono ad essere adibiti ai lavori forzati, non solo nelle colonie o all'esterno delle prigioni, ma anche al loro interno dove vennero costruiti vari tipi di manifatture. Il prigioniero così veniva tolto dall'ozio, imparava un mestiere e nello stesso tempo diventava economicamente produttivo.
Nel Settecento cominciavano a diffondersi le teorie dei Lumi che, non solo predicavano l'eguaglianza davanti alla legge, ma miravano anche al raggiungimento di legislazioni più giuste e che prevedessero trattamenti più umanitari anche per il reo che, nonostante la colpa commessa, non meritava né la morte, né tantomeno di veder calpestata la sua dignità d'uomo. Fu il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana a rendere applicabili nella realtà i più moderni principi illuministici senza limitarsi soltanto ad approvarli come fecero gli altri sovrani europei. Il Codice Leopoldino del 1786 prevedeva addirittura, l'abolizione della pena di morte (che, tuttavia poco tempo dopo venne reintrodotta).
Con lo scoppio della rivoluzione francese i dibattiti sul rispetto dei diritti umani e sulla riforma anche del sistema carcerario, si fecero sempre più accesi e frequenti. Fu l'economista inglese Bentham, noto come caposcuola della corrente di pensiero detta utilitarismo, ad essere particolarmente attratto dai problemi connessi al sistema carcerario, problemi che divenivano sempre più pressanti, non solo per l'imperversare dei dibattiti e degli scritti in materia, ma anche per il sovraffollamento delle carceri, da cui, peraltro, si diffondevano anche all'esterno spaventose epidemie. Dopo anni di riflessione l'economista inglese pensò di aver risolto ogni problema presentando il progetto del suo Panopticon, carcere di forma circolare dotato di celle individuali, disposte lungo la circonferenza " le cui finestre e la cui illuminazione fossero gestite in maniera tale che gli occupanti fossero chiaramente visibili da una torre centrale di controllo [...] Un simile sistema di vigilanza incessante avrebbe impedito i nocivi contatti tra i detenuti, e avrebbe reso superflue le catene e altre similari anacronistiche strutture. Sorvegliati di continuo, i carcerati avrebbero potuto (e dovuto) lavorare fino a sedici ore al giorno nelle proprie celle, con grande profitto dell'imprenditore privato cui sarebbe toccato promuovere e dirigere l'istituzione in condizioni di grande vantaggio rispetto ai concorrenti costretti a far ricorso alla manodopera libera.[...] Il meccanismo del libero mercato doveva quindi essere messo in condizione di regolare senza intralci un'alternanza di terrore e di umanità all'interno del Panopticon, che andava gestito alla stregua di un'impresa capitalistica." (p. 52)
Alle obiezioni che gli vennero rivolte in relazione allo sfruttamento che i rei avrebbero subito da parte degli imprenditori, Bentham rispose proponendo, non solo che la prigione fosse aperta alla visita e all'ispezione di chiunque nutrisse dubbi sul trattamento dei prigionieri, ma suggerì, inoltre, che si imponesse agli imprenditori il pagamento di cinque sterline per ogni detenuto deceduto, quando i decessi superassero il tasso medio di mortalità a Londra. Anche se da tutto ciò si evince che il sistema prospettato da Bentham non partiva certo da ideali umanitari, il suo progetto di prigione circolare affascinò la maggior parte degli architetti del tempo e i governanti più illuminati.
Un ulteriore apporto delle idee illuministe fu quello di rendere l'esecuzione della pena capitale meno disumana, adottando metodi più indolori come, per esempio, la ghigliottina.
Fra i sovrani europei che accolsero positivamente le proposte di riforma carceraria si distinsero fra tutti proprio i Borboni che diedero prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l'Europa.
Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emetteva un decreto sulle carceri assolutamente all'avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, innanzi tutto, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai prigionieri. Inoltre, conteneva norme relative alla concessione di appalti che provvedessero, all'interno delle carceri, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione sarebbe stata, inoltre, fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico. Un successivo decreto del 1822 introduceva per la risoluzione dei procedimenti giacenti, l'istituto della tran-sazione, l'odierno patteggiamento, tra il pubblico ministero e il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato.
Il regime borbonico si dimostrò all'avanguardia, nel settore, soprattutto per la progettazione e poi per la costruzione del primo carcere che si rifaceva ai criteri architettonici suggeriti dal Bentham: si trattava del carcere palermitano dell'Ucciardone inaugurato nel 1840.
Due anni prima, sulla scia di una serie di studi e ricerche in materia, inaugurate dai francesi Tocqueville e Beaumont che si erano recati negli Stati Uniti d'America per analizzare il locale sistema carcerario, Filippo Valpolicella pubblicava, su incarico dei sovrani di Napoli, un suo ponderoso lavoro dal titolo Delle prigioni e del loro migliore ordinamento. In tale opera sembra superato l'uso della pena di morte e delle pene corporali, mentre l'esilio e la prigionia vengono ritenute le uniche pene da applicarsi contro i rei, mentre il lavoro, l'igiene, il silenzio, la divisione dei detenuti, la loro educazione religiosa, diventano i cardini del progetto di riforma. E, invero, con la costruzione dei carceri di Avellino e Palermo, ambedue a pianta circolare, alla stregua delle più moderne teorie, si dimostra che il Regno delle Due Sicilie mira alla concreta applicazione dei progetti di riforme e non alla sterile disquisizione sugli stessi. Già nel 1812 Ferdinando I di Borbone aveva sentito la necessità di sostituire il vecchio carcere di Palermo, la Vicaria, con una nuova struttura più salubre e più sicura dove i prigionieri potessero essere sottratti all'ozio ed avviati ad un mestiere. La Vicaria, infatti, presentava una pluralità d'inconvenienti: il suo sovraffollamento rendeva la vita dei carcerati simile a quella dei dannati nei gironi dell'inferno dantesco, favorendo, oltre ai vizi derivanti dalla promiscuità, il sorgere di frequenti epidemie che, per la posizione del carcere, al centro della città, facilmente uscivano dalla prigione diffondendosi fra i rioni cittadini. Inoltre la sua collocazione in centro, rendeva poco sicuro il carcere, essendo molto facilitate le comunicazioni tra l'interno e l'esterno: così com'era più semplice evadere, era altrettanto facile che, soprattutto in periodo d'insurrezioni e rivolte, il seme della ribellione penetrasse all'interno del luogo di pena.
Tutto ciò aveva distolto i governanti dal trasformare una vecchia struttura conventuale come lo Spasimo, anch'esso al centro della città, in nuovo carcere, o dal trasferire i detenuti nell'altra prigione, detta Quinta Casa. Si reputava necessario costruire il nuovo carcere fuori del centro cittadino, in luogo salubre e soprattutto su una pianta a raggiera che rispondesse ai criteri enunciati dal Bentham. Anzi il decreto del 1845, sulla divisione dei carcerati per categorie in relazione ai reati commessi e all'età, sulla fornitura di vitto accettabile, sull'adozione di celle individuali, sull'impiego dei reclusi in attività lavorative da esercitarsi all'interno della stessa prigione, sull'accettazione dell'introduzione del metodo correttivo nella pena, andava al di là dei progetti di riforma circolanti nel resto dell'Europa.
Il progetto borbonico, tuttavia, rimase un'utopia, infatti "non si era prevista la mancanza di una burocrazia fedele, onesta e zelante del pubblico bene, attenta alle nuove riforme, conseguentemente le modifiche apportate al sistema carcerario, pur tendenti a un utilizzo più produttivo e moderno della forza-lavoro detenuta, vengono in realtà inapplicate da amministratori locali, nonostante il cambiamento di gestione riluttanti verso qualsiasi novità proveniente da Napoli e tendente ad un accentramento statale" (p. 204)
L'apertura del regime borbonico nel campo della politica carceraria contrasta con la fama che esso acquistò in Europa per merito del liberale Gladstone che, nel 1851, recatosi a Napoli per motivi di salute, essendo andato a visitare le carceri di Nisida, definì il regime borbonico " la negazione di Dio, la sovversione d'ogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo" (p. 204) Si seppe ahimè! troppo tardi che Gladstone non era mai andato a visitare le carceri borboniche e che quelle sue famose lettere pubblicate da tutti i giornali inglesi e discusse nel parlamento britannico, non erano state altro che il frutto di un accordo tra il politico liberale e il governo di Sua Maestà, per mettere in cattiva luce davanti all'Europa intera, la dinastia borbonica, colpevole di aver favorito una penetrazione russa nel mediterraneo a discapito degli interessi commerciali inglesi. In compenso agli occhi degli osservatori stranieri le carceri inglesi si rivelarono ben peggiori di quelle napoletane!
Nemmeno con l'unità nazionale cambiarono i sistemi nelle carceri della penisola, "[...]lo stato liberale continuò ancora a comportarsi come uno stato di polizia, al cui confronto quello borbonico appariva addirittura più rispettoso dei diritti umani" (p. 208).

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