GIAN BIAGIO FURIOZZI Alceste De Ambris e il sindacalismo rivoluzionario Franco Angeli Ed. Milano 2002
Il saggio di Gian Biagio Furiozzi, ordinario di Storia del Risorgimento all'Università di Perugia, ci offre la possibilità di conoscere meglio una delle figure più emblematiche del socialismo sindacalista italiano: Alceste De Ambris. Definito da De Felice come uomo d'azione, piuttosto che teorico, egli fu, in effetti, anche ideologo e pensatore anche se le sue tesi, facilmente comprensibili dai ceti più umili ed incolti della società italiana, rispondevano perfettamente alle necessità della propaganda più che dell'elaborazione dottrinaria. Nel periodico L'Internazionale, di cui nel 1907 era direttore, egli scrisse: " Tutto quanto nella vita politica, letteraria o artistica avviene d'importante troverà posto nel giornale, compilando il quale, però, non dimentichiamo mai ch'esso è fatto per dei lavoratori che certo non desiderano di vederlo diventare una palestra di bizantinismi politici, né un'accademia d'estetismo letterario e artistico" ( p. 13)
E' proprio del 1907 il suo scritto teorico più significativo, L'azione diretta. Pagine di propaganda elementare sindacalista, saggio in cui elaborò tesi originali ed interessanti, fra cui un'analisi molto acuta delle cosiddette classi intermedie, a metà tra il proletariato e la piccola borghesia, interessate soprattutto agli interessi economici della propria categoria e disposti, per questo scopo a sabotare le lotte per il conseguimento delle conquiste proletarie. Tale tesi avvicina De Ambris al Mussolini di Utopia, rivista che avrebbe costituito un ponte tra il socialismo e le sue eresie, soprattutto il sorelismo e il sindacalismo rivoluzionario. Già da allora, anche prima del fallimento dello sciopero agrario di Parma, nel 1908, De Ambris aveva compreso che solo l'unione delle forze proletarie e la lotta per l'affermazione di principi che edificassero una nuova società fondata sulla giustizia, e non la battaglia per fini contingenti, lo sciopero fine a se stesso, avrebbe assicurato la conquista del potere da parte della classe operaia e contadina.
Come la maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari, anche De Ambris fu un meridionalista, pur essendo nato al confine tra la Toscana e l'Emilia, e come tale, fu evidentemente anche un antiprotezionista, polemizzando perciò, con i socialisti riformisti difensori assoluti degli interessi della classe operaia del triangolo industriale del nord.
Per combattere il capitalismo egli suggeriva di ridurre progressivamente il profitto capitalistico, sino ad arrivare al totale possesso da parte del proletariato, dei mezzi di produzione e di scambio. Scriveva: "[…] in conclusione la lotta di classe si esplica, secondo noi, in una serie ininterrotta di attacchi al profitto capitalistico, la cui limitazione va intesa come un'espropriazione parziale anticapitalistica fatta soprattutto allo scopo di prepararne l'espropriazione totale"(p. 21) tutto ciò presupponeva anche l'accettazione della violenza, verso la quale De Ambris non nutriva alcun pregiudizio se essa venisse intesa come strumento per la riuscita della rivoluzione sociale, ma che rifiutava in blocco, almeno fino al 1914, se intesa semplicemente come militarismo, cioè come strumento di mera conquista o sopraffazione.
In un secondo tempo egli elaborerà una teoria corporativista, a cui rimarrà fedele fino alla fine, anche durante l'esilio in Francia, dove morirà nel 1934, a sessant'anni, pur distinguendo il suo corporativismo liberale da quello di Mussolini. Il corporativismo era il nuovo strumento da usare, al posto dell'esproprio parziale o totale, per superare e distruggere la logica e il sistema capitalistici.
A differenza della maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari che condannavano la cooperazione vedendo in essa il pericoloso strumento di trasformazione del proletariato in ceto borghese, egli vi fu sempre favorevole, considerandola come una vera e propria palestra di democrazia, come la migliore scuola per sviluppare le capacità tecniche e politiche del proletariato: "Nelle cooperative di consumo e di credito il proletariato impara difatti ad organizzare lo scambio senza bisogno di intermediari parassiti, come nelle cooperative di lavoro e di produzione apprende a condurre la fabbrica od il campo facendo a meno dell'industriale o del proprietario"(p. 27).
Molto meno coinvolto dei suoi compagni si dimostrò rispetto al mito dello sciopero generale soreliano che intese essenzialmente come momento conclusivo del movimento di emancipazione operaio, che andava invece tecnicamente appreso ed elaborato in seno alle cooperative.
Come tutti gli eretici marxisti del suo tempo fu un antiparlamentarista, ritenendo il Parlamento uno strumento della dominazione capitalista. Coerentemente a tale posizione, accettò la candidatura alle elezioni politiche del 1913 per il collegio di Parma, come una candidatura di protesta, cioè come una candidatura valida per permettergli di regolare i suoi problemi giudiziari, nati dopo lo sciopero del 1908, che lo avevano costretto all'esilio, e di tornare in patria per riprendere la lotta sindacale fra gli agrari padani.
Pur essendo in esilio, nel 1912 partecipò da lontano alla fondazione dell'USI, Unione Sindacale Italiana, in contrapposizione alla CGL, diventata ormai uno strumento nelle mani di un partito ogni giorno più riformista e filo-giolittiano. L'Usi avrebbe avuto il compito di risvegliare il proletariato dal torpore in cui lo costringevano le riforme illusorie della borghesia progressista.
La guerra libica del 1911 che aveva fatto scoprire a molti sindacalisti, come per esempio Olivetti, l'importanza della nazione come crogiuolo d'interessi diversi e quindi come momento d'unione nella lotta della collettività, lo vide fra i più accesi avversari, essendo da lui considerata semplicemente come un'impresa piratesca a danno di un popolo più povero e più debole.
Viceversa, la I guerra mondiale lo vedrà accanto a chi, come Arturo Labriola, fin dal 1911, aveva sostenuto la necessità di addestrare il popolo italiano alla guerra, per renderlo capace di fare la rivoluzione. "La guerra come palestra rivoluzionaria, sembrava la carta da giocare di fronte alla crisi del movimento operaio e contadino" (p. 57).
Tale cambiamento fu determinato, come avvenne anche in Mussolini, da molteplici fattori, fra cui l'avvicinamento alle teorie mazziniane e all'idea di nazione, ma soprattutto la lezione appresa dal fallimento della settimana Rossa e dell'Internazionale socialista: " Siamo e saremo sempre - scriveva nell'Internazionale del 22 agosto 1914 - contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, perché tutto ciò è perlomeno estraneo al nostro interesse. Ma non è ugualmente estraneo al nostro interesse il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire"(p. 73) La guerra che sosteneva e a cui coerentemente partecipò da volontario, era la guerra contro le potenze reazionarie del centro. Europa, la guerra per il trionfo della democrazia, la guerra come preparazione alla rivoluzione interna, "banco di prova del patriottismo rivoluzionario".
La guerra lo avvicinò ai fasci di combattimento e al primo fascismo, da cui si allontanò quando ne comprese il carattere reazionario.
Approvò la rivoluzione del febbraio 1917, ma non quella leninista dell'ottobre successivo, in cui ravvide i segni di una tirannide violenta e antipopolare.
Scendendo in campo con Gabriele D'Annunzio, durante l'occupazione di Fiume, cercò di armonizzare la dottrina sindacalista rivoluzionaria con gli ideali nazionali e lo fece redigendo il suo progetto di Costituzione, la Carta del Carnaro, che il Comandante accettò nella sua integrità.
Gabriella Portalone
Sandro CIURLIA, Antonio Corsano e la filosofia analitica: il pensiero giovanile di Leibniz, presentazione di Giovanni Papuli, Galatina (Le), Congedo, 2002, pp. 202.
La questione dell'origine del concetto di analisi rappresenta uno dei grandi problemi della storia della filosofia. Questa monografia di Sandro Ciurlia intende analizzare l'interpretazione dello storico della filosofia Antonio Corsano riguardante il pensiero giovanile di Leibniz, collocato all'interno degli sviluppi della filosofia analitica moderna, fondata sull'individualismo della tradizione dell'occamismo. Il lavoro, condotto attraverso l'utilizzo di un variegato ventaglio di fonti, è completato da un'ampia riflessione critica intorno alla poliedricità del pensiero del giovane filosofo di Lipsia ed evidenzia la precarietà di qualsiasi riduzione teorica tesa a 'chiudere' questa filosofia all'interno unicamente della problematica logica, come avevano fatto, ai primi del Novecento, Russell e Couturat.
Il volume si apre con una densa presentazione di Giovanni Papuli che ripercorre brevemente le maggiori tematiche del testo, evidenziando, in particolar modo, come la filosofia analitica non debba necessariamente coincidere con il metodo dell'analisi, in quanto "essa costituisce, piuttosto, un generale atteggiamento di pensiero teso a ridefinire i rapporti tra logica e metafisica e a focalizzare l'attenzione sui fenomeni del mondo naturale" (p. V). Di Papuli è anche l'iniziativa di una ristampa delle Opere scelte di Corsano in sei volumi presso la casa editrice Congedo, con il patrocinio dell'Università di Lecce e del Comune di Taurisano di Lecce.
Il primo capitolo (La ripresa del paradigma analitico nella filosofia contemporanea) intende offrire una ricognizione della plurivocità di significati che il termine "analitico" ha assunto nella riflessione filosofica odierna. L'analisi, oltre che essere sinonimo classico di scomposizione, è da intendersi come traduzione. La linguisticità del problema dell'analisi è, come ben noto, una tematica essenziale nei lavori di Frege, Russell, Wittgenstein, Grice e Quine. A seguito, appunto, della riflessione di Quine su analitico e sintetico, si è giunti ad un abbandono della filosofia linguistica, riprendendo il paradigma dell'analiticità all'interno del successivo quadro interpretativo della cosiddetta svolta cognitiva. A causa di queste difficoltà, per analitico possiamo intendere, nell'attuale discorso filosofico, uno "stile" fatto di argomentazioni stringenti, esempi mentali e tentativi di dimostrazioni serrate. Su questo sfondo è utile considerare gli studi di Corsano sulla filosofia analitica, il quale indaga l'evolversi della filosofia analitica da Suárez a Frege. L'indagine di Corsano è volta a chiarificare il concetto di "origine" in relazione alla filosofia analitica moderna. Le origini del paradigma moderno dell'analisi vengono poste da Corsano nel tardo Rinascimento, in cui riemergono le posizioni del nominalismo tardo medievale. Un nominalismo caratterizzato da una sintesi tra razionalismo e lo studio degli eventi naturali, che hanno come conseguenza l'origine di una logica inventionis. Un'altra fonte della filosofia analitica sarebbe rappresentata dalla nascita della scienza moderna.
Lungo tale percorso, Suárez è una tappa obbligata. Egli "correla logica e metafisica, sottolineando il ruolo di mediazione svolto dal linguaggio" (p. 20). Il gesuita spagnolo, secondo Corsano, è un convinto individualista. La "metafisica noetica" di Suárez è basata sugli individui, intesi come uniche realtà ed in cui la compositio è determinata da un modernissimo principio di relazione. Ogni individuo, inoltre, si ricava per negazione aggiunta, che evita che ci possa essere una separazione dell'individuo da se stesso. Questa "identità nella distinzione", rileva Ciurlia, rende possibile la molteplicità. Suárez non costituisce solo un importante capitolo della storia della filosofia analitica moderna, ma è l'autore che rende nominalista il giovane Leibniz. Nella Dissertazione metafisica sul principio d'individuazione del 1663 esprime un nominalismo moderato, poiché il nominalismo è scelto perché rappresenta "una sorta di provvisorio punto d'arrivo non in quanto l'unico o il solo, ma perché il più duttile o, meglio, il più euristicamente plastico tra i possibili" (p. 66). Di fondamentale importanza è, inoltre, il Corollario III della Disputatio: "Le essenze delle cose sono come numeri". In questo saggio sono presenti, in tutta la loro problematicità, le posizioni dei suoi due maestri: Thomasius e Weigel.
Nella Dissertazione sull'Arte combinatoria, è evidente un confronto di Leibniz con la posizione di Hobbes, in cui l'uguaglianza corpo-movimento è particolarmente influenzata dal pensiero del filosofo inglese. Nella Dissertazione preliminare all'Anti-Barbarus del Nizzoli, Leibniz, secondo Corsano, oltre che considerare l'umanista italiano Nizzoli come un pensatore collocabile nella tradizione del nominalismo, evidenzia le suggestioni hobbesiane sulla convenzionalità del linguaggio. Ciurlia nota acutamente, invece, quanto complesso sia il riferimento leibniziano a Hobbes, data l'esigenza di Leibniz di fondare un concetto logicamente rigoroso di verità. Di fondamentale importanza è, inoltre, la distinzione leibniziana tra linguaggi ordinari, di cui quello filosofico ne è un affinamento, e linguaggi di struttura, che hanno come paradigma quello matematico. In quest'opera, Leibniz ricorda che l'errore principale del Nizzoli sarebbe quello di aver considerato l'universale come "collettivo", per cui l'universalità sarebbe determinata da un insieme di individui presi in modo simultaneo; viceversa, occorre fondare una forma di universale di tipo "distributivo", frutto dell'applicazione sistematica della categoria di relazione. Su questa stessa linea si colloca il Dialogo del 1677 relativo alla connessione delle parole con le cose, che vede come protagonisti un Realista ed un Nominalista. La questione ivi posta, cioè se "i pensieri possano prodursi senza vocaboli", viene risolta dal Nominalista nel senso che "non può darsi pensiero al di fuori di un linguaggio morfo-sintattico possibile, verbale, figurale, numerico o di qualunque altra natura esso sia" (p. 97). La Dissertazione sull'Arte combinatoria e il Dialogo sono le opere che meglio chiarificano la posizione di Leibniz sulla lingua. Nel pensare alla Caratteristica universale, invece, Leibniz immagina una lingua di calcolo universale che riesca a collegare i vari campi del sapere, usando i caratteri segnici al posto delle idee per economia di pensiero. Ciurlia nota che, in realtà, proprio in questo progetto che sembrerebbe tout court di tipo logico, è evidente una "metafisica del segno", in cui si può ravvisare una forte componente etica.
La posizione di Leibniz sui concetti di "analisi" e "individuo" si definisce attraverso il confronto con Cartesio. Quest'ultimo, ricorrendo all'immediatezza della intuizione, è da inserirsi entro un "intellettualismo sintetico - induttivo", che, attraverso la "mistica certezza" dell'evidenza, è ben distante dal concetto di analisi leibniziano. La svolta realista di Leibniz, successiva agli anni Settanta, è il frutto dell'intrecciarsi dei fili del ragionamento logico e metafisico, a seguito delle considerazioni sulla categoria del possibile. Scrive Ciurlia: "La restaurazione di una massiccia componente realista nel suo pensiero non costituisce tanto, per Leibniz, un radicale mutamento di rotta ad inaugurazione di una nuova stagione speculativa" (p. 135). Il possibile, infatti, è inteso come assenza di contraddizioni, per cui "è reale ciò che è possibile per il pensiero". Tra individuo e possibilità non c'è contraddizione. L'individuo, a sua volta, costituisce il limite ultimo della ragione. Da qui l'idea corsaniana del pessimismo leibniziano. Un pensiero, quindi, come acutamente osserva Ciurlia, che "si appropria del limite ed edifica le sue maestose architetture sull'orlo di un abisso, al confine di sterminati spazi ignoti ed inesplorati" (p. 149). Dall'intreccio tra la problematica dell'individuo all'interno della logica leibniziana discende la concezione della monade, connubio di logica e metafisica.
Nell'ultima parte della monografia, l'autore intende comprendere il ruolo svolto dalle ricerche di Corsano nell'evoluzione degli studi sul pensiero del filosofo lipsiense. A seguito delle classiche monografie su Leibniz di Russell, Couturat e Cassirer, l'opera del 1952 di Corsano è caratterizzata da una precisa piattaforma interpretativa. Come già ricordato, Corsano sottolinea l'influenza nominalistica esercitata su Leibniz da Suárez ed Hobbes, ravvisando, inoltre, una sostanziale unità di pensiero nel percorso speculativo di Leibniz ed intendendo la fase matura della sua opera non come una rottura, ma come una naturale emersione di interessi e problematiche diversi. Ciurlia osserva, quindi, che l'interpretazione di Corsano propone un Leibniz "filosofo dell'Umanesimo, portatore di una filosofia del limite nel limite". Tra coloro che hanno maggiormente discusso la posizione di Corsano c'è stato Francesco Barone, il quale nota come, accanto al richiamo a Suárez, Leibniz dedichi molte pagine a criticare la filosofia di Hobbes. Barone, inoltre, ricorda come di grande rilievo siano in questa fase giovanile le influenze platonico-pitagoriche correlate ad una metafisica del numero. Corsano, in risposta alle posizioni di Barone, recensendo Logica formale e logica trascendentale, nota come Barone confonda la dimensione storica con la ricostruzione sistematica e legga il pensiero leibniziano alla luce di Kant. Se poi consideriamo che Giacon ricorda che il nominalismo di Suárez ha una natura del tutto particolare il tutto si complica.
In conclusione, l'autore ricorda come "il contributo di Corsano alla Leibniz-Forschung, tra le sue luci e qualche ombra, consiste, soprattutto, nell'aver guidato verso una più circospetta attenzione da rivolgersi sia alla tradizione logica che innerva l'impresa critica giovanile leibniziana, sia alla funzione storico-critica svolta al suo pensiero in seno alla filosofia analitica moderna, ed in tal senso può dirsi ancor oggi significativo" (p. 181). L'analisi di Corsano è condotta attraverso un rigoroso rispetto filologico delle fonti. Oggi emergono altri aspetti importanti: il neoplatonismo (Bisterfeld) o l'importanza del Leibniz organizzatore culturale.
Il presente lavoro di Ciurlia, scritto con un chiaro periodare e caratterizzato dalla consueta eleganza espositiva, riesce ad intrecciare i difficili nodi dell'evoluzione speculativa leibniziana con l'interpretazione di Corsano e dimostra una finezza che proviene da un'ottima conoscenza delle fonti. La questione della filosofia analitica nel pensiero logico giovanile di Leibniz, inoltre, può rappresentare una via preferenziale alla comprensione della filosofia analitica contemporanea, che secondo Dummett, troverebbe il suo primo corifeo in Frege. La fruttuosità del "seme" leibniziano, nei filosofi e logici successivi, risulta incomprensibile senza un accurato studio, come il presente, della genealogia dei percorsi giovanili leibniziani all'interno di una problematizzazione storica delle varie componenti della questione. Le molteplici questioni in cui si imbatte l'autore vengono analizzate tenendo in considerazione lo sgorgare dei problemi lungo il flumen della storia e cercando di porre delle possibili risoluzioni attraverso lo studio dei contesti e dello sfuggente panorama delle fonti dirette e indirette.
Daniele Chiffi
GIAMPAOLO PANSA, Il sangue dei vinti, Edizione Sperling - Kupfer, Milano 2003
Il fascismo ha sicuramente commesso gravi errori. Ha fatto la guerra, ha promulgato le infelici leggi razziali, durante la RSI ha nutrito nel suo seno anche dei criminali, ma nei suoi più di vent'anni di governo ha realizzato anche molte cose buone; cose che non stiamo qui a ricordare perché ancora sotto gli occhi di chi non si rifiuta di guardare e di ricordare. Dopo la fine della guerra con la conseguenziale sconfitta militare, però, sono stati molti - troppi per la verità - che al di fuori di qualsiasi codice umano e civile hanno colto l'occasione per dar di piglio alle loro personali vendette; vendette concretatesi con l'uccisione indiscriminata di tanti innocenti rei soltanto di non aver fatto nulla di male o di aver avuto un occhio benevolo nei riguardi del regime vigente. Insomma, com'è scritto nel risvolto del libro di Giampaolo Pansa - micidiale fu "la brutalità del castigo inflitto a chi era schierato con la Repubblica sociale italiana"; castigo che s'incrociò "con l'eliminazione preventiva di quanti avrebbero potuto opporsi alla vittoria del comunismo in Italia: i borghesi ricchi, gli agrari, i preti, i democristiani".
Diverso, al riguardo, il discorso relativo ai criminali fascisti che pure avrebbero dovuto essere giudicati da regolari tribunali e non da singoli o gruppi che fecero solo giustizia sommaria al di là di un pur minimo rispetto del garantismo. Qualcuno - moltissimi, anzi - potrebbe obbiettare: "Ma c'era la guerra". D'accordo, ma le efferatezze e le rappresentaglie furono troppo violente ove si consideri che esse si estrinsecarono in atti di rancori personali che sfociarono in episodi di vera e propria barbarie dalla quale non furono, beninteso, esenti alcuni criminali del partito avverso. In altre parole, in un clima di totale anarchia, i partigiani italiani diedero sfogo a tutti i loro risentimenti ammazzando tanti innocenti unitamente ai gerarchi, agli uomini normali e, infine, a numerose donne.
Tutto ciò è documentato, con dovizia di particolari, spessissimo raccapriccianti, da un giornalista e scrittore che di tutto può essere accusato fuorché di simpatia per i fascisti, visto e considerato che l'Autore è un fior di progressista e, in quanto tale, un uomo di sinistra che ha voluto, com'egli scrive nell' "Avvertenza" al lettore, narrare "quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassinii di cui furono vittime". Ne è venuto fuori un ponderoso volume che ricostruisce - con tanto di nomi e cognomi dei martiri - minuziosamente fatti ed episodi delle regioni e delle province del Norditalia, tragico scenario di una ferocia che ha pochi precedenti nella storia d'Italia.
Ragion per cui ci sembra giusto condividere l'affermazione del citato risvolto secondo cui l'Autore "ci offre una nuova testimonianza della sua onestà di narratore, capace di osservare con sguardo limpido anche le vicende e le figure di un campo che non è mai stato il suo".
Le regioni, con le rispettive province, prese in esame da Pansa sono solo alcune del Nord - Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna - avendo egli "rinunciato di proposito", è scritto nell'Avvertenza al lettore, ad occuparsi "delle stragi compiute in Venezia Giulia dai partigiani jugoslavi di Tito e dei trucidati nelle foibe".
Ora, visto che dai nostri conti, il numero dei trucidati delle menzionate regioni ascende, morto più morto meno, a ben 18.159, si può affermare, con buone ragioni, che la somma totale di 50.000 vittime delle faide operate dai partigiani italiani potrebbe rispondere al vero, sebbene altre fonti parlino di numeri più alti anche in considerazioni del fatto che, in quel clima di esecuzioni sommarie, di tanti infelici scomparsi non si è mai saputo nulla. Come, tra l'altro, risulta dai dati dell'Autore il quale confessa di aver potuto commettere degli errori. Mancano, comunque, dalla disamina pansiana: Toscana, Marche, Umbria, Lazio e la citata Venezia Giulia.
Sta di fatto, comunque, che le stragi ci furono e di grande afferatezza, tenuto, altresì, conto del disegno del Partito comunista italiano dell'epoca volto ad impossessarsi del potere come scrive lo storico Giovanni Fantozzi, citato da Pansa. Secondo lo studioso, i responsabili dei delitti del Modenese - ma il discorso vale anche per le altre regioni - "erano "nella stragrande maggioranza" ex partigiani iscritti o simpatizzanti del Pci. Nella loro idea stravolta di lotta politica, le vittime erano "nemici di classe" o, comunque, avversari potenziali della marcia comunista verso la conquista del potere anche in Italia". Tale tesi viene suffragata da due storici - Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavski - i quali nel loro libro, "Togliatti e Stalin", sostengono - e la citazione si trova nel libro di Pansa - che "le vendette e poi l'epurazione non avevano per scopo soltanto di mettere fuori gioco chi aveva compiuto crimini di guerra o anche chi era stato soltanto fascista. Per i dirigenti comunisti italiani, l'obiettivo era un altro e ben più importante: idebolire un'intera classe, la borghesia, e sostituire il vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse pienamente rappresentato".
Giampaolo Pansa non manca, naturalmente, di dedicare un capitolo al famigerato episodio del cosiddetto "triangolo della morte" che tante vittime innocenti mieté in quel lugubre scenario dell'Emilia rossa. Ad ogni modo, i dati relativi alle vittime del tringolo - aggiungiamo - restano ancora approssimativi considerato che anche molte ausiliarie caddero sotto i colpi della furia iconoclastica dei partigiani i quali, a guerra finita, perseverarono nell'ammazzare in maniera indiscriminata coloro i quali avevano avuto solamente il torto di essere, leggiamo sempre nel risvolto del libro di Pansa, "donne e uomini qualunque, vite anonime anch'esse straziate" e spesso ancora "in attesa di una dignitosa sepoltura". In definitiva, non è lontano dal vero - come si riteneva nell'immediato dopoguerra - il totale di 300.000 eccidi compiuti dai partigiani soprattuto a guerra finita e addirittura fino agli inizi degli anni Cinquanta.
Lino Di Stefano
Tommaso Romano, Torre dell'Ammiraglio - Proposte Tradizionalpopolari nell'epica della mondializzazione, Palermo, ISSPE, 2002, pp. 196.
Terzo volume della "Biblioteca del Mosaicosmo" questo Torre dell'Ammiraglio raccoglie la ampia e variegata lettura metapolitica e culturale di Tommaso Romano che si dipana dagli inizi degli anni settanta.
In questo volume di particolare interesse i saggi, gli articoli e i documenti di Tradizionalismo Popolare, movimento cattolico di destra molto attivo fra la seconda metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta. Romano ne fu attivo Presidente Nazionale e i testi disegnano l'iter ideativo e le battaglie concrete per l'identità, la tradizione cattolica, la spiritualità, l'economia organica e senza unità, la forte battaglia antimafia.
Il libro, che va letto con i precedenti sempre editi dall'ISSPE, contiene anche i frammenti siciliani saggi e interventi del milazzismo interpretato da Dino Grammatico, l'avventura della Biblioteca Filosofica di Palermo diretta da Gentile e Giuseppe Amato Pojero, la magia dell'Atelier di Antonio Presti a Marina di Tusa.
Lo stile di Romano (poeta assai noto recentemente e ampiamente studiato in una bella monografia di Salvatore Magno "L'ora illegale") è terso ed inconfondibile. Proprio su "Il Domenicale" Gerardo Picardo ha affermato che Tommaso Romano è l'ultimo filosofo della Magna Grecia, affermazione che dà la misura di un impegno multiforme e inesausto nei campi della riflessione culturale e della creatività artistico-poetica, nonché dell'attività editoriale di Thule, che organizza e dirige dal 1971.
Nel conferirgli la Cittadinanza Onoraria nel 2000 il Comune di Baucina (Palermo) pubblicò una mia monografia dal titolo "L'incandescente chiarore", dove traccio un ritratto a tutto tondo di Romano, questo protagonista della Sicilia.
Giovanni Taibi
Francesco Lo Jacono battaglia, Santa Flavia. Una villa, una chiesa, un comune, ed. ISSPE, Palermo 2003.
Francesco Lo Jacono Battaglia con Santa Flavia. Una villa, una chiesa, un comune, il primo di una trilogia che si impone per rigore storico ed accurata ricerca, compie una significativa operazione: non solo dona alla Comunità flavese ed alla cultura siciliana un valido, completo ed organico testo, ma anche riuscendo a coniugare tradizioni popolari e riscoperta documentaria, dà vigore alla "memoria storica" e ripropone la valenza e l'importanza della tradizione orale, del variopinto e variegato "mondo degli anziani", vero e proprio "archivio vivente" seppure "in via di estinzione".
Argomentazioni precise e puntuali, ricolme anche di molte e colorite espressioni dialettali locali, che le giovani generazioni non sempre conoscono. E questo sin dall'iniziale descrizione del territorio, della fauna e della flora flavese di oggi.
Un'esauriente analisi delle origini della Comunità, da Solunto città sicana-elima a Solunto baronia, su cui, comunque, l'Autore si è già soffermato con dovizia di particolari nel libro Solunto, pubblicato nel 2002 a cura dell'Amministrazione Comunale di Bagheria.
Il ritorno della nobiltà nella campagna di Solanto e la costruzione della Villa, "fabbrica povera del barocco siciliano", ma maestosa e "laureata", per dirla con Giacomo Giardina, da parte del Principe Pietro Filangeri, sono temi che caratterizzano la parte centrale del libro, riccamente corredato da riproduzioni di documenti, fotografie, ma anche disegni ed acquerelli di Venera Carini.
Francesco Lo Jacono non è nuovo nel dedicato e complesso compito... "agiografico", per così dire, flavese, poiché si è ben cimentato, negli anni scorsi, anche con la pubblicazione di Ciuriu Solantu e Solanto, riuscendo per questo a conseguire il Premio Solanto e ad ottenere consensi dal Prof. Gaetano Cipolla, docente della Prestigiosa Saint John University di New York.
Ma Lo Jacono Battaglia fa di più: con quest'ultimo tassello il suggestivo e mirabile mosaico flavese finalmente si compone e completa.
Nel descriverci la storia della "chiesa soluntina", l'Autore ne coglie la precisa funzione: assieme alla Villa Filangeri, la Chiesa ha, infatti, il compito di "esaltare il prestigio e l'autorità del Principe Patrono" e con essa costituice un indubbio polo di aggregazione sociale.
I villaggi nel feudo di Solanto, le chiese filiali e curate della Parrocchia di S. Anna evidenziano e l'Autore lo sottolinea - la lenta trasformazine socio-economica, il graduale distacco dalla Chiesa del Principe "quasi una rivalsa contro la feudalità".
Tale "spirito d'indipendenza" contribuisce certamente al ritardo nella fondazione del nuovo comune autonomo di Solanto, che avviene poi, grazie al decreto del 21 settembre 1826, emesso da Francesco I, Re delle Due Sicilie.
Un lungo scorcio temporale caratterizza, dunque, le descrizioni del volume di Lo Jacono Battaglia, che indulge ad un attento esame delle fonti bibliografiche e documentarie, esame che consente di affidare all'attenzione e alla riflessione dei lettori documenti poco conosciuti come la "collettazione del comune di Solanto" del 1824-1826 e quelli conservati presso gli archivi della Parrocchia di S. Anna e dell'Orfanotrofio Pezzullo di Santa Flavia.
Umberto Balistreri
Salvatore Vacca, I Cappuccini di Sicilia: Percorsi di ricerca per una lettura storica. Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2003, pagg. 580.
Quando nel 1525 Frate Matteo da Bascio iniziò, nell'ambito della ormai sviluppatasi famiglia francescana, uno dei movimenti di riforma, di cui essa fu oggetto con varie motivazioni ed in varie direzioni, quando cioè ebbe inizio la riforma che avrebbe portato alla nascita dell'ordine dei Cappuccini, anche nel Regno di Sicilia era sentita comunemente l'esigenza di rinnovamento della Chiesa e della vita religiosa verso un ruolo dei ministri di Dio più rigorosamente evangelico, più caritativo e più vicino ai bisogni effettivi della stragrande maggioranza dei fedeli.
La Sicilia del sedicesimo secolo, nelle campagne e nei piccoli paesi dell'interno, mostrava un modello sociale inerte, estremamente arretrato e soprattutto povero, essendo il popolo comune legato esclusivamente alla terra, d'onde la maggior parte degli abitanti traeva i minimi mezzi per una sussistenza ogni giorno problematica. Ciò, senza alcuna prospettiva d'elevazione culturale o sociale; sicchè nelle cronache e nei documenti del tempo lo sfondo umano su cui si poneva ogni fatto è qualificato assai spesso dai termini povertà, miseria, bisogno, malattie, ecc.
Era solo la Chiesa, col suo messaggio spirituale di speranza cristiana, a propendere verso tutta questa gente. E fu in tale contesto che un più deciso costume di vita dei predicatori della parola di Cristo, basato su comunità condividenti una vita essenziale fatta di lavoro, preghiera e contemplazione, sostenuta dalla carità e tendente essenzialmente alla predicazione della parola di Dio, attrasse il favore delle popolazioni rurali della Sicilia. E fu anche in ragione di una tale situazione che potè avvenire una rapida espansione dei Cappuccini dalla vicina Calabria dove aveva avuto una felice fioritura, verso la Sicilia, dove già poco dopo la metà del cinquecento il loro numero si avvicinò ai quattromila frati distribuiti in una cinquantina di conventi.
I conventi dei cappuccini sarebbero stati poi per secoli, per le popolazioni del contado circostante, non solo le fonti d'onde si irradiava la parola di Dio mediante assidue predicazioni e somministrazione dei sacramenti, ma anche centri di istruzione, conservatori ed elaboratori di cultura nelle loro sempre più fornite biblioteche e, per contadini e pastori, il rifugio nei pericoli, l'officina più attrezzata, il pronto soccorso e la farmacia; mentre per molti feudatari e borghesi fu un punto d'onore l'essere loro "benefattori". Fu tradizionale infatti per secoli, fino al tramonto del mondo e dell'economia rurali, che al momento del raccolto, si fosse moralmente obbligati a versare al frate cercatore olio, frumento, castagne, cotone, ecc. per la vita del convento e per i suoi poveri; perchè si realizzasse quel circolo di solidarietà e carità della suggestiva metafora detta da frà Galdino nei Promessi Sposi: "perchè noi siamo come il mare che riceve l'acqua da tutte le parti e torna a distribuirla a tutti i fiumi".
Ma, a parte i richiami emozionali, traibili ancor oggi dalla visita d'un convento francescano cappuccino e la ricostruzione etnologica della società rurale che, nell'arco di quattro secoli, vi gravitò intorno, importante è una investigazione sul tipo di fede e di spiritualità che, storicamente, è possibile individuare quale prodotta nei contesti cappuccini siciliani.
Padre Salvatore Vacca(1) attuale superiore di uno dei Conventi cappuccini più noti e più belli, quello di Gibilmanna, con il suo recentissimo libro "I Cappuccini in Sicilia: percorsi di ricerca per una lettura storica", attraverso la considerazione d'una enorme quantità di documenti (editi od inediti) interni od esterni alla memorialistica di questi Frati minori, induce alla scoperta delle autentiche relazioni tra i frati, con i loro conventi, ed il popolo che loro gravitava intorno. Certo, la ricerca non prescinde dalla ragione più profonda per cui questo ordine ha voluto essere presente nel mondo; quindi vi si insiste sul rapporto tra religiosità popolare ed assetto sociale del mondo contadino cui l'Ordine è stato particolarmente dedicato; e vi si indaga sulle relazioni tra tutto ciò ed il livello di solidarietà caritativa che si è potuta sviluppare in un siffatto contesto.
Molto profonda ed interessante è nel libro del P. Salvatore Vacca l'indagine, fondamentale ai fini di una giusta qualificazione della ricerca, sulle relazioni fra tradizioni popolari religiose e consuetudini superstiziose o addirittura paganeggianti.
Ciò, l'Autore fa inducendo a riflettere tra una enorme quantità di fonti e distinguendo storia da leggende ed agiografia. Suggestiva è tra l'altro -perchè conduce la memoria alla soave immagine di Dante (Scalzasi Egidio, Scalzasi Silvestro dietro allo Sposo sì la Sposa piace), la riproduzione di alcuni brani di manoscritti contenenti notizie circa la prima diffusione della nuova regola in Sicilia:
"Ma perchè è proprio del bene e della carità il diffondersi, e non stare rinchiuso in pochi termini, si cominciò a dilatarsi non solo nel Regno di Napoli, ma anco in quello di Sicilia, pigliando il luogo vecchio di Messina ch'era circa due miglia lontano più sopra di questo presente, dove vi costituì per guardiano il padre Francesco Palamone da Reggio, e poi in Palermo di passo in passo per tutte le altre città di Sicilia" (...) "In breve spazio venne questa novella vigna del Signore a germogliare così gloriosamente nell'isola di Sicilia poichè egli (Bernardino Molizzi da Reggio, il Giorgio) è stato quello il quale più d'ogni altro s'affaticò in queste parti di ricevere novi frati, pigliare, e vestir i convertiti novitii e fondare nuovi luoghi come è stato quello di Palermo, di Termine, di Cefalù et altri"(2). Nonchè, di altro autore: "Indipendentemente dal Fossombrono in pochissimo tempo, il beato padre colla sua sapienza, zelo, e santità portò come appresso vedremo la Riforma, ma che in tutte e due le Calabrie, ma nelle provincie di Basilicata, di Napoli, di Puglia, di Messina, di Palermo, che vale a dire in tutta la Sicilia, per mezzo di suoi sapienti, santi, e zelantissimi seguaci, e figlioli"(3).
Lungi dall'essere una completa ed organica storia dei cappuccini in Sicilia, come del resto lo stesso Autore avverte, il libro, ricchissimo di riferimenti a pubblicistica precedente e documenti di archivio, appare nelle sue 580 pagine come una guida per lo studioso a considerare in una sistematica utilizzazione delle fonti quanto di profondo e significante si sia prodotto nel mondo francescano siciliano in oltre quattro secoli.
Del resto, quanto fossero profondamente radicate le comunità francescane nel tessuto sociale ed affettivo dei siciliani lo si vide dopo il 1866 quando, a causa delle connotazioni laicistiche e delle venature massoniche ed ateistiche di cui fu caratterizzato nei primi decenni il nuovo Regno d'Italia, con legge dello Stato (Regio decreto 7 luglio 1866, n 3036) furono soppresse le corporazioni religiose.
Di questa tragedia subìta dalla Chiesa cattolica e dalle coscienze italiane cristiane forse, a livello di conoscenza comune della storia del nostro Paese, non teniamo conto sufficientemente; come del resto un certo spirito risorgimentale acritico ha sottovalutato per molto tempo le umiliazioni ed i dolori subiti dalle popolazioni meridionali dopo la conquista garibaldina.
Nel libro che con questa breve nota si consiglia di leggere, l'Autore, utilizzando lettere pastorali, circolari ed istruzioni delle chiese locali e documenti delle pubbliche autorità del Regno, traccia, di quella pagina oscura, senza peraltro esprimere giudizi, un'analisi anche filologica molto profonda in un quadro storicamente ineccepibile ed umanamente assai toccante. In essa emerge il dolore ed il disorientamento di migliaia di frati che, avendo sentito forte la vocazione francescana della vita monastica, cui avevano consacrato per molto tempo sè stessi, si trovarono improvvisamente svestiti del loro saio, sbandati, senza sostegno nè sostentamento, talvolta a mendicare, in altri casi a lavorare in contesti ormai a loro estranei; mentre i superiori dei conventi dovettero adottare tra mille difficoltà le giuste scelte tra i propri doveri di pastori ed il rispetto delle leggi: "per vivere hanno bisogno di lavorare chi nelle campagne, chi a farla da servo, chi in altro officio basso, e volerli astringere sarebbe un difetto di giustizia e di carità"(4).
Ma, nota anche l'Autore che in quel periodo "i cappuccini ebbero trattamenti diversi e particolari dalle autorità comunali e governative"(5) sicchè in certi comuni, secondo la fede di ciascun amministratore pubblico, fu tollerato qualche caso di vecchi frati rimasti ad abitare in convento. Ciò accadde, per esempio, a Gibilmanna, perché "le autorità comunali, pur vivendo in un momento di incredulità religiosa ed in un pesante clima anticlericale, si mostrano (talvolta) molto devote, rispettose ed affezionate verso i cappuccini"(5). Ed accadde anche che comunità di fedeli si organizzassero per ricomprare con il loro denaro, perché restassero patrimonio di tutti, beni mobili (candelabri, corone, statue, ornamenti preziosi ecc.) o riscattassero gli stessi conventi, come accadde a Gibilmanna.
Questa pare essere nel libro una delle prove del radicamento morale dei francescani in Sicilia. In quanto ad una azione intesa all'elevazione sociale delle classi più povere, il libro conclude dicendo che questo non fece parte dell'azione dei cappuccini di Sicilia; i quali "convinti che la religione era il fondamento della vita sociale, pensavano di aiutare i poveri per mezzo dell'opera evangelizzatrice della Chiesa. Di conseguenza, sostenevano che la questione sociale potesse essere risolta solo attraverso l'intervento degli uomini di fede. Quali visitatori dei poveri, immezzo ai quali operano con spirito evangelico e francescano, non pensavano di eliminare la povertà economica e di risolvere il problema sociale, ma di riformare spiritualmente le anime, di convertire i poveri derelitti dal peccato. Soccorrono il povero per convertirlo. Il fine della loro predicazione e dell'azione caritativo-assistenziale resta quello di condurre le anime a Dio"(6).
Giuseppe Palmeri
NOTE
(1) Salvatore Vacca è nato ad Isnello nel 1959 ed è attualmente il superiore del Convento di Gibilmanna. È docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo; dirige il Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia che la stessa Facoltà ha istituito a Roma nel 1997 in collaborazione con l'Arciconfraternita Santa Maria Odigitria dei Siciliani. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: "Prima sedes a nomine iudicatur: Genesi e sviluppo storico dell'assioma fino al Decreto di Graziano", Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993; "Angelico Lipani e la tradizione cappuccina in Sicilia", Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2001.
(2) P. Bonaventura Campagna da Reggio Calabria, Cronaca cappuccina in cui si tratta dei principi ed origene dei frati minori cappuccini in questa Provincia di Regio ecc. (1620 circa).
(3) P. Enrico Nava da Reggio Calabria, Trattato del principio e progresso della regola cappuccina nella provincia di Reggio Calabria ecc. (Trascritto da P. Gesualdo da Reggio nel 1770).
(4) Giambattista da Bronte, Reverendissimo Padre, Catania, 5 aprile 1875, meglio individuato nel volume a pag. 212.
(5) Cfr. pag. 216.
(6) Cfr. pag. 568.
Salvatore Mugno, Opere terminali, Jaca Book-Il Granvetro, Milano-Pisa, 2001
Salvatore Mugno è certamente un operatore culturale, per il contributo costante che offre e per l'attivismo che sviluppa nella realizzazione di iniziative di diffusione della cultura, ma è anche - e direi, soprattutto - un validissimo scrittore, saggista, critico letterario. Ha pubblicato numerose opere (saggi, inchieste, traduzioni, libri di racconti, romanzi). Alcune di queste opere sono già importanti punti di riferimento. Penso al Novecento letterario trapanese, un repertorio biobibligrafico degli scrittori della provincia di Trapani, a Trapani futurista, alla traduzione dal francese de Les poèmes d'un maudit di Mario Scalesi corredata da una introduzione acuta e pregnante, al Teatro di Tito Marrone anch'esso arricchito di interessanti note critiche, per citare solo qualche titolo.
Opere terminali (Jaca Book-Il Granvetro editori, Milano-Pisa 2001) è però, senza dubbio, la sua opera narrativa migliore, quella in cui la sua personalità di scrittore moderno si esprime in tutta pienezza.
Si tratta di un romanzo che affronta con assoluta padronanza alcuni temi esistenziali dell'odierna società. Un romanzo che non si capisce come mai non venga adeguatamente attenzionato dalla critica ufficiale. (E qui bisognerebbe riprendere il discorso degli handicap che gravano sugli autori, diciamo, di periferia, un discorso che non giunge mai a compimento, ragion per cui la narrativa italiana continua a restare bloccata sui vecchi stereotipi, senza riuscire a rinnovarsi, un po' come una squadra di calcio che, pur avendo giocatori che ormai accusano gli anni, si rifiuta di ricorrere ai giovani dei vivai).
Il romanzo di Salvatore Mugno peraltro presenta non pochi aspetti innovativi. Basta considerare che il modulo narrativo è costituito da una forma diaristica e nel contempo da un racconto in movimento. Sembra, a prima vista, che dovrebbero scaturire dalla fusione forti contraddizioni. E invece non è così. La narrazione si sviluppa senza incertezze e, soprattutto, senza sobbalzi.
Un elemento, poi, che va preso in considerazione è il linguaggio. L'Autore non disdegna la parola ricercata, ma ad essa contrappone nella trattazione una marcata espressione del dire quotidiano, fino a scendere alla parola sboccata: anche se oggi un tale uso, nel mondo della scrittura, è diventato normalità.
Dalla lettura del romanzo altro dato che emerge è l'ironia. Un'ironia a tutto campo. Un'ironia che non è soltanto un aspetto della narrazione, ma - direi - il denominatore principale. Il protagonista infatti si presenta sempre come osservatore disincantato del vivere quotidiano.
Già questi elementi testimoniano che Opere terminali non è il romanzetto di un novizio, ma un'opera corposa, di grande interesse letterario, di scrittore maturo.
Un'opea destinata comunque a farsi valere.
Dino D'Erice