M. VENEZIANI,
Il segreto del viandante. Nostalgie di un contemporaneo, Milano, Mondadori, 2003, pp. 249.
A volte avviene, specialmente a chi è abituato a leggere molto, di comprare un libro che, poi, ci accorgiamo con rabbia di avere già letto; con questo ultimo libro di Veneziani ciò non potrà mai accadere, poiché ci entra prepotentemente nell’anima, dandoci la sensazione di dire tutto ciò che da sempre noi stessi avremmo voluto esprimere senza saperlo fare. Dà voce alla nostra interiorità, soprattutto a quella di chi, come me, ha varcato la soglia dei cinquant’anni ed è nato nel Sud di questo nostro variegato Paese. Chi ha tali requisiti può comprendere in tutta la sua essenza i pensieri, le riflessioni, la filosofia colta e nello stesso tempo spicciola, annotata in questo libro che, assieme all’autore, trasporta chi fu giovane negli anni settanta, nelle assolate piazze del nostro Meridione, deserte nella "controra", brulicanti di vita dopo il tramonto; ci trasporta in quelle case di antichi affetti, dove tavoli imbanditi riuniscono, almeno nel ricordo, quelle famiglie patriarcali che ormai non esistono più, dove almeno un posto era riservato alla zia zitella, al cugino vedovo, alla prozia invalida e dove tutto gravitava attorno alla saggezza dei nonni, eredi degli antichi pater familias di ciceroniana memoria.
Il titolo, Il segreto del viandante, racchiude tutta la filosofia del libro, poiché viandante è ciascuno di noi che percorre gli svariati itinerari che la vita ci impone, sempre punto da una nostalgia che ci porta continuamente a sperare nel ritorno. Ritorno alle origini, eterno ritorno alla maniera di Nietzsche, senza il quale la vita non avrebbe speranza, ritorno che non necessariamente è fisico, a volte è soltanto ideale, ma paradossalmente ancor più reale, poiché i ricordi ci fanno ricostruire ambienti e situazioni che il tempo inesorabilmente ha spazzato via.
Ci ritroviamo, grazie alle pagine scritte da Marcello Veneziani, bambini di una generazione scomparsa, una generazione, cosa incomprensibile per i giovani d’oggi, che viveva senza frigorifero, senza televisione, senza termosifone o telefonino, che giocava con la trottola o a saltare in recinti disegnati col gesso all’interno dei cortili. Una generazione che, alla fine dei compiti, non si sdraiava sul divano davanti al televisore, manovrando febbrilmente i comandi della play station, in un isolamento dal resto del mondo che ha in sé qualcosa di morboso e di preoccupante insieme: noi scendevamo per le strade, poco frequentate dalle automobili, ci riunivamo nei cortili o negli spiazzi, in una simbiosi continua fra uomini ed animali. Quale ragazzo del Sud che abbia superato la boa dei quarantacinque anni non ricorda il lento ancheggiare dell’asino tra le vie del nostro paese, o i greggi di capre che dalla campagna tornavano agli ovili cittadini e nel passare si fermavano nelle varie case, dove il pastore mungeva l’animale direttamente sotto gli occhi di noi bambini, costantemente affascinati da quel rito, anche se si ripeteva giornalmente?
Così, soprattutto noi meridionali ci ritroviamo in quei ricordi relativi alle assolate e sitibonde estati, durante le quali le fontanelle pubbliche erano l’unico refrigerio a tanta arsura e solo noi possiamo comprendere il più recondito significato che l’acqua assume nelle nostre terre: "Offrire acqua agli assetati era la clemenza del Sud, il galateo primordiale verso l’ospite, il garbo antico dei bar che te la danno anche se non richiesta, in memoria dell’antica arsura, assieme al caffè" (p. 23)
Quando nelle nostre famiglie arrivarono i primi televisori, dei veri e propri armadioni, protetti con devozione, tanto che in alcune famiglie si confezionavano delle vere e proprie fodere di stoffa che li coprivano quando erano spenti per tutelarli dalla polvere, anche la visione dei programmi televisivi era un vero e proprio rito da seguire con una particolare liturgia. All’ora in cui iniziava Carosello, si invitavano vicini e parenti, che non avevano ancora la fortuna di possedere il fatidico aggeggio, si di-sponevano le sedie in due o tre file, a seconda dei partecipanti, si spegneva rigorosamente la luce, provvedendo ad accendere solo una lucina sul televisore e ci si apprestava alla visione. Visione che non era mai silenziosa, ma che veniva continuamente intercalata da commenti di vario genere indirizzati in dialetto ai vari personaggi del film, dello sceneggiato o del telequiz condotto dal solito Mike Buongiorno, costituenti una sorta di dialogo intermediatico tra attori e telespettatori. Per molti anni la televisione, lungi dall’isolare, accomunò varie famiglie; oggi divide i membri di una stessa famiglia che preferiscono seguire programmi diversi sui vari apparecchi presenti nella casa.
Noi siamo i rappresentanti dell’ultima generazione che riempiva le dispense di conserve di pomodoro, di marmellate, di salsicce secche, di pomodori essiccati e di fichi cotti al sole, che si mangiavano poi nelle feste, con le noci e le mandorle; erano segni di ricchezza che cancellavano l’ancestrale paura della fame; ma fummo anche l’ultima generazione che credeva talmente nei rimedi naturali, da curare gli ascessi con gli impacchi di fiori di lino e i vermi intestinali con l’aglio e le litanie magiche, patrimonio di poche donne del popolo che, appunto per tale loro segreta facoltà, si sentivano delle elette e volentieri e gratuitamente giravano di casa in casa prestando i loro servizi. Dice l’autore: "L’abisso che separa la generazione che nacque negli anni Cinquanta dai loro figli è superiore a quello che separava noi dai bambini di duemila anni prima" (p. 25).
Noi siamo la generazione le cui mamme si dividevano in due fazioni diverse, quelle che, per le pulizie, usavano l’Olà, vera icona della modernità, polverina magica che sostituiva il vecchio sapone giallo, e quelle invece che erano state conquistate dal più nuovo Spic e span. Ma fummo anche l’ultima generazione, come argutamente sottolinea l’autore, che vide nel bagno un rito settimanale esteso a tutta la famiglia, spesso riciclando l’acqua dove si erano già immersi i meno sporchi, non tanto per mancanza di cognizioni igieniche, bensì per la solita atavica paura della mancanza dell’acqua.
Ma siamo stati anche gli ultimi a dare tanta importanza al pane, che i giovani d’oggi buttano via spensieratamente con un gesto che per noi si equiparava al sacrilegio. Il culto del pane è appunto lo spartiacque tra la nostra generazione e quelle successive. Eppure eravamo molto più vivi dei giovani d’oggi, ricchi di tutto, ma poveri di spirito e di gioia di vivere: "Ma i giovani da che parte stanno? Né di qua, né di là e nemmeno un po’ di qua e un po’ di là; semplicemente non stanno da nessuna parte. Noi non ce ne siamo accorti, ma alla fine del secolo scorso fu abolita la gioventù. Esistono solo degli adulti in via di sviluppo o dei bambini in età avanzata. Ma esistono soprattutto come singoli, al più come accoppiati, o al massimo come membri di una minitribù. Non esistono invece come generazione, come bioclasse, come soggetto pubblico o sociale" (p. 128). Inebetiti dalla televisione e dal computer, trascurati dai genitori, vittime innocenti della crisi della famiglia, vivono di scimmiottamenti e di automatismi, non sognano più, privandosi, perciò, dell’unico vero rifugio contro la realtà alienante (p. 123). Portano, peraltro, sulle loro fragili spalle un peso che noi non avevamo da sopportare: tutta la società ruota attorno a loro rifiutando drasticamente chi giovane non è più: "Una volta i giovani si travestivano da vecchi per farsi autorevoli; oggi accade il contrario perché il giovanilismo è l’unico passaporto falso per varcare la dogana dell’accettabilità sociale" (p. 199). L’emarginazione del vecchio, che un tempo era "il saggio" della famiglia, il patriarca, il vero custode del focolare domestico della numerosa e rumorosa famiglia allargata, oggi è diventato un peso sociale. Ecco perché, paradossalmente, nel clima di buonismo generalizzato ci scandalizziamo per il cane abbandonato dalla famiglia in vacanza, ma non prestiamo la minima attenzione al nonnino lasciato da solo in casa, nell’estate afosa, in balia delle sue malattie e della depressione causata dall’eterna solitudine in cui i vecchi sono ormai confinati.
In questo libro, che non è un romanzo, non è un saggio, non è un diario, bensì il giornale di bordo di un viandante che, in viaggio nell’oceano della vita è dilaniato dall’eterno dilemma sulla sistemazione, se a prua per scrutare il futuro o a poppa per contemplare il passato, l’autore esprime anche i suoi sentimenti più intimi, come sono quelli che ciascuno di noi prova di fronte alla morte dei propri cari, fondendo in un crogiuolo, che rappresenta, poi, la storia dell’umanità, schegge di esperienze personali con considerazioni di contenuto generale, conscio di una innegabile verità: "il mondo possiamo vederlo solo dalla nostra feritoia".
Gabriella Portalone
F. LO PICCOLO,
Il patrimonio fondiario nel palermitano dei Benedettini di San Martino delle Scale (secoli XIV-XV). Consistenza ed Amministrazione, presentazione di Dino Grammatico, Palermo, ISSPE, 2003, pp. 246.
Francesco Lo Piccolo, con un lavoro veramente certosino, svolto con passione, pazienza ed estrema puntualità, ricostruisce in questo suo libro la storia patrimoniale del convento benedettino di San Martino delle Scale tra il 1400 e il 1500, inserendo tale ricerca nel contesto della più vasta storia dell’urbanizzazione del territorio della città di Palermo.
Per ottenere i risultati a cui è felicemente pervenuto, l’autore si avvale principalmente di due fonti medievali, il caternu, cioè il libro contabile dell’abate fondatore della comunità, Angelo Sinisio, redatto tra il 1371 e il 1381 e il Liber reddituum et censualium, compilato nel 1400 dal secondo abate Giovanni Percopio. A tali fonti principali si aggiungono: il Libro ordinario, sull’amministrazione dei censi, che inizia ad essere compilato nel 1472, il Rollus bonorum, inventario successivo redatto nel 1535, le giuliane, una sorta di repertorio in ordine alfabetico di tutti i negozi giuridici, elencati per materia, aventi come uno dei soggetti contraenti il monastero e, infine, la collezione dei Testamenti, donazioni ed acquisti, conservata presso l’archivio-biblioteca dell’attuale abbazia di San Martino. A tali fonti si aggiungono gli innumerevoli documenti inediti conservati all’Archivio di Stato di Palermo e nel Tabulario di San Martino. Attraverso lo studio incrociato dei dati così raccolti e attraverso l’esame critico e comparato delle fonti, l’autore è pervenuto ad una minuziosa ricostruzione, non solo del patrimonio del monastero, ma anche della sua evoluzione nei due secoli e passa esaminati e della gestione e amministrazione patrimoniale portata avanti dagli abati che si susseguirono nel tempo.
L’abbazia di San Martino delle Scale nasce in seguito all’invito fatto, nel 1347, dall’arcivescovo di Monreale Emanuele Spinola ad un gruppo di sei monaci benedettini del Monastero di San Nicola l’Arena, vicino Catania e dalla conseguente donazione agli stessi del feudo di San Martino, appartenente all’arcivescovado monrealense. In effetti, la donazione era stata fatta a condizione che il feudo tornasse al patrimonio dell’arcivescovado dopo la morte dell’arcivescovo Spinola, ma in effetti, malgrado una lunghissima serie di controversie, il monastero rimase proprietario del feudo, finendo per costituire una specie di territorio cuscinetto tra i domini immensi dell’arcivescovado di Monreale e quelli della Chiesa di Palermo. Alla fine del ‘400 il monastero di San Martino, aderisce alla riforma dell’ordine relativa all’abolizione dell’incarico abbaziale perpetuo e si unisce alla Congregazione sicula fra i conventi benedettini sul modello della Congregazione di Santa Giustina di Padova, voluta dall’abate Ludovico Barbo, che riuniva i conventi benedettini della penisola allo scopo di liberarli dai danni loro cagionati dall’ordinamento feudale.
La volontà dell’arcivescovo di Monreale Spinola di restaurare nel territorio di Monreale un nuovo monastero benedettino al posto di quello fondato da Gregorio Magno e distrutto dagli arabi, s’inquadra, in effetti, nel contesto più vasto del movimento di riforma benedettina, proponente un ritorno all’antico ideale eremitico originario, riforma di cui si fa promotore l’abate di Catania Giacomo de Soris, zio del fondatore del monastero di San Martino, Angelo Sinisio. La riforma risentiva della crisi che all’epoca attraversavano gli ordini monastici, dovuta anche alle continue eresie che sorgevano in seno alla Chiesa e alla necessità di porre in essere strumenti quanto più validi per porvi freno. La crisi del monachesimo era dovuta, soprattutto, alla ricerca di un ritorno alla povertà e al rigore della regola originaria, per respingere le accuse che cominciavano a piovere sulla Chiesa in generale, e sugli ordini monastici, in particolare, di essersi allontanati dall’insegnamento evangelico e dai veri scopi della loro missione. Ciò aveva determinato, per esempio, il dividersi dell’ordine francescano in più rami, a seconda una minore o maggiore osservanza della regola originaria imposta dal fondatore S. Francesco. In tale clima appunto, si ebbe in tutta la cristianità un rifiorire dell’ordine benedettino che, tuttavia, resta ai margini della riforma; infatti i suoi monasteri, lungi dall’attenersi alla regola della povertà singola e collettiva, diventano dei poderosi gestori di ingenti patrimoni immobiliari, finendo per incidere fortemente nella vita politica ed economica del contesto territoriale in cui operano. Angelo Sinisio, per esempio, eletto abate del nuovo monastero di San Martino delle Scale nel 1352, in poco meno di quarant’anni, riesce a trasformare un territorio incolto in uno dei più fiorenti, ricchi e potenti monasteri della Sicilia occidentale, con un patrimonio che, nei secoli successivi, sarebbe diventato uno dei più estesi dell’Isola.
La ricchezza del convento nasce da una serie di donazioni che, col passare degli anni, diventeranno sempre più frequenti e numerose, visto il successo che la nuova struttura ecclesiastica riesce a suscitare fra i devoti palermitani, diffidenti nei confronti dei conventi francescani e degli ordini mendicanti, in generale, (domenicani, carmelitani scalzi), i quali ordini soltanto dopo il 1450 avrebbero ritrovato un posto di rilievo nelle preferenze devozionali della popolazione palermitana.
Le donazioni venivano generalmente fatte dall’aristocrazia cittadina, sia di sangue che di toga, per circa il 33% del totale, ma anche dalla borghesia mercantile emergente che contribuiva con il 25% dei beni donati e che vedeva aumentare, così, il suo prestigio sociale, ottenendo, in cambio della cessione, una sepoltura gentilizia presso il convento, o l’obbligo da parte dei monaci alla celebrazione di messe perpetue per i familiari del donante. L’aristocrazia era, a sua volta, portata a cedere beni immobili al monastero, non soltanto per devozione, per penitenza dei peccati commessi, per riscattare i piaceri dovuti al lusso e allo sperpero, ma anche per sistemare i figli cadetti, i quali erano tenuti, al momento dell’ordinazione, a conferire al convento una cospicua dote. Spessissimo, poi, i beni donati, venivano dati in enfiteusi perpetua a discendenti dei donanti, rimanendo, quindi, all’interno del patrimonio familiare.
C’erano anche degli interessi, per così dire, politici che incoraggiavano le donazioni; visto il potere della Chiesa nell’Italia e soprattutto nella Sicilia rinascimentale, risultava un’accorta e opportuna manovra allacciare alleanze con i suoi membri, soprattutto con i ricchi e potenti benedettini di San Martino, notoriamente influenti sia sull’arcivescovo di Monreale che su quello di Palermo, per ottenere vantaggi economici, sociali e politici immediati o futuri.
Col passare del tempo, divenne tale la potenza del monastero, che i suoi membri finivano addirittura per pilotare le donazioni con un’opera di convincimento esercitata "su un potenziale donatore che possiede immobili nell’area di ubicazione di proprietà del monastero, allo scopo di indurlo a lasciare alla comunità i suoi immobili spesso confinanti col monastero.[…] Si comprende allora meglio perché le acquisizioni immobiliari che effettua il monastero tra il Tre e il Quattrocento siano quasi esclusivamente orientate verso immobili situati nei dintorni immediati della "grangia" dello Spirito Santo, allo scopo di creare un complesso immobiliare più compatto, ma anche perché in quell’area, nel cuore della "platea magna Seralcadi" gli affitti e i canoni enfiteutici si stabiliscono su un livello mediamente alto" (p. 70-72) Si comprende, dunque, come tale politica immobiliare finisse per influenzare l’assetto urbanistico della città tenuto conto che alla fine del Trecento il monastero possedeva 71 beni urbani di cui 36 case, 13 complessi edilizi, 13 edifici a carattere commerciale e 10 unità elementari. (p. 77). Non solo, ma molte famiglie della nobiltà emergente reputavano economicamente conveniente ottenere in enfiteusi dagli enti ecclesiastici immobili nel cuore della città, che procedevano a demolire per edificare sullo spazio ottenuto superbe dimore. E’ questo il caso del palazzo Abatellis, costruito su tre case, alla Kalsa, che il maestro portulano Francesco Abatelli ottenne in enfiteusi dal monastero o del palazzo Aiutamicristo.
Quanto ai fondi rustici, - nel 1368 il monastero possedeva, fra l’altro, già 28 vigneti -, essi erano coltivati prevalentemente a vigna, seguivano poi le coltivazioni di cannamele, di cereali, le colture arboree e gli orti.
In relazione alla gestione di un patrimonio immobiliare che nei decenni diveniva sempre più vasto, il monastero sceglieva la locazione per quei beni della cui conduzione poteva direttamente occuparsi; si affidava invece all’enfiteusi perpetua e irredimibile per quei beni che presentavano, magari per la loro complessità, o per la distanza dal convento, una maggiore difficoltà nella conduzione. Perciò si preferiva locare gli immobili siti nella zona del Cassaro, di Seralcadi (territorio compreso tra la parte destra della Cala e l’odierno mercato del Capo), della Conceria (alle spalle della Cala, ai confini con la Kalsa), zone in cui gli immobili davano redditi elevati e, per quanto riguarda i fondi rustici, quelli vicini a Sant’Elia e alla Zisa.
Nel contratto d’enfiteusi il canone era talmente lieve da costituire più che una remunerazione per il bene ceduto, un titolo di ricognizione di dominio sullo stesso. Dato che la concessione enfiteutica passava dal concessionario all’erede, che l’oggetto della concessione poteva anche essere alienato, o che il concessionario poteva trasferire il censo su un altro bene, il contratto d’enfiteusi era talmente poco remunerabile, visto che finiva per lasciare al proprietario solo la titolarità formale del bene, da spingere papa Gregorio XI, nel 1371, a vietare tale forma negoziale. Tuttavia i benedettini di San Martino, malgrado il divieto continuarono a concludere contratti di enfiteusi, sostituendone alcuni con il livello, contratto agrario d’affitto rinnovabile ogni ventinove anni e contenente il divieto di subaffitto.
Quando il patrimonio concesso in enfiteusi divenne talmente esteso da non poter essere facilmente controllato, anche per la possibilità che avevano gli enfiteuti di vendere i beni o di subaffittarli o di commutarli, fu introdotto un nuovo modello di amministrazione indiretta, l’arrendamento. Con esso si affidava ad una sola persona la conduzione dei proventi che si percepivano dal patrimonio immobiliare.
Il libro costituisce fonte di continua curiosità e ci fornisce la chiave adatta per meglio comprendere l’evoluzione del ruolo economico e politico degli ordini ecclesiastici e la loro influenza sullo sviluppo della Palermo medievale e moderna.
Gabriella Portalone
G. ALLOTTA,
60 anni fa… lo sbarco alleato in Sicilia. Agrigento, Edizioni "Centro Studi Giulio Pastore", 2003, pp.79.
Nel sessantesimo anniversario di un evento che cambiò i destini dell’Italia e del mondo intero, appunto lo sbarco alleato in Sicilia, Gaetano Allotta, ormai più che noto per la sua genuina passione per le ricerche storiche, ripercorre, attraverso documenti, fotografie, ma soprattutto attraverso i suoi ricordi di ragazzo di appena tredici anni, quei giorni che sconvolsero la vita e il modo di pensare del popolo siciliano.
Le sue reminiscenze iniziano dal giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Inghilterra, dal famoso discorso di piazza Venezia del Duce, trasmesso in tutte le piazze d’Italia e che anche il giovane Allotta ascoltò incantato dalla piazza principale di San Cataldo.
Anche se la dichiarazione di guerra costituiva motivo di ansie e timori, per i primi mesi prevalse l’ottimismo e la fiducia nel Duce, sentimenti, questi, che si percepivano ovunque, anche ascoltando le chiacchiere dei "grandi" nei vari caffè della cittadina nissena. L’ottimismo generale si fondava soprattutto sui clamorosi successi che la Germania aveva riportato fino a quel momento, conquistando quasi tutta l’Europa e facendo del continente una fortezza che a tutti appariva imprendibile, soprattutto dopo il crollo della Francia e la fuga da Dunkerque di quello che rimaneva dell’esercito inglese.
Tali sicurezze, tuttavia, cominciarono a vacillare dopo la perdita dell’Africa Orientale, mentre la disfatta in Libia e l’abbandono dell’Africa da parte degli italo-tedeschi, trasformò, nel giro di pochi giorni, la fiducia in aperto scoramento che divenne vera paura quando cominciarono i bombardamenti anglo-americani sull’Isola. La serie ininterrotta dei bombardamenti che falcidiò la Sicilia, causando nella sola Palermo ben tremila morti e trentamila feriti, venne condotta con metodi terroristici, atti a spaventare la popolazione e a renderla sempre più impaziente di liberarsi dei tedeschi per porre fine, così, alla guerra, alla fame, alle privazioni varie, insomma al vero inferno in cui era costretta a vivere. Infatti, i bombardamenti non erano mirati solo su obiettivi militari, ma colpivano cinicamente la popolazione civile che, perciò, accolse gli invasori anglo-americani, dopo lo sbarco nella costa sud orientale della Sicilia, come dei veri e propri liberatori, salvo poi a pentirsene, soprattutto per le imprese esercitate a danno della popolazione dalle truppe marocchine (stupri e rapine).
Il successo alleato, che non poteva essere messo in discussione vista la preponderanza dei mezzi (3000 navi, 1600 mezzi anfibi, 4000 aerei), trovò un ostacolo solo nella resistenza delle divisioni tedesche e di parte di quelle italiane, soprattutto della Livorno e della Napoli (il gen. Patton volle congratularsi personalmente con i comandanti di brigata fatti prigionieri, Leonardi, de Gregorio e Alessi). Infatti, essendo i due terzi dei combattenti nell’Isola , siciliani, dopo il primo tentativo di arresto contro gli invasori, portato avanti dai reparti costieri coadiuvati dalla divisione Livorno, la maggior parte di essi, comprendendo che la guerra era finita e che resistere sarebbe stato inutile, pensò bene di ritornarsene a casa. D’altronde l’esempio di un’arrendevolezza ai limiti del sospetto, veniva dai vertici dell’esercito, ma soprattutto della marina. Pantelleria si era arresa con la scusa della mancanza di acqua che, invece, si rivelò in seguito, più che sufficiente per i bisogni della popolazione civile e dei militari; il comandante della base navale di Augusta, una delle più fortificate basi della marina italiana, ordinò la distruzione degli impianti e delle apparecchiature già il giorno nove, prima ancora che gli inglesi dell’ottava armata apparissero all’orizzonte; nonostante la quasi matematica certezza dello sbarco in Sicilia da parte del nemico, le navi della marina si trastullavano nel nord del Tirreno evitando accuratamente alcun controllo sulle coste siciliane; nessun ricognitore si alzò in volo nelle ore immediatamente antecedenti lo sbarco per verificare le condizioni del Canale di Sicilia. Come non pensare di fronte a tutti questi elementi che non ci fosse stato anche un gioco sporco manovrato dai vertici delle nostre Forze Armate? In ogni modo anche se la conquista di Palermo fu una vera passeggiata, avendo incontrato l’armata comandata da Patton, un’eroica resistenza soltanto a Portella della Paglia, nei pressi del capoluogo, per opera di un manipolo d’eroi guidati dal sottotenente Barbadoro, l’occupazione dell’intera Isola non fu cosa da poco, visto che costò alle formidabili armate alleate ben 38 giorni d’aspri combattimenti sulla linea Santo Stefano di Camastra – Catania, la perdita di 290.000 tonnellate di naviglio e gravi danneggiamenti per 59 navi.
L’autore si sofferma sui bombardamenti e sull’occupazione delle principali città dell’agrigentino e del nisseno, come lo stesso capoluogo, Agrigento, Licata, Porto Empedocle, San Cataldo e sull’antiquata arma di difesa, che peraltro non funzionò, dei treni armati. Questi treni, blindati e muniti d’artiglieria, erano affidati al comando della Regia Marina ed in Sicilia erano stati sistemati a Mazara del Vallo, a Siracusa, a Porto Empedocle, a Catania ed a Termini Imprese; furono tuttavia annientati, al momento dello sbarco, dall’artiglieria navale nemica.
L’autore non tace nemmeno sull’opera attuata nei mesi precedenti lo sbarco, dai servizi segreti americani che si avvalsero per la bisogna d’italo-americani, i quali facilmente si confondevano fra la popolazione, seminando disfattismo, ma anche attuando sabotaggi in vista dello sbarco, appoggiandosi a quei notabili locali rimasti lontani dal fascismo. Purtroppo tali notabili non erano altro che i capi mafia, - vedi don Calò Vizzini o Genco Russo - scampati all’ergastolo e alla fuga e che grazie agli americani, poterono rifarsi una verginità e riappropriarsi di quel potere politico ed economico che durante la dittatura fascista avevano dovuto cedere, accontentandosi di vivere ai margini della società.
Si tratta di un libro che con attenzione racconta i fatti e suscita la curiosità del lettore che a sessanta anni di distanza è portato a leggere in modo più distaccato e certo meno passionale, la sequenza degli eventi. Non bisogna, peraltro, dimenticare, che in questo periodo in cui la pace nel mondo è giornalmente minacciata dalle centinaia di conflitti che insanguinano il globo e dalla terribile piaga del terrorismo, Gaetano Allotta sente la necessità di sottolineare all’inizio del libro il suo impegno per la pace con la seguente frase: "Questo libro racconta la guerra per esaltare la pace".
Gabriella Portalone
G. PORTALONE GENTILE,
Dalla classe alla Nazione. Il travaglio spirituale del giovane Mussolini nell’estate del 1914, Palermo, Poligraf, 2003, pp. 125.
Il recente lavoro di Gabriella Portalone è un omaggio al suo Maestro Giuseppe Tricoli. L’autrice - impegnata con Maurizio Scaglione nella trascrizione degli appunti lasciati dallo storico palermitano e pubblicati nel 1996 con il titolo Benito Mussolini, l‘uomo, il rivoluzionario, lo statista e la sua formazione ideologica - cominciò ad interessarsi della formazione intellettuale e politica del giovane Mussolini leggendo le innumerevoli opere consultate dallo storico palermitano al fine di decifrare le centinaia di citazioni storiografiche presenti nei suoi appunti.
Gabriella Portalone, con questa attenta ricerca supportata da numerose fonti e documenti, sfata il luogo comune del "finto intellettuale … dalla cultura raffazzonata e superficiale" (p. 7), quel giudizio che Anna Kuliscioff aveva contribuito a far nascere dopo l’espulsione di Mussolini dal Partito giudicandolo "solo un poetino" che aveva letto Nietzsche. L’autrice mostra come, piuttosto, egli fu l’esempio dell’intellettuale del primo Novecento, colui che collaborò a "La Voce" di Prezzolini e che ricevette l’ammirazione di Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Papini e Salvemini. Mussolini studiò privatamente il latino, conobbe Lenin, frequentò i corsi di Pareto, tradusse per conto di case editrici, i grandi autori stranieri. Forgiatosi sugli scritti di Mazzini e De Amicis, lesse Proudhon, Blanqui, Pisacane, Babeuf, Costa, Bakunin, Labriola e Sorel.
Il 10 marzo 1914 era caduto il governo Giolitti cui, dopo il rifiuto di Sonnino, era seguito il governo Salandra. Il 1° maggio si assistette ad alcune manifestazioni a Trieste, in Serbia e in Slovenia contro gli austriaci. Ma i governi minimizzarono anche se i rapporti diplomatici erano ormai tesi. L’Italia viveva una pesante situazione economica causata anche dal problematico passaggio alla civiltà industriale. Il 7 giugno 1914, festa dello Statuto, ad Ancona anarchici e repubblicani si scontrano con le forze dell’ordine. Muoiono tre dimostranti provocando un’ondata di protesta e disordini. La Camera del lavoro di Ancona proclama lo sciopero generale che, per decisione della Confederazione del Lavoro di Milano, si estese in tutta Italia provocando saccheggi e violenze. Il moto di piazza che, come afferma Giuliano Procacci, con i caratteri dell’improvvisazione e della spontaneità, sconvolse la penisola per una settimana, fu capeggiato da Mussolini, Nenni e Malatesta. Il 14 giugno le insurrezioni terminarono e gli stati d’assedio furono revocati.
Il fallimento della Settimana Rossa fu determinante per i giovani socialisti rivoluzionari poiché essa - come disse Pastore - rappresentò una delle cause principali che li spinse "a riesaminare tutto: teoria e pratica" (p. 89). Il giovane Mussolini, osserva Portalone, era alla ricerca di una nuova verità e in questo stato d’animo il fallimento della Settimana Rossa diede un contributo essenziale.
Un punto fondamentale sul quale l’autrice cerca di fare luce è il famoso "voltafaccia" di Mussolini nell’ottobre del 1914 che lo portò all’espulsione dal Partito Socialista e al licenziamento dalla direzione del giornale "L’Avanti!". A scatenare tali conseguenze era stato l’articolo del 18 ottobre 1914, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, sul quale, osserva l’autrice, è stato detto di tutto e soprattutto in termini di condanna. Fonderà "Il Popolo d’Italia", per il quale, indubbiamente, dovette accettare i soldi degli interventisti, proprio lui che aveva sempre condotto un’esistenza di povero e che lasciando il Partito e il giornale rinunciava a un promettente avvenire. Dietro quel voltafaccia c’era altro che un interesse economico. Anzi, Portalone, rifacendosi all’interpretazione di Renzo De Felice, ritiene che il "passaggio dal neutralismo all’interventismo non fu certo dovuto a ragioni economiche" (p. 108) ma alle "sofferenze, incertezze, delusioni, autoflagellazioni" che avrebbero condotto il giovane Mussolini alla sponda opposta. Dietro quel "voltafaccia" c’era il suo animo tormentato dall’essere un "eretico" del marxismo dal momento che egli cominciava a prenderne le distanze convinto che quella ideologia fosse troppo materialista; opinione, questa, che d’altra parte lo aveva portato a condividere l’interpretazione labrioliana, certamente più idealista. L’avvenimento della Settimana Rossa gli aveva aperto gli occhi e ora egli aveva compreso che la classe non poteva che determinare divisioni nell’appartenenza di ciascun individuo a un diverso tipo di lavoro. Era, piuttosto, la Nazione ad abbattere le differenze tra le classi. In tale passaggio egli abbandonava il mito della classe, ma restava nell’animo sempre un socialista sino alla fine, sino alla costituzione della Repubblica di Salò "dove ritroviamo i princìpi sbandierati a Piazza San Sepolcro nel 1919 e ormai liberamente ribaditi". Il socialismo appariva ai suoi occhi come lo strumento capace di creare una società più giusta; esso era il filo conduttore di un "movimento reale della storia, secondo l’insegnamento vichiano" (p. 24). Approdando al socialismo nazionale egli si allontanerà dall’internazionalismo marxista al fine di fare del proletariato italiano il "protagonista del completamento dell’azione risorgimentale mazziniana, nonché del futuro rinnovamento dello stato e della società" (p. 125). Ed egli stesso ribadendo la sua appartenenza al socialismo, rivolgendosi all’assemblea della sezione socialista milanese, così si esprimeva: "Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono rimasto e rimarrò un socialista". L’ideologia marxista fu superata proprio alla vigilia della guerra quando i socialisti europei avevano abiurato all’antimilitarismo facendo prevalere l’interesse nazionale; egli comprese che "è la nazione, non la classe, l’elemento che cementa il popolo, che non è solo il proletariato" (p. 106). L’autrice afferma che, molto probabilmente, Mussolini alla vigilia dell’intervento italiano comprese che "se il partito socialista avesse tenuto lontane le masse dagli eventi, delegando ogni onere, ma anche ogni onore alla borghesia, si sarebbe ripetuto il fallimento del Risorgimento" (p. 120). E così nell’ottobre 1914 egli esterna la propria posizione riconoscendo che "i problemi nazionali esistono anche per i socialisti". Sulla strada dell’intervento molti lo seguirono. E lo stesso Antonio Gramsci, in un articolo su "Il grido del popolo" sembrò approvare l’iniziativa di Mussolini.
Il libro di Gabriella Portalone, lungi dal dare un giudizio morale o politico sull’operato di Mussolini, vuole sottolineare "la profonda cultura" di un uomo che, nel bene e nel male, cambiò i destini dell’Italia.
Claudia Giurintano
G. CONTI ODORISIO,
Harriet Martineau e Tocqueville. Due diverse letture della democrazia americana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 365.
Il volume di Ginevra Conti Odorisio, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche, è il risultato di una attenta ricerca condotta presso le Biblioteche londinesi, la Biblioteca di Harvard e la Library of Congress di Washington. Con questo pregevole lavoro, l’autrice, vincitrice del Prix Femmes d’Europe per l’Italia nel 2002, fa conoscere un personaggio quasi del tutto sconosciuto in Italia: Harriet Martineau (1802-1876), una studiosa inglese di origine francese.
Martineau, affetta da sordità, apparteneva alla religione unitariana cioè a quei protestanti che credevano "nell’unicità assoluta della divinità, negando il mistero della Trinità e il dogma dell’incarnazione" (p. 15). L’unitarismo le permise di curare l’istruzione frequentando la scuola di Norwick e, in particolare, quella di Bristol diretta dal pastore Carpenter seguace di Locke e di Hartley. Da questi studi essa trasse la teoria deterministica o della necessità storica che negava il libero arbitrio della volontà umana considerato "una superstizione" (p. 17). Essa iniziò la sua attività di scrittrice dalle pagine del "Monthly Repository", periodico unitariano fedele alle idee del Beccaria e di Bentham sulla riforma del codice penale e a quelle di Robert Owen sulla cooperazione. Fu allieva di Bentham e radicale, come di lei disse Giuseppe Mazzini del quale, insieme a Malthus, Carlyle e Owen, Martineau ha lasciato efficaci ritratti che, anche se brevi, "restituiscono la loro personalità molto di più di lunghe biografie convenzionali" (p. 252).
Il suo lavoro, come essa amava definire, divenne "l’ago e la penna" poiché una ""vera" donna, sposata o single, non poteva essere felice senza una vita domestica" (p. 172). Nel 1831 progettò le Illustrations of Political Economy una serie di racconti che trattavano i princìpi di economia politica rendendoli accessibili a tutti. Le tematiche analizzate spaziavano dalla produzione alla distribuzione, dallo scambio al consumo. Si preparavano interessanti riforme nella vita politica e sociale inglese: nel 1832 si ebbe il Reform Bill, nel 1833 la Legge sulle fabbriche e nel 1834 la Legge sui poveri. E, proprio nell’estate del 1834, Martineau progettò il suo viaggio in America. Lesse a fondo i classici dell’economia politica, saggi politici – come The Federalist – l’opera di Gibbon Wakefield, la letteratura popolare di Francis Trollope, le novelle di Catherine Sedgwick. Giunse a New York il 15 settembre 1834 per ripartire solo il 1 agosto 1836.
Nei due anni di viaggio essa visitò "le istituzioni politiche, scientifiche e letterarie, le fabbriche del nord, le piantagioni del sud, le fattorie dell’ovest, le prigioni di Auburn, di Philadelphia, di Nashville e gli ospizi degli alienati delle principali località" (p. 32). Martineau, definita da Alice Rossi, la prima donna sociologa, esaminò "le diverse relazioni tra le istituzioni sociali e le classi sociali, le diverse religioni, i tipi di suicidio, il carattere nazionale, le relazioni domestiche e lo status della donna" (p. 36).
L’opera della Martineau Society in America fu pubblicata nel 1837, tradotta in francese nel 1838. La prima parte di Démocratie en Amérique di Tocqueville uscì nel 1835 quando già la popolarità della Martineau era forte, mentre il giovane magistrato era ancora sconosciuto. E, proprio quando il pensatore francese evidenziava della democrazia i mali e i pericoli espressi nella tirannide della maggioranza, l’opera della Martineau coglieva le incompiutezze della democrazia soprattutto in materia di schiavitù e condizione femminile. Tocqueville, come ha ben colto Nicola Matteucci, raggiunse gli Stati Uniti poiché in Francia si sentiva un isolato: contrariamente ad amici e parenti, non si era rifiutato di giurare fedeltà agli Orleans per restare fedele ai Borbone, ma, quando il governo pretese un secondo giuramento, preferì partire. Martineau, di estrazione borghese, rispetto alle origini aristocratiche del pensatore francese, si trovava in una ben diversa situazione: era già nota e popolare nel suo paese ed economicamente indipendente. Essa attribuiva la propria conquista dell’indipendenza ad un avvenimento triste: il fallimento della piccola impresa familiare che, a suo avviso, costrinse lei e le sue sorelle ad un’esistenza diversa da quella ordinaria di provincia. È probabile, secondo Conti Odorisio, che la Martineau, tornata in Inghilterra avesse letto la Démocratie di Tocqueville, uscita nel 1835, anche perché essa dichiarò di avere letto tutto ciò che era disponile sull’America. La fama di Tocqueville si affermò soprattutto dopo il 1840 e cioè con la seconda parte della Démocratie e, anche, grazie all’articolo che sull’argomento aveva pubblicato John Stuart Mill. È certo che Tocqueville conoscesse la famosa Martineau poiché Beaumont esortò l’amico a concludere presto il lavoro (la seconda parte) poiché "recentemente è stato pubblicato un libro di cui mi sembra difficile che non prendiate visione, è quello di Miss Martineau" (p. 53). Dalla corrispondenza Tocqueville-Beaumont, pubblicata da Matteucci e Dall’Aglio, emerge che Tocqueville preferiva non leggere sull’argomento prima di "comporre". Ma è anche vero che, osserva l’autrice, alcuni argomenti ampiamente trattati dalla Martineau, come quello sulle donne americane, furono affrontati nella seconda parte della Démocratie da Tocqueville. Certamente, specifica Conti Odorisio, anche nell’ipotesi che il pensatore francese avesse letto l’opera della Martineau è bene precisare che non ne rimase influenzato poiché l’impostazione e le conclusioni della Démocratie sono assolutamente diverse dall’opera Society in America. Rispetto a Tocqueville, la studiosa inglese non volle procedere alla comparazione Europa/America e, quindi, al confronto tra la società aristocratica delle monarchie europee e la società democratica americana. Essa preferì studiare la società del nuovo mondo attraverso i princìpi scritti nella Costituzione per verificarne la loro applicazione: "il vero pericolo per la democrazia non erano le temute, ipotetiche, degenerazioni quanto i suoi reali inadempimenti" (p. 67). La tirannide della maggioranza poteva essere di due tipi: economica e culturale. Su questo ultimo tipo il giudizio della Martineau concordava con quello di Tocqueville poiché esso indica quel controllo delle opinioni che annulla la libertà. Sul dispotismo economico o fiscale, invece, la studiosa inglese osservava che esso era una paura delle classi aristocratiche e ricche dinanzi a una politica livellatrice, di "forte pressione fiscale progressiva" (p. 68). Martineau capovolge il concetto di dispotismo della maggioranza sostenuto, ad esempio, da Calhoun, dai Sudisti (minoritari) per difendersi dalle posizioni abolizioniste del Nord (maggioritarie). La scrittrice inglese ritiene che gli abolizionisti costituiscano una minoranza coraggiosa di uomini "pronti a subire la persecuzione e la scomunica" pur di non rinunciare alle proprie idee. E, pertanto, essa difende e invoca la tutela delle minoranze dinanzi a un sistema contrario ai diritti dell’uomo e ai princìpi costituzionali (p. 72). Se per Tocqueville il ruolo dell’aristocrazia era idealizzato tanto da definirlo "virile", Martineau, rifacendosi al radicalismo di Bentham e Mill affermava che gli aristocratici erano gli uomini "delle paure e del passato" (p. 58). Anzi, essa riteneva che capacità e intelligenza non avessero nulla a che fare con la nascita e la ricchezza poiché il "genio" era soprattutto democratico. Dei tre princìpi della Rivoluzione francese, la scrittrice inglese affermava che la fraternità fosse il più difficile da definire, ma anche quello della vera anima repubblicana. La fraternità – che non interessò mai Tocqueville – riguardava un obbligo morale e non la sfera dei diritti come i princìpi di eguaglianza e di libertà. L’autrice osserva come proprio la fraternità repubblicana fosse capace, secondo la pensatrice inglese, di contenere e attuare gli stessi diritti di libertà e uguaglianza. Solo in un punto Tocqueville e Martineau concordano: nel ritenere la democrazia una "tendenza ineluttabile" (p. 73).
Nel pensiero della Martineau, l’autrice coglie le due tendenze del radicalismo: la libertà individuale che non poteva essere limitata dal potere centrale e la giustizia che doveva provenire dal potere centralizzato. E se, infatti, accettava la teoria dei diritti inalienabili, la scrittrice citava quelli della vita, libertà e felicità ma non quello della proprietà. La "discepola" di Adam Smith, pertanto, sembra sconfinare nell’utopia auspicando, da owenita, la comunione dei beni. E, addirittura, quella critica che già Aristotele aveva mosso al sistema collettivistico accusato di condurre inesorabilmente al parassitismo, viene visto dalla scrittrice inglese in positivo, come possibilità di incrementare l’antico ozio romano, di potersi, cioè, dedicare al tempo libero. L’evoluzione dei princìpi democratici avrebbe condotto, a suo avviso, a un livellamento della proprietà. Essa era "ben disposta ad accettare le teorie di Owen sulla cooperazione e l’associazione, ma non quelle più utopiste sulle modalità della loro realizzazione immediata" (p. 85). E se agli occhi di Tocqueville l’America costituiva il "nuovo" mondo tutto da scoprire, Martineau coglieva i legami di quel mondo con la storia inglese: "il federalismo aveva la sua origine storica, poiché ricalcava la realtà storica delle colonie" (p. 65). Diversa era anche la loro idea sui partiti politici. Per il pensatore francese il partito era un "male" insito nei governi liberali. Per Martineau vi era una differenza tra partiti americani ed europei. Nel vecchio continente essi erano divisi dalle ideologie, da un diverso interesse sui problemi dell’istruzione, suffragio, forma di governo, libertà. Problemi, questi, che non venivano dibattuti in America. Nel 1835 Martineau aderisce al movimento abolizionista: la schiavitù appariva ai suoi occhi la negazione dei diritti naturali dell’uomo e dei princìpi religiosi. Ma il grado di civiltà di un popolo poteva essere dato, anche, dalla condizione femminile, argomento al quale essa dedicò numerosi articoli che le valsero le critiche dei conservatori e i consensi degli abolizionisti. La condizione della donna, infatti, esclusa dalla rappresentanza, si avvicinava a quella degli schiavi. Ed essa coglieva anche alcune palesi contraddizioni: "Io non ho – scriverà nella sua Autobiography quando con l’acutizzarsi della malattia al cuore, riterrà di essere vicina alla morte – diritto alle elezioni sebbene paghi le tasse e sia una cittadina responsabile" (p. 144). Negli anni 1839-1844 si ammala; dopo l’insuccesso delle cure tradizionali decide di affidarsi al mesmerismo, ai metodi alternativi alla medicina tradizionale sperimentati dall’austriaco Franz Anton Mesmer. Il metodo, tra scienza e occultismo, comportava stadi di trance e sonno profondo e affascinò non pochi intellettuali tra i quali Balzac, Owen, Fourier, mentre l’amica Charlotte Brönte non esitò a giudicarlo "aceto, mischiato con impudenza" (p. 162). Nel gennaio 1845 Martineau pensa di essere guarita. Nel 1851 pubblica con Henry G. Atkinson Letters on Man’s Nature and Development, opera che segna l’allontanamento dai princìpi religiosi fondamentali. Ed è il periodo in cui comincia a interessarsi ad Auguste Comte del quale tradusse in inglese il Cours de philosophie positive, un’impresa non facile – che essa condusse attraverso sintesi -, ma che le valse il successo e i consensi dello stesso Comte. L’autrice osserva che Martineau non può essere considerata una comtiana integrale ma aderendovi essa rigettò i suoi lavori precedenti affermando che solo il positivismo fu "la gioia della sua vita" (p. 249). Nel 1865 John Stuart Mill pose il suffragio femminile tra i suoi obiettivi politici e, nonostante il rapporto con la pensatrice inglese fosse stato caratterizzato da una certa ostilità personale, trovò Martineau tra le firmatarie della petizione.
Il 31 dicembre 1869 essa sottoscrisse il Manifesto dell’Associazione Nazionale Femminile – pubblicato sul giornale fondato da Dickens "Daily News" – che contestava la legislazione in vigore "partendo da valutazioni di carattere politico, costituzionale, giuridico e morale" (p. 317).
La storia della studiosa inglese affascina non solo per l’interesse che suscita il suo pensiero ma, anche, per il suo prendere le distanze dagli stereotipi del tempo, in un’epoca in cui le donne "evitavano di esprimere i loro pensieri più autentici, limitandosi a banali luoghi comuni e convenevoli" (p. 71). E nella società vittoriana del XIX sec. in cui i condizionamenti sociali potevano essere più forti, essa riuscì a combattere la propria sordità considerandola solo un ostacolo in più da abbattere e divenendo una prolifica scrittrice. Anzi, fu proprio la sordità e poi la malattia, ad essere stimolo per la sua laboriosità, per il suo impegno, fino alla fine, a favore della libertà delle donne.
Claudia Giurintano
C. MESSINA,
Le Comte de Cagliostro était-il Joseph Balsamo de Palerme? La réponse de l’avocat Antonio Bivona, Paris, Librairie-Galerie Racine, 2004, pp. 87 e sezione documenti.
Il ritrovamento della réponse dell’avvocato Antonio Bivona del 12 marzo 1787 sull’identità di Cagliostro era stato annunciato già nel 2001 con il libro di Calogero Messina I viceconsoli di Francia in Sicilia e con una serie di articoli pubblicati su quotidiani ("La Sicilia", "L’Ora", "La Repubblica", "Giornale di Sicilia") nonché, tra le altre, da riviste come la nostra "Rassegna siciliana" (Note e discussioni, agosto 2002). Con i tipi della Galerie Racine, vede ora la luce quella relazione di Bivona cercata da tanti studiosi che si sono occupati del Conte di Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo, il settario della Massoneria che faceva paura in Europa per le possibili cospirazioni contro le monarchie del tempo e, soprattutto, contro quella francese che egli odiò più di altre. Il libro è stato, anche, oggetto di un interessante cenacolo organizzato nell’ambito dell’attività culturale della Cattedra di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Palermo tenuta dal prof. Eugenio Guccione, il quale, alla presenza dei giovani ricercatori e dottorandi, ha sottolineato nel suo intervento come il pregevole lavoro di Calogero Messina abbia il merito di completare le fonti storiografiche sul personaggio siciliano divenendo documento fondamentale di consultazione per quanti vogliano affrontare lo studio della vita e dell’opera di Giuseppe Balsamo.
Nel 1995 Calogero Messina ebbe il privilegio di accedere all’Archivio del Ministère des Affaires Etrangères del Quai d’Orsay di Parigi per i suoi studi sulle relazioni tra la Sicilia e la Francia nel XVIII secolo. E nei volumi dell’Archives Politiques, sottoserie Naples, casualmente, si ritrovò tra la mani il documento dell’avvocato Bivona con l’albero genealogico e gli allegati attestanti che Cagliostro e Giuseppe Balsamo erano la stessa persona. Messina confessa di non avere mai pensato di occuparsi di Cagliostro. E così era accaduto al suo maestro Virgilio Titone sino a quando un editore non gli chiese l’introduzione al lavoro di Luigi Natoli, Cagliostro, introduzione che oggi costituisce uno degli studi più importanti sul personaggio palermitano definito una "espressione, un aspetto e non secondario" del suo tempo; un uomo vissuto in età dei lumi ma in una società che "consentiva a quel personaggio le sue truffe" perché assetata di credere in qualcosa di nuovo, nella possibilità di compiere atti miracolosi come quelle guarigioni che, per caso, avvenivano tra la gente che si rivolgeva a lui (p. 61).
Messina dedica l’intero volume a J. W. Goethe che, come egli scrive, seppe guardare alla Sicilia oltre il suo essere terra di briganti e avventurieri, amandola come terra dove, prima di tutto, si poteva sognare. Ma, soprattutto, è dedicato all’autorevole scrittore tedesco che, durante il suo soggiorno palermitano, si era lasciato affascinare da quel personaggio tanto da chiedere all’avvocato Bivona di conoscere i familiari. Goethe lesse la relazione di Bivona, ma, pensando che in Francia il documento sarebbe stato immediatamente pubblicato, preferì non copiarlo. La memoria invece non fu mai resa pubblica.
Bivona assecondò le richieste di Goethe, tanto da mettergli a disposizione il suo segretario e, per incontrare la famiglia Balsamo, lo scrittore tedesco dovette spacciarsi per un inglese che portava notizie di Cagliostro uscito dalla Bastiglia e giunto a Londra. Da qui Cagliostro, in una lettera del 20 giugno 1786, rivolgendosi al popolo francese, lo metteva in guardia dai sistemi giudiziari auspicando l’avvento di un re saggio che "avrebbe abolito le lettere di sigillo, convocato gli Stati Generali e ristabilito la vera religione" (p. 22). La relazione di Bivona era indirizzata al Perier, negoziante francese, nominato viceconsole onorario a Napoli e negli anni 1787-88 console generale. Il documento serviva a verificare il contenuto di una lettera anonima inviata il 2 novembre 1786 al commissario Philippe Fontaine di Parigi sul sedicente Conte di Cagliostro. L’informatore della lettera era uno zio di Cagliostro, Antonio Bracconieri. Veniva riportata la notizia che Balsamo e Cagliostro erano la stessa persona, e si coglieva l’occasione per contrapporre la scaltrezza dei palermitani all’ingenuità dei francesi, creduloni facili da raggirare. Messina ricorda che il documento, attribuito a un certo Bernard, è stato già citato, tra gli altri, da Giuseppe Quatriglio nel 1973 nell’introduzione al Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo denominato il Conte di Cagliostro. Scritto da mons. Giovanni Barberi, fiscale del governo pontificio e consigliere di Pio VI, e pubblicato a Roma nel 1791, il documento non riportava, rispetto alla relazione di Bivona, i dettagli delle notizie, la ricostruzione dell’albero genealogico, le prove sull’identità Balsamo/Cagliostro. Operando un confronto tra il Compendio e la relazione dell’avvocato, Messina fa notare le molte imprecisioni del Barberi pur attestando la reale identità del Cagliostro. Bivona, invece, fu talmente preciso da aggiungere anche alcuni particolari a lui noti e sconosciuti alla stessa famiglia Balsamo. Particolari anche privati che non rinunciò a indicare come la relazione tra suo fratello, il marchese Bivona, e la moglie di Cagliostro che, in verità, come emerge dal documento, lo stesso Cagliostro non esitava a far prostituire per il proprio tornaconto.
La scienza ci ha dato, in molti dei suoi campi, testimonianza di come, a volte, importanti scoperte siano del tutto casuali. È questo ciò che sottolinea l’autore: solo il caso sarebbe stato determinante nel ritrovamento del documento; ma, forse, sarebbe meglio dire che questa scoperta è una delle meritate ricompense agli studi e alle attente ricerche di Calogero Messina.
Claudia Giurintano
C. GUZZO,
Templari in Sicilia. La storia e le sue fonti tra Federico II e Roberto D’Angiò, introduzione di Malcolm Barber, Genova, Name, 2003, pp. 122.
Le vicende storiche dell’ordine templare nel Mezzogiorno d’Italia, al tempo degli Svevi e degli Angioini, sono ricostruite in questa attenta pubblicazione edita dal Centro Editoriale telematico Name. L’editrice, frutto di un geniale progetto elaborato da un gruppo di docenti universitari, va incontro a quanti hanno l’esigenza di pubblicare o di acquistare testi specialistici e, "grazie a supporti informatici per le varie fasi di editing e a software appositamente elaborati", assicura una rapida ed elevata qualità di stampa per il numero di copie (anche minimo) richieste, eliminando così il "magazzino" e adeguandosi al mercato del momento.
Il volume di Guzzo è inserito nella collana "Insigna et Arma" diretta da Franco Cardini e colma la lacuna negli studi sull’ordine templare nel Sud d’Italia i cui insediamenti sorsero tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo.
Le origini dell’ordine – il cui simbolo per i cavalieri era la croce rossa in campo bianco - si collocano nel 1118 quando Ugo di Payns costituì l’ordine dei poveri cavalieri del Cristo conciliando monachesimo e armi e dando vita ad una milizia che intervenne in Terra santa e nella penisola iberica occupata dai mori trovando la propria legittimità e il proprio riconoscimento con il Concilio di Troyes e grazie a Bernardo di Chiaravalle. Con la regola latina e gli statuti gerarchici, che riproducono la struttura della società feudale, l’ordine conobbe un rapido sviluppo in tutta l’Europa.
Guzzo – come scrive nella prefazione Malcom Barber dell’Università di Reading – è stato capace di creare "a convincing picture of the relations between the rulers of the Kingdom of Sicily and the Templars, which is essential for our understanding of the operation of the Order in the Mediterranean in the thirteenth century" (p. 10).
L’autore sottolinea che uno dei documenti più antichi e interessanti del periodo di Federico II, sull’Istituto gerosolimitano, risale al 1201. I Templari riuscirono a trarre vantaggio da una situazione di instabilità che si venne a creare nel XII secolo quando la corona di Federico II, ancora bambino, fu messa in pericolo. Proprio l’Istituto gerosolimitano rifornì quegli uomini al seguito dell’imperatore Enrico VI "per insidiare la corona" fornendo loro "armi, cavalli, vettovaglie" (p. 21). I "frati-cavalieri" furono ricompensati con donazioni di beni feudali. I Templari poterono fruire degli scali portuali della Puglia, grazie alla mancanza di un "potere centrale forte in grado di sanzionare gli abusi con pene severe", e grazie allo "stato di incuria e di abbandono delle coste del "Regnum"" (p. 23).
Nel 1208 l’Istituto ottenne un’importante donazione nel territorio di Paternò e della odierna Agira. Il maestro dei Templari di Sicilia, Guglielmo di Orleans, chiese al sovrano svevo di regolarizzare giuridicamente i lasciti, cosa che avvenne con due diplomi: il primo redatto a Palermo nel marzo 1209 e il secondo nell’agosto dello stesso anno. Nel 1208, dopo l’uccisione di Filippo di Svevia, Ottone di Brunswick, con il sostegno del papa, diventò il candidato al trono imperiale. Innocenzo III tentò di ottenere da lui la conferma delle terre italiane donate alla Chiesa dopo il 1201 e "l’impegno a non accampare diritto alcuno sul Mezzogiorno d’Italia". Una volta ottenuta l’investitura Ottone non mantenne le promesse; si inimicò la Chiesa e, in quanto genero di Filippo di Svevia, pretese "diritti regali sul "Regnum Sicilie". Ottone fu scomunicato da Innocenzo III il quale gli oppose Federico. I Templari, con il sostegno del papa, continuarono indisturbati a incrementare il proprio patrimonio fondiario e immobiliare" (p. 26). Morta la consorte, Ottone non ebbe alcun titolo per rivendicare la corona di Sicilia. Federico, divenuto re dei Romani il 25 luglio 1215, intervenne a favore dei possedimenti Templari in Sicilia con due diplomi: "con il primo riconobbe le case e di i beni che i frati-cavalieri possedevano nel "Regnum Sicilie" ponendo l’ordine sotto la propria protezione; fissando un’ammenda di 40 once d’oro per coloro che avessero, all’Ordine medesimo, arrecato molestia" (p. 27). Con il secondo confermò un privilegio di cui godeva l’Istituto gerosolimitano "in civitate Massilie" (p. 27).
Federico, in occasione dell’incoronazione ad Aquisgrana, aveva assicurato la propria partecipazione a una crociata che egli stesso avrebbe finanziato. Dopo la morte di Costanza di Aragona egli concordò che avrebbe sposato la figlia di Giovanni di Brienne. Ma dopo il matrimonio non mantenne la sua promessa di partecipare alla crociata poiché a suo avviso, era prioritario "ricomporre ed aggregare le strutture politico-sociali dello Stato normanno-svevo" per porre fine alle "tendenze centrifughe della nobiltà feudale e velleità autonomistiche delle città". Come conseguenza di tutto ciò, va colta, secondo l’autore, la confisca dei possedimenti templari a partire dal 1226. E nel 1228, con la disposizione "Predecessorum Nostrorum" non fu più possibile alienare o donare beni immobili a favore degli Ospitalieri e Templari. Già l’anno prima, Federico aveva mandato come proprio luogotenente Tommaso d’Aquino conte d’Acerra per limitare il potere dei Templari in quelle terre. Nel 1227, a Brindisi, migliaia di pellegrini si riunirono nella città pugliese per una crociata in Oriente. Ma per le precarie condizioni igieniche, aggravate dall’afa estiva, migliaia di essi furono decimati da una epidemia e l’imperatore ritenne opportuno rinviare la propria partenza in Siria. Gregorio IX, convinto che questa fosse l’ennesima scusa per sottrarsi ai propri doveri, decise di scomunicare l’imperatore che, nonostante la disposizione pontificia, proseguì la sua spedizione in Terra santa. La situazione, osserva Guzzo, mutò quando l’imperatore intavolò i negoziati di pace con il sultano al Khamil escludendo dai benefici del trattato gli Istituti bianco e rosso crociati. Tale azione portò i Templari a osteggiare Federico. Il papa mandò in Siria due francescani per vietare a tutti i cristiani "di prestare sostegno allo scomunicato" (p. 35). Il 18 marzo 1229 Federico si auto-incoronò re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro. Nel 1235, rimasto da tempo vedovo, sposò la sorella di Enrico III d’Inghilterra. Il 20 marzo 1239 fu nuovamente scomunicato per "la mancata restituzione ai Templari dei beni loro sequestrati". Nell’ottobre 1244 i latini furono sconfitti presso Gaza dall’esercito turco-egiziano. L’imperatore accusò i Templari di aver causato il disastro poiché l’ordine aveva concesso ospitalità ai musulmani. L’autore osserva come l’atteggiamento antitemplare esercitato dalla Curia imperiale tra il 1229 e il 1240 fosse "alla base di significativi episodi di intolleranza nei confronti dell’Ordine" (p. 44). Il 7 dicembre 1250 l’imperatore lasciò tra le sue disposizioni testamentarie la restituzioni dei beni confiscati dalla Curia imperiale all’Istituto gerosolimitano. Con il regno di Manfredi le relazioni tra Staufen e la "Militia" sembrarono migliorare. Ma Manfredi venne sconfitto da Carlo d’Angiò – fratello di Luigi IX di Francia – a Benevento, il 26 febbraio 1266, e Carlo ottenne la corona di Sicilia.
Le fondazioni dell’Istituto gerosolimitano nel "Regnum Sicilie" dipendevano da Barletta che costituiva il centro di raccolta e smistamento dei generi di prima necessità destinati ai confratelli in Oriente. Durante il regno di Carlo I - spiega l’autore, facendo riferimento agli innumerevoli documenti della Cancelleria napoletana, – alcuni membri della Militia furono incaricati di amministrare e gestire le finanze dello Stato. Carlo estese le sue mire politiche sull’Ungheria finendo col favorire i matrimoni tra i suoi figli Carlo e Isabella con i magiari Maria e Ladislao. La politica di Carlo fu però sconvolta dalla rivolta dei Vespri di Palermo del 31 marzo 1282. Carlo chiese aiuto al re di Francia e si rivolse anche "ai locali Templari i quali furono […] fortemente riluttanti a concedere il loro sostegno armato contro gli insorti" (p. 79) a causa della regola templare che proibiva all’ordine di "versare il sangue dei propri corregionali". Dopo Carlo I il trono passò al figlio Carlo II ma i rapporti con l’Ordine e il successore di Carlo I non sono ben documentati a causa delle scarse e frammentarie testimonianze pervenute. Le ricchezze dei frati attirarono l’attenzione dei sovrani d’Europa e, in particolare, di Filippo IV, il Bello, che il 14 settembre 1307 emanò l’ordine di arresto contro i Templari accusati di eresia. Clemente V appoggiò l’azione con la bolla "Pastoralis Praeminentiae" e nel 1312 con la bolla "Vox in excelso" ne decretò lo scioglimento.
E fu così, scrive Guzzo, che, con il rogo degli alti dignitari dell’Ordine, il regno di Sicilia finì per essere privato "del romantico suggello" che aveva idealmente unito l’Oriente al Sud Italia.
Claudia Giurintano
G. PORTALONE - M. SCAGLIONE
(a cura di), L'Attività Parlamentare di Giuseppe Tricoli, prefazione di Gianfranco Fini, voll. I - II, Palermo, Servizio Studi Legislativi dell'Assemblea Regionale Siciliana, 1999, pp. 1555.
Gabriella Portalone e Maurizio Scaglione, con la passione e la stima tipica dei discepoli verso il maestro, in questa opera immensa hanno ricostruito l'attività parlamentare di Giuseppe Tricoli rievocando così la figura dell'uomo di partito e delle istituzioni. Rivive dunque l'immagine del Tricoli politico che si affianca a quella del Tricoli storico dell'età moderna e contemporanea.
In tutta sincerità, chi scrive non può tenersi ancora dentro di essersi più volte chiesto - mentre accompagnava il prof. Tricoli all'Università o mentre aveva l'onore di affiancarLo in qualche conferenza o di conversare con Lui su temi storiografici e di ricerca o su uomini e problemi di quella che Marcello Veneziani ha definito la cultura della destra - se in fondo un uomo di cultura come Tricoli non potesse apparire decisamente "fuori posto" in un mondo, come quello della politica italiana, costantemente turbato da lotte intestine che si traducono, ad ogni livello e su tutte le istituzioni, in una instabilità ancora oggi lontana dall'essere stata definitivamente domata e di cui i peraltro brevi momenti di tranquillità appaiono come tregue d'armi e non già segni di una concreta volontà di cambiamento. Una riflessione, la mia, che ripropone l'immagine dello storico Tricoli forse maggiormente a proprio agio tra i suoi libri ed i suoi appunti (rigorosamente a penna) ed alle prese con una ricerca storica piuttosto che nei meandri della politica.
I due volumi curati da Gabriella Portalone e da Maurizio Scaglione rispondono per certi versi a quella mia domanda, presentando un Tricoli che anche come politico conferma la propria ascendenza di storico esaminando il presente attraverso il filtro del passato. Del resto, proprio l'azione politica svolta da Tricoli sta a dimostrare la puntuale denuncia da parte sua dei mali più evidenti che tendevano (e tendono) a creare un fossato tra paese legale e paese reale: le usurpazioni della partitocrazia (oggi delle coalizionicrazie), la parzialità del potere, i consociativismi nascosti, i compromessi più o meno storici, l'arco costituzionale (oggi crollato nelle istituzioni politiche ma sopravvissuto in quelle culturali).
La denuncia delle carenze del presente induceva lo storico Tricoli a volgersi al passato - a quello dell'ottocento risorgimentale ed a quello del novecento mussoliniano - non già con un senso di nostalgico rimpianto, bensì con quel senso della Storia, con quello spirito critico protesi ad esaltare la Storia come cammino ininterrotto di idee.
Ecco perchè chi domani scriverà la storia della destra siciliana troverà nell'attività parlamentare di Giuseppe Tricoli - nei suoi discorsi, nelle sue mozioni, interpellanze ed interrogazioni, nelle sue proposte di legge, nelle sue dichiarazioni di voto - la conferma che il vecchio Msi non fu soltanto un partito di esuli in patria, e che i cinquant'anni della destra nella prima repubblica non furono mezzo secolo di nostalgie: l'azione contro la mafia, la valorizzazione del lavoro come soggetto e non oggetto del capitale, l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia, la valorizzazione dell'autonomia siciliana, la differenza tra sicilianismo e sicilianità, la difesa delle tradizioni come antidoto agli eccessi della modernità, la valorizzazione della Sicilia nel contesto euromediterraneo. Possiamo dire, dunque, che il Tricoli politico, non allontanandosi mai dallo storico Tricoli, ha saputo far camminare quella idea di nazione e di popolo, quella linea nazionalpopolare (interpretata da Mazzini, Garibaldi, Pisacane, e poi da Carducci, Pascoli, Oriani, dal socialismo eretico di Mussolini e ancora da Pirandello e Gentile, e poi confusamente da Pacciardi, Sogno, Craxi) che dagli spalti dell'Italia risorgimentale arriva a quelli dell'Italia repubblicana: una linea incompresa, maledetta, malvista; una linea sulla quale ancora oggi pesano pregiudizi e sfiducie anche perchè da essa provengono quelle rivoluzioni mancate figlie del Risorgimento tradito e del fascismo tradito.
Quella di Gabriella Portalone e di Maurizio Scaglione, che più di me hanno frequentato Tricoli (confesso che l'aver conosciuto lo storico Tricoli troppo tardi è il rammarico più grande di questi miei giovani anni), va dunque segnalata non come opera politica, da addetti ai lavori, bensì come affresco storico di un uomo (di cultura e della politica) nella sua epoca. I discorsi parlamentari di Tricoli vanno letti da tutti, e possono essere letti da tutti, perchè essi costituiscono il racconto storico di un periodo in diretta col passato ma aperto verso il futuro. Lo storico Tricoli ha permesso al Tricoli politico di tenersi lontano dal politichese, dal linguaggio astruso e complicato della compagnia dei politicanti, dai bassifondi della politica intesa come esclusiva ed escludente gestione del potere ma anche dagli abissi della politica concepita come sterile e vacua utopia; ed anche in questo emerge quello stile nazionalpopolare che ha caratterizzato l'uomo Tricoli nella sua totalità.
L'attività parlamentare di Giuseppe Tricoli, dunque, evidenzia quella sua attenzione storica rivolta al presente, senza trascurare il filo critico del passato. Tutto questo legittima il giudizio di quanti parlano di una singolare fusione, in Tricoli, dello storico e dell'uomo politico all'interno della vita culturale e politica siciliana del suo tempo e del nostro. Ed è qui il grande merito di Gabriella Portalone e di Maurizio Scaglione: di avere liberato dalla tela chiaroscurale che ancora la copriva, quella rara e singolare fusione di storia e politica che animava Giuseppe Tricoli. In questo nostro tempo apparentemente solido ma sostanzialmente flessibile, non dimenticare che la Politica solo dalla Storia trae la propria legittimità può essere decisivo. E forse rivoluzionario.
Michelangelo Ingrassia
P. AMATIELLO,
Bianca Maria Simeoni e l’Aurea scrittura, Roma, Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, pp. 96
Della poetica di Bianca Maria Simeoni si interessano, sin dall’esordio avvenuto dal 1998 con la silloge "Verso Dove", la critica più autorevole ed i più famosi poeti italiani (da Mario Luzi a Maria Luisa Spaziani, da Gabriella Sobrino a Vincenzo Rossi, da Sandro Sticca a Renato Civello, da Aldo Onorati a Roberto Pasanisi, da Daniela Fabrizi ad Anna Manna, da Salvatore di Marco a Mario Mazzantini e numerosi altri); insomma, è un coro di giudizi positivi ed entusiasti.
Questi giudizi sono stati pubblicati dal critico Pino Amatiello nel suo saggio edito dall’Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, dal titolo Bianca Maria Simeoni e l’Aurea scrittura, non solo per testimoniare l’elevato spessore raggiunto dalla poetessa, ritenuta "Stella di prima grandezza nel panorama letterario internazionale", ma soprattutto per convalidare, attraverso l’autorevolezza dei suoi recensori, i giudizi espressi nel corso della monografia.
Il saggio di Pino Amatiello è prefato da Cinzia Emmi dottore di Ricerca in Italianistica dell’Università di Catania ed è arricchito da un indice dei nomi, da una ricca monografia e da una Antologia delle poesie della Simeoni, tratte da "Verso Dove" e da "Confiteor", la seconda silloge, edita nel 2002 quale premio-pubblicazione del Concorso europeo di poesia e saggistica "Omaggio a Gennaro Manna", la cui cerimonia di premiazione ha avuto luogo nella Sala della Protomoteca del Campidoglio.
La poetica dell’autrice reatina, che si appresta a pubblicare il terzo libro Mots d’amour (Canzoniere d’amore) ha meritato anche l’attenzione di Neria De Giovanni, presidente dell’Associazione Internazionale Critici Letterari, che ha pubblicato una lunsinghiera recensione sulla rivista letteraria "Salpare".
Bianca Maria Simeoni è stata invitata dall’Università Binghamton di New York a tenere una conferenza sulla sua poesia nel corso di un Convegno che sarà dedicato a "Il giornale dei Biati" del quale la poetessa è Art director. La conferenza sarà ripetuta anche a Stoccolma presso l’Accademia delle Scienze - Fondazione Nobel.
A chi si chieda il significato della "Aurea scrittura" nel titolo dato da Pino Amatiello al suo saggio, l’autore precisa che la poesia per la Simeoni, secondo la "Teoria dei colori" del Goethe costituisce il "distacco da un mondo di noia, di incertezza, di sofferenza, di non vita" per iniziare un percorso "Verso" il quale muovere nella certezza di raggiungere un "Dove" di speranza e di salvezza.
La poesia di Bianca Maria Simeoni prende l’avvio dai Simbolisti francesi e italiani; risulta per il linguaggio "nuova" ed aristocratica, ricca di pensiero e, nonostante prenda le mosse dal vissuto reale, risulta infine immaginaria ed immaginifica, "coinvolgendo" - come afferma Mario Luzi - "il lettore, prima che questi se ne renda conto".
"Come non esserne presi?" - conclude il grande poeta fiorentino. Domanda che si pongono critici, autori e lettori di fronte a queste poesie "decise" nelle quali avviene il miracolo dell’autoimmedesimazione, caratteristica questa della vera, grande poesia.
Il saggio di Pino Amatiello prende l’avvio dalla poetica della Simeoni per trattare della poesia del nostro Paese dal secondo dopoguerra agli ultimi scorci del secolo scorso; l’autore esamina infatti i motivi che portarono alla cosiddetta poesia del "riflusso", alla poesia della "assenza", all’ermetismo, ritenuto una "scuola" da Salvatore Quasimodo nel suo Discorso sulla poesia del 1954 e negato come movimento da Mario Luzi (proprio in un’intervista rilasciata alla Simeoni e pubblicata su "Il Giornale dei Poeti").
Dall’esame strutturale del critico Vincenzo Rossi e da quello metrico compiuto da Aldo Onorati, la poesia di Bianca Maria Simeoni si rivela ricca di linguaggio e di "pensiero", tutta compresa in un assoluto valore letterario che numerosi critici pongono in evidenza.
Il saggio di Pino Amatiello è stato presentato in prima assoluta presso la sede delle Edizioni Rosati di Civitavecchia dallo scrittore Francesco Agresti e dai professori Giancarlo Peris e Luciano Pranzetti. Alcune poesie, accompagnate dalle musiche originali del chitarrista compositore Beppe Frattaroli, sono state lette dagli attori del Teatro Popolare di Salerno Davide Curzio e Anna Nisivoccia; ospite d’Onore è stata la violinista agrigentina di fama internazionale Alessandra Cuffaro.
Alla fine dell’incontro Bianca Maria Simeoni è stata intervistata dalla giornalista del Messaggero Stefania Mangia; essa ha confermato la forte influenza subita dai Simbolisti francesi, ma ha nel contempo respinto qualsiasi rapporto con i crepuscolari, affermando che la sua poesia non è affatto intimista, ma che, al contrario, è aperta universalmente a trasmettere le sue sensazioni.
Nel mese di novembre p.v. il saggio di Pino Amatiello sarà presentato a Palermo presso la Fondazione Chiazzese.
Mauro Milesi
Leggendo il libro scritto a quattro mani dai giornalisti Luciano Lanna e Filippo Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra (Firenze, Ed. Vallecchi, 2003), si ha immediatamente la percezione di trovarsi davanti a qualcosa di diverso che ci suscita autentica curiosità, grazie alla quale si leggono tutte d’un fiato le sue oltre 500 pagine che sembrano dettate, più dalla necessità di razionalizzare sentimenti e sensazioni, che dalla voglia di esplicare e catalogare una serie di concetti e di categorie politico-ideologiche.
Gli stessi autori premettono che non si tratta di un lavoro mirante a ricostruire la storia del movimento post-fascista italiano o degli ambienti nostalgici del ventennio o dell’impalcatura ideologica che darà vita alla nuova destra degli anni novanta, la cosiddetta destra di governo. L’obiettivo di Lanna e Rossi, cresciuti negli ambienti culturali della giovane destra, è molto più ambizioso ed intrigante, poiché consiste nel "ricostruire un quadro d’insieme – giornalistico, esistenziale, antropologico, psicologico e di storia della mentalità – del mondo che può essere definito, in assenza di una categoria unificante e accettata da tutti, del ‘fascismo immaginario’. Un universo mentale […] che assume la forma di una dimensione immaginaria che, a sua volta, deriva da un intreccio complesso di impatti emotivi, percezioni esistenziali, percorsi iconologici, suggestioni letterarie e vissuto generazionale" (p. 14).
Definire tout court fascista la destra facente capo al vecchio MSI o al vecchio FUAN, può anche apparire limitativo, visto che il termine fascista, dal dopoguerra ai nostri giorni, ha assunto vari e spesso contrapposti significati a secondo del soggetto che ne ha fatto uso e dell’oggetto di riferimento. Così per i comunisti e comunque per la sinistra, tutti coloro che si ponevano a destra della DC e tutte le frange più conservatrici del partito cattolico, venivano genericamente accomunate in tale termine dispregiativo, appunto, fascista. Ma, d’altra parte, erano invece definiti fascisti dalla destra liberale italiana, proprio i comunisti e tutti coloro che si riconoscevano nel sistema sovietico stalinista. Erano squadristi fascisti i giovani contestatori per i poliziotti chiamati a sedarne gli ardori, ma erano fascisti i poliziotti e i militari in genere, per gli studenti protagonisti della rivoluzione culturale sessantottina. Era definito fascista l’autoritarismo di certi genitori all’antica, in verità una vera e propria specie in estinzione, o la scuola selettiva e nozionistica, il giovanilismo, l’intolleranza, il razzismo, cadendo, così, troppo spesso in luoghi comuni assolutamente privi di ogni razionale fondamento. Ma è stato anche definito fascista tutto ciò che non rientrava nei gusti, nelle abitudini e negli atteggiamenti della cosiddetta sinistra radical chic, anche se non si poteva certamente collocare in determinate categorie ideologiche e politiche. Per cui fascisti sono stati considerati i western all’italiana di Sergio Leone, le canzoni di Lucio Battisti, i fumetti di Corto Maltese e di Asterix, l’esoterismo, i monologhi, a volte farneticanti, di Carmelo Bene, i pariolini, i tifosi della Lazio, i libri dell’Adelphi, fino ad arrivare alla stessa figura di papa Giovanni Paolo II per il suo tradizionalismo e per le sue invettive contro il comunismo, visto come male assoluto.
Se per alcune di queste categorie potrebbe anche esistere una giustificazione pseudo- ideologica, che tratteremo in seguito, per altri la catalogazione nel concetto di fascismo è certamente pretestuosa e voluta dai detrattori di certi movimenti o di certe tendenze culturali come, per esempio, Comunione e Liberazione o Indro Montanelli o lo stesso papa Woityla, tutti elementi di disturbo per la cultura e la propaganda di sinistra e quindi automaticamente fascisti.
Dal punto di vista eminentemente politico, di fatto, il post-fascismo ha impedito che in Italia si costituisse e si affermasse una vera destra. Questo essenzialmente per due motivi: innanzitutto la paura di essere classificati come fascisti, in una società divisa in maniera ridicolamente e rigorosamente manicheista tra fascisti e antifascisti, ha sconsigliato a molti, imprenditori, intellettuali conservatori, rappresentanti dei poteri forti, di qualificarsi di destra; in secondo luogo la destra post-fascista aveva connotati che poco avevano a che fare con la destra vera e propria ideologicamente intesa, se non il patriottismo e l’anticomunismo. In verità erano più numerosi i principi vicini alla categoria politica della sinistra, come la difesa dei deboli, la compartecipazione operaia, lo stato sociale, la solidarietà, la diffidenza verso il capitalismo ecc. Ciò spiega perché un protagonista della svolta politica egiziana in senso nazional- socialista come Nasser, inviava in Italia i suoi esperti per studiare il corporativismo fascista, come spiega, del resto, il fascino esercitato dal carattere sociale del fascismo in un populista come l’argentino Peron o nel premier pakistano Buttho che confessò di avere avuto due maestri, ambedue italiani, Machiavelli e Mussolini, l’uno per l’arte politica e l’altro per il welfare, mentre lo Scia di Persia Reza Palhevi, nel suo sforzo per modernizzare l’Iran, si rifaceva a concetti del primo e dell’ultimo fascismo, come la compartecipazione operaia, e proprio per questo dava incarico al filosofo di destra, discepolo di Giovanni Gentile, Ugo Spirito di scrivere un testo che avrebbe dovuto essere alla base della sua politica sociale: La rivoluzione dell’Iran. Del resto, la famosa ambasciatrice americana a Roma, negli anni dell’immediato dopoguerra, Clara Boothe Luce, riconosceva che il new deal di Roosevelt si rifaceva in gran parte alla politica sociale del fascismo. Per non parlare, poi, dei cosiddetti fascisti di sinistra, aderenti ai gruppi che avevano come punti di riferimento L’orologio, rivista fondata nel 1963 a Roma da Luciano Lucci Chiarissi, il trimestrale Azimut della Federazione nazionale combattenti della RSI e il foglio giovanile Controcorrente, fondato da Romolo Giuliana e Principio Federico Altomonte. Questi contestavano, addirittura, la politica filo-atlantica e l’occidentalismo del governo italiano, parteggiando per gli arabi contro gli israeliani, per i vietcong contro gli americani, elevando a propria icona De Gaulle, capace di essersi posto contro l’imperialismo della Nato, condannavano i colonnelli greci e il falangismo capitalista e clericale del Generalissimo Franco e il colonialismo e il razzismo del regime portoghese.
Ma era proprio l’essere identificati nell’MSI, nei sostenitori dei vecchi "repubblichini fascisti", come Tremaglia, Almirante, Romualdi, a determinare l’isolamento della gioventù di destra. La prova fu data dai fatti di Valle Giulia, il 1 marzo del 1968; in quell’occasione erano stati proprio i giovani del FUAN a cavalcare la protesta studentesca sessantottina, scagliandosi in una vera e propria battaglia contro la polizia, mentre i giovani di sinistra assistevano increduli al pestaggio. Ma bastò che il 16 marzo un gruppo di missini, guidati da Almirante, facesse irruzione alla Sapienza, con il pretesto di liberare l’Università dai rossi, per accontentare quella parte dell’opinione pubblica conservatrice che temeva il degenerare della protesta studentesca, per far sì che il movimento universitario sessantottino, che nella destra era nato e si era sviluppato come movimento di rinnovamento e di ribellione contro un mondo politico e culturale ritenuto bacato e corrotto, divenisse per sempre patrimonio e monopolio della sinistra.
Per tutti questi motivi la cosiddetta destra economica si definì di centro, e la destra italiana fu identificata con i post-fascisti e fu emarginata dal resto dell’intellighenzia nazionale, in un ghetto le cui chiavi erano nelle mani degli effettivi detentori del potere che di essa si servivano solo nei momenti di effettivo bisogno (vedi governo Tambroni, elezione di Segni e di Leone alla presidenza della Repubblica, operazione Milazzo in Sicilia).
In questo ambiente si formava la gioventù di destra che, solo in parte, si riconosceva nel FUAN o in altre organizzazioni di partito, ma che era motivata da spinte ideologiche e psicologiche eterogenee, a seconda dagli ambienti sociali e familiari di provenienza e poi, a seconda degli eventi politici. Perciò la prima gioventù di destra, quella sorta dalle ceneri della guerra civile, era mossa da diverse motivazioni, tutte però riconducibili al più recente passato. C’era chi, come Tremaglia, Pisanò, Albertazzi si sentiva legato alla scelta già fatta quando aveva aderito, contro ogni motivazione razionale, mosso solo dal sentimento, alla Repubblica di Salò di un Mussolini già consegnato alla fine, ma per questo più determinato che mai a lasciare ai suoi giovani seguaci un testamento politico tutto fondato sugli ideali sociali del primo fascismo, del sansepolcrismo. Ma c’era anche chi, nauseato dagli innumerevoli e vergognosi voltafaccia, sceglieva di stare con chi aveva il coraggio di sbandierare le proprie idee, anche se erano le idee dei vinti. Ci fu, poi, chi si collocò a destra per tradizione di famiglia, i figli dei fascisti più intransigenti, per esempio, dei combattenti di Salò, dei perseguitati dai partigiani, delle vittime della barbarie comunista del dopoguerra, degli esuli istriani e delle vittime delle foibe; ma ci fu anche chi vide nella scelta del ghetto una scelta anticonformista, una forma di ribellione portata all’esasperazione, o, al contrario, un atteggiamento tradizionalista, una fuga dalla realtà e una ricerca di un mondo perduto o irrealizzabile, capace, tuttavia, di placare tempeste interiori e smarrimenti ideologici.
Un cantante come Enrico Ruggeri, per esempio, si sentì portato naturalmente verso la destra per protesta contro una cultura marxista che veniva imposta, dalla scuola innanzitutto: "Aberranti lezioni di filosofia: sei mesi su Marx e nemmeno una lezione su Nietzsche e Schopenauer. In Italiano niente D’Annunzio e poco Leopardi e Foscolo, ma ore e ore su Gramsci" (p. 83). Mentre il leader attuale della destra italiana, il vice premier Gianfranco Fini, pur provenendo da una famiglia rimasta fedele a Mussolini durante gli anni della Repubblica di Salò, fece la sua scelta politica in seguito al boicottaggio violento esercitato dalla sinistra universitaria bolognese contro il film filo-americano Berretti verdi, in un momento in cui appariva politicamente scorretto schierarsi contro i vietcong e a favore dell’intervento statunitense nel sud est asiatico.
I primi a comprendere la necessità di contrapporre all’imperante cultura gramsciana una cultura di destra, furono i fondatori della casa editrice Adelphi, nata nel 1962 in un’ Italia che era editorialmente divisa tra l’Einaudi e la Laterza che, in maniera più o meno estrema, si erano adattate al nuovo andazzo culturale. Il disegno di lanciare una cultura di destra, tuttavia, si scontrava contro una serie di ostacoli posti dalla intellighenzia dominante e dal regime politico; sarebbe stato assurdo, infatti, riproporre libri scritti nel ventennio, seppur da grandi pensatori o storici come Gentile, Volpe o lo stesso Mussolini, poiché inevitabilmente si sarebbe stati tacciati di fascismo. Si scelse, quindi, di diffondere alcuni autori, certamente non catalogabili fra i miti della sinistra, come Nietzsche, Tolkien, Heidegger, Celine, Milan Kundera, ecc. che rappresentavano per la gioventù di destra la fuga dal materialismo marxista, il rifugio in un mondo fantastico, come valenza rivoluzionaria della fantasia, o nel mito del superuomo di Nietzsche, come rivolta contro la quotidianità, capaci di dare a chi non si riconosceva nel presente, la possibilità di rifugiarsi nell’irrazionale e trovare in esso la spinta per una lotta interiore che sarebbe culminata nella ricerca di un mondo nuovo. Il fascino esercitato dall’irrazionale e dalla fuga dalla realtà, portò in alcune frange della destra giovanile l’accondiscendenza verso le droghe, come rifugio nello spiritualismo ed evasione dal mondo del materialismo e come trasgressione, alla maniera di Drieu La Rochelle, altro mito di questi giovani sognatori, che scriveva: "i drogati sono i mistici di un’epoca materialista"(p. 105)
La giovane destra degli anni sessanta, dopo la definitiva ghettizzazione politica segnata dal caso Tambroni, cominciò a coltivare il mito dei vinti e degli emarginati, come, per esempio, gli indiani d’America, etnia calpestata nelle lingua e nelle tradizioni e strappata dal suo territorio naturale dall’imperialismo yankee. Il mito dei pellirossa, di Alce nero, di Cavallo Pazzo, di Geronimo (ci spieghiamo così l’imposizione di tale nome, a dir poco inconsueto, da parte di Ignazio La Russa al suo primo figlio) che imperversò in quegli ambienti soprattutto negli anni settanta, - anni in cui si produssero grandi film sull’argomento, come Piccolo grande uomo con Dustin Hoffman, Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris, anni in cui un divo come Marlon Brando per protesta contro il genocidio pellirossa, faceva ritirare l’Oscar da lui ottenuto per l’interpretazione de Il Padrino, da una donna indiana -, rappresentava per quei giovani l’esaltazione del perdente, della tradizione contro la massificazione o peggio contro la globalizzazione, di cui oggi tanto si parla, ma già da allora imposta dall’opulento sistema americano. Chiaramente i giovani di destra trovavano nel mito dei pellirossa la trasfigurazione ideale del ghetto ideologico e politico in cui erano stati emarginati.
Il mito del perdente coniugato a quello dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico e intrecciato al mito del superuomo costantemente presente nel giovane idealista della destra romantica degli anni settanta, portatore dei principi del volontarismo politico e dell’individualismo da contrapporre all’ineluttabilità storica propria del marxismo, portò a far sì che nell’immaginario collettivo della gioventù di destra si radicasse la figura eroica di Ernesto Che Guevara. Pur avendo egli combattuto per l’instaurazione di un regime a Cuba che sarebbe stato destinato a divenire l’avamposto del sistema sovietico nel mondo occidentale, il medico argentino, morto a soli trentanove anni, durante una delle sue tante campagne militari portate avanti per la difesa dei più deboli, venne visto da quei giovani, non come il braccio militare del castrismo comunista, ma come l’eroe disposto al sacrificio supremo pur di tutelare l’autonomia politica ed economica dei popoli centro americani dall’imperialismo USA, il combattente per antonomasia, pronto a prestare il suo braccio per ogni buona causa, ancora pregno di idealismo in una società ormai quasi totalmente dominata dall’utilitarismo capitalista e dal materialismo marxista, immagine della purezza rivoluzionaria e del fascino esercitato dalla nobiltà della sconfitta, piccolo cavaliere errante del ventesimo secolo (p. 92). Così si spiega anche il culto del Che esistente in ambienti militari (chi non ricorda il suo poster, assieme alla fotografia di Falcone e Borsellino, fra i tesori più cari del capitano Ultimo, immortalato dai recenti sceneggiati televisivi?), tradizionalmente ben lontani dalla sinistra internazionalista ed antimilitarista. Paradossalmente la sinistra giovanile, che del Che aveva già fatto la sua icona come combattente per la diffusione del marxismo nel continente americano, fu costretta, suo malgrado, a far propri alcuni canoni estetici fino ad allora esclusivo appannaggio delle destre, cioè l’abbigliamento di tipo militare.
L’America, peraltro, che aveva avuto con il fascismo, fino allo scoppio della guerra, un innegabile feeling, determinato, colà, anche dall’ammirazione popolare per la trasvolata di Balbo (ricordiamoci che esiste a Chicago, tuttora, la General Balbo Avenue), dal fascino esercitato dalla personalità di Mussolini (nel 1934 una popolarissima canzone americana aveva il seguente refrain: "Siete in cima/ siete Musso-li-ni/ Siete in cima/ siete Musso-li-ni" e in Italia, dalla esaltazione portata avanti dalla propaganda di regime di quel popolo giovane, immagine tanto cara al fascismo che sulla rivoluzione giovanile e sulla nascita dell’Homo novus basava la sua filosofia, aveva assunto, dopo la guerra, agli occhi della giovane destra il ruolo dell’invasore imperialista, del distruttore dell’italianità tanto coltivata dal ventennio, del portabandiera dell’omologazione consumistica. Colui che più di ogni altro visse la tragedia del cambiamento dell’immagine americana, avvenuto in seguito ai tragici eventi bellici, fu Ezra Pound, fascista, ammiratore di Mussolini e dell’Europa, ma americano dalla testa ai piedi, che nei suoi Cantos celebrò, appunto, l’epopea dell’America delle origini, del giovane popolo coraggioso, puritano ed idealista che aveva inventato la democrazia. Questo poeta sognatore, incompreso dai suoi connazionali, tanto da subire la reclusione per molti anni in un manicomio americano, divenne un’icona della giovane destra italiana.
Il mito dei vinti, ma che coraggiosamente avevano combattuto per le loro tradizioni e che perciò erano stati emarginati, portava di conseguenza anche all’esaltazione della Vandea, a cui molto, anche troppo, contribuirono le opere di Julius Evola, e alla demonizzazione della Rivoluzione Francese, culla di quel razionalismo esasperato che avrebbe portato ad un egualitarismo innaturale, a quella massificazione contro cui si scagliava, appunto, l’unicum di Stirner. Quest’ultimo pensatore, con la sua teoria della fuga dal conformismo e dell’elevazione individuale ed interiore, contribuì certamente a far sì che molti artisti o pensatori catalogabili o catalogati a destra, come Carmelo Bene, De André, si definissero anarchici. L’anarchismo individuale era mosso certamente da una visione aristocratica della vita che portava conseguentemente un disprezzo per la massa e la democrazia. Era ciò che si era verificato alla fine dell’Ottocento e che aveva determinato la crisi dell’ortodossia marxista da cui erano nate le eresie come il sindacalismo soreliano e anche il fascismo e che faceva affermare ad un irregolare come Carmelo Bene: "La democrazia è ripugnante. Disprezza le masse, ma le vezzeggia perché votano e portano voti. Non c’è nulla che mi dia il panico quanto la massa. Egalité, Liberté, Fraternité, le tre somme bestialità becerate nella presa della Bastiglia" (p. 81).
Tuttavia, alla fine degli anni sessanta la destra volle uscire dal suo cliché di popolo nostalgico, piagnone e masochista, inventando, appunto, una sua satira destinata ad avere un imprevedibile successo, che ebbe il suo precursore nel gruppo del Bagaglino con Pingitore, Lionello, Caruso. Il far ridere rappresentava un ulteriore modo di distinguersi dalla sinistra perennemente arrabbiata, a cui Oreste Lionello proprio con le seguenti parole si riferiva: "La destra è ridente, la sinistra piagnona, la destra è ottimista, la sinistra cupa. La destra proiettata verso il futuro, la sinistra ripiegata sul passato". Ed ancora: "Per far ridere la sinistra è costretta a mettersi una maschera. Perché il suo umorismo non esiste, è solo invettiva. Non sa strappare un sorriso: sa solo offendere" (p. 54).
Il mito della riscossa cominciò, pian piano, a farsi strada in gran parte della destra esplicitandosi nel motto Boia chi molla! reso popolarissimo dalla rivolta di Reggio Calabria del 1970 e dal suo protagonista Ciccio Franco, ma già lanciato dal fascista ferrarese Roberto Mieville durante la sua prigionia in un campo di concentramento americano. Era un grido revanchista, un incitamento alla lotta senza fine, il grido di guerra per la fuga dal ghetto e la riconquista del campo d’azione all’interno della società italiana, il segnale di quella che Almirante chiamò la primavera dei vinti.
L’integrazione avvenne non solo attivando una propaganda che si fondava sulla vendita di libri, dischi, riviste cassette musicali che miravano a rompere l’immagine truce e militarizzata che aveva, fino ad allora, contraddistinto la giovane destra nelle città, ma anche facendo proprio un patrimonio musicale che fino a quel momento era stato monopolio della sinistra: Gaber, De André, Guccini e lo stesso De Gregori, la cui canzone Viva L’Italia, con grande suo disappunto, venne scelta come sigla di una tribuna politica autogestita dal MSI, in Rai, nel 1979.
L’evento che segnò una svolta nell’atteggiamento della società civile verso la destra e che non per nulla avvenne negli anni del craxismo, esattamente nel 1987, fu costituito da una trasmissione televisiva, trasmessa da Rai 2, di cui fu coautore il giornalista Giampiero Mughini, allora di simpatie socialiste. Per la prima volta nella storia della Repubblica si dava a tre milioni di telespettatori, la possibilità di conoscere da vicino, attraverso tutta una serie di intelligenti interviste, il mondo della destra giovanile, fino ad allora non solo emarginato dalla diffidenza generale, ma soprattutto dalla ignoranza generale. Racconterà in seguito Mughini: "[…] La reazione più interessante fu quella di un montatore della trasmissione, un ragazzone romano figlio del movimento del ’77. Quando […] gli spiegammo che avremmo parlato dei giovani di destra senza odio, facendo delle domande e ascoltando le loro risposte, si rabbuiò immensamente e per un certo tempo non ci rivolse più la parola. Ma vedevo che seguiva attentissimo il materiale che andavamo montando […] il figlio del ’77 finalmente capiva, adesso riconosceva quei ragazzi come suoi simili e non come belve da braccare. Quando montammo un pezzo di Radio Popolare dove interveniva un ascoltatore a gridare I fascisti bisogna ammazzarli tutti", il ragazzone del ’77 balzò in piedi e gridò: "Mascalzone!" Quando finimmo il lavoro ci abbracciammo, lui ringraziando me e William d’avergli insegnato nuovi criteri con cui vedere la realtà della sua generazione" (pp. 332-333). Da allora si cominciò timidamente a parlare di destra nei vari strumenti massmediatici; Massimo Cacciari procedette ad una sua personale riscoperta dei pensatori di destra, mentre coraggiosi giornalisti come Massimo Fini, Pierluigi Battista, Paolo Mieli ed Ernesto Galli della Loggia, furono i pionieri, nella loro nuova rivista mensile Pagina, del dialogo con la giovane destra. Ma fu soprattutto Craxi a favorire l’uscita della destra dal ghetto; nel 1983, durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo da lui presieduto, intrattenne il leader del MSI Almirante per più di un’ora, al di là dei limiti di tempo e di contenuto propriamente istituzionali. Dichiarò che non aveva mai approvato la formula dell’arco istituzionale e che si aspettava una costruttiva opposizione dalla destra parlamentare, confidando forse, su quel suo carattere sociale, che il segretario socialista aveva intuito persistere nella mentalità missina. Iniziò un fiorire di incontri, di mostre, di convegni e di pubblicazioni, in cui la cultura socialista e quella missina si incontravano su terreni comuni. Già nella primavera del 1982 il sindaco socialista di Milano Tognoli aveva organizzato un imponente mostra al Palazzo Reale, dal significativo titolo Anni Trenta. Arte e cultura in Italia, curata da Giordano Bruno Guerri; l’anno seguente Giano Accame organizzava a Roma un dibattito a cui partecipavano Rutelli, il senatore socialista Antonio Landolfi, i giornalisti di destra Luciano Lucci Chiarissi e Pacifico D’Eramo, lo scrittore vicino al socialismo di Salò Enrico Landolfi, e il parlamentare missino Beppe Niccolai. Sempre nello stesso anno il giornalista Marcello Veneziani, pubblicava un libro, Socialismo e Nazione, in cui lo scrittore Enrico Landolfi si confrontava con un altro rappresentante della giovane destra, Franz Maria D’Asaro. L’anno successivo Maurizio Cabona e Stenio Solinas, vicini alla destra, curavano il libro C’eravamo tanto a®mati, tra i cui autori c’erano intellettuali di destra e di sinistra come Massimo Cacciari, Oliviero Beha, Giordano Bruno Guerri, Massimo Fini, Francesco Guccini, Enrico Nistri, ecc. Perciò, Sergio Caputo poteva affermare che, verso la metà degli anni ’80 il peggio sembrava essere passato e la destra sembrava aver conquistato quella legittimità che le era stata prepotentemente negata, legittimità che si sarebbe imposta con autorità dopo la caduta del muro di Berlino e la diffusione della storiografia revisionista di cui precursore era stato l’indimenticabile Renzo De Felice.
Malgrado la rabbia che tale corrente storiografica procurava agli storici della "vulgata marxista", i quali impunemente accusavano De Felice e la sua scuola di negazionismo, il nuovo modo di interpretare il passato, tutto fondato sull’esame dei documenti e alieno, per quanto fosse possibile, dai preconcetti ideologici e dai luoghi comuni, finì per affascinare, tuttavia, anche parte della sinistra. Non si spiegherebbe altrimenti la canzone di De Gregori del 2000, Il cuoco di Salò, in cui il cantautore marxista cantava: "Qui si fa l’Italia e si muore/ dalla parte sbagliata/ in una grande giornata si muore/ in una bella giornata di sole/ dalla parte sbagliata si muore" Era un modo, questo, per riconoscere l’esattezza di quanto il tanto bistrattato De Felice aveva già ampiamente dimostrato, cioè che anche a destra si era combattuto per vero patriottismo, per un ideale, che pur essendo destinato alla sconfitta, infiammava i cuori di tanti giovani delusi da un’Italia che sembrava ormai votata al voltafaccia e al tradimento, ma che era pur sempre la loro patria. Nel partecipare ad un convegno ad Arezzo sulla comunicazione storica, l’anno seguente, lo stesso cantautore giustificava lo spirito della sua canzone affermando: "[…] La storia è un lavoro in corso, non si possono dare verità acquisite. E’ chiaro che la storiografia del dopoguerra […] suggeriva o imponeva una scrittura di quel periodo in un certo senso. Oggi possiamo vedere le cose con più distacco e, quindi, conoscere anche le motivazioni forti, a volte oneste, di molti che erano a Salò" (p. 397).
Una ancor più eclatante rivisitazione della storia di Salò fu fatta da Luciano Violante, nel 1996, in occasione del suo discorso di insediamento come Presidente della Camera dei deputati della nuova legislatura: "Bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze quando tutto era perduto si schierarono dalla parte di Salò" ( p. 398 ) Il neo presidente della Camera, peraltro, era il primo a riconoscere l’esistenza, nello scalcinato esercito della RSI, del fenomeno del volontarismo femminile; 4.500 ragazze si erano arruolate nel servizio ausiliare femminile, fondato e comandato da Piera Gatteschi, l’unica donna della storia militare italiana ad essere stata insignita del grado di generale di brigata.
Sulla scia di Violante i riconoscimenti ai giovani di Salò cominciarono a fioccare con grande soddisfazione degli esponenti di Alleanza Nazionale e soprattutto di chi, fra questi, poteva riconoscersi in quei giovani idealisti combattenti, come Mirko Tremaglia. Lo stesso Ciampi riconobbe la buona fede e il patriottismo di quei giovani, fino a quel momento ostracizzati dalla cultura ufficiale, se non per essere ricordati come sostenitori della barbarie nazista. In tale nuovo clima nasceranno i due libri "scandalo" di Gian Paolo Pansa, I Figli dell’Aquila, un romanzo sui giovani combattenti della RSI e, soprattutto, il recentissimo Il sangue dei vinti, storia documentata degli eccidi perpetrati dai partigiani comunisti, nel dopoguerra, su chi aveva avuto il torto di combattere o semplicemente di credere nella parte sconfitta e il cui eroico idealismo era già stato compreso da un poeta, che la cultura di sinistra aveva già catalogato tra i suoi adepti, parlo di Cesare Pavese, nel suo romanzo Tiro al piccione, che aveva magistralmente celebrato quei "soldati bambini", ricchi solo di coraggio, di incoscienza e urlanti strafottenti canzoni di guerra, ma anche canzoni dell’epopea risorgimentale, come l’Inno di Mameli, intuendo che sarebbe stato l’inno adatto alla nuova Italia repubblicana. Sarebbero occorsi, tuttavia, ancora, cinquant’anni, perché si potesse riconoscere che quei giovani arruolatisi per perdere la guerra a modo loro, come dichiarò uno di essi, Mario Gandini, avevano costituito "il più imponente fenomeno di volontarismo della storia dell’Italia moderna, quantitativamente superiore alla stessa epopea garibaldina"(p. 403)
Alla fine di questa intrigante lettura non possiamo non tornare alla premessa fatta dagli autori, il libro non voleva essere una storia della destra post-fascista italiana, ma in effetti lo è. E’ una storia raccontata sul filo delle esperienze giovanili degli ultimi cinquant’anni di vita politica nazionale, sulla scia di miti, impressioni, sensazioni, spesso contraddittorie, che, tuttavia, caratterizzano una parte consistente della gioventù italiana, quella che ebbe il coraggio di stare all’opposizione, di subire l’emarginazione, gli insulti di chi la riteneva legata ad un passato sanguinario, o semplicemente sbagliato perché perdente e, comunque da cancellare, una gioventù che ebbe il coraggio di schierarsi contro la moda, di apparire out in un mondo che ci impone quotidianamente di essere in, e che ebbe, infine, la forza di celebrare la grandezza della sconfitta quando essa si riallaccia a veri ideali estranei da ogni tipo di interesse contingente, da ogni forma di esteriorità, cuciti solamente nella parte più intima dell’anima.
I. Il ruolo della politica estera nel periodo post comunista
La politica estera dell’Albania degli anni Novanta è, indubbiamente, nuova rispetto allo stato di lotta ideologica contro tutti, all’autarchia ossessiva, all’isolamento diplomatico che caratterizzava la politica estera voluta da Enver Hoxha. I rapporti internazionali dell’Albania di Hoxha e di Ramiz Alia, suo successore per pochi anni, erano intrattenuti prevalentemente con Stati geograficamente distanti dall’Albania, in modo da sottrarsi al pericolo che gli Stati partner trasformassero l’amicizia con il piccolo paese adriatico in forme di protettorato politico o economico. Tormentato dal cauchemar di un’Albania invasa da vicini forti, il vecchio regime di Tirana aveva chiuso quasi ermeticamente i rapporti con i paesi vicini. Aveva relazioni, durevoli o episodiche, solo con l’antipodica Cina maoista, con il rivoluzionario Iran, o con la Romania dell’ultimo Ceausescu, anch’essa isolata nel contesto internazionale.(1)
I rapporti internazionali dello Stato albanese fino al 1990 erano orientati e basati sull’ideologia dello Stato. Il regresso che ha subìto lo Stato albanese, durante gli ultimi anni del regime, fu principalmente dovuto alle varie leggi costituzionali. Infatti, se si fa una piccola differenza tra la Costituzione del 1946(2) e quella del 1976(3) si può notare benissimo che mentre nella prima si garantiva la proprietà privata e la libera iniziativa, nella seconda, invece, si negava la loro esistenza. Come se non bastasse all’articolo 27 della stessa Costituzione, appunto quella del 1976, si sottolineava che il commercio estero era monopolio dello Stato. E ciò forse perché la politica di allora non arrivò a capire che l’eliminazione della proprietà privata e la monopolizzazione del commercio estero da parte dello Stato fosse il prologo dell’autoisolamento distruttivo.
Questo atteggiamento di autoisolamento (non dare concessioni alle società straniere comuni e non prendere crediti) fu considerato come una barriera per gli investimenti esteri in Albania e di conseguenza dei capitali stranieri. Qualsiasi attività in contraddizione con i princìpi costituzionali di autoisolamento era considerata illegale. In base al 47° comma, lettera dh, della legge 5581 del 15.06.1977 del Codice Penale della RPSSH (Repubblica Popolare Socialista dell’Albania) la creazione delle società comuni con paesi capitalisti era considerata come alto tradimento della patria. Anche se questa politica d’autoisolamento provocherà la crisi degli anni ’80 il sistema continuava ad essere imperniato sull’ideologia marxista – leninista.(4)
Gli atti più grandi e significativi - per la storia dell’Albania dal punto di vista politico e giuridico - cominciarono a registrarsi con i decreti 7406 e 7407 del 31 luglio 1990 che aprirono le barriere all’Occidente, dando via libera agli investimenti esteri, alla creazione delle società comuni con capitale straniero. A sua volta, la legge 7491 comma 45 datata 29.04.1991, "Per le disposizioni fondamentali" […] "La Costituzione della RPSSH approvata il 28.12.1976", nonché altre sue modifiche, vennero abolite.(5)
Se si tiene presente la devastazione spirituale ed economica dell’Albania si potrebbe dire che dopo la caduta del comunismo, gli albanesi hanno guardato all’Occidente come un uomo malato guarda al suo salvatore. L’appoggio dell’Occidente è diventato la prima forza motrice dei movimenti politici in Albania. "Noi governiamo e il mondo ci aiuta" era lo slogan che Berisha usava ripetere per mantenere la propria presa sul potere.
I partiti albanesi hanno condotto le loro campagne politiche durante il periodo del pluralismo affidandosi a chi godeva dell’appoggio dell’Occidente. Uno dei maggiori sforzi, messi in atto dalla propaganda dei partiti, era quello di persuadere la gente comune su chi godesse effettivamente dell’appoggio estero: il Partito Democratico (PD) è stato ammesso all’Unione Democristiana Europea, "Il Partito Socialista (PS) è stato ammesso all’Internazionale Socialista", questi erano i titoli a caratteri cubitali che apparivano sulle prime pagine della stampa albanese.
Gli uomini al governo avevano bisogno del sostegno occidentale per governare meglio i loro cittadini, per assicurarsi gli aiuti occidentali e aumentare il loro potere, rendendo più ricca la fazione dei loro sostenitori fino a quando la loro permanenza al potere non era minacciata. Berisha ha vinto le prime elezioni con l’ambasciatore americano Rayerson al suo fianco durante la campagna elettorale.
Questi cambiamenti furono ben presto accettati dagli Stati dell’Europa Occidentale e, per questo, non mancarono né le valorizzazioni e né gli appoggi dalla loro parte. Se la strada dei cambiamenti politici è stata dura e, in un certo modo, tassativa per volontà degli organismi internazionali stessi, quella nel campo economico, invece, si è sviluppata in modo quasi naturale nonché progressivo. Infatti, tre furono gli elementi fondamentali posti in questo campo dalle "Disposizioni Fondamentali della Costituzione": la varietà delle proprietà, la libera iniziativa e il ruolo regolatore dello Stato. Con questo si dava fine al vecchio regime e si apriva la strada per altre prospettive.(6)
L’Albania, pur essendo stata una delle dittature più repressive dell’Europa dell’Est, fece un passaggio pacifico verso la democrazia. All’inizio la politica albanese ebbe un forte orientamento verso gli USA e poi man mano verso l’Europa e l’Asia. Sali Berisha era il balcano preferito dagli americani di Bush anche se il punto più caldo per la politica estera americana restava la Macedonia.(7)
Nella politica interna, nonostante la caduta della popolarità del Partito Democratico, a causa delle riforme di mercato, si registrava grande fiducia e speranza per il futuro. Secondo i risultati dell’Eurobarometro si poteva constatare che gli albanesi erano ottimisti sulla via intrapresa, a prescindere dalle varie difficoltà, e più di 2/3 di essi pensavano che l’Albania stesse andando verso la giusta direzione. Nel Novembre del 1994 un referendum bocciò il progetto di una nuova costituzione di impostazione presidenzialista, tanto difeso dal Partito Democratico e dal Presidente Sali Berisha. Ma, in ogni modo, ciò dimostrò che almeno il 42% degli albanesi erano forti sostenitori del PD. La sconfitta della nuova carta costituzionale provocò forti cambiamenti all’interno del gabinetto. Otto ministri furono sostituiti, mentre i due alleati del PD – socialdemocratici e repubblicani – uscirono dal governo.
Tutto ciò dimostra che la geopolitica di un paese non muta per un passaggio interno di regime. Anche se si è passati ad un nuovo sistema politico, la politica estera dell’Albania postcomunista presenta aspetti non secondari di continuità con quella del passato. Perdurano a Tirana forti preoccupazioni, analoghe a quelle dei tempi di Hoxha, per la sicurezza del paese, a causa di popoli confinanti - serbi e greci – considerati nemici.(8)
Nel momento in cui l’Albania cominciò ad impostare la sua politica estera in direzione europea, mutarono i meccanismi prestabiliti nel mondo diplomatico e cambiarono i rapporti albano-americani.
Ecco perché sopravvive, in Albania, una certa diffidenza, analoga a quella dei tempi della dittatura, nei confronti di relazioni troppo strette con medie o grandi potenze, in grado di condizionare le vicende interne albanesi. Nel passato, Hoxha ruppe clamorosamente le alleanze; negli anni Novanta si preferì moltiplicarle, forse nella convinzione che l’una annullasse la possibile influenza dell’altra, in un processo di mutua elisione. Si ritiene, infatti, che l’Albania debba trarre il massimo profitto dalla reciproca concorrenza di paesi – cosiddetti amici – che competono per averla dalla propria parte.
Mentre i moti nel 1912-13 erano gonfiati da idee isolazioniste,(9) era frequente sentire dire:"La Balcania ai popoli balcanici", oggi, visto che vi è una forte attrazione dell’Europa verso i Balcani, sarebbe più opportuno parlare:"dei Balcani nell’Europa".
Il problema dell’europeizzazione nella politica albanese è un’idea sempre più presente, in quanto dopo la caduta del muro di Berlino molti meccanismi della scena diplomatica internazionale sono cambiati. E specialmente dopo il conflitto in Kosovo le forze politiche albanesi hanno acquisito una fiducia nelle istituzioni europee le quali dovrebbero evitare le convergenze esistenti nella regione balcanica, senza cadere negli stessi errori del passato.
L’Europa ha cercato continuamente di trovare la sua vera identità, quella dei padri fondatori e quindi l’unione dei popoli europei, e siccome l’Albania rientra in questa grande famiglia europea i presupposti ci sono perché un giorno rientri nell’UE.
Infatti, tra il 1992 e il 1997, il ruolo di principale paese amico dell’Albania fu assegnato da Tirana, a turno, all’Italia, alla Germania, agli Stati Uniti, alla Turchia. Ma la scelta di fondo della politica estera della nuova Albania fu quella del "passaggio in Europa". Lo slogan facciamo l’Albania come l’Europa e quindi il "destino europeo dell’Albania" fu il tema centrale della campagna elettorale con cui il Partito democratico di Berisha conquistò il potere nel marzo del 1992. "La priorità dell’Albania è l’integrazione nella Europa", amava dichiarare Alfred Serreqi, ministro degli Esteri albanese dal 1992 al 1996. Secondo Serreqi, "gli albanesi si sentono europei" spontaneamente e non per imposizione politica.(10) Tutto ciò perché si parte dal presupposto che l’Albania essendo un paese europeo deve naturalmente seguire una politica europea.
Grazie ai cambiamenti avvenuti dopo tanti sforzi, si è potuto sottoscrivere "l’Accordo non preferenziale sulla cooperazione commerciale ed economica", entrato in vigore il 1° dicembre 1992.(11) Naturalmente questo atto, per l’Albania, si considera, tutt’oggi, un successo fondamentale sia dal punto di vista politico che giuridico nell’ambito delle relazioni internazionali. Convenzioni di questo genere sono stipulate dall’UE proprio per i paesi e gruppi terzi di regioni in condizioni geo-economiche favorevoli e si riferiscono a quegli Stati che hanno avuto e hanno intenzione di attuare una politica di maggiore integrazione nelle Istituzioni Europee e di raggiungere il cosiddetto "Patto di Stabilizzazione e di Associazione".
II. Il "Patto di stabilizzazione e di associazione"
Negli ultimi dieci anni, la regione dei Balcani, oltre alle miserie delle guerre, alle pulizie etniche ha avuto anche momenti positivi che fanno sperare in un futuro migliore. Nel periodo ’89-’90 anche nei Balcani, come d’altronde in tutta l’Europa Centrale ed Orientale, caddero i regimi comunisti atrofizzati che avevano isolato i paesi vicini l’uno dall’altro, sicché dall’altra parte del mondo (l’Occidente) incominciò un duro e lungo lavoro perché questi paesi potessero attraversare una transizione politica, economica, istituzionale: "cambiare profondamente […] uscire dal loro isolamento e unirsi con l’altra parte dell’Europa".(12)
Se la regione dei Balcani da una parte, ha subito dei cambiamenti (l’inserimento del sistema politico multipartitico, lo sviluppo delle elezioni relativamente libere, la liberalizzazione del commercio, libera circolazione delle persone, la libertà stampa e dei media, l’indipendenza del sistema giudiziario) dall’altra parte, il vacuum creato dalla mancanza dello Stato e dell’autorità delle istituzioni ha fatto sì che ci fosse una predominanza del crimine organizzato nonché una connivenza tra lo Stato e il crimine stesso, dando spazio ai traffici di persone, armi, narcotici, ma anche di economie informali che volta dopo volta causano traumi in queste società.
La crisi dell’ex Jugoslavia incominciò nell’81, ma il vero fervore si ebbe nel ‘89 proprio quando l’ex Presidente Miloseviç impose dei cambiamenti alla ex Costituzione della Repubblica Socialista della Jugoslavia sopprimendo de facto l’autonomia delle repubbliche all’interno della federazione. All’inizio, l’Occidente non diede ascolto all’elite kosovara che si stava trattando della disgregazione della Federazione Jugoslava e che si sarebbe verificata una grande catastrofe. Ma la propaganda jugoslava, e quindi quella serba, si giustificò dagli appelli kosovari, sostenendo che si trattava semplicemente di ispirazioni marxiste stimolate dall’Albania comunista per un’eventuale diffusione dello stalinismo in quella parte dell’Europa. Ma quando, per la prima volta, gli sloveni e i croati dichiararono la loro indipendenza dal baricentro serbo, gli appelli kosovari vennero presi in considerazione dall’Occidente. La vita era diventata impossibile per i comportamenti sempre più autoritari del governo serbo all’interno della federazione, nella quale gli Stati avevano più svantaggi che guadagni.
La fine della guerra in Kosovo cambiò molti meccanismi della scena internazionale.(13) Fu come una giustizia sull’umanità sopra i sofismi delle politiche sterili, delle diplomazie fossilizzate; si pensava che i popoli della penisola balcanica fossero in grado, da quel giorno in poi, di ottenere dei vantaggi. La verità sta nel fatto che l’Occidente, con il Kosovo, ha dimostrato una rinascita d’interesse per l’Europa Sudorientale. Il 1999 fu un anno di cambiamento in questa direzione che permise un’eventuale integrazione dei Balcani nelle strutture euro-atlantiche; con la fine della guerra in Kosovo, l’Occidente e i Balcani, incominciarono a guardarsi l’uno con l’altro. Solo i Balcani costituivano un’apertura economica inesplorata con i circa 125 milioni di consumatori e, così, un mercato infinito di merci, capitali e idee che, per ragioni oggettive o soggettive, era stato ignorato prima dall’UE
La crisi del Kosovo aveva come presupposto la necessità di un trattamento globale dei problemi dei paesi nella crisi dell’Europa Sudorientale e la loro integrazione nelle strutture europee.(14)
L’UE si sarebbe dovuta scontrare così con una nuova sfida geopolitica. Si trovava di fronte ad un processo di pace e di sviluppo della regione, ruolo questo che venne accettato, senza esitazioni, dall’UE: "La nostra determinazione per evitare nuovi conflitti nel XXI secolo, è una delle ragioni per le quali l’UE investe oggi un capitale di gran peso politico ed economico nella stabilizzazione di questa regione, così tanto, strategica".(15)
Anche se l’UE è determinata, "le sfide non mancano ed anzi sono enormi: un’infrastruttura distrutta, una base industriale in rovine, migliaia di rifugiati e persone spostati ed una diffidenza ereditata nei popoli. Ma l’esperienza insegna che le cose possono cambiare. All’indomani della II Guerra Mondiale, un’Europa nuova si è potuta costruire grazie alla volontà di lasciare indietro i conflitti, dando precedenza al desiderio di offrire ai figli una vita migliore. Oggi l’UE porta, oltretutto, un aiuto per i paesi dell’Europa Sudorientale.(16) Se questi paesi accettano gli aiuti non c’è nessuna ragione perché essi stessi non debbano diventare una democrazia stabile, muniti di un’economia di mercato prospera – cosa questa che non può essere che solo profittevole sia per loro che per noi come Europa".(17)
Come ha rilevato Cristina Gallah, assistente del capo delle relazioni estere e delle questioni di sicurezza dell’UE Havier Solana, durante il Summit di Zagabria: "questa regione non ha avuto mai prima d’ora una prospettiva per l’UE sicché si tratta di un’occasione straordinaria, senza dubbio uno dei momenti chiave per la strategia dell’UE nei confronti dei Balcani, nonché la questione più importante della nostra politica estera".(18)
Riconoscendo che l’Albania ha bisogno di inserirsi in un’ottica europea e che la prospettiva di aderire, a termine, all’UE può costituire un notevole incentivo a introdurre cambiamenti nel quadro del processo di riforma e di sviluppo di questo paese, il vertice di Zagabria del novembre 2000 ha deciso di creare un gruppo direttivo di alto livello UE/Albania incaricato di valutare la capacità dell’Albania di adempiere agli obblighi che comporta un accordo di Stabilizzazione e di Associazione con l’UE.(19)
Il Patto di Stabilizzazione per l’Europa sudorientale, approvato il 10 Giugno 1999 nella città di Colonia, è un’iniziativa dell’UE Il suo obiettivo è di portare la pace, la stabilità e lo sviluppo economico nella regione. Il contributo principale dell’UE, in quest’ambito, è il Processo di Stabilizzazione e di Associazione che si offre ai cinque paesi della regione, facendo dei Balcani una "security community".
Il Processo di Stabilizzazione e di Associazione comporta alcuni punti fondamentali:
• Il contributo dell’UE per il Patto di Stabilità nell’Europa Sudorientale.
• Il rafforzamento del quadro regionale, il quale, finora, aveva assicurato la posizione necessaria per lo sviluppo delle relazioni tra l’UE e i paesi che compongono i Balcani.
• Stimoli più forti per la regione, e, nello stesso tempo, altre condizioni per lo sviluppo politico ed economico e la cooperazione regionale.
• Uno stimolo specifico e progressivo che tenga conto della particolare situazione di ciascun paese.
• Nuovi accordi di tipo contrattuale offerti dall’UE con la condizione del rispetto di alcuni requisiti importanti dell’Albania, Bosnia Herzegovina, Croazia, Repubblica Federale della Jugoslavia, ed ex Repubblica Jugoslava della Macedonia. Gli accordi determinano nuove possibilità di integrazione nelle strutture dell’UE;
• misure autonome di commercio e altre relazioni economiche e commerciali;
• assistenza economica e finanziaria, assistenza del budget e sostegno del bilancio;
• aiuto per la democratizzazione e la società civile;
• aiuto umanitario per i rifugiati;
• Cooperazione nelle aree della giustizia e dei problemi interni;
• sviluppo di un dialogo politico.
L’obiettivo finale riguarda la pace, la stabilità e lo sviluppo economico nella regione e l’apertura delle prospettive a lungo termine per associarsi all’UE.
Per l’attuazione del Patto di Stabilizzazione e di Associazione sono previsti diversi organi. Il più alto organo all’interno di questo Patto è la Regional Table, la quale viene diretta dallo Special Co-ordinator del Patto di Stabilizzazione.
Figura 1. Il patto di stabilizzazione e il suo funzionamento
A sua volta la Regional Table è suddivisa in tre working table. Ognuna di queste tavole di lavoro svolge, all’interno del Patto, una competenza ben precisa, come per esempio la I Working Table si occupa del fattore "democratizzazione e i diritti dell’uomo" ed essa stessa suddivide il suo lavoro in sette Task Force; essa copre la zona più complessa del Patto. L’Albania ha presentato una serie di progetti, con l’auspicio di diverse ONG. La II Working Table è concentrata sul problema della "ricostruzione economica, sviluppo e cooperazione", suddividendo anch’essa il suo lavoro in altri otto settori. In questa seconda tavola di lavoro l’Albania, occupa un posto privilegiato per la cattiva situazione delle infrastrutture. E infine la III Working Table si occupa fondamentalmente delle questioni della "Sicurezza". Essa è suddivisa in due settori con il compito di ampliare e di sviluppare piani di lavoro e sicurezza sia nell’area interna che in quella estera.
Il Coordinatore Speciale del Patto, per il Consiglio dell’UE è Bodo Hombach, ex ministro e nonché collaboratore del Cancelliere Schroeder. Il Coordinatore Speciale è responsabile della realizzazione degli obiettivi del Patto in stretta collaborazione con i governi e le istituzioni dell’UE. Egli propone le iniziative e i progetti da realizzare.
Il Patto di Stabilizzazione è stato, principalmente, un’iniziativa dell’UE per questo la direzione politica deve rimanere nelle sue mani.(20) In cooperazione con la Banca Mondiale, la Commissione Europea ha la responsabilità del coordinamento delle conferenze dei donatori.(21) Ecco perché il suddetto Patto viene visto come quel passo che l’UE ha intrapreso per l’allargamento dei suoi confini verso l’Est attraverso un trattamento regionale che non incide solo sullo sviluppo della regione ma anche sul processo di integrazione nelle strutture europee. Ecco come si pronuncia la Commissione Europea in un suo report: The Commission has tody adopted a report on the progress made by Albania in preparation of the negotiation of a Stabilisation and Association Agreement. The report, which analyses the various political, economic and technical factors, concludes that it is appropriate to open negotiations for a Stabilisation and Association Agreement whith Albania. Bruxelles, 6 June 2001(22).
Attraverso tali accordi, che si inquadrano nell’impostazione regionale e nel dialogo politico multilaterale dell’UE, l’esecutivo comunitario, dopo i recenti avvenimenti dei Balcani, intende dare un nuovo impulso alla stabilizzazione della regione e alla sua progressiva integrazione nelle strutture dell’UE.
Secondo la Commissione, gli accordi dovrebbero essere elaborati e stipulati in funzione della situazione specifica di ciascun paese, e le date d’inizio dei relativi negoziati dipenderebbero dalla misura in cui i singoli Stati soddisfano le necessarie condizioni politiche, quali ad esempio il rispetto delle minoranze, libere elezioni, l’abolizione del controllo sui prezzi e le privatizzazioni.(23)
L’Albania partecipa, insieme ad altri quattro paesi dell’Europa sud-orientale, al processo di stabilizzazione e di associazione dell’UE, volto a garantire la stabilità della regione integrando questi paesi nelle strutture europee e prospettando la loro futura adesione all’UE. L’UE, che dal 1991 sostiene attivamente le riforme in Albania, giudica prioritaria l’integrazione europea, giudizio, questo, condiviso dai vari governi avvicendatisi in questo paese.
È da notare, però, che l’attuazione o la non attuazione dei progetti del Patto di Stabilità non è condizione per l’entrata dei paesi della regione nella casa dell’UE. Il Patto è un impegno politico fondamentale "per appoggiare i paesi dell’Europa Sudorientale nei loro sforzi per sviluppare la pace, la democrazia, il rispetto dei diritti umani ed il benessere economico, con l’obiettivo di raggiungere la stabilità in tutta la regione".(24)
A tale fine, sarebbe opportuno menzionare i grandi sforzi che l’UE ha fatto, e sta facendo, nel sostenere il processo di democratizzazione in Albania, sia durante l’introduzione delle riforme, sia dopo il periodo della crisi finanziaria del ’97. Per confermare tutto ciò si potrebbe fare riferimento ad alcune relazioni.
Il Commissario Europeo per le relazioni con l’Estero RT Hon Chris Patten in una relazione così afferma:
Promotrice per le sue riforme politiche ed economiche, legata oramai con l’UE tramite l’Accordo non preferenziale sulla cooperazione commerciale ed economica, l’Albania fa parte pienamente nel Processo dell’UE per la stabilizzazione della regione balcanica occidentale. Questo processo comporterà considerevoli vantaggi al paese: piena assistenza per la costruzione delle istituzioni, sviluppo economico e delle infrastrutture, comprendendo qui anche i progetti su scala regionale, allargamento delle tariffe preferenziali del commercio nonché il dialogo politico. Ciò dà un quadro generale sullo sviluppo e sui rapporti UE - Albania sin dal 1991 e sulle prospettive che comporta il "Processo di Stabilità ed Associazione", con lo scopo che un giorno si verifichi la sottoscrizione della Convenzione di Stabilità ed Associazione. L’unico nostro obiettivo rimane l’avvicinamento continuo dell’Albania con l’Unione Europea."(25)
Il Capo della delegazione della Commissione Europea in Albania Michel Peretti sostiene:
Vogliamo l’Albania come tutta l’Europa" era uno degli appelli durante il periodo della transizione e, dopo quasi mezzo secolo di pieno isolamento, l’avvicinamento con l’Europa rimane un’aspirazione fondamentale del popolo albanese.
L’obiettivo di quest’affermazione è quello di fare comprendere che l’UE è stata presente e ben vista in Albania sin dai primi giorni della transizione, supportando i programmi della riforma dei diversi governi avendo come obiettivo il consolidamento dello Stato di diritto tramite il rafforzamento della giustizia e del servizio pubblico, qualificando le forze della polizia, contribuendo nella costruzione delle istituzioni moderne e professionali. Per illustrare, si può ricordare che i finanziamenti gratuiti che l’Albania ha usufruito dal 1991 al 1999 ammontano a 1 miliardo di Euro finanziati dal budget dell’UE E questi finanziamenti hanno avuto la loro fonte dai fondi pubblici europei. Questo contributo continuerà anche nel futuro, avendo come obiettivo, da una parte il miglioramento dell’ infrastruttura istituzionale con lo scopo che continui la via del consolidamento dello Stato di diritto, e dall’altra parte la riabilitazione delle infrastrutture, il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e gettare le basi dello sviluppo economico. Oggi l’Albania si trova ad attuare le dure riforme politiche, istituzionali ed economiche. L’UE è disposta a fare qualsiasi cosa, sempre entro i suoi limiti, per essere al suo fianco in questa dura via. Da parte sua, l’Albania è lieta di entrare nella famiglia europea."(26)
L’UE è stato il partner fondamentale dell’Albania sin dal 1991. Da questa data l’UE ha sviluppato una cooperazione attiva con l’Albania nel supporto del processo delle riforme istituzionali, politiche ed economiche. L’UE era tra i primi artefici nella garanzia degli aiuti umanitari del supporto finanziario dopo la caduta del regime comunista. Consapevole delle difficoltà incontrate dall’Albania nella sua transizione verso uno Stato democratico e un funzionamento normale dell’economia di mercato, l’UE è stata continuamente promotrice del suo avvicinamento verso i valori degli standard europei.
Per cinquant’anni fino al 1991, il regime comunista portò l’Albania verso il suo pieno isolamento politico ed economico diventandone la fonte delle distinzioni sociali, politiche ed economiche. Dopo 1991, l’Albania ha incominciato un processo di riforme per alleggerire la sua strada verso una società aperta e democratica nonché verso un’economia di mercato. Un passo avanti si è fatto, particolarmente, nella liberalizzazione e nello sviluppo del settore privato, della produzione agricola e delle piccole e medie imprese. Anche nel 1997, dopo una transizione veloce ed una crescita annuale del 9% in quattro anni di seguito, l’Albania si è scontrata con la sua prima crisi strutturale, e come risultato si è avuto il crollo degli schemi piramidali. La crisi ha evidenziato la debolezza nel settore finanziario, nel campo istituzionale e legi-slativo, e in generale nel funzionamento dello Stato.
La crisi acuta della società e dello Stato, accompagnata da condizioni socio-economiche non favorevoli, stimolò l’UE e la comunità internazionale per aumentare i loro sforzi di aiuto. L’UE realizzò una strategia di rinascita e gli sforzi comuni diedero il loro contributo portando l’ordine e una nuova spinta in economia.
La modernizzazione dello Stato albanese dipende dallo sviluppo della coscienza del popolo albanese. Ciò cammina parallelamente con il rafforzamento dello Stato di diritto, come precondizione necessaria per il miglioramento della situazione socio-economica. Un impegno politico positivo e istituzioni forti dello Stato sono la chiave per uno sviluppo a lungo termine. Gli albanesi e lo Stato albanese devono operare in questa direzione. Accettando l’importante compito da realizzare, l’UE assicurerà appoggio continuo per sostenere l’Albania, in modo che essa possa adempiere alle condizioni indicate dal patto di stabilizzazione e di associazione.(27)
L’UE si è sempre impegnata profondamente nella stabilizzazione e nello sviluppo dell’Europa Sudorientale. La strategia dell’UE è quella dell’avvicinamento di questi paesi verso l’integrazione europea.(28) Elemento chiave, in questa strategia, è il Processo di Stabilità e d’Associazione per i cinque paesi della regione: Albania, Bosnia Herzegovina, Croazia, Repubblica Federale della Jugoslavia, ed ex Repubblica Jugoslava della Macedonia.
Per la prima volta il Processo di Stabilizzazione e di Associazione offre a questi cinque paesi una prospettiva nell’integrazione europea basata su una azione progressiva. Questa prospettiva è un cambiamento di rotta, dal punto di vista storico, nelle relazioni con l’UE di questi cinque paesi. Il Processo di Stabilizzazione offre dei forti stimoli ai cinque paesi ma, nel contempo, prestabilisce soprattutto una serie di condizioni economiche e politiche dove in modo particolare si pongono dei punti chiave per la cooperazione regionale.
Per sviluppare queste relazioni più strette con l’UE, questi dovrebbero adeguare il loro sviluppo istituzionale, economico e politico con i modelli e i valori dell’UE, come la democrazia, il rispetto dei diritti dell’uomo e l’economia di mercato; l’UE sta appoggiando e aiutando questi paesi nella realizzazione delle riforme necessarie in queste aree.
Dal punto di vista istituzionale, la stabilità dello stato albanese dipende dalle sue capacità per la custodia della sicurezza interna e la costruzione di un’amministrazione pubblica e trasparente, onesta ed efficiente. L’affidabilità nelle istituzioni dello Stato è elemento fondamentale nella creazione dei veri valori umani. Per questa ragione, l’UE ha continuato ad avere un particolare riguardo sull’ampliamento e il consolidamento dello Stato di diritto. La lotta contro la corruzione e il crimine è parte costituente di questo programma.(29)
L’UE ha finanziato, e finanzia tuttora, una serie di piccoli progetti con lo scopo di rafforzare la cittadinanza e le pratiche democratiche nella società albanese. Sono sostenute varie attività delle organizzazioni non governative europee e albanesi che comprendono: parlamentari, donne, media, ecc.. Alcuni esempi: seminari per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica per la nuova Costituzione albanese, qualifiche dei parlamentari legati alle pratiche parlamentari contemporanee e qualifiche dei giornalisti per la promozione della tolleranza e della comprensione.
L’UE ha contribuito anche per ciò che riguarda le riforme nel sistema giudiziario, partendo dal presupposto che solo un sistema legale efficace e una giustizia incondizionata, basati su una separazione netta dei poteri, fanno sì che i diritti dell’uomo vengano rispettati.
Sin dal 1993, l’UE ha finanziato la riforma del sistema legale e l’Albania ha collaborato con il Consiglio d’Europa in un programma comune terminato alla fine del 1995. Questo programma si è concentrato nella redazione dei progetti del Codice Penale e di Procedura Penale, del Codice Civile e di Procedura civile. Il programma conteneva la qualificazione intensiva dei giudici e del personale dei tribunali. Una buona parte degli sforzi dell’UE per il rafforzamento del sistema legale albanese ha a che fare con il miglioramento delle condizioni generali del lavoro, principalmente attraverso il rinnovamento degli edifici e delle attrezzature con mezzi moderni per gli uffici dei tribunali. Dai buoni risultati di questo programma se ne sono potuti realizzare altri.
Il settore pubblico ha avuto, anch’esso, un miglioramento grazie alle riforme attuate dall’UE. Ciò è servito per preparare il terreno per lo sviluppo di un’amministrazione pubblica duratura ed efficace. Per questo, è stato creato l’I.SH.R.A.R. (Istituto Statale per la Riforma dell’Amministrazione Pubblica), in modo da incrementare lo sviluppo della professionalità nel servizio pubblico e di un sistema adeguato del controllo e dell’amministrazione finanziaria.
L’UE ha dato, e dà tuttora, assistenza macro-economica all’Albania in tre forme:
• assistenza del budget;
• sostentamento del bilancio delle paghe;
• credito attraverso la Banca Europea degli Investimenti;
Dopo la crisi finanziaria, l’UE accordò con il governo albanese un aiuto appropriato al budget con la cifra di 14,7 milioni di euro. Altra assistenza è stata data anche sottoforma di sostentamento del bilancio delle paghe per contribuire al programma della stabilizzazione e del regolamento redatto con il FMI. Quest’assistenza comprende la somma di 125 milioni di euro per il periodo che va dal 1991 al 1999, tuttavia, nello stesso periodo, la Banca Europea degli Investimenti ha finanziato 84 milioni di euro principalmente per i progetti dell’infrastruttura.
Tabella 1. Aiuti della Comunità Europea dal 1991 -2000
Il 19 – 20 Maggio 2000 i sei paesi del mare Adriatico e mare Ionio (Italia, Grecia, Albania, Bosnia-Herzegovnia, Croazia e Slovenia) in collaborazione con la Commissione Europea dichiararono L’Iniziativa Adriatico – Jonica che rientra nell’ambito del Patto di Stabilità e d’Associazione. I sei suddetti paesi hanno deliberato insieme di intensificare la cooperazione nel campo economico, turistico, trasporto marittimo, ambiente, cooperazione universitaria, lotta contro il crimine organizzato e il contrabbando, nonché nel campo del settore privato. L’iniziativa fu ufficializzata dal Presidente della Commissione Europea, Romano Prodi, il quale dichiarò che la Commissione avrebbe contribuito alle attività particolari, principalmente negli ambiti della sicurezza, della lotta contro il crimine, dell’ambiente e dell’istruzione. Prodi ha sostenuto che - come ha dimostrato l’esperienza dell’UE- la liberalizzazione del commercio è un fattore fondamentale per l’unione di questi paesi.(30) La dimensione parlamentare dell’iniziativa, fortemente sostenuta dal Parlamento italiano, è nata con la conferenza svoltasi a Zara il 27 Aprile 2001, sotto la presidenza croata. Nel corso della riunione, sono state votate le conclusioni che istituzionalizzano lo svolgimento di una riunione annuale tra Presidenti, da svolgersi nel paese che detiene la presidenza di turno.(31)
Il 26 Maggio 1999, la Commissione Europea propose un nuovo tipo d’accordo contrattuale tra l’UE e i paesi dell’Europa Sudorientale che, sostituendo il programma PHARE, diede vita al programma CARDS.(32)
L’azione dell’UE nell’ambito del Patto è la "colonna portante" della politica internazionale nei confronti della regione. La strategia europea ha due obiettivi fondamentali per stimolare la cooperazione regionale e, sulla base di questa precondizione, un’ulteriore fase d’integrazione comunitaria per favorire la transizione verso le strutture ed i valori europei.(33)
Vi sono due strategie nei confronti dell’Europa Sud orientale: il Trattamento Regionale e la Differenziazione tra questi paesi attraverso il Processo di stabilizzazione e di associazione. In tutti e due casi, questa strategia si basa su quello che viene chiamato "Principio di condizionamento" cioè l’adempimento dei principi democratici, del rispetto dei diritti umani, del dominio della legge, del rispetto e della custodia delle minoranze e riforma economica verso l’economia di mercato. Il principio di condizionamento è uno strumento molto importante della politica estera dell’U. E. che si sta usando come criterio rilevatore nei rapporti con paesi terzi e che in modo particolare, costituisce una delle basi del processo d’allargamento.(34)
Il principio di condizionamento viene usato dalla Commissione Europea come valore necessario per appoggiare i rapporti con i paesi balcanici e come criterio di equo trattamento di fronte all’Europa Centrale e Sudorientale. Si tratta di offrire stimoli al posto delle sanzioni: quanto più i paesi della regione saranno in grado di proporre iniziative in favore del loro sviluppo democratico e della loro cooperazione tanto più essi riceveranno aiuti internazionali. E più questi saranno in grado di assorbire assistenza, quanto più potranno integrarsi nelle strutture euro – atlantiche.(35)
Oltre ai benefici che l’UE può ricevere dall’allargamento verso la regione balcanica, può anche avere dei problemi che, a volte, possono diventare complessi. Mentre si parla di un Trattamento Regionale dei Balcani nel Patto di Stabilità, la regione stessa è divisa in due sottoregioni; una è costituita dalla Slovenia, Ungheria, Romania e Bulgaria le quali hanno sottoscritto, o hanno aperto, le trattative per le relazioni standard di Associazione con l’UE; l’altra parte della penisola, invece, è rappresentata dai cosiddetti Balcani d’Occidente che comprendono l’Albania, la Repubblica della Macedonia, la Croazia, la Jugoslavia e il Kosovo. Questa parte della regione si è sottoposta ad un’altra politica basata principalmente su pregiudizi piuttosto che su argomenti reali. Tutto ciò fa sì che non si abbia un trattamento regionale del problema, ma un trattamento separato, il quale, piuttosto che stimolare i paesi della regione a collaborare per completare le condizioni di avvicinamento all’Europa, mette in gara ed in rivalità l’uno con l’altro, determinando a lungo andare la "fuga" dalla "zona balcanica". Se si arriverà a ciò la politica estera dell’UE, invece di stimolare la cooperazione regionale e di creare la convinzione nell’equo trattamento, farà l’opposto, magari dando priorità ai vari paesi nelle strutture del Patto di Stabilità. Se ciò si dovesse verificare, questa politica saboterà la cooperazione regionale.
La Stabilità dei Balcani e la sua europeizzazione, costituiscono il test della sua capacità per mantenere una coesione e una vera prova di una politica estera comune. Con il Patto di Stabilizzazione sarà possibile fare entrare i Balcani nella "famiglia" europea e condividere con essa la sua cultura politica anche se questa, giustamente, richiederà molto tempo e soldi. Lo stesso allargamento dell’UE permetterà la diffusione della stabilità in Europa e il rafforzamento del suo ruolo come un protagonista nella scena internazionale.(36) Oltre a ciò, la reale posta in gioco nella ricostruzione dei Balcani sta nell’occupare la "pole position" per il futuro riassetto della regione:(37) rifare i Balcani non è solo una questione intricata di frontiere ma significa ridisegnare la mappa dei corridoi trans-europei. Questi sono gli assi geopolitici ed economici fondamentali che guideranno la ricostruzione.
III. Corridoio 8: the highway of black gold – oil
Siamo appena entrati nel nuovo millennio e il fenomeno della Globalizzazione ci accompagna sempre più. Essa può essere considerata come il culmine del processo del capitalismo e si afferma attraverso una rete senza frontiere di interscambi; si sostituisce ai molteplici mercati di dimensioni nazionali e, infine, si pone come unico grande spazio di scambio dove il capitale si muove senza incontrare barriere.
Nel processo di globalizzazione un ruolo vitale occupano i "trasporti" in quanto essi diventano essenziali come rete di collegamento fra le diverse regioni del mondo. La sfida dei trasporti viene raccolta consapevolmente dai Paesi dell’area mediterranea nella quale si sta svolgendo un processo di globalizzazione che coinvolge le economie marittime del bacino mediterraneo. Di recente l’UE ha finanziato un progetto volto a formare, tra i paesi europei del Mediterraneo occidentale, un network transnazionale e interregionale, che sia in grado di sviluppare l’economia marittima attraverso una serie di progetti allargati alla partecipazione delle nazioni della sponda meridionale del Mediterraneo nonché quella dell’Adriatico.(38)
Alla caduta della Cortina di Ferro, nel 1989, si presentò un’opportunità unica per dare vita ad un miracolo economico in Europa, in cui i paesi occidentali si sarebbero potuti impegnare in un’immensa opera di ricostruzione dei paesi ex comunisti. A quell’epoca, l’economista e candidato presidenziale americano Lyndon LaRouche propose un programma di grandi infrastrutture, sotto il titolo Il triangolo produttivo Parigi-Vienna-Berlino. Nell’area compresa tra le tre capitali europee si concentra la più alta densità di forza lavoro specializzata, infrastrutture ad alta tecnologia e capacità tecnologica del mondo. Da questa "grande officina", nel centro dell’Europa, si metterebbero in moto una ripresa di tutte le economie vicine e di quelle collegate attraverso i "corridoi di sviluppo" che si inoltrerebbero nella regione eurasiatica.
Oggi il progresso, questo enorme potenziale, darà vita alla cooperazione economica continentale, offrendo una nuova opportunità storica di realizzare il piano di LaRouche del 1989 che produrrebbe un boom senza precedenti nella storia.
Ecco perché dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione della Unione Sovietica, l’Europa centro-orientale e balcanica è diventata un’area strategica di interesse vitale per l’intera comunità internazionale. La presenza europea e statunitense in tali paesi si è già da tempo concretizzata tramite le spedizioni militari susseguitesi in questi anni che hanno avuto come obiettivo prioritario quello di imporre ad ogni costo la "stabilità", per salvaguardare i notevoli investimenti e i relativi profitti che le multinazionali hanno, in maniera crescente, realizzato.(39)
In ogni modo, oltre ad avere un aspetto geopolitico, l’eventuale allargamento dell’UE e della NATO a questi paesi - in transizione dall’economia pianificata all’economia di mercato - ha una funzione strettamente strategica sul piano geoeconomico. La dottrina della "stabilità" politico-economica diventa elemento prioritario della politica di controllo e dominio; all’interno di tali dinamiche si scatena il conflitto fra il modello anglosassone e quello neokeynesiano, in altre parole si tratta dello scontro politico ed economico tra i due poli USA e UE.
Il rapporto tra capitale transnazionale e aree di influenza diverse è determinato dalla nuova divisione internazionale del lavoro e, quindi, da come le singole economie nazionali si collocano in funzione dell’allargamento e della ridefinizione geoeconomica internazionale. Quello che di nuovo sta succedendo è il ruolo assunto dagli investimenti finanziari, in particolare quelli a carattere speculativo, e dal vertiginoso aumento degli IDE (Investimenti diretti all’Estero) favoriti da una forte liberalizzazione e movimentazione sul mercato internazionale e dai legami del capitale internazionale diretti da un unico progetto di pianificazione strategica centralizzata.
La decisione di fare aderire i paesi dell’Europa centro-orientale va letta sulla base di considerazioni strategiche, politiche ed economiche. Per questo, l’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale deve essere considerato innanzitutto come un processo d’integrazione commerciale e di strategia economica complessiva da parte dell’UE. Da ciò possiamo capire che, l’importanza dell’area balcanica e il senso del Patto di Stabilità, stanno non solo nella loro posizione geografica, per le risorse economiche di cui sono dotate in termini di materie prime e "capitale umano", ma anche perché quest’area costituisce la cosiddetta "Porta d’Oriente". Essa è un’area che funge da ponte per il passaggio di merci, materie prime, investimenti tra il polo europeo occidentale e il polo ad est dell’Europa, cioè Euroasia. E’ questa un’area di grande importanza strategica nella quale si concentrano enormi risorse di petrolio e gas.
A questo punto sarebbe opportuno chiarire come si stanno ingranando i meccanismi di network. Spiegazione che si lega al sistema dei "Tre Mari" che dà sostanza ai progetti di connessione energetica tra Mar Caspio, Mar Nero e Mediterraneo orientale facendo dei Balcani un modulo del sistema paneuropeo in costruzione, una piattaforma di transito e di servizio per l’Est del continente.
L’Asia Centrale, costituita in larga parte dalle repubbliche della ex URSS, è l’area che a partire dal biennio 1989 – 1991 è stata "aperta" agli interessi americani ed europei. Infatti, dal 1993, l’Unione Europea ha lanciato il Traceca (Corridoio Caucasico TransEuropeo) entrato in fase attiva tra il 1994 e il 1995. Obiettivo dichiarato: bypassare la Russia per i trasporti, gli oleodotti e gli investimenti più generali tra l’Europa e l’Asia Centrale.
Figura 2. Schema del sistema dei "Tre Mari", fonte: rivista di geopolitica Limes, 1/2002
Nel 1994, con il contratto del secolo firmato tra Azerbaijan e un consorzio di compagnie petrolifere guidato dalla British Petroleum (AIOC) inizia la "corsa" all’oro nero, al gas e ai mercati dell’Asia Centrale. Diversi paesi asiatici, e soprattutto la Cina stanno promovendo un ambizioso programma di industrializzazione fondato sullo sviluppo infrastrutturale, chiamato Ponte di sviluppo Euroasitico. Lo scopo del progetto è collegare la costa orientale cinese con la costa nord-occidentale dell’Europa, lungo gli antichi percorsi delle vie della seta, con le grandi infrastrutture dei trasporti che, a loro volta, inducono sviluppo industriale, urbano, agricolo, ecc..
Per spiegare meglio si potrebbe fare un piccolo riferimento al primo capitolo, dove si parla della costruzione di un’importantissima arteria stradale la c.d. Via Aegnatia. Quest’ultima, ai tempi dei romani, serviva per collegare Roma con Brindisi, Brindisi con Durazzo per proseguire poi, attraverso la Tracia, sino a Costantinopoli, collegando così Roma e Bisanzio. La creazione della Via Aegnatia fece di Dyrrachium (l’attuale Durazzo, la porta dell’impero romano verso l’Oriente) uno dei centri portuali e commerciali più importanti di tutta l’Illiria, poiché collegava le regioni dal Nord al Sud. Guarda caso, dopo duemila anni, Durazzo e Valona occupano tutt’oggi uno spazio vitale nonché strategico per i Balcani e per l’Europa, in particolare modo per l’Italia.
Se, allora, questa via per i Romani e gli Illiri era rappresentata dalla Via Aegnatia, oggi per gli italiani e gli albanesi quella via è il "Corridoio 8", già ideato da Mussolini fin dagli anni ’30 ma ben presto abbandonato per difficoltà finanziarie. Esso, presenta oggi un altissimo interesse per la geopolitica e la geoeconomia italo-albanese.
L’importanza strategica dei Balcani, nello scacchiere geopolitico internazionale, sta nel fatto che essi, oggi, costituiscono un potenziale ponte di passaggio tra le regioni caucasiche del Turkmenistan e dall’Azerbaijan e il mondo occidentale che ha un unico obiettivo sganciarsi dalla dipendenza petrolifera dei Paesi arabi. Un primo passo in questo senso è stato compiuto con la creazione del Corridoio 8. Si tratta di un progetto che collegherebbe, con una rete transeuropea, la costa adriatica italiana a quella turca, attraversando Albania, Macedonia e Bulgaria. Inoltre, la relativa stabilità geopolitica recuperata nella penisola balcanica permetterebbe di riconsiderare la sua regione adriatica come un sistema organico, in grado di offrire opportunità d’intervento economico e commerciale a vasto raggio, in particolare con la sponda italiana. Qui si ricollega l’importanza del Patto di Stabilizzazione nella regione balcanica, giacché la priorità diventa la sua possibile futura integrazione comunitaria.
Nella neolingua tecnocratica dei progettisti comunitari, quei territori individuati da "Limes" come aree costiere dei "Paesi dell’Adriatico orientale" (cosiddetti PAO) sono: Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina, Jugoslavia e Albania.
Questa scelta semantica ha almeno due ragioni. Primo: evitare il termine "Balcani", geopoliticamente scorretto e rifiutato da quasi tutti i paesi in questione, con l’eccezione forse della Serbia. Secondo: la distinzione fra zone costiere e zone interne nei Balcani si è fatta ancora più netta dopo che l’Adriatico è assurto al rango di regione transfrontaliera nella rappresentazione spaziale dell’allargamento verso Est promossa dalla Commissione Europea.(40) Tutto questo sistema di network è collegato anche con la politica americana che cerca ad ogni costo di "proteggere le rotte degli oleodotti" provenienti dal bacino del Mar Caspio e che attraversano i Balcani.
Questa politica fu espressa anche dal Segretario all’Energia dell’ex Presidente Clinton, Bill Richardson:
Qui si tratta della sicurezza energetica dell’America… Si tratta anche di prevenire incursioni strategiche da parte di coloro che non condividono i nostri valori. Stiamo cercando di spostare questi paesi, da poco indipendenti, verso l’occidente … Vorremmo fare affidamento sugli interessi commerciali e politici occidentali, piuttosto che prendere un’altra strada. Nella regione del Mar Caspio abbiamo fatto un investimento politico consistente, ed è molto importante per noi che la mappa degli oleodotti e la politica abbiano esito positivo.(41)
I giganti petroliferi anglo-americani, tra cui BP-Amoco-Arco, Texaco e Chevron sono in competizione con il gigante petrolifero europeo Toal-Fina-Elf (associati con l’italiana Eni), che svolge un importante ruolo nei ricchi giacimenti di Kashagan nella regione del Caspio nord-orientale in Kazikistan. Gli interessi in gioco sono grandi: i giacimenti di Kashagan sarebbero "così grandi da superare perfino le dimensioni delle riserve petrolifere del Mare del Nord".(42)
Figura 3 - Fonte: rivista di geopolitica Limes
L’interesse per il tracciato dell’oleodotto Burgas-Valona, secondo l’opinione degli esperti, ha molti più vantaggi rispetto al progetto Burgas-Aleksandroupolis. Il principale vantaggio è che lungo tale tracciato potranno transitare maggiori quantità di petrolio. Attualmente in Albania possono essere caricate navi per una capacità di carico di 300.000 tonnellate, mentre ad Aleksandroupolis le capacità sono di 100.000 tonnellate di petrolio. Burgas –Valona offre vantaggi anche per il fatto che il Kazachistan ha dimostrato di essere seriamente interessato a partecipare al progetto. Attualmente la produzione di petrolio di tale paese è di 25 milioni di tonnellate annue, ma l’intenzione sarebbe di portarla a 100 milioni annue. Questo vuole dire che se il Kazachistan parteciperà alla costruzione di Burgas-Valona potranno essere assicurate quantità di petrolio tali da garantire la realizzazione del progetto. Secondo i calcoli preventivi, Burgas-Valona avrà un valore di 1.130 miliardi di dollari. Il questo tracciato transiterebbero 35 milioni di tonnellate di petrolio all’anno.(43)
Il Corridoio 8, il più corto tra gli altri dieci corridoi paneuropei (solo 960 km) attraversa tre Stati balcanici (Albania, Macedonia, Bulgaria) ed intensifica lo sviluppo economico e sociale in tutto il bacino balcanico comprendendo Kosovo, Serbia, Montenegro, Grecia, Mezzogiorno d’Italia e Turchia attraverso gli allungamenti e le ramificazioni. Il totale di questi corridoi, che dovrebbero percorrere l’Europa dell’Est, sono dieci:
Corridoio 1: Helsinki – Reval – Riga – Kaunas - Varsavia, con il collegamento Riga – Kaliningrad - Danzica.
Corridoio 2: Berlino – Varsavia – Minsk – Mosca – Niznij - Novgorod
Corridoio 3: Berlino/Dresda – Vroclav – Lviv - Kiev
Corridoio 4: Berlino/Norimberga-Praga-Bratislava-Györ-Budapest-Arad-Craiova-Sofia-Instanbul, con le deviazioni Arad-Costanza e Sofia-Salonicco.
Corridoio 5: Venezia - Trieste/Koper – Ljubljana – Budapest – Uzhgorod - Lemberg, agganciato alla linea Bratislava – Zilina – Kosice - Uzhgorod, Rijeka – Zagabria - Budapest e Ploce – Sarajevo – Osijek - Budapest.
Corridoio 6: Danzica – Varsavia – Katovice - Zilina
Corridoio 7: Danubio, compresi tutti i porti dell’Europa orientale
Corridoio 8: Durazzo –Tirana – Skopje – Sofia – Plovdiv – Burgas -Varna
Corridoio 9: Alessandropolis – Dimitrovgrad – Bucarest - Chisnau- Lyubaskeva – Kiev - Mosca/Pskov - San Pietroburgo - Henskinki, e inoltre Odessa - Lyubaskeva e Kiev – Minsk - Vilnius- Kaunas -Klaipeda/ Kaliningrado.
Corridoio 10: (figura 2) Salisburgo-Ljubljana-Zagabria-Belgrado-Niskopie-Veles-Salonicco che si estende inoltre a Graz-Maribor-Zagabria, Sopron-Budapest-Novi Sad-Belgrado, Nis-Sofia, e Veles-Bitola-Florina fino ad Adrianopoli, l’odierna Edirne.
Al centro di questi corridoi si dovrebbe collocare una grossa arteria ferroviaria composta da sistemi a levitazione magnetica e ad alta velocità convenzionale, sia per le merci che per i passeggeri, su cui si innesterebbero sistemi di trasporto locali, stradali o fluviali. Per la crescita industriale nelle regioni interessate da questo sviluppo occorrerebbero ingenti quantitativi di energia che deve essere fornita da centrali nucleari. La tecnologia migliore disponibile è quella del reattore ad alta temperatura (HTR). Un altro aspetto del triangolo produttivo riguarda la costruzione di "fabbriche galleggianti" nei principali cantieri navali europei, in cui si realizzino impianti nucleari HTR, impianti di dissalazione, fabbriche di fertilizzanti su chiatte da ormeggiare e mettere direttamente in funzione sulla costa del paese destinatario. Da un punto di vista complessivo, investimenti del genere nelle grandi infrastrutture generano profitti economici, specialmente dovuti al rapido aumento della produttività, che in breve tempo superano di gran lunga i costi dell’investimento iniziale.
Ecco perché il "Corridoio 8" è di grandissima importanza strategica sia per l’UE che per gli USA ed include multimodali infrastrutture: marittima, autostradale, telecomunicazione, ferroviaria ed energetica. Per questo, ultimamente, il ruolo della Puglia è stato al centro dell’attenzione dei 270 delegati di decine di paesi e dei rappresentanti della Banca Europea per gli Investimenti al vertice mondiale di Bari sulla ricostruzione.
Il Presidente della regione Puglia, Distaso, ha ribadito l’esigenza della cooperazione tra l’Italia e l’Albania nonché l’opportunità per portare condizioni di sviluppo in un territorio che va recuperato per sempre alla civile convivenza e a un progresso economico e sociale di standard europeo. Ed è lecito pensare che attraverso il Corridoio 8 si risolverebbe anche la questione del "Mezzogiorno" d’Italia, per la quale si cercato da sempre di dare delle soluzioni, finora inefficaci.
Nella Conferenza quadrangolare intergovernativa, i quattro rappresentanti dei Governi interessati, i sottosegretari agli Esteri d’Italia (Umberto Ranieri), Albania, Macedonia, e Bulgaria concordarono nel documento finale sulla necessità di assicurare priorità alla realizzazione delle infrastrutture, strategiche per lo sviluppo.(44) Dopo la questione della creazione dello Stato indipendente del Kosovo, la costruzione del Corridoio 8 rimane la seconda inquietudine per la costruzione della stabilizzazione nei Balcani e la ragione perché venga costruita la pace dovrebbe essere anche uno degli obiettivi primari del Patto di Stabilizzazione stesso. La creazione di questo Corridoio sarà come una condizione della futura integrazione internazionale dell’Albania come un paese normale. L’inizio della mobilizzazione delle fonti finanziarie necessarie per la creazione del Corridoio 8, dalla "Conferenza dei Donatori" a Bruxelles, sono testimonianze del desiderio e della volontà della Comunità Internazionale di trasformare i Balcani, da una miccia pronta a esplodere, ad una regione normale e prospera d’Europa. Uno dei fattori più importanti di questo risultato è stata l’ostinazione e la lungimiranza americana esercitata grazie all’iniziativa per lo Sviluppo e la Cooperazione nei Balcani del Sud, dalle continue osservazioni della situazione, dai progetti attraverso i seminari ed infine grazie dai finanziamenti dalla TDA (Trade and Development Agency).
Il Corridoio 8 permetterà l’apertura di questi paesi verso i mercati globali ma, nello stesso tempo, ciò significherebbe un rafforzamento delle classi politiche per la stabilizzazione delle democrazie interne secondo i modelli occidentali, per il rispetto di tutte le etnie della regione, per dare fine alle di-scriminazioni, ai nazionalismi esasperati, ai privilegi medioevali.(45) Il Corridoio 8 costituirebbe l’ultimo tassello nella realizzazione di una grande direttrice che garantisce all’Europa di Schengen, e all’Italia in prima fila, l’apertura verso nuovi mercati.
La negazione del Corridoio 8 dalle alte autorità greche è fonte di tensioni poiché queste ultime mettono, in primo piano gli interessi nazionalisti e non quelli della regione intera. Influenze del genere hanno inciso pesantemente sulla stampa europea con lo scopo di fare perdere l’importanza del Corridoio 8.(46) Ma, l’Europa, avendo come concetto base il mantenimento continuo della pace, non si farà influenzare da distorsioni del genere che possano impedire la fondazione dell’"Unione Federale Europea".
Il Corridoio 8, rappresenta pertanto, una vera "chance" per lo sviluppo economico e sociale del paese, per la democrazia; esso è un annunciatore della pace per i Balcani. "Let give peace a chance!"(47)
In questa direzione, anche le Nazioni Unite, hanno dato il loro giudizio: "sullo sforzo che stanno facendo l’UE ed altri organismi internazionali e quindi per mettere in vita l’attuazione dello sviluppo economico e della stabilizzazione nella regione balcanica… Comprendendo qui anche l’attuazione del Patto di Stabilità per l’Europa sud-orientale e una partecipazione internazionale, in modo tale da favorire la democrazia, il benessere economico, stabilizzazione e cooperazione regionale"(48)
La storia dell’Europa è la storia di identità di ciascun popolo ma è anche storia di culture differenti che vanno rispettate e tutelate anche nella nuova ottica europea; la sfida alla quale sono chiamati i popoli europei comporta la formazione di una coscienza europea unica e consapevole, in cui ciascuno dia il suo contributo nel rispetto della legittima diversità di altri popoli e non in contrapposizione ad essa.
Il compito più delicato compete ai popoli dell’Occidente europeo, chiamati dopo 50 anni di blocchi ideologici e contrapposizioni politiche ad accogliere dall’Est nella nuova Europa, costruita in uno spazio finalmente di libertà, senza frontiere e muri divisori, una grande comunità in cui popoli e nazioni non sono più entità autonome animate da pretese egemoniche; pur mantenendo la propria identità e la propria autonoma formazione storica, partecipano attivamente all’interscambio vicendevole e alla formazione del nuovo ordine europeo.
NOTE
(1) R. Morozzo Della Rocca, Le radici della crisi, Milano, Guerini Associati, 1997, pp. 73-74
(2) Gazeta Zyrtare (Gazzetta Ufficiale albanese), nr. 19, 1946.
(3) L’ultimo paragrafo della legge 5506, dt. 28.12.1976.
(4) Kodet e RPSSH., p. 423.
(5) Fletorja Zyrtare, p. 159.
(6) S. Tafaj, Marrëdhëniet e Shqipërisë me vendet Anëtare të BEE, Tiranë, 1999, Horizont, p. 116.
(7) Considerazione dei quattro ex-sottosegretari di Stato: Baker, Maski, Hag e Rojers. Gennaio 1994.
(8) G. Armillotta, La politica estera dell’Albania negli scorsi dieci anni, n° 2/95, pp. 282-190.
(9) Il senso era quello che i problemi dei popoli balcanici avrebbero dovuto essere ri- solti da loro stessi e che non ci doveva essere nessuna ingerenza da parte degli altri paesi occidentali.
(10) R. Morozzo Della Rocca, op. cit. p. 75
(11) Arkivi i Parlamentit, "Marrëveshje e bashpunimit ekonomik dhe tregtar mes Shqiperise dhe Komuniteti Ekonomik dhe Evropian", ratificato nell’ottobre del 1992.
(12) J. R. Lampe, Economic Integration versus Balcans Isolation; Southeastern Europe after the Twentieth Century, p. 1.
(13) C. J. Smith, Conflict in the bakans and the possibility of a European Union Common foreign and security policy, n° 2/96.
(14) C. Jean, Interessi e politiche italiane in Europa centro- orientale e nei Balcani, n° 6/96, pp. 9-27.
(15) B. Majza, "Un Pact de Stabilite pour l’Europe du Sud est. Vers l’"Europeization" des Balcans?, Annuaire Français de Realtion Internationales, Vol. I, 2000.
(16) C. J. Smith, Conflict in the bakans and the possibility of a European Union Common foreign and security policy, n° 2/96.
(17) Ivi, p. 8.
(18) Summit di Zagabria, Novembre 2000.
(19) Commissione Europea, Relazione della Commissione al Consiglio, sui lavori del gruppo direttivo di alto livello UE/Albania, Bruxelles, 06-06-2001. Il Summit di Göteborg conferma l’apertura dei negoziati di Associazione dell’Albania con l’UE, l’11 Giugno 2001.
(20) M. Lefebre, Quelles politique comune dans les Balcans. Etat du Pacte du Stabilite, "La revue Internationale Strategique", 1999-00, p.36.
(21) Documento di Colonia, paragrafo 41.
(22) Il report si trova sul sito dell’UE: http:/europa.eu.int/comm/external_relations/, consultato il 13/07/01.
(23) R. Santaniello, Pubblicazione della rappresentanza in Italia della Commissione Europea, 1998.
(24) Documento di Colonia e Dichiarazione di Sarajevo, paragrafo 3.
(25) RT. H. C. Patten, prefazione, in "Shqipëria një ardhme me Evropen", Bruxelles, Strat&Com S.A. 2000, p. 1.
(26) Ivi, p. 1.
(27) Ivi, p. 6.
(28) Dossier Albania- Albania oggi: passaggio in Europa, Politica Internazionale n° 3/94, pp.105-261
(29) Ibidem
(30) A. Biagini, op. cit. p. 8.
(31) Dimensione Parlamentare dell’Iniziativa Adriatico-Jonica, Camera dei Deputati, sul sito www.camera.it del giorno 18/07/2002.
(32) Il programma della Commissione Europea CARDS (Community Assistance for Reconstruction, Devolepment and Stabilisation) si ufficializzò con il regolamento del Consiglio Europeo N° 2666/2000 del 5 Dicembre 2000 nonché con i regolamenti N° 1268/96 - N° 3906/89 e N°1360/90 e le decisioni 97/256/EC e 1999/311/EC. Esso costituisce un nuovo strumento d’assistenza per la Penisola Balcanica occidentale, sostituendo i programmi PHARE, OBNOVA ed alcuni meccanismi che prima coprivano la regione in modo diverso. Il budget totale del CARDS è 4,65 miliardi di euro per il periodo 2000-06. Il Programma CARDS ha lo scopo di sostenere la partecipazione al processo di Stabilità e d’Associazione dell’Albania, Bosnia Herzegovina, Croazia, Repubblica Federale della Jugoslavia e della Repubblica della Macedonia. Circa il 10% del budget del periodo 2000/04, 197 milioni di euro, serve per stimolare la cooperazione regionale.
(33) Rapporto del Consiglio Europeo per l’azione dell’UE in sostegno del Patto di Stabilità nell’Europa Sudorientale, presentato nel Consiglio Europeo dalla Presidenza Finlandese e dalla Commissione Europea, Helsinki, 10-11 Dicembre 1999.
(34) Le conclusioni del Consiglio Europeo al Lussemburgo, 29-30 Aprile 1997.
(35) R. Peshkëpia, Pakti i Stabilitetit për Evropën Juglindore, Tiranë, Albin, 2000, p. 45.
(36) Comunicato della Commissione Europea nel Consiglio Europeo e nel Parlamento Europeo riguardo il Processo di Stabilizzazione e di Associazione a favore dell’Europa Sudorientale, Bruxelles, 24 Maggio 1999. COM(1999)235 final.
(37) R. Zuccolini, Balcani, nuova frontiera, "Corriere della Sera ", 3 Marzo 1997.
(38) V. Li Donni, Governare la Globalizzazione, Padova, CEDAM, 2000, pp. 77-80.
(39) L.Vasapollo, Nuovi scenari geoeconomici dello sviluppo internazionale: il controllo dell’area balcanica, Relazione al Convegno "Cultura, Scienza e Informazione di fronte alle nuove guerre" Politecnico di Torino, 22-23 Giugno 2000. Consultato sul sito http://space.tin.it/economia/, il 18/07/2002.
(40) Adriaticus, Balcani adriatici ultima chiamata per l’Italia, Milano, "Limes", 1/2002, p. 183.
(41) G. Monbiot, A discreet deal in the Pipeline, "The Guardian", 15 febbraio 2001.
(42) R. Giragosian, Massive Kashagan Oil Strike Renews Geopolitical Offensive in Caspian, the Analyst, Central Asia-Caucasus Institute, Johns Hopkins University-Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, 7 Giugno 2000.
(43) S. Velinova. G. Aleksandrova, E’ cominciata la battaglia per i Corridoi Petroliferi, Sofia, "Il settimanale Kapital", 8-14 Giugno 2002.
(44) M. Paolini, Una strategia per i Balcani Adriatici, "L’Italia Mondiale": n° 1/98.
(45) Cfr. il sito www.regione.puglia.it, La Frontiera, consultato il 18/07/2002
(46) P. Pasko, Corridori 8 dhe Pakti i Stabilitetit, ISHSN (Istituto Albanese per gli Studi Internazionali), Tiranë, 2000, pp. 126-127.
(47) Ivi, p. 128.
(48) Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, 10 Giugno 1999.
I. Aspetti introduttivi
Indagare il ruolo svolto dalle Società economiche significa studiare quei processi di modernizzazione e di industrializzazione che hanno riguardato e cambiato lentamente – nel corso dell’Ottocento – la fitta trama del paesaggio agrario siciliano. Ma non solo, studiare queste istituzioni significa, inoltre, far emergere uno "spazio rurale" della Sicilia borbonica pre-unitaria, i cui limiti vanno dai dibattiti sull’agricoltura, con il suo passaggio da una struttura latifondistica-feudale ad una più moderna e capitalistica, dalle manifatture nel loro evolversi in senso industriale, dai discorsi sulla migliore politica economica da adottare per lo sviluppo dell’Isola alla pari delle altre nazioni europee, fino ai cambiamenti dei rapporti sociali che vedevano coinvolti i contadini nel loro riscatto di una vita migliore, il baronaggio feudale nel suo inevitabile tramonto e l’ascesa della borghesia che risulterà essere la parte più innovativa dei membri delle Società economiche(1).
Nati nei primi anni Trenta dell’Ottocento ed attivi, pur con qualche di-scontinuità, fino alla vigilia della formazione dello Stato unitario, tali consessi, al di là della loro effettiva realizzazione cronologica, non erano del tutto privi di radici ideologiche, in quanto rappresentavano il frutto di buona parte del pensiero illuministico, la naturale continuazione dell’opera delle riforme settecentesche attuate in Europa e nel Mezzogiorno d’Italia, il risultato di vari cambiamenti strutturali avvenuti in Sicilia a partire dalla Restaurazione e dell’imposizione della legislazione economica franco-murattiana nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie. Il senso di questa nuova esperienza societaria, pertanto, andava a realizzare e coniugare le diverse articolazioni socio-economiche inserite all’interno del contesto regionale e provinciale con gli impulsi economico-culturali provenienti dai centri di potere e di elaborazione europei. Con l’imporsi di un nuovo rapporto disciplinare tra teoria e pratica, sempre meno fondato su ragioni estetiche dei progetti economici e sempre più posto, al contrario, sulle ragioni etico-utilitaristiche, le Società economiche, nella loro essenza pratica, fungevano da filtro trasmittente che, privilegiando la scienza applicata, stimolava anche il fiorire di una vasta produzione culturale di stampo prettamente tecnico-economico.
Si trattava, nel complesso, di un ampio lavoro propositivo ed applicativo a cui ha fatto, però, riscontro un tradizionale giudizio storiografico che ha posto le Società economiche siciliane, ma anche quelle napoletane, sul piano di vuoti organismi pletorici, incappati troppo spesso in aspetti burocratici ed in sterili discussioni. Certamente è stata una valutazione storica che si è sviluppata dall’ambiguità stessa dei consessi, sempre in bilico tra una vasta attività progettuale ed un carattere di lassismo poco produttivo. Ma anche poste sempre al crocevia tra una forma di indipendenza ed un’altra fatta di continui controlli da parte delle autorità statali; controllo che, per inciso, nasceva dal timore che tali associazioni potessero assumere una pericolosa dimensione politica contro la stessa dinastia borbonica(2).
II. Origine, struttura e finalità
"Tal era lo stato cui di mano in mano era altrove pervenuta la scienza economica quando in Sicilia cominciavasene a udire appena il nome: e i benefizi per quella arrecati alle straniere nazioni e a taluni stati italiani erano della più grande importanza. Qui intanto tutti vedevi ancora i vizi del reggimento feudale, che conservasi tuttavia nel suo pieno vigore; non libera la estrazione dè grani, non vie rotabili né ponti, dogane interne e poca o niuna sicurezza né pubblici cammini e nelle campagne: cose tutte che opprimeano l’agricoltura e il traffico, e impediano le comunicazioni tra provincia, tra comunità e comunità […]. Pochissime manifatture, e queste medesime in declinazione; e di nulla momento la interna e l’esterna mercatura(3)".
Il quadro politico, sociale ed economico della Sicilia entro il quale va collocata la nascita delle Società economiche è senza dubbio molto complesso ed articolato; esso va dalle denuncie di totale arretratezza economica come quelle descritte dall’economista siciliano G. Albergo, fino ad un graduale miglioramento delle condizioni strutturali interne ed al loro totale omologarsi alla parte continentale del Regno uscito rinnovato dal "decennio francese". Nella Sicilia del XVIII secolo non vi era stata infatti nessuna "rivoluzione" agronomica in grado di sovvertire la precarietà della situazione interna e di aumentare la produzione agro-manifatturiera in linea con i mercati internazionali, però, in molti intellettuali ed economisti dell’epoca, questi problemi diventavano la base delle loro riflessioni, con una serie di progetti e riforme che culmineranno anche nell’istituzione delle Società economiche. La cultura siciliana si muoveva ancora con molta lentezza ed era costituita da una debolezza interna, soprattutto in fatto di politica economica, nonostante i continui solleciti da parte di intellettuali e riformatori che assumeranno, fin dalla prima metà del Settecento, un ruolo guida fondamentale per promuovere buona parte della progettualità di rinnovamento economico ed istituzionale, che diventava la costante di tutto un percorso che formerà il presupposto ideologico della creazione delle Società economiche.
La corrente empiristica, come forma moderna di pensiero europeo, che per la prima volta penetrava nell’isola non come una dottrina filosofica astratta, ma come un insieme di princìpi portatori di una nuova mentalità e di una nuova cultura, diventava sicuramente l’eredità di pensiero dei consessi siciliani. Il richiamo alle osservazioni dei fatti naturali, lo sperimentalismo e l’attività di scoprire le leggi fisiche che si celavano dietro ogni forma di avvenimento, facevano, infatti, dell’empirismo un’idea in grado di imprimere una carica di profondo rinnovamento all’interno di un paese come quello siciliano, ancora troppo legato ad una tipologia di tradizionalismo e riottoso nei confronti di ogni apertura progressista. Anzi, l’emergere di questa teoria, di chiara derivazione inglese, che nella realtà siciliana del XVIII secolo faceva affiorare tutte le contraddizioni di un sistema politico-economico opposto ai connotati di rinnovamento culturale europeo, diventava l’impulso, da parte di alcuni intellettuali siciliani, ad indagare sulle strutture esistenti e soprattutto su nuovi progetti in grado di animare il dibattito siciliano relativamente alla centralità dello sviluppo del sistema agro-economico. Sullo sfondo di una letteratura politico-economica francese, che leggeva l’arretratezza sociale ed economica del paese non solo come derivante da cause "fisiche-territoriali" ma anche e soprattutto da quelle "morali-istituzionali", gran parte degli intellettuali ed economisti siciliani, puntavano sull’innovazione legislativa, vale a dire sulla creazione di organi ed istituti in grado di stimolare tutta l’attività economica principalmente legata ai prodotti agricoli e manifatturieri(4).
Con il decreto 621 del 9 Novembre 1831 sorgevano ufficialmente le Società economiche siciliane, dipendenti dal Reale Istituto d’incoraggiamento di Palermo(5). La nuova istituzione veniva a rappresentare il coagulo economico-politico di un lungo percorso che coinvolgeva quasi tutta la storia borbonica del Regno meridionale, a partire dagli ultimi anni del XVIII secolo e, ancora di più, dalla nascita ufficiale del Regno delle Due Sicilie. Le Società economiche nascevano infatti per volere del nuovo sovrano Ferdinando II – salito al trono l’8 novembre del 1830 – in un periodo, gli anni Trenta dell’Ottocento, caratterizzato da una duplice forza che arrivava a lacerare l’intera struttura economico-sociale in due parti: tra un ancora vivo attaccamento agli ultimi residui dell’anciem règime, ed una invocata modernità in nome dei princìpi liberali che tardava ancora ad arrivare e che riguardava, del resto, l’intera area europea.
Adesso, infatti, si assisteva al nascere di problemi imposti da una espansione economica che coinvolgeva direttamente diversi settori della borghesia provinciale che entravano inevitabilmente in conflitto con i princìpi teorici di una cultura economica di stampo assolutistico. Cominciava a farsi sentire, quindi, il peso di nuovi strati sociali – proprietari terrieri, commercianti, artigiani e liberi professionisti – che reclamavano il proprio ruolo nella gestione della "cosa pubblica". Veniva, così, a delinearsi, a partire dall’economia, un vasto programma di progetti e di riforme, volti alla trasformazione in senso liberale delle istituzioni governative ed al rinnovamento di tutto l’apparato periferico burocratico-amministrativo(6).
Le Società economiche siciliane, risultavano essere l’esito di una duplice svolta. Erano il punto di arrivo di tutto il riformismo agrario borbonico, nato nel periodo illuministico e nei primi anni dell’Ottocento con la Costituzione del 1812 e con il protettorato inglese – che riguardava l’eversione dell’asse demaniale-municipale ed ecclesiastico – e di un riformismo successivo, riguardante invece la problematica della trasformazione dei feudi in allodi ed alcuni aspetti degli usi civici, che aprivano, fin dai primi anni del XIX secolo, nuove questioni di progresso economico e sociale(7). Ma tali consessi erano anche un nuovo punto di avvio, legato all’operato di Ferdinando II ed al suo sforzo di provvedere, con ogni tipo di intervento politico ed economico, per "adattare" la Sicilia al resto del Regno napoletano, cercando in ogni caso di sollevarne definitivamente le modeste condizioni generali. Infatti, la destituzione, da parte del nuovo re, del Luogotenente generale in Sicilia Marchese Ugo delle Favare, per assumere alla stessa carica il principe Leopoldo di Borbone Conte di Siracusa, significava per la Sicilia – che da tempo aspirava alla Luogotenenza proprio di un principe appartenente alla casa reale borbonica – un momento di svolta decisiva che, se lasciava cadere ogni progetto autonomistico, faceva ben sperare, però, in un radicale cambiamento, soprattutto sul piano economico.
Lo statuto del decreto, diviso in 166 articoli e in quattro titoli principali – i primi due riguardavano esplicitamente le funzioni del Reale Istituto d’incoraggiamento mentre gli altri il ruolo delle Società economiche – dava, quindi, avvio ad un nuovo "tratto" della politica economica borbonica. Il significato di fondo di questa nuova direttrice politica era infatti già tutta iscritta nella finalità sociale ed economica che era stata data all’Istituto:
L’oggetto del Real Istituto si è la floridezza della Sicilia, poggiata non che sulle scienze utili, come lo sono l’agricoltura, l’economia pubblica e privata, ma eziandio sulle arti che vengono sostenute dalle matematiche, dalla fisica, dalla chimica, dalla storia naturale, dalla veterinaria e da altre scienze analoghe(8).
Ne emergeva, quindi, un compito di vasto respiro a cui una parte molto importante veniva riservata all’attività delle Società economiche, che completavano e rendevano effettivo tutto l’operato dell’Istituto e della sua progettualità politico-economica.
Le Società economiche di Catania e Messina erano composte secondo una struttura gerarchica e ben delimitata. I soci – quanto di meglio la cultura e la classe politico-economica illuminata potesse offrire – erano suddivisi in ordinari, onorari e corrispondenti; i primi, che erano ovviamente quelli più importanti e che rappresentavano le persone più istruite "nella teorica e nella pratica di ciascun ramo d’industria", non potevano superare il numero di dodici ed erano ugualmente distribuiti in due classi parallelamente operanti all’interno della Società, quella di Economia rurale, che riguardava principalmente gli aspetti legati all’agricoltura, e quella di Economia civile, che trattava, invece, le problematiche inerenti allo sviluppo manifatturiero. Il numero degli altri soci, invece, era indeterminato. L’attività di tutti i membri, in ogni caso, era coadiuvata da un Consiglio di amministrazione di cui faceva parte il presidente, il segretario, l’ispettore delle spese ed il tesoriere: la durata della carica del presidente era di due anni, quella del vice-presidente, dell’ispettore delle spese e del tesoriere un anno, mentre il segretario esercitava le sue funzioni senza limiti di tempo prestabiliti. Il presidente, oltre ad avere le funzioni di rappresentare e guidare tutta l’attività della Società, aveva anche il compito di convocare le adunanze straordinarie, di sottoscrivere i verbali e di rimettere alle rispettive classi di appartenenza gli "oggetti" manufatti che venivano inviati alla Società nelle varie occasioni concorsuali. Il segretario, che aveva invece l’incarico di compilare i verbali e ogni genere di rapporto, leggere le memorie che venivano presentate nelle adunanze, tenere una corrispondenza informativa con le varie Commissioni comunali che affiancavano le Società, convocare le riunioni accademiche e aver cura della biblioteca, dell’archivio e del museo di appartenenza della stessa Società, era l’unico gestore dei vari rapporti culturali e il punto di riferimento più diretto per la vita economica della provincia. Queste rispettive cariche venivano nominate solo dalle due prime classi di soci ordinari ed onorari, mediante l’assegnazione di voti tenuti segreti e i cui risultati dovevano poi essere trasmessi, prima all’Istituto d’incoraggiamento e poi al Luogotenente generale. Tutte e tre le classi dei membri, potevano essere in ogni caso rinnovate tramite l’ammissione di nuove persone che dovevano essere proposte dai soci ordinari ed onorari, per quanto riguardava le loro rispettive classi, e dal presidente della Società, invece, per quelli corrispondenti. Al momento dell’istituzione, però, la prima nomina di tutti i soci e delle varie cariche veniva affidata al Luogotenente generale di Sicilia. Le adunanze delle Società potevano essere generali e particolari: le prime si tenevano ogni 30 di maggio – giorno dell’onomastico di Ferdinando II – e nel mese di novembre, ed erano regolate da precisi compiti. Alla presenza dell’Intendente provinciale, infatti, il presidente iniziava l’attività con la lettura di un discorso introduttivo ed inerente alla circostanza, il segretario rendeva, invece, noti i lavori svolti dal consesso nell’anno precedente e dava poi la parola ad un socio che doveva leggere una memoria avente come argomento una tematica di economia agronomica ed infine si passava alla distribuzione dei "premi per l’agricoltura", messi in palio da appositi concorsi che le Società organizzavano per incentivare la produzione ed il miglioramento tecnico in campo agro-pastorale. Durante le adunanze particolari, invece, che si svolgevano ogni dieci giorni – tranne nei mesi di luglio, agosto ed ottobre – venivano eletti i vari impiegati che avrebbero iniziato il loro compito a partire dal mese di gennaio successivo. Infatti, al di là dei membri e dei componenti il Consiglio di amministrazione, vi erano molti altri funzionari che operavano all’interno della struttura societaria: come il vicesegretario, il commesso, l’usciere e il "barandiere", che erano regolarmente stipendiati. Al momento della loro fondazione venivano concessi dei finanziamenti di base: all’Istituto d’incoraggiamento spettavano 1000 once, che provenivano dal fondo comune delle Valli, dalla Tesoreria generale e dal comune di Palermo, mentre alle Società economiche andavano 100 once a cui dovevano provvedere i rispettivi capoluoghi. A coadiuvare l’intera attività delle Società vi erano anche le Commissioni comunali che, composte da tre membri con a capo il sindaco della città entro la quale operava il consesso, erano incaricate soprattutto di redigere una sorte di nota statistica con i nomi di tutti i manifattori, gli artigiani ed i fabbricanti che facevano parte del rispettivo comune, al fine di un loro totale coinvolgimento ogni volta che venisse organizzata una manifestazione espositrice dei vari oggetti-manufatti(9). Il ruolo fondamentale che si prefiggevano di svolgere le Società economiche veniva colto e centrato in modo particolare da un articolo ben preciso dello statuto:
Ciascun socio ordinario sarà obbligato di comunicare alla Società le osservazioni che avrà fatto in ogni anno sulla natura del suolo, la sua vegetazione, produzione, e sul corso delle stagioni, sulla ruota delle ricolte, i lavori rurali, gl’ingrassi o conci, le chiusure, i prati naturali o artificiali, gli animali da razza a corna o a lana, la cascina, la coltura degli alberi e del loro innesto, il prodotto delle manifatture, o altri rami d’industria, e finalmente presentare qualche memoria che proponga e dia conto dell’applicazione ed introduzione da lui fatta, e dè buoni metodi da lui inventati, o tratti da altri paesi(10).
Il nucleo centrale che portava a maturazione tutta l’attività della struttura societaria, fin dalla sua fase di progettualità, veniva costituita dal forte peso che andava a ricadere sui soci – ordinari, onorari e corrispondenti – appartenenti ad entrambe le classi di Economia rurale e di Economia civile. Divenendo i divulgatori dei nuovi princìpi da adottare in materia di agricoltura e di manifattura, non con lo studio di astratti elementi di economia politica di respiro universale ed avulsi dalla realtà siciliana, ma con una linea politica "informativa" legata ad una preliminare conoscenza del territorio e di tutta la provincia a cui apparteneva la Società, il loro compito consisteva principalmente nel notare le inefficienze e le sfasature agronomiche che ne impedivano lo sviluppo e apportare dei validi suggerimenti pratici mediante la compilazione e la successiva lettura, durante le adunanze, di una memoria, che diventava un proficuo momento di relazione dialogica con gli esponenti del Governo centrale.
Ufficialmente nate sotto la direzione del Luogotenente generale della Sicilia Leopoldo conte di Siracusa e del Ministro segretario di Stato degli Affari interni Antonio Mastropaolo, le Società economiche di Messina e Catania irrompevano nella realtà isolana con tutto il loro peso, formato dalla novità scientifica che si proponevano di diffondere legata con la tradizione culturale ed economica europea. Al momento della loro istituzione, infatti, i consessi si ponevano in linea con le già esistenti Societades de Amigos del Pais spagnole, le Sociètès Royales d’Agricolture francesi e le Societes for the Encouragement of Arts, di origine irlandese ed inglese, inaugurando, quindi, una nuova linea di intervento politico-economico, che si intrecciava, da questo momento, con il cambiamento intervenuto all’interno della società civile(11). E’, infatti, a partire da questa fondamentale evoluzione della "sociabilità" in senso più moderato e borghese che l’incoraggiamento – legato sia alla ricerca che allo sviluppo agro-pastorale – che la divulgazione dei vari "saperi" economici e di tutte le altre discipline scientifiche, acquisteranno sempre più importanza in quel profondo ed innovativo legame tra il Governo e i vari ceti sociali, di cui, appunto, le Società economiche erano espressione. Infatti, adesso, le Società di Messina e Catania, mediante il filtro del potere politico rappresentato dal nuovo re interessato ad una più attenta conoscenza del territorio siciliano, divenivano il punto di incontro privilegiato tra quelle classi disposte a porsi a capo del processo di modernizzazione delle strutture economico-sociali e quelle che solo mediante tale aspetto modernizzatore potevano trarre un qualche beneficio. Insomma, le Società raffiguravano una nuova tipologia di "associazionismo" economico che, traendo la propria linfa vitale da quella forma di libera e volontaria riunione di dotti in Accademie agrarie del XVIII secolo ma, in quanto anche frutto di un vero e proprio cambiamento nella gestione del potere politico-governativo, portavano a termine, mediante la loro attività di dibattito in materia di economia politica, di promozione ed incoraggiamento ad ogni nuova forma di attività agricola e manifatturiera, una costante dialettica tra pubblico e privato, ma anche tra il centro e la periferia. Il significato di questi termini ha ovviamente una valenza simbolica ed un significato che aprono la strada ad una maggiore consapevolezza del ruolo svolto dalle Società economiche. Per quanto riguarda la lettura di tali consessi nel loro contrasto "dialettico" tra una forma pubblica ed una privata, c’è da dire che esse, infatti, erano l’esito di una decisione governativa e di un decreto imposto "dall’alto" – voluto da Ferdinando II di Borbone per migliorare le istanze economiche siciliane – e quindi raffiguravano l’evoluzione delle Stato da una anacronistica forma assolutistica che riguardava ogni campo della legislazione, verso una sua maggiore maturazione in senso più borghese e moderno, aperto ad un primo aspetto di decentramento a livello economico e sociale. Ma non solo, e qui si compie la dialettica tra la funzione pubblica e quella privata delle Società, il loro operato, molte volte, diventava un’occasione favorevole per l’elaborazione di progetti e teorie economiche che finivano per colpire direttamente le stesse politiche economiche ufficialmente imposte dal Governo, quali, ad esempio, quella del protezionismo e la mancanza di circolazione di molte derrate agricole in senso più liberistico. Invece, l’altro rapporto, che lega queste Società, la contrapposizione tra il centro e la periferia, risulta essere l’elemento fondamentale che le caratterizza fin dal loro nascere e che le guida in maniera costante per tutta la loro attività. Le Società economiche, infatti, che erano presenti in tutte le province siciliane, avevano, come loro compito fondamentale, quello di indagare l’aspetto locale – circoscritto alla provincia di appartenenza della Società – della coltura agraria e delle condizioni delle manifatture, per poi integrarlo con una visione descrittiva generale dell’isola, che era il prodotto della somma di tutte le indagini statistiche apportate dai vari consessi. Quindi, se il loro operato si poneva solo all’interno di una determinata circoscrizione, la loro visione e tutta la conseguente attività, non significavano una chiusura campanilistica, completamente sganciata da ogni visione universalistica, piuttosto, si trasformava nella concreta e capillare creazione di reti e di strutture "autogestite" che rivendicavano, di volta in volta, richieste e provvedimenti economici particolari e differenti di quanto invece potesse avvenire nelle altre province. Ed era proprio questo aspetto che faceva instaurare, all’interno delle Società economiche, quel rapporto di scambi e di ruoli tra il Governo centrale, che vigilava sull’operato dei consessi, e i loro membri, che diventavano i delegati ufficiali di ogni forma di istanza legata al ridimensionamento dei vari ceti sociali e dei rapporti economici siciliani(12).
III. Nell’immagine dei soci e nelle memorie inaugurali
Al momento della nascita ufficiale delle Società economiche di Catania e Messina, la notizia veniva pubblicata dai più influenti organi di stampa della Sicilia del XIX secolo e anche dai giornali ufficiali delle Intendenze. "La Cerere", importante giornale palermitano, ma di diffusione regionale, incominciava a pubblicare, a partire dal numero del 21 luglio 1832, alcuni estratti del decreto governativo ed i nomi dei vari soci componenti le Società. Il consesso di Catania era così articolato: presidente Francesco Paternò Castello, vicepresidente Salvatore Scuderi, e gli altri membri erano Carmelo Maravigna, Francesco Gravina, Carlo Gemmellaro, Ferdinando Cosentino, Mariano Geremia, Benedetto Barbagallo, Domenico Auteri, Antonino Di Giacomo, Sebastiano Scuto Tomaselli, Salvatore Portal e Alfio Bonanno (segretario)(13).
La Società economica di Messina comprendeva, invece, i seguenti soci: presidente Paolo Cumbo, vicepresidente Tommaso Donato, Vincenzo Ferrara, Gaetano Caracciolo, Giuseppe Falconieri, Antonio Arrosto, Principe della Mola, Luca Scudery, Letterio Fenga, Angelo Pugliesi, Giovanni Rosso e Felice Biscazza (segretario)(14).
Una volta pronte le liste dei nomi, che richiamavano importanti esponenti della cultura umanistica, giuridica e scientifica della Sicilia orientale ottocentesca, le Società economiche iniziavano ad organizzare il lavoro in maniera definitiva, ma, nel prestare un formale giuramento che avveniva tra agosto e settembre del 1832, cominciavano a travisare i primi problemi, soprattutto di ordine logistico e comunque secondario. Da Messina, il presidente Paolo Cumbo si lamentava per l’impossibilità di iniziare l’attività non solo per la mancanza di locali adeguati, ma anche perché, paradossalmente, non si conoscevano bene tutti gli articoli del decreto che aveva istituito le Società e il conseguente operato da svolgere(15).
Nel complesso, comunque, dal 1832, superati i primi problemi legati a quella forma di novità quale era l’impatto delle Società economiche, tutto il lavoro veniva organizzato, soprattutto – e questo diventa un dato essenziale per capire il significato della formazione dei consessi – per iniziativa dei soci che ne facevano parte. La sua tipologia, infatti, era molto varia ma in ogni caso unita nel compito che erano stati chiamati a svolgere, e molto raramente si trattava di economisti nel senso proprio del termine, bensì erano più che altro uomini di cultura, legati agli studi umanistici e scientifici che, anche per ragioni politiche, si occupavano di questioni economiche, "giustificate", in qualche maniera, dal fine morale – il miglioramento delle condizioni generali della Sicilia – dell’incarico che si trovavano a svolgere. Le Società messinese e catanese, raccoglievano, infatti, attorno ad esse molti personaggi anche di estrazione nobiliare, ma che al contrario di quella nobiltà di stampo aristocratico-feudale, erano più essenzialmente legati ad una forma di dinamicità sociale ed avevano capito il ruolo di rinnovamento che avrebbero potuto portare alla società in trasformazione. Infatti, se già a partire dalla prima metà del XIX secolo la gerarchia sociale di vecchio stampo cominciava a frantumarsi, l’unione – per lo meno nel campo economico e sociale – tra nobiltà, intellettuali e borghesi, dava forma ad una sorta di attivismo fatto di scambi di opinioni e di idee, venendo a realizzare una libera circolazione di pensieri economici, novità tecniche e dottrine sociali(16).
A partire da questi princìpi, i membri delle Società economiche si sentivano portatori di un compito non solo di grande responsabilità, ma anche di notevole ampiezza politica che passava, inevitabilmente, dal loro personale giudizio sull’istituzione dei consessi. Carmelo Maravigna, vicepresidente della Società di Catania, nel 1833 notava:
Arroge a ciò, che tutti gli spiriti rivolti vedendosi su di noi, e da noi attendesi melioramento reale della nostra industria, alle nostre arti, alle manifatture ed alla nostra economia campestre: e di tanto siam noi capaci, e tanto possono le Società economiche se animate da fervido amor di patria e da caldo desìo di pubblico bene adoprarsi vogliano a rinvinire i mezzi opportuni a soccorrere lo artista oscuro e negletto nell’interno della sua fabbrica, l’agricoltore avviliti e smunto il volto, e l’uno e l’altro stoltamente empirici nel buio immersi di oscurissima notte d’ignoranza, ai quali non giunge mai raggio di solido scientifico sapere(17).
Da questa affermazione si capisce che il ruolo delle Società economiche consisteva, in primo luogo, nell’estirpare ogni forma di ignoranza in fatto di coltura agraria, attraverso una capillare diffusione di perfezionamenti teorici e tecnici che potevano venire dalle scienze fisiche e dalle discipline tecniche. Nelle intenzioni del Maravigna bisognava, prima di ogni altra cosa, "risalire alla sorgente per curarne gli effetti", cioè eliminare, oltre che la non esatta conoscenza in materia agraria, le cattive usanze legate alla tradizione e tramandate di generazione in generazione, ma completamente chiuse ad ogni stimolo di rinnovamento secondo i canoni che invece erano già stati realizzati in Europa. E le Società economiche, per apportare le modifiche necessarie, lungi dal rappresentare solo il luogo delle speculazioni teoriche frutto di una forma troppo generalizzata della scienza economica, diventavano una sorte di laboratorio sperimentale, chiamato a diffondere concreti procedimenti per migliorare la coltivazione delle terre e ogni tipo di attività agro-pastorale. Era presente, quindi, la consapevolezza di portare avanti un compito dai risvolti economici e politici non indifferente, tramite, appunto, le Società, viste dagli stessi soci come il "consiglio collaterale" del Governo ed intese, altresì, come il frutto dell’incontro della scienza con l’esperienza politico-culturale dei membri societari(18).
L’8 settembre, nella sala dell’Intendenza della Valle di Catania, alla presenza di molte autorità politiche, il presidente Salvatore Scuderi, dopo aver tracciato le linee generali della nuova istituzione, affermava:
Qual è, dunque il vero scopo delle Società economiche? Quello di riunire la teoria con la pratica né diversi rami della industria umana, di convalidarne i principi con gli esperimenti, di rischiararne i fatti colle dottrine, di essere insomma come un anello di comunicazione tra le braccia operose che sostengono e compiono il travaglio e le persone istruite in quelle scientifiche conoscenze, che le spingono al maggior punto di perfezione. E noi consapevoli purtroppo di questa nostra espressa destinazione ci rivolgeremo con alacrità ad adempirla(19).
Si trattava, nelle intenzioni del professore catanese, di portare a compimento un programma di vasto respiro, che portava con sé i presupposti per uno sviluppo economico da formulare con l’utile unione della teoria, quella relativa alle conoscenze scientifiche, con la pratica, vale a dire con la sperimentazione sul campo di quelle stesse conoscenze. Partendo dall’agricoltura – che l’intero operato delle Società economiche vedeva come l’elemento di base per ogni progresso socio-economico – lo Scuderi, al di là delle considerazioni positive su alcuni provvedimenti già in parte attuati in campo agricolo, rivelava ancora di più la necessità dell’applicazione, nel settore agricolo e manifatturiero, delle "scienze ausiliarie" all’agricoltura, vale a dire della chimica, della fisica e della botanica, e di renderle necessariamente più accessibili al contadino ed al proprietario fondiario ancora fortemente legati ad una cultura retrograda di stampo feudale. La memoria, quindi, toccava problemi in fin dei conti vecchi per la cultura politico-economica siciliana – come l’assenteismo dei proprietari terrieri dai loro poderi, una generale necessità di riforme, assenza capitalistica e affitti brevi gravanti sui terreni – che però ora venivano reinterpretati ed inseriti nel quadro di un liberismo ottocentesco. Queste considerazioni, nelle intenzioni dello Scuderi, si sarebbero dovute sviluppare non solo sulla base del progresso dei Lumi, ma anche tenendo presente i risvolti economici già realizzati in Inghilterra ed in Francia. Da questi paesi, infatti, e sempre tramite l’incoraggiamento da parte della Società, si doveva trarre la capacità di formulare delle statistiche agrarie, delle analisi geologiche delle terre e dei perfezionamenti negli attrezzi e nelle tecniche per la coltivazione agricola.
Ma la visione del pensatore catanese, andava ovviamente anche in direzione dello sviluppo manifatturiero, che si doveva perfezionare con nuovi macchinari ed una lavorazione più dettagliata dei prodotti. Princìpi, questi, che avrebbero potuto realizzarsi, secondo l’esempio del presidente del consesso, negli opifici di Catania, Messina e Palermo, nel settore dello zucchero, presente soprattutto ad Avola e in quello enologico, sottolineando che già "alcune specie dè nostri vini ben preparati gareggiano i più delicati vini esteri"(20). In questa sua prolusione, lo Scuderi non andava oltre, e comunque toccava i problemi di fondo dell’economia catanese, oltre che per vederne le cause di un loro generale arretramento, per legarli essenzialmente nella prospettiva del lavoro della Società economica, con i suoi studi ed i suoi incentivi per migliorare la letteratura agraria e i prodotti agro-manifatturieri.
Il 24 agosto del 1832, invece, nei locali del comune di Messina, Paolo Cumbo, dava avvio ai lavori della Società economica con la sua orazione parenetica. Ne usciva fuori un lungo discorso all’interno del quale venivano toccati diversi punti, dalla storia della Sicilia antica – dai tempi dei grandi fasti greci e romani – fino all’epoca presente, non senza essere stata però descritta con tutte le sue contraddizioni che la Società economica voleva appunto eliminare. Superate le fasi di sconvolgimento dell’ondata rivoluzionaria napoleonica, il Cumbo vedeva nella pace che ne era seguita l’ordine di un grande sistema europeo nel quale anche la Sicilia, che poteva ora raccogliere i frutti di una lunga tradizione illuministica europea ed italiana, avrebbe occupato il suo posto di prestigio. E’ infatti all’interno di questo quadro colmo di tradizione ed innovazione – quest’ultima riferita anche alla riforma amministrativa del 1817 – che Cumbo collocava tutto l’operato della Società economica, vista e colta nel suo legame con quelle già esistenti nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie. Tutte le innovazioni economiche che il consesso messinese si proponeva di effettuare, erano caratterizzate quindi dal sostegno, dall’incoraggiamento e dagli studi tecnici, non però applicati in maniera troppo generica, ma, come diceva lo stesso Cumbo, con "l’intero corpo sociale".
L’attività e l’industria restano per lo più sterili se non siano sostenute, invigorite e create, se bisogna, dal Governo; e questa è l’opera più generosa dell’amministrazione. Qui tuttavia non si tratta di rimuovere gli ostacoli. L’amministrazione accorrer dee con sussidi diretti allo sviluppo dell’industria, alla perfezione della tattica della terra, e di mare; dal che la fidanza di felice successo, e conseguentemente il più sicuro sprone al coraggio dè difensori della Patria(21).
L’orazione del Cumbo, cercando di coniugare le influenze che derivavano dalla cultura europea – in modo particolare inglese e francese – con la stessa tradizione meridionale e siciliana, vedeva in scrittori come Serra, Broggia, Genovesi, Galiani e Palmieri, coloro che avevano portato la scienza economica ad una forma di esattezza totale in linea con le capacità produttive della realtà siciliana. I problemi legati all’agricoltura, al commercio delle derrate agricole, agli incoraggiamenti, alla circolazione monetaria e quant’altro, diventavano, per il pensatore messinese, elementi di ulteriore riflessione. Ovviamente, anche per il Cumbo, il primo fattore che si doveva far prosperare, ai fini di una modernizzazione economica, era l’agricoltura, soprattutto quella che ne usciva rinnovata dai sistemi anglo-francesi: i riferimenti ai nuovi princìpi della proprietà fondiaria della Francia napoleonica ed al commercio liberistico dell’Inghilterra divenivano ora i costanti referenti socio-economici al fine di una rinnovata realtà siciliana. I punti sui quali poneva l’attenzione la memoria del Cumbo erano diversi: il miglioramento del sistema viario, l’incoraggiamento alla specializzazione agricola, l’avvio alla produzione industriale e la soppressione di molti dazi. Ciò che in pratica si voleva eliminare, attraverso l’operato della Società economica, era la visione dell’agricoltura intesa come qualcosa di anacronistico e da abbandonare, incapace di apportare progresso in un’epoca in cui si cominciava già a parlare di sviluppo industriale. "Senza quell’arte che insegna a coltivare la terra", così veniva chiamata dal pensatore messinese, non vi poteva essere né una forma di commercio né un progresso manifatturiero. L’agricoltura, infatti, doveva intendersi, in primo luogo, come scienza, nel senso che aveva bisogno di capisaldi generali dai quali attingere delle regole e delle pratiche ben precise da adottare; come arte, nel senso che bisognava tenere conto, nell’apportare dei progressi, della varietà paesaggistica legata al suolo, al clima ed alla terra; ed, infine, come mestiere, cioè doveva essere esercitata da uomini laboriosi e pazienti. Per Cumbo le potenzialità agricole da sviluppare erano soprattutto quelle legate alla produzione del vino, dell’olio, degli agrumi e dei gelsi. Ecco allora che compito della Società diventava quello di esaminare tutti i difetti produttivi dell’agricoltura, per poi cercare di eliminarli con nuove pratiche, ma soprattutto con l’istruzione: l’istituzione di catechismi agrari e, ancora di più, la circolazione di opuscoli di argomento agronomico risultavano essere i prodromi per ogni avvio socio-economico più moderno. Analogo discorso veniva affrontato anche per l’attività manifatturiera il cui incremento girava attorno alla lavorazione dei cuoi, del carbon fossile, dei tessuti e di molti materiali presenti nelle montagne di Fiumedinisi e di Francavilla.
Infine, l’ultimo aspetto della memoria diventava un monito ed una speranza per tutto il laborioso lavoro che si accingeva ad affrontare la Società:
Mezzo però eminentemente efficace per lo sviluppo progressivo di entrambi i rami di economia sarebbe pur quello non già di far tesoro dè periodici risultamenti dè travagli delle dette Società straniere che professino lo stesso nostro istituto, o che con esso simpatizzano, che in ciò non vi è colta persona che attentamente non si versi, ma divulgare questi risultamenti, e quel che più conta di renderli accessibili alla limitata capacità degli artisti, dei manifattori e della gente da contado(22).
Nel 1834, lo stesso Felice Bisazza, segretario perpetuo della Società economica, arrivava a disegnare dei propositi molto importanti per l’avviarsi del consesso, cominciando, nello stesso tempo, a portare un primo sommario bilancio dei primi due anni di attività. Dopo aver lodato il proficuo incontro nato tra tale istituzione e una terra molto fertile e ricca di risorse naturali, il letterato messinese riproponeva l’importanza di alcuni concetti che erano già stati avviati ad un’attenta riflessione negli anni precedenti: la formulazione di un catechismo agrario e la necessità di una politica economica "premialistica", basata cioè sull’incentivazione ad una migliore produzione agraria mediante premi da distribuirsi ai più ingegnosi(23). Sulla stessa linea teorica si poneva, solo due anni dopo, nel 1836, il nuovo presidente della Società messinese, Gaetano Grano, la cui relazione ricalcava fedelmente i punti esposti dal predecessore Cumbo: la ricchezza ed il commercio di una nazione potevano solo derivare dalle "scrupolose cure" del Governo, presente sul territorio tramite il consesso, che dal Grano era visto come l’unica istituzione in grado di riscattare la Sicilia dal lato periferico nel quale era stata confinata ormai da diverso tempo. L’incremento della produzione manifatturiera, soprattutto quella legata alla lavorazione dei prodotti agricoli, diventava ora il perno centrale di una politica economica che avrebbe portato la Sicilia a non essere più identificata solo come la regione fornitrice di molte materie prime per gli altri Stati industrializzati, ma collocata nel suo giusto livello concorrenziale(24).
Si trattava, nella sostanza, di una lunga e spesso intrecciata rete di informazioni, progetti e buoni propositi, che accomunavano entrambe le province siciliane, dalle città ai distretti, dalle Intendenze alle Società economiche, inevitabilmente coinvolte in un vasto processo che a volte sembrava più grande delle stesse capacità culturali degli intellettuali e degli economisti siciliani impegnati in esso. In maniera molto significativa, i primi punti toccati o semplicemente tracciati dalle memorie inaugurali dei presidenti, facevano nascere un vasto fenomeno economico e politico che riguardava la riflessione sulla dissoluzione del regime feudale, i problemi inerenti ai vari inceppamenti della struttura latifondistica, l’introduzione di colture specializzate e l’istruzione agraria che costituivano, in una misura estremamente determinante, i temi di fondo principali dell’elaborazione scientifica ed intellettuale svolta in seno alle Società e finalizzati ad una concreta applicazione politica. Erano tutte discussioni, d’altronde, nate dal grande dibattito europeo, che esprimevano il sentito bisogno di un’attenta critica nei confronti di un arretrato sistema economico nella maggior parte dei casi ancora vigente, e la necessità di trovare serie proposte operative in grado di coinvolgere l’economia e la politica, che avrebbero dovuto far nascere un binomio non velato da un significato troppo retorico e falsamente pedagogico, piuttosto, portatore di leggi universalmente conosciute ed oggettivamente applicabili alla Sicilia della transizione borbonica pre-unitaria. Si assumeva la consapevolezza di quanto fosse necessario uno sviluppo economico che, in condizioni di relativa debolezza, diventava possibile attuare tramite uno sforzo collettivo ed una rete di comunicazioni che le Società economiche si sforzavano di realizzare. Il loro modello – inteso nella forma e nelle finalità, come adunanza di intellettuali ed economisti chiamati a discutere e proporre i mezzi più opportuni per dare una piega diversa al sistema socio-economico siciliano – diventava, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, un importante stimolo guida per la formazione di altre istituzioni simili, ma soprattutto per la nascita di scuole agrarie in cui confluivano gran parte dei moniti imposti dalle Società economiche. A Messina, infatti, uno dei soci corrispondenti più attivi della Società economica, il dr. Giuseppe Barresi, aveva proposto di istituire nel suo paese, Barcellona Pozzo di Gotto, una Scuola di agricoltura. Finanziata dal comune, la scuola, avrebbe dovuto diffondere i concetti più elementari della scienza agronomica, la conoscenza degli strumenti agrari più moderni e soprattutto istituire un campo sperimentale in cui introdurre nuove colture, elementi finalizzati a migliorare la produzione agro-manifatturiera. Certo, il progetto messinese, insieme a molti altri, era soprattutto il frutto di un grande entusiasmo iniziale legato più che altro alla novità rappresentata dall’istituzione delle Società economiche, tanto che avrebbe trovato seri ostacoli alla sua effettiva realizzazione; ma l’idea, legata all’importanza di tali scuole ed alla necessità di imporre un’istruzione anche in campo agrario, cominciava ad essere gradualmente recepita, diffusa e posta a fondamento di gran parte dell’economia politica discussa e proposta dai consessi siciliani(25).
L’economia politica societaria, invece di porsi in forma antitetica nei confronti dell’attività governativa, vi stava in una posizione parallela. Anzi, le Società economiche, come organi consultivi del Governo, configuravano, già di per sé, l’avvento di una "nuova" economia politica di tipo "assistenzialistica" e "paternalistica" nei confronti delle province in cui operavano e "valorizzatrice", inoltre, del territorio e di tutte le sue possibilità produttive agro-pastorali. La conoscenza approfondita del territorio e delle sue risorse, diventava il profilo primario del lavoro dei consessi ed un aspetto delle modalità organizzative tipiche dello Stato moderno. Dalla Società di Catania, Alfio Bonanno, socio ordinario e segretario perpetuo, sosteneva:
Vi ha in pubblica economia alquante teorie, che quantunque non riescano erronee mettendole al fatto in alcune Nazioni, ciò nonostante divengono tali in altri regni. Si talune massima economiche sono opportune in primo luogo, e non in un altro: sono bene acconce in un tempo ed in alcune circostanze, e non mai in altritempi ed in altre condizioni politiche. Quanto non ha del seducente per la ricchezza dè popoli la libera universale concorrenza fra le parti del Globo? Eppure questo sistema posto in pratica non riesce punto vantaggioso da per tutto!(26).
La forma di "provincializzazione", che portava ogni Società economica ad occuparsi prevalentemente della sola provincia di appartenenza, non era espressione di localismo o di rivalità campanilistica, ma si presentava, piuttosto, come un mezzo economico alternativo e positivo di valorizzazione dei fattori endogeni e naturali delle varie zone provinciali, resi manifesti statisticamente al potere governativo centrale, il quale, servendosi dell’operato conoscitivo di ogni singola Società economica, condizionava e guidava il proprio intervento economico sulla regione(27). La morfologia del paesaggio contribuiva adesso a distinguere zone montane, pianeggianti e costiere, per attivare, di conseguenza, una differente utilizzazione agricola del suolo, ricca di alte capacità produttive grazie alle condizioni climatiche e naturalistiche, ma prigioniera di una mentalità troppo tradizionale e priva di potenzialità produttive in senso capitalistico(28).
Durante una seduta straordinaria della Società economica di Messina, la consapevolezza di una generale fertilità del latifondo siciliano, legata però alla negligenza dei proprietari terrieri ed al perpetuarsi di abusi ed errori nella pratica agraria sia da parte dei gestori che dei fittaiuoli, era avvertita come un fatto normale e comunque da superare proprio tramite il ruolo del consesso e la sua politica economica "difensiva" del territorio. Pubblicata all’interno di un giornale messinese, la relazione, letta all’interno della Società, sosteneva:
Se vedi un Regno, fiorite le arti e le scienze, allontanata l’ignoranza ed i pregiudizi, asciugate micidiali paludi, aperte utili strade di comunicazione […] oh! Allora puoi dire: l’agricoltura, il commercio e la industria hanno qui una corona. La nostra Sicilia bagnata dalle acque dello Ionio e del Mediterraneo, sotto un clima dolce e temperato, in una terra dove ogni erba è gigante, innaffiata da acque pure, dove più il granaio d’Italia? Mancava un corpo morale per incoraggiare il meschino artigiano e il rozzo cultore. […] L’industria, l’agricoltura e il commercio risorsero in Sicilia e la Sicilia sta per salire a quell’apice di grandezza dove la Provvidenza e la mano dè suoi figli l’aveva posata(29).
Questo primo aspetto dell’economia politica "assistenzialistica" e provinciale che veniva discussa all’interno delle Società, non era finalizzata ad appiattire le differenze naturali dei territori provinciali a favore di una struttura agricola uguale e generale per ogni zona, ma voleva rispettare e stimolare le diversità colturali legate alle diverse aree, quella costiera, collinare e montana. Le Società di Catania e Messina, però, al di là della loro novità istituzionale, non rappresentavano dei grossi centri di elaborazione e di formazione di teorie economiche, ma più semplicemente luoghi privilegiati che si limitavano a discutere e promuovere dottrine economiche elaborate ufficialmente altrove, per la maggior parte dei casi anche al di fuori della Sicilia.
Il compito guida dell’economia politica, nel suo complesso, per i soci delle Società, era infatti finalizzato a produrre un sapere tecnico-sperimentale adeguato alle condizioni fisiche e sociali delle diverse Valli e produrre il più possibile occasioni di sviluppo. Per cui, la respinta di concezioni economiche troppo astratte ed universali non deve essere assunta come una pura forma di "ateorismo", ma intesa come una costante ricerca di tutte le opportunità di accrescimento economico-sociale delle realtà locali. Di conseguenza, all’interno dei dibatti dei consessi, il senso dell’economia politica seguiva una direzione evolutiva che, partendo da concezioni di respiro europeo, finiva poi per diventare lo strumento principale attraverso il quale si cercava di elaborare un sapere, capace di collegare i princìpi economici teorici con la realtà storico-empirica, "tradotto" in un linguaggio più semplice e volgare che andasse a toccare anche i ceti più bassi della struttura sociale. Tale era stato il caso del sistema mercantilistico e di quello fisiocratico, che venivano assunti come modello fondamentale da seguire ed applicare alla realtà siciliana.
Da Messina, il presidente della Società, Paolo Cumbo, prendeva come punto di riferimento lo sviluppo economico della Francia del Colbert, primo di "talenti e di attività di grande amministratore"(30). Nonostante la teoria mercantilistica fosse stata quasi totalmente superata già nei primi anni del XIX secolo, all’interno delle Società veniva considerata, al di là di ogni aspettativa, ancora "attuale" e comunque in grado di offrire alcuni spunti di chiara riflessione economica. Sullo sfondo della pratica del mercantilismo, veniva vista come elemento da non assecondare, quindi, quella linea politico-economica basata sulla preminenza demografica, territoriale e diplomatica dello Stato, o anche di una regione, capace di tradursi in una crescita economica che, anche se non poteva certamente dirsi globale e completa in quanto si realizzava sempre a scapito di un altro Stato concorrente, poneva però le basi di chiari interventi politici riguardo allo sviluppo finanziario, tendenti a creare una totale indipendenza economica di uno Stato rispetto agli altri. Le Società economiche, in una realtà storica differente da quella in cui si collocava la nascita ufficiale del mercantilismo, tendevano a tale dottrina come un importante referente, cercando però di collegare il suo "significato" politico con la capacità produttiva possibile solo tramite uno sviluppo agricolo.
La dottrina fisiocratica, infatti, completava e superava quella mercantilistica e veniva posta alla base di ogni riflessione economica da parte dei membri societari. La centralità dell’agricoltura legata ad un suo miglioramento tecnico-produttivo, diventava ormai una necessità imperante e per questo al centro di ogni progetto discusso e valutato in seno ai consessi:
Ogni siciliano è si convinto l’agricoltura essere l’elemento primario della nostra ricchezza, che dalle varie parti della nostra isola sono usciti degli scritti aventi a scopo di far progredire fra noi una industria di sì grande importanza. […]. E’ verità da non potersi mettere in dubbio che per prosperare l’agricoltura debbesi innanzi a tutto conoscere distintamente la varia natura dè terreni che imprendosi a coltivare. Vuolsi adunque concludere che fin tanto che sulle qualità delle terre strassi del tutto alla pratica conoscenza degli agricoltori privi di scienza, la coltivazione dei campi non potrà farsi se non, per così dire, a tentone(31).
Veniva avvalorato un clima ideologico chiaramente sensibile alle teorie fisiocratiche inserite in una visione complessiva della produzione agraria e dello sbocco commerciale dei prodotti. In una realtà come quella siciliana dalle condizioni naturali relativamente stabili e miti, solo a partire dall’agricoltura, infatti, che costituiva inoltre la maggiore attività produttiva e che completava la mancanza di grandi attività industriali, era possibile migliorare le condizioni economiche della Sicilia, con uno stimolo alla produzione dei prodotti tipici – grano, agrumi, vini, olio, manna, gelsi, lino, canapa e seta – l’introduzione di altre colture specializzate e miglioramenti tecnici nella pratica agraria. Si cercava, in ogni caso, di rispondere il più possibile a quel processo di modernizzazione dell’agricoltura che aveva caratterizzato il resto d’Europa proprio a partire dai primi anni dell’Ottocento. Per questo, si proponeva di adottare nuovi prodotti, promuovere manifatture agrarie, trovare nuove suddivisioni fondiarie, migliorare gli aspetti zootecnici e attuare lavori di bonifica di molti terreni, al fine di realizzare guadagni più lauti su un mercato in continua espansione. Alla base di tale progetto riformatore, infatti, i membri delle Società economiche iniziavano ad accostare all’idea di un progresso economico derivante da una cultura settecentesca troppa imbevuta di un astratto universalismo, una cultura locale-regionale che vedeva nella pratica agraria una valida e solida alternativa, parallela allo sviluppo industriale europeo. Soltanto da una valorizzazione agricola, e comunque da una produzione manifatturiera legata ad essa, era possibile rendere la Sicilia indipendente ed in linea con gli altri Stati europei. Più che illudersi di effetti immediati, si poneva l’attenzione su risultati a lunga distanza; contro quel vasto e ben organizzato disegno economico che aveva riguardato la Sicilia nel periodo del "protettorato" inglese – costituito da un gioco di scambi "a senso unico" che vedeva l’isola solo come una ricca fonte di materie prime per essere sottratte e lavorate al di fuori di ogni partecipazione isolana, e solo a vantaggio delle altre potenze straniere – l’economia politica delle Società messinese e catanese prospettava, al contrario, l’avvento di un diverso equilibrio economico, ben indicato nel 1836 dal presidente del consesso peloritano, Gaetano Grano:
Credete forse che il vigilante straniero, abusando del passato nostro lungo assonnamento venga ancora a fare acquisto di generi grezzi, e lavorati immetterli di nuovo? Miei soci, io credo che no, e voi potete sicuramente con me vaticinare, che codesto suo traffico sarà ben passeggero, e pochi dì gli arriderà la fortuna, e lo vedremo bandito per sempre, poggiandosi questa mia predizione su gli effetti della sperimentata franchigia accordata, e dalle tasse gravitanti a bella posta sopra articoli esteri, e che vedremo perciò la libertà della nostra industria non aver bisogno di estranei aiuti(32)).
Dal raggiungimento di questo livello, la riflessione teorica in materia di economia politica si sposterà oltre la contrapposizione tra la teoria mercantilistica e quella fisiocratica, per essere colta all’interno di un vasto quadro i cui termini antitetici saranno costituiti dal liberismo e dal protezionismo che animeranno il dibattito all’interno dell’attività del Reale Istituto d’incoraggiamento di Palermo, da cui le Società economiche dipendevano.
IV. Le relazioni societarie del 1845
Le memorie che i vari soci ponevano all’attenzione dell’intera comunità accademica, forzavano, a volte, il discorso economico in una direzione troppo speculativa, dove lo scontro tra l’entusiasmo di un qualsiasi progetto agrario-economico e la sua effettiva realizzazione, diventava, in casi estremi, talmente ampio tanto da perdersi di vista e diventare lo schermo delle nazioni europee più evolute. Infatti, in tale contesto, il passo successivo alle memorie veniva rappresentato dalle Relazioni che, al contrario delle prime, venivano compilate dalle Società in seguito ad un ordine derivante dal Ministro dell’Interno e, a partire dal 1847, dal Ministero di Agricoltura Arti e Commercio dai quali dipendevano e raffiguravano sia il resoconto di diversi anni di attività che il bilancio sui risultati ottenuti nel tentativo di migliorare la struttura agricola della provincia di appartenenza(33). Le Relazioni delle Società, quindi, che una volta compilate dovevano essere trasmesse all’Intendenza della provincia di appartenenza che, a sua volta, le inviava al Ministero, avevano oltre che una finalità economica, anche un velato "significato" politico, costituito dall’interesse e dalla presenza dello Stato sul territorio e dalle possibili leggi agro-finanziarie che avrebbe attuato dietro segnalazione delle Società economiche.
Nel caso della Sicilia orientale, le uniche Relazioni esistenti e consultabili sono quelle che erano state avanzate dalle Società nel 1845, un anno di svolta per la storia dei consessi, in cui, appunto, al momento di massima attività, seguirà, immediatamente dopo, un periodo di relativa debolezza, costituita da una sorte di sterile ripetitività degli argomenti e dei progetti affrontati, che sarà il sintomo di un inevitabile quanto mai necessario tramonto, che avverrà negli anni immediatamente precedenti l’Unità.
Richieste dal Ministero di Stato degli affari interni di Napoli, con una ministeriale datata 30 aprile 1845, la finalità di tali Relazioni era quella di dare un "rapporto sulle notizie dei metodi di agricoltura, industria ed altro nelle provincie", che i presidenti ed i segretari erano stati chiamati a redigere, rispondendo principalmente a cinque quesiti(34): riportare una sommaria descrizione delle pratiche di agricoltura che erano in uso nella provincia; dare un ragguaglio delle "varie produzioni della terra e dei mezzi per migliorarli"; elencare la serie delle memorie lette e discusse nelle Società; esporre gli esperimenti agronomici effettuati nel campo agrario; ed enunciare "quali progressi abbia fatto la prosperità pubblica mercè l’istituzione delle Società economiche"(35). I responsi dati dalle Società economiche di Catania e Messina aprivano, quindi, un vasto quadro unitario sulla loro attività e tramite queste stesse Relazioni, i consessi andavano a realizzare il fine per il quale erano stati creati e la loro stessa essenza: attivare una capillare conoscenza dell’intero territorio, promuovere la centralità di un’indagine statistica per valorizzare le potenzialità produttive dei latifondi locali e realizzare un importante e proficuo rapporto tra il centro e la periferia, tra lo Stato centrale e la provincia.
Il 3 luglio del 1845, il presidente ed il segretario della Società economica di Catania, Antonino Di Giacomo ed Alfio Bonanno, spedivano la Relazione all’Intendenza della città. Dalle "osservazioni sullo stato dell’agricoltura della provincia", veniva fuori un quadro estremamente complesso ed articolato, in quanto frutto di una contrapposizione che si era venuta a creare tra certi princìpi e pratiche agricole ancora troppo ancorati alla tradizione con quelli più innovativi che si erano già diffusi in altri Stati europei. La ricostruzione della situazione agricola e della sua produzione, non andava oltre una semplice descrizione qualitativa delle colture e delle derrate agrarie, a cui faceva riscontro l’esposizione descrittiva particolareggiata delle tecniche e delle modalità di coltivazione. Le varie distribuzioni colturali, messe in luce dalla Relazione catanese, si sviluppavano nel loro legame con la varietà degli ambienti naturali e con le condizioni economico-sociali dei vari luoghi produttivi di tutto il territorio provinciale, colto in due grosse "sezioni": quello della "piana di Catania" e l’intero massiccio etneo(36). Si trattava di due aspetti territoriali di cui venivano rispettate e valorizzate le differenze geologiche e produttive, incanalate in un quadro unitario costituito da una zona piana, comprendente tutta la parte meridionale dell’intero circondario dominato dall’Etna, una zona montuosa di derivazione vulcanica e da una zona boschiva. Nella valorizzazione delle colture tradizionali e nella tentata introduzione di nuove, il rispetto della tipologia dei terreni era stato, infatti, l’aspetto più determinante che però, paradossalmente, entrava in contrasto con tutto il peso di un "tradizionalismo" agrario che rendeva difficoltoso un totale passaggio verso un’agricoltura interamente moderna e capitalistica.
Il latifondo, infatti, legato ad una pratica agraria estensiva, rappresentava ancora l’ordinamento colturale più diffuso, cui si affiancava la tradizionale pratica del maggese biennale e triennale. Nella zona relativa alla "piana" di Catania, prevalevano soprattutto le colture estensive-arboree, come il grano, i legumi ed i cereali, la cui coltivazione non seguiva pratiche o innovazioni tecniche avanzate, ma la semplice strada tradizionale dell’aratura, della semina e della concimazione(37). Nei terreni "sabbio-argillosi", chiamati anche "terreforti", le limitate risorse produttive venivano soppiantate dalla coltivazione di ampi vigneti, che riguardavano anche le terre di natura vulcanica, le cui lunghe propaggini offrivano una vasta superficie coltivabile. Una migliore utilizzazione delle acque del Simeto e la scoperta di falde acquifere avevano, inoltre, permesso l’estensione di una grossa area agrumicola che rappresentava – in quel periodo di relativa debolezza della produzione granaria a causa della forte concorrenza straniera – una coltura prevalente in molte zone:
Gli aranci ed i limoni si coltivano in abbondanza nelle terre irrigate e né climi caldi; e la loro coltura è semplicissima. Se ne raccoglie il frutto due volte l’anno: ma il più tenuto in pregio è quello del primo fiore, che si ottiene sullo incominciare dell’inverno(38).
La variabilità della struttura terriera catanese della prima metà dell’Ottocento, permetteva, inoltre, la coltivazione di diversi ortaggi, che però, a differenza delle altre derrate agricole, "servivano solo allo interno consumo e sogliono stabilirsi nelle terre irrigue vicine alle popolazioni"(39). Nei tratti di latifondo a seminativo alberato, al di là degli agrumi, rivestivano un’importanza sempre maggiore il mandorlo e l’olivo, in cui, alla consistenza che stava assumendo il primo, corrispondeva una perdita di produzione del secondo, non per cause legate alla natura, ma per motivi totalmente ascrivibili all’incuria dell’uomo:
L’oliva si raccoglie ordinariamente senz’alcuna precauzione battendo i rami non solo, ma strisciandosi i cosiddetti ramazzi, che sono grossi e lunghi virgulti animati da forza d’uomo; con che non solo strappasi le olive, ma la maggior parte dè germogli, che dovrebbero dar frutto nell’anno seguente(40).
Nel "vasto territorio intorno all’Etna", inoltre, abbondavano anche altre colture fruttifere, come il melo, il pero, il pistacchio, l’albicocca, il castagno ed il ciliegio, affiancate dalla produzione del gelso nero e del gelso "filippino", una nuova specie di origine orientale.
Stando alla Relazione del consesso, allora, la fertilità del suolo, capace con il minimo sforzo da parte dell’uomo di elargire buoni prodotti agricoli per la maggior parte destinati al solo mercato interno, non poteva ovviamente bastare, ma necessitava di essere completata, secondo il fine dell’economia politica propria delle Società economiche, dall’invenzione di moderni strumenti agrari. Difatti, già a pochi anni dall’istituzione della Società, accanto all’aratro siciliano, alla zappa ed alla "piccola falce ordinaria per la coltura dei cereali", erano stati introdotti l’aratro "grangè", l’aratro-coltro, l’estirpatore, l’erpice e "altri ritrovamenti usati nel podere modello della Toscana"(41).
Nell’ambito della pastorizia, inoltre, si cominciava ad andare verso un lento e graduale processo di specializzazione e razionalizzazione degli allevamenti. I bovini, in modo particolare, venivano utilizzati per il lavoro nei campi e per il trasporto nelle grandi proprietà terriere ad ordinamenti colturali estensivi; anche i caprini ed i suini assumevano molta importanza, accanto all’allevamento dei volatili e delle api, "conservate in appositi alveari e molto operose e produttive"(42). Veniva tratteggiata, quindi, un’attività legata alla pastorizia in fase di espansione, non solo per l’utilità che si poteva trarre per la lavorazione dei campi, ma anche per la commerciabilità delle carni degli animali e dei prodotti naturali che derivavano da essi, come il latte, le uova, etc.
La realtà agro-economica catanese, quindi, quale ci viene offerta dalla Relazione della Società, si presentava relativamente stabile, non totalmente modernizzata, ma comunque in ogni caso investita da cambiamenti strutturali di primaria importanza. Oltre alla messa a coltura di non poche terre marginali, al disboscamento, alla bonifica, alla "sistemazione" idrica dei terreni paludosi, al miglioramento delle varietà colturali ed a una più attenta preparazione del latifondo coltivabile con nuovi strumenti tecnici, facevano riscontro anche altre piccole novità introdotte e finalizzate, in ogni caso, all’aumento della produzione ed alla spinta verso una modernizzazione agricola in linea con l’espansione del mercato europeo(43). All’interno del latifondo etneo, allora, l’innovazione tecnica che cercava di apportare la Società economica, era di carattere prevalentemente parziale. Ma tutto questo, non significava incrementare ogni tipo di investimento verso una nuova tecnologia importata di sana pianta dai paesi più industrializzati, ma piuttosto, diventava un obiettivo necessario apportare modifiche agricole ed innovazioni conformi con le originali condizioni ambientali, storiche ed economiche dell’isola, e individuare la portata reale di tali cambiamenti a lungo termine. Nel giro di pochi anni, le proposte scientifiche e gli adattamenti agro-economici si erano moltiplicati e acquistavano sempre più importanza: Agatino Longo, proponeva la valorizzazione della produzione enologica mediante una scelta migliore dei "lignaggi delle viti"; Gregorio Barnaba La Via, offriva invece validi suggerimenti sull’utilizzo di una concimazione artificiale – derivante dall’applicazione della chimica – da affiancare a quella animale e vegetale. Carlo Gemmellaro, proponeva, con una lunga memoria, la necessità di incrementare il commercio della pietra lavica, "divenuta un genere di commercio trasportata in Messina, Agata, Siracusa e Malta per servire di materiale alla costruzione di opere diverse"(44). Ma la via alla modernizzazione passava anche attraverso l’incremento delle conoscenze agro-scientifiche, tanto che per molti soci del consesso, diventava fondamentale l’istituzione di Scuole pratiche di agricoltura, in grado di insegnare ai contadini i vari elementi agronomici nel loro duplice aspetto, teorico e pratico, scientifico e sperimentale(45).
Per quanto riguarda l’attività legata all’aspetto "progettuale", vale a dire quello relativo alla presentazione delle memorie, la Società catanese si poneva come la più proficua. Il lungo elenco delle memorie – la Relazione ne contava quaranta – prendeva le mosse proprio da quella che in qualche maniera era considerata la più importante, scritta da Carmelo Maravigna nel 1833, intitolata Sui mezzi che debbonsi adottare dalle Società economiche per la promozione dell’agricoltura, delle arti e dell’industria nazionale, in cui venivano messi in risalto non solo l’essenza e le finalità più intrinseche del ruolo economico e politico della Società, ma anche i progetti e le leggi finanziarie che avrebbero dovuto adottare e mettere in pratica(46). Sulla scia di queste considerazioni, Giuseppe Alessi scriveva Sui mezzi di ovviare alla pubblica miseria negli anni di sterilità e di penuria in Sicilia e precisamente in Catania e Sui mezzi di distruggere le cavallette; Gioacchino Geremia Sul miglioramento dei vigneti etnei e Sui mezzi opportuni onde riparare i bisogni della Valle di Catania; Alessio Scigliani Cenni sopra alcuni rami d’industria degli abitanti della Valle di Catania; Salvatore Scuderi Sulle rotazioni agrarie e Sul progresso della popolazione della Sicilia; Giuseppe Alvaro Manganelli Sulla irrigazione dei campi che attornano Catania; Alfio Bonanno Dè mezzi d’impedire e diminuire le malattie cagionate dalle paludi; Antonino Di Giacomo Sul miglioramento delle specie delle piante indigene e sulla produzione delle piante esotiche più utili; Vincenzo Tedeschi Sugli ostacoli che in Sicilia il sistema d’insegnamenti più comunemente usato oppone ai progressi della istruzione delle classi produttrici, e molte altre memorie piene di spunti di riflessione che cercavano di guidare tutta l’attività agro-economica catanese verso modelli rappresentativi più moderni ai quali la Società economica, a volte, riusciva solo a guardare da una posizione, purtroppo, un po’ lontana(47).
Nel complesso, l’intera struttura agraria della provincia catanese, in seguito al lavoro svolto dalla Società economica, si poneva in una situazione di generale equilibrio, dove l’ampia gamma delle colture non si presentava totalmente diversa rispetto a quella del secolo precedente e, inoltre, i risultati concreti dei cambiamenti strutturali-latifondistici e delle proposte del consesso, se influivano immediatamente sulla conduzione agraria etnea, avrebbero dato la maggior parte dei risultati a distanza, soprattutto a partire dal periodo post-unitario. I risultati reali che si aspettavano nascessero subito, venivano infatti affievoliti anche da condizioni atmosferiche e naturali non del tutto favorevoli, come le eruzioni vulcaniche degli anni Quaranta del XIX secolo che avevano danneggiato molti comuni particolarmente fertili in prossimità del Simeto. Ma non solo, si trattava anche di concrete proposte attivate dalla Società che dovevano scontrarsi anche con buona parte della struttura fondiaria dalla conduzione agricola e dalla condizione giuridico-sociale legate ad un tradizionalismo semifeudale e, oltre tutto – e questo è senza dubbio l’aspetto più contraddittorio della Società catanese – la maggior parte dei progetti economici nascevano da una forma di attività per certi versi molto limitata e da una non totale e progressiva partecipazione che caratterizzava la stessa Società e che la Relazione del 1845, concludendo il proprio resoconto, trascriveva liberamente:
La Società economica quantunque abbia un grande utile scopo, tuttavia non ha potuto rendere molti servizi dell’agricoltura, per diverse ragioni, ed alcune delle quali sono: la Società manca di un Campo di esperimento dove si potessero eseguire le coltivazioni di modello, sperimentarsi i nuovi strumenti agrari, propagarsi le piante più utili e più confacenti alla provincia. Manca di mezzi sufficienti per acquistare macchine, modelli, libri, giornali e tutto quanto potrebbe essere utile alle varie industrie (…). Questa Società, inoltre, non ha messo a stampa alcun giornale, ma ha trasmesso le copie di tutte le memorie che si sono lette nelle adunanze in altri giornali(48).
Una descrizione della situazione agraria piena di buoni propositi, era al centro della Relazione del 1845 della Società economica di Messina. Firmata dal presidente Gaetano Caracciolo e dal segretario Felice Biscazza, la Relazione, a differenza di quanto era avvenuto per il consesso catanese, era stata compilata da un comitato eletto appositamente dagli stessi membri della Società e costituito da importanti personalità dell’epoca: Gaetano Grano, che era stato il presidente nel 1836, Giuseppe Grosso Cacopardo, Nicolò Prestandrea e Pietro Cuppari(49). La presenza di quest’ultimo personaggio, di origine messinese ed uno dei più importanti esperti della storia dell’agronomia europea, dava alla Società economica peloritana ed a tutto il lavoro che il comitato si apprestava a fare, una rilevanza non indifferente(50). Del Cuppari, infatti, venivano ripresi e tenuti costantemente presenti dai membri societari i princìpi agronomici diffusi durante gli anni del suo insegnamento: la concezione di una "nuova" agricoltura allineata con la scienza e l’arte e la necessità di integrare la tradizione colturale con le nuove tecnologie, per uno sviluppo più moderno della conduzione agraria. Alle proposte relative alla produzione di differenti terreni agrari, la diffusione dei mezzi artificiali per modificarne la struttura e l’introduzione di colture specializzate per rispondere ad esigenze commerciali in fase di crescita, faceva riscontro una reale struttura agricola ancora in bilico ed in fase di assestamento tra una relativa arretratezza feudale e deboli impulsi capitalistici, che proprio il comitato si apprestava a descrivere con termini a volte non troppo lusinghieri.
L’introduzione degli aratri inglesi, francesi ed italiani era stato il primo progetto realizzato dalla Società economica. L’utilizzo di questi strumenti, infatti, era legato alla stimolazione di ogni attività agricola mediante un lavoro colturale migliore del terreno, che avrebbe potuto in tal modo aumentare e risolvere, almeno in parte, "la penuria" e la cattiva condizione dei latifondi, che costituiva, tra l’altro, la causa principale della mancanza di una buona realtà pastorizia(51). Le pratiche territoriali più diffuse erano quelle tradizionali del maggese a "conduzione" biennale e triennale, in cui, nel primo caso si alternava con i cereali, mentre nel secondo caso con le colture leguminose che, insieme alla produzione di altre derrate – quali la sulla, l’orzo ed il frumento – erano le "voci" particolarmente attive ed in espansione. Accanto alla granicoltura, la Relazione inseriva, in maniera significativa, la produzione del vino, "uno dei principali prodotti messinesi", dove però non mancavano le critiche per una cattiva attività, accusata di negligenza nei confronti di quell’operazione che avrebbe dovuto avere la cura di distinguere le diverse specie delle uve e, di conseguenza, la possibilità di produrre vini differenti per qualità(52). L’altra grossa attività riguardava l’olivocoltura, la cui produzione, nonostante interessasse gran parte dei territori messinesi, veniva altamente compromessa da una "errata" coltivazione; l’olio peloritano, infatti, veniva valutato dal comitato di "terza qualità" e quindi difficilmente competitibile con quello prodotto da altre regioni e Stati(53).
L’esposizione della situazione agraria della provincia di Messina, proseguiva passando in rassegna tutti i maggiori prodotti coltivati nei vari circondari provinciali, il cui fine era iscritto anche nel portare avanti un’attenta cognizione delle diverse tipologie dei terreni e delle loro colture specifiche. "Il primo circondario esterno adunque vicino alla città è quello della Pace, nella lingua del Faro"(54) Qui, secondo la Relazione, a causa della presenza di molte "terre ingrate", vale a dire sabbiose ed "alluvionali", la coltura era molto spesso limitata alla vite, ma non sempre di ottima qualità, ed al fico d’india; i circondari di Gazzi, Galati, Gesso e Milazzo, riguardavano soprattutto vigneti ed oliveti; quelli di Rometta e di Barcellona erano invece tra i più ricchi, con la produzione dei gelsi, del tabacco e degli agrumi; Santa Lucia, Alì, Novara e Francavilla si ponevano invece in una situazione di stabilità con la produzione delle classiche e normali coltivazioni; a Patti, Sant’Angelo ed a Raccuia spiccava la predominanza degli alberi da "frutta secca", soprattutto il nocciolo ed il castagno; infine, Tortorici, Naso, Militello, Mistretta, Cesarò, S. Stefano di Camastra e S. Fratello, erano i circondari con una buona presenza di terreni boschivi, dove la produzione e la lavorazione del legno costituivano la maggior parte della loro attività. Si trattava, nel complesso, di un andamento agricolo classico e di piccoli tentativi di "ammodernamento" che, pur con qualche difficoltà, erano stati introdotti:
Circa l’esperienze agronomiche ed esperimenti agricoli, questa Società di un orto sperimentale poco o nulla ha potuto farsi, e quel poco si deve alla cura particolare di qualche socio, il quale ha messo in esperimento nelle sue terre qualche nuovo prodotto particolare(55).
Eppure, il consesso messinese, nel cercare di apportare sostanziali modifiche in campo agro-economico, si poneva ad un livello di non secondaria importanza. Infatti, in seguito ad un progetto di legge risalente alla prima metà dell’Ottocento promosso dal Ministero delle Finanze ed inviato a tutti gli Intendenti siciliani, finalizzato a promuovere opere di bonifica in molti terreni paludosi, la Società messinese, grazie all’interessamento dei suoi soci più attivi e dell’Intendente De Liguoro, eleggeva un’apposita commissione composta da Giuseppe Grosso Cacopardo, Giovanni Interdonato, Anastasio Cocco e Antonino Giambò, con lo scopo di prendere dei seri provvedimenti circa la cattiva condizione di molti terreni paludosi e resi inattivi, esistenti presso la località del Faro. In questa situazione, la commissione aveva proposto una grande opera di prosciugamento "che la più antica agricoltura conosceva e che i moderni agronomi non tralasciano di commendare", grazie alla quale si sarebbe potuta estrarre da quei terreni una varietà geologica e mineraria molto fertile, che avrebbe offerto la possibilità di coltivare questi estesi terreni con una vasta gamma di alberi da frutta, viti, cereali e prati artificiali(56).
Una "intelligente" coltura, legata alla diversità geologica dei terreni, veniva inoltre proposta anche dal socio corrispondente Giuseppe Rapisardi Console, il quale, al contrario di molte mode agronomiche sbagliate, negava l’utilità delle coltivazione dei terreni "in pendìo", cioè in alta montagna, proprio perché il suo totale e illogico disboscamento ne avrebbe annullato l’efficacia produttiva. Anzi, il consesso messinese, attraverso le proposte del suo socio e aperto alle istanze più riformistiche dell’agronomia ottocentesca, avvalorava la necessità di un rimboschimento delle montagne peloritane, valorizzando, in tal modo, non solo la coltivazione alberata – soprattutto della frutta secca – ma prevenendo anche le molte alluvioni causate da una forma indiscriminata di disboscamento(57). Contro la progressiva diminuzione del patrimonio boschivo-collinare – che era già nei primi anni dell’Ottocento considerata la causa principale di un mutato rapporto tra uomo, natura ed economia – la Società economica si poneva in prima linea nel valutare e proteggere il bosco, nel suo duplice valore: garantire la domanda e la produzione di legna e preservare il territorio all’interno di una logica più attenta alla salvaguardia ed alla tutela di tutto l’ambiente paesaggistico-naturale(58).
Ma non solo, l’attività societaria messinese, alla pari di quanto accadeva a Catania, poneva l’attenzione anche sull’importanza derivante dall’applicazione della chimica alla pratica agraria. Francesco Arrosto, formatosi sullo studio delle opere dello scienziato francese G. Liebig, poneva infatti la chimica agraria come una disciplina fondamentale per conoscere le istanze geologiche e minerali presenti nei vari terreni, ma anche per trarre utili suggerimenti in fatto di concimi artificiali e fertilizzanti, in grado di stimolare la natura nella sua produzione agricola e sopperire la debole efficacia dei concimi naturali(59). Accanto ad essa, nasceva l’esigenza della conoscenza della geologia, in grado di porre in risalto la diversa natura delle composizioni delle terre – basti pensare alla diversità strutturale dei "margi" presenti al Faro rispetto alle terre collinari dei Monti Peloritani – e attivare, in relazione alla loro qualità, differenti pratiche agricole. In ambito provinciale, l’esperto geologo era il dottor Lorenzo Majsano, che aveva scoperto nei pressi del territorio di S. Lucia e di Saponara, e tempestivamente comunicato alla Società economica, l’esistenza di diversi minerali, come la saccaroide mista, bianca e scura, solfato di ferro, solfato di calce e diversi strati di polvere conchigliare, che rappresentavano elementi importanti per promuovere attività manifatturiere ancora poco conosciute, a parte quella relativa alla lavorazione dello zolfo(60).
In questo contesto, le migliori proposte offerte dal consesso peloritano passavano attraverso la voce di uno dei più importanti soci corrispondenti, Giovanni Interdonato, autore di un lungo saggio, Sulla migliore e più economica coltura dei frumenti in Sicilia, premiato dal Reale Istituto d’incoraggiamento di Palermo nel 1838. La memoria rappresentava, al di là del titolo, una chiara ricostruzione di tutti i caratteri negativi che limitavano la produzione e la buona condotta dell’agricoltura siciliana – dalla contrapposizione degli interessi del proprietario terriero con quelli del contadino affittuario, alla scarsezza di capitali e all’ignoranza diffusa in materia di agronomia – fortemente incastrata da quella forma di tradizionalismo e pregiudizio avvalorata ormai da secoli(61). La necessità di una buona coltivazione del frumento, diventava per il socio messinese un pretesto per porre, in realtà, in primo piano il ruolo della buona conduzione dei terreni, tramite le opere di bonifica, di concimazione chimica, la necessità degli ingrassi e l’utilizzo di macchine agricole in grado di migliorare il lavoro agro-pastorale. La memoria dell’Interdonato, quindi, riassumeva in un unico quadro unitario i più importanti capisaldi dell’economia politica professata dalle Società economiche di Messina e Catania, ma anche i più notevoli elementi agronomici che si andavano diffondendo nei vari Stati europei; da qui, la necessità, da parte del comitato chiamato a redigere la Relazione societaria, di assegnarle un ruolo "guida" rispetto a tutte le altre memorie lette e dibattute all’interno del consesso. La Relazione ne citava venti, tutte ovviamente di carattere agro-economico, tra le quali: Discorso sull’agricoltura in cui proporre nuovi strumenti agrari, nuovo metodo sul maggese e sulla coltura degli olivi del socio barone sig. Nicolaci; Discorso per lo innocuo abbruciamento degli zolfi di Francesco Arrosto; Discorso sull’agricoltura del grano di Lisi da Raccuia; Alcuni cenni sulla pastorizia di Giuseppe Barresi ed altre(62).
Rispondendo al quesito circa i progressi "fisici e morali per la prosperità pubblica" apportati dall’istituzione delle Società economiche, il consesso messinese rispondeva in questi termini:
In brevi cenni si onora il comitato manifestare a Lei, Sig. presidente, e soci onoratissimi, che la Società per quanto è in lei e con quei poche mezzi che sono in suo potere non ha tralasciato di affaticarsi al bene, all’immegliamento ed alla prosperità della nostra provincia. Un giornale si pubblicava a spese dei soci, il quale distribuivasi a tutti i comuni della Valle(63).
Il giornale in questione, il Monitore economico tecnologico agrario della Società economica della Valle di Messina, pubblicato dal 1833 al 1835, era, a differenza di quanto accadeva per la Società economica di Catania, l’organo di stampa ufficiale di quella messinese. Esso esprimeva e realizzava un bisogno intrinseco alla Società stessa, consistente nella necessità, fortemente sentita, di avere un proprio specifico giornale, tramite il quale pubblicare le memorie e far circolare le nuove idee economiche. La pubblicazione, non a caso, diventava il mezzo più idoneo e più facile per instaurare uno scambio di informazioni e di pubblicazioni, in ambito regionale, nazionale ed europeo. Felice Bisazza, segretario della Società, presentando il primo numero della seconda annata di pubblicazione, scriveva:
La civiltà di un regno, ben lo sappiamo, non cresce che a gradi: noi divisi da un piccol cerchio di onde del beato Continente, fra noi stessi separati da poca terra, noi dico più che altra nazione abbiam bisogno di utili opere periodiche in ogni genere di scienze e di lettere, per aggiungere quel principio di unità scientifica, per essere chiari dè progredimenti della civiltà Europea. […] . Ciò noi abbiam creduto fare sin dal principio del nostro Monitore; sì noi non a dotti severi abbiamo rivolto questa nostra opera periodica, ma a quelle genti che povere di scienza, hanno pure un diritto alla partecipazione dè lumi, ed alla manifestazione di tutto quanto possa meliorare a renderle felici(64).
Il carattere saliente del periodico messinese consisteva nel fatto che non si trattava di una pubblicazione rivolta soltanto ad una parte elitaria della società civile, ma presupponeva, piuttosto, un totale ampliamento e coinvolgimento dei lettori, arrivando a toccare perfino il ceto contadino, la cui istruzione veniva ora per la prima volta posta al centro dei nuovi princìpi agronomici ed una necessità ineludibile per il progresso della società agraria. Si trattava, in pratica, di una pubblicazione importante che, seppur legata ai suoi aspetti locali, per la sua specializzazione nel settore agrario assumeva certamente un tono italiano ed europeo, tendente a fornire modelli di informazioni e di sperimentazioni più moderni(65). La sua struttura, veniva articolata in tre parti: la prima esprimeva il filtro di comunicazione maggiore tra la Società economica ed il pubblico, in quanto ne pubblicava alcuni Atti e le comunicazioni più importanti che venivano discusse all’interno di essa; la seconda parte riguardava invece le scienze agronomiche e pubblicava lavori scientifici, risultati sperimentali e varie osservazioni relative al campo agro-pastorale; la terza ed ultima parte del Monitore, infine, intitolata "Arte e mestieri", si concentrava, invece, su articoli e suggerimenti relative al settore manifatturiero ed artigianale(66).
Attraverso l’indicazione posta su ricerche ed esperimenti che contribuivano in ogni caso al progresso delle scienze, i lavori e le memorie scientifiche pubblicati, erano anche il frutto di una ben organizzata collaborazione tra esperti – come economisti ed agronomi di professionisti – ma anche tra i diversi membri societari che, operanti in sedi diverse, mettevano in pratica le loro differenti competenze. Il socio onorario Sig. Nicolaci ed il socio ordinario L. Scudery pubblicavano lavori scientifici, ma con chiare indicazioni pratiche-tecniche, sulla necessità dell’estirpazione dei parassiti vegetali e degli insetti nocivi alle coltivazioni, argomento al quale faceva riscontro anche un altro saggio scritto dal socio Sig. Bonaiuli. Altri soci ed esperti agronomi scrivevano, invece, sulla pastorizia, sull’importanza di migliorare le razze animali e di formare prati artificiali, con lo scopo di eliminare il problema dei greggi vaganti distruggenti molti terreni coltivati e che costituiva, per la Sicilia della metà del XIX secolo, una questione agraria ancora aperta e non risolta. Altri importanti lavori riguardavano la coltivazione dei bachi da seta, la bonifica terriera tramite l’utilizzo di appositi macchinari, gli innesti botanici, una migliore produzione enologica e altre fondamentali questioni agrarie e artigianali(67). All’interno di questo clima di operosità e di grande speranza legato alla diffusione dei princìpi agronomici e degli esempi pratici agrari, nasceva il lavoro migliore di tutto l’operato della Società economica messinese: un’importante e lunga monografia sugli agrumi, studiati nel loro aspetto scientifico e botanico, completato da un’attenta analisi sulle varietà delle specie e su precise e puntuali tecniche migliori di coltivazione. L’importanza della memoria, scritta da Francesco Arrosto, in seguito ad un premio di 100 ducati messo a disposizione dalla Società, da assegnare, appunto, al miglior lavoro sugli agrumi, nei suoi intenti pratici teneva a valutare ed incrementare proprio il settore agrumario che, in seguito al calo della produzione granaria che aveva investito tutta l’economia siciliana dei primi anni del XIX secolo, costituiva uno dei settori stabili della produzione agraria isolana e sulla quale, di conseguenza, porre tutta la più moderna possibilità conoscitiva agronomica e tecnica(68). Questo lavoro sugli agrumi, infatti, che collocava la produzione scientifica del consesso peloritano in linea con quanto facevano altre Società europee, partendo da una preliminare rassegna sulla qualità degli agrumi e suggerimenti sulla loro coltivazione, si poneva come preciso scopo non solo l’aumento commerciale del frutto in sé, ma creare anche un vasto "movimento" economico del prodotto "manufatto" derivante dalla lavorazione e trasformazione degli agrumi stessi. Si trattava, negli intenti della Società, di aumentare la disponibilità degli investimenti nel settore dell’agrumicoltura dal quale, se incentivato opportunamente, si potevano ottenere redditi più elevati rispetto a qualsiasi altra attività agricola(69). Se tutto questo aspetto del settore agrumario, ma in generale sulla valorizzazione dell’intera struttura agraria, risultava essere l’aspetto più importante della Società economica, il taglio editoriale e le specifiche pubblicazioni del suo Monitore, rappresentavano notevoli elementi "contemporanei" tanto alle finalità istituzionali del consesso, quanto all’insieme degli elementi della cultura economico-sociale del tempo. Anzi, per concludere, la qualità culturale dei saggi economici del giornale messinese, rispecchiava una documentazione storica di una collettiva esperienza vissuta con intelligente impegno, ma anche una suggestiva proposta di riflessione critica sulle condizioni strutturali della provincia e dell’intera regione che, proprio in quegli anni di difficile transizione verso una modernità economica-istituzionale rispondente ai diversi bisogni della realtà sociale, andava maturando.
V. Il dibattito societario intorno allo sviluppo manifatturiero
Se l’agricoltura era lo spazio primario entro il quale si collocavano le riflessioni ed i progetti relativi ad un suo miglioramento in senso più moderno ed "europeo", ma anche il modello di riferimento del principio fisiocratico che aveva costantemente guidato l’idea di economia politica diffusa dagli stessi consessi, accanto ad essa si poneva, in un rapporto di dialettica completezza, il principio relativo allo sviluppo manifatturiero. Il dibattito intorno alle manifatture, però, al contrario di quanto avveniva per quello relativo all’agricoltura, riguardava solo una piccola schiera dei membri societari, sia per una difficoltà di natura interna al dibattito stesso, pieno di contraddizioni e di nodi problematici da sciogliere, sia per la complessità della particolare situazione storica della Sicilia pre-unitaria, per molti aspetti ancora periferica e secondaria rispetto alle altre regioni italiane e nazioni europee, più progredite ed avviate sui circuiti dei mercati internazionali.
Il dibattito economico che si era sviluppato in Sicilia, a partire dagli anni Trenta del XIX secolo, relativa alla dicotomia tra "agricolturismo" ed "industrialismo", all’interno delle Società economiche che ben conoscevano le prospettive offerte dalle due strade, diventava, in realtà, una sorte di falsa "copertura ideologica" ed un pretesto per aumentare di tono un importante dibattito in fase di svolgimento anche a livello europeo. L’alternativa tra agricoltura e manifattura, infatti, veniva appiattita a favore della prima, non solo perché la Sicilia era un paese prevalentemente agricolo e quindi incapace di un’improvvisa sterzata industriale, ma anche perché si vedeva nell’agricoltura e nella conseguente trasformazione manifatturiera dei suoi prodotti gli unici mezzi capaci di portare l’economia siciliana a costanti livelli competitivi. Lo sviluppo dell’agricoltura e l’aumento delle sue produzioni erano, infatti, i presupposti anche per un aumento demografico e per una conseguente espansione della domanda interna dei prodotti agricoli ed alimentari, che diventavano gli elementi trainanti di un primo sviluppo in senso manifatturiero. Dalla Società catanese, Agatino Longo notava:
Da due grandi industrie come da due fonti inesauste è dato alle nazioni di ricavar la ricchezza: sono l’agricoltura e le manifatture. La prima dà i generi grezzi, le seconde i generi lavorati; la prima crea e produce una folla di sostanze senza di cui non potrebbe alimentarsi la vita, né potremmo avere il bisognevole per lo vestito e l’alloggio; le seconde s’impadroniscono di queste sostanze, le modificano, le trasformano e le adattano meglio al soddisfacimento dè nostri bisogni(70).
Per realizzare tale progetto, le prime leggi della politica agraria borbonica settecentesca, non potevano bastare e dovevano essere integrate da ulteriori elementi tipici della politica economica europea dell’Ottocento, come, in primo luogo, una "mercantilizzazione" dell’agricoltura stessa, ossia un aumento della produzione agricola destinata ad un mercato in fase di crescita, che andasse oltre una ristretta economia di autoconsumo e che inserisse i vasti latifondi al centro di un nuovo circuito commerciale moderno(71). Stando alle indicazioni del socio catanese Placido De Luca, una nuova "conversione" agro-manifatturiera doveva sorgere dalle particolari condizioni socio-economiche della Sicilia di quel tempo, dove, il referente comparativo con le nazioni straniere, più che un’imitazione sterile, avrebbe dovuto essere di uno stimolo-guida per una "versione" manifatturiera dell’agricoltura(72). La totale emulazione nei confronti dell’Inghilterra, il paese della rivoluzione industriale, secondo i dibattiti delle Società, era totalmente da scartare e da soppiantare, piuttosto, con lo sviluppo di nuove forme di adattamento con le risorse e le materie prime offerte dalla Sicilia stessa. In pratica, l’idea di fondo che muoveva i dibattiti societari sullo sviluppo manifatturiero isolano, consistente nel fare dell’agricoltura la leva di un nuovo progresso economico, coinvolgeva inevitabilmente anche le forze sociali e culturali, finalizzate ad incentivare una politica di invenzioni e di innovazioni. All’Inghilterra, infatti, o meglio alla sua condotta agro-manifatturiera, si guardava alle sue peculiari caratteristiche basate sulla specializzazione colturale, sull’integrazione di una buona pratica zootecnica, sulla capillare ed efficiente rete di comunicazioni viarie e soprattutto sull’evoluzione dei provvedimenti governativi in fatto di materia economica, come l’abolizione di molte norme tradizionali di stampo mercantilistico e di altre limitazioni e dazi che gravavano sugli scambi commerciali con l’estero. Erano questi stessi princìpi britannici a diventare, nei progetti e nei dibattiti dei consessi, i nuovi elementi dinamici della Sicilia agraria ottocentesca che, se sviluppati, avrebbero in ogni caso realizzato quei necessari "surplus" agricoli-capitalistici tali da porre la realtà territoriale siciliana come produttrice ed esportatrice di materie prime e derrate agricole, in un mercato allargato dagli angusti limiti di quello interno poco redditizio(73).
L’uomo non può esser ricco che a forza di fatica e di combinazioni intellettuali, non può esser ricco che migliorando se stesso, la condizione sua economica, il suo viver civile, le sue relazioni sociali.(…) Un popolo industrioso è un popolo pacifico, dedito alle arti primitive, all’agricoltura, alla pastorizia, alla mineralogia, alla caccia, alle arti meccaniche. Un popolo industrioso ama la scienza, ama la dottrina, ama l’uguaglianza: ama la scienza, non quella dè sedicenti dotti i quali fan consistere tutto il loro sapere nel possesso di un gergo scientifico che è tanto lontano da essere scienza, ma la vera solida dottrina che soddisfa la ragione(74).
In campo manifatturiero, molte riflessioni delle Società mettevano in discussione buona parte della politica economica realizzata nell’isola dal Governo borbonico, soprattutto quella ruotante intorno alle misure protezionistiche ed alla legge del 1824 sul libero cabotaggio fra Napoli e la Sicilia, accusata di condannare l’isola ad un ruolo subalterno e contraddittorio: fornitrice di materie prime per le industrie napoletane e mercato dei loro stessi manufatti e la mancanza di una libera commercializzazione di alcuni prodotti. La situazione manifatturiera era considerata carente per i prodotti necessari e bisognevole di incoraggiamenti per i rami già esistenti. Per uscire fuori da questa situazione strutturale e certamente non in linea con i canoni economici europei, i membri societari proponevano, in primo luogo, una politica premialistica relativa alla costruzione di nuovi artefatti, l’abolizione di dogane commerciali interne, la libera esportazione delle produzioni locali, l’abbattimento dei vincoli e dei dazi sul gioco importazione-esportazione dei manufatti e la valorizzazione di una moderna struttura viaria tra le province siciliane. Questi elementi definivano ora delle nuove regole in grado di fissare i contorni di un’economia politica allargata che, riguardando sia l’agricoltura che l’economia civile in senso stretto, si proponeva di essere la nuova base teorica e pratica della politica interventista-industrialista promossa dal Governo borbonico. Più in generale va osservato che gran parte degli sforzi attuati dai membri societari, in tema di manifatture, erano rivolti a condannare idee economiche troppo estreme. Come già era successo nell’ambito relativo all’economia rustica, in cui le riflessioni delle Società facevano del mercantilismo e della fisiocrazia – apparentemente teorie economiche inconciliabili – un’unica fonte dalla quale attingere i princìpi generali dei loro progetti economici, così, anche nel campo dell’economia civile, vale a dire quello manifatturiero, accadeva la stessa cosa. L’estrema divergenza tra liberismo e protezionismo, infatti, significava ragionare per termini astratti, senza tenere in debita considerazione la particolare situazione delle possibilità produttive della Sicilia. La generale e più diffusa fede liberista dei soci, infatti, cedeva il passo anche ad un’attenta visione del ruolo dello Stato al quale veniva riconosciuto il compito di sostenere le manifatture con concessioni di vario genere: un’adeguata politica protezionistica-difensiva dei prodotti isolani, la concessione di privative, costanti prestiti finanziari e incentivi capitalistici. In questo contesto, insomma, l’obiettivo di non pochi soci delle Società, diventava quello di ristabilire un equilibrio tra le varie sorgenti produttive, puntando sul progresso della stessa agricoltura e, da qui, sulle manifatture e sul commercio, intesi come i nuovi settori "strategici" per lo sviluppo economico della Sicilia(75). Quindi, il dibattito societario sulle manifatture, che dato il suo inevitabile legame con la struttura agraria diventava più corretto parlare di uno sviluppo "proto-industriale" che manifatturiero in senso stretto, rispecchiava, in molti casi, l’esigenza di non rivoluzionare totalmente né gli equilibri sociali né i rapporti economici preesistenti, ma avvalorava un progresso che fosse competitivo ma graduale, deciso ma equilibrato, tipico, in pratica, di un paese "second comers"(76).
Sul compito della realizzazione pratica le Società avevano cercato in ogni caso di mantenere l’equilibrio naturale delle loro rispettive province, lavorando solo sui prodotti e sulle relative manifatture di punta della realtà siciliana ottocentesca, non tenendo in considerazione altre iniziative tendenti ad impiantare ex novo ulteriori attività industriali: quest’ultimo punto dava, infatti, adito ad un’interpretazione troppo superficiale dell’operato societario. Il quadro manifatturiero presentato dalle Relazioni delle Società del 1845, poneva in risalto la centralità assunta dall’industria artigianale, dal settore agrumario e da quello enologico, tanto che per buona parte del XIX secolo costituiranno gli unici settori forti dell’intera economia siciliana, caratterizzata dal crollo della produzione e dell’esportazione delle attività tradizionali, come la granicoltura e l’industria tessile. Malgrado la forte concorrenza dei vini francesi e spagnoli, la produzione di quelli catanesi e messinesi diventavano sempre più richiesti sui mercati extraprovinciali e internazionali(77). Le esportazioni di agrumi e dei loro derivati, ruotavano proprio intorno a Messina, Catania e Palermo, dove la produzione di agro di limone, agro cotto ed altre essenze, avveniva in piccoli ma efficaci opifici disseminati nelle periferie provinciali(78). Altre piccole attività riguardavano la produzione del sommaco, la fabbricazione dei tabacchi e il rilancio della coltivazione della canna da zucchero(79). Accanto a questa situazione, caratterizzata, però, dalla mancanza di progressi sotto il profilo tecnologico, si poneva il mancato decollo delle attività manifatturiere tessili. Messa in buona parte in ombra dalle Relazioni dei consessi, la produzione tessile della Sicilia orientale, infatti, presentava scarse possibilità di sviluppo, non solo perché dipendeva principalmente dal mercato locale, relativamente povero, ma anche perché non poteva reggere la forte concorrenza straniera che riusciva ad imporre prodotti di qualità maggiore a prezzi competitivi. In ogni caso, il settore tessile sul quale si cercava di incentivare maggiormente, era quello del cotone, attivo sia a Catania che a Messina, dove lo stabilimento più importante apparteneva ai fratelli Ruggeri. Proprio la Società messinese, inoltre, pubblicava a proprie spese un apposito lavoro su come attivare una migliore lavorazione del lino, della canapa e del cotone, al fine di valorizzarne una maggiore qualità(80).
All’interno di questo contesto, quindi, al dibattito delle Società economiche sull’incentivazione dell’attività manifatturiera corrispondeva, solo in parte,una reale e concreta realizzazione sul piano pratico: se per alcuni settori vi era infatti un vero e proprio blocco, per altri doveva altresì parlarsi di arretramento sia rispetto a quanto avveniva in Sicilia nel secolo precedente, sia in relazione alle posizioni raggiunte in quello stesso periodo dagli altri Stati europei(81).
In conclusione, la vita di tali Società era soggetta a continue variazioni e modifiche derivanti da una serie di fattori: come l’interscambio delle personalità che entravano a farne parte, l’evolversi dei processi economici e politici che avevano caratterizzato il periodo di esistenza dei consessi ed il cambiamento del clima culturale in cui affondava le radici ogni prospettiva di visione socio-economica nazionale ed europea. Infatti, l’intera struttura societaria della Sicilia orientale aveva fatto registrare, nel corso di poco meno di trent’anni di attività, una certa varietà di proposte e progetti economici ed era riuscita, inoltre, a gestire – anche dopo la crisi del 1848 che aveva avuto le sue ripercussioni pure sulle Società – una serie di dibattiti e manifestazioni economiche dal tono internazionale. Durante gli anni della loro attività le Società di Catania e Messina avevano subìto vari ridimensionamenti e forme di inoperativismo, che andavano a toccare la già consistente debolezza delle loro funzioni di tramite e di collegamento fra l’azione governativa borbonica ed il tessuto socio-civile. Un’effettiva influenza di tali istituzioni sulle misure di politica economica statale-borbonica, infatti, era stata realizzata soltanto in parte; lasciando, piuttosto, alla libera iniziativa dei proprietari terrieri e dei manifattori siciliani l’accettazione di proposte sulle tecniche colturali, sull’istruzione agronomica e sulla incentivazione capitalistica a livelli competitivi.
Nonostante tutto, però, le questioni relative al maggese, la visione paternalistica dei rapporti socio-economici, la politica premialistica per promuovere studi e metodi colturali, l’allargamento della produzione agricola ed i dibattiti su un graduale sviluppo manifatturiero, rappresentavano gli elementi portanti dell’unica soluzione possibile per attivare quel processo di diffusione di idee economiche più moderne e di abbattimento di barriere culturali riottose verso ogni forma di novità importata dall’estero. A conclusione dell’intero percorso, si può affermare che questi consessi avevano inciso solo parzialmente sull’intera realtà economica e sociale della Sicilia pre-unitaria, ma raffiguravano, in ogni modo, per la potenzialità isolana dell’epoca, "l’ultima" occasione per promuovere dialoghi e saperi volti a cambiare, o per lo meno tentare di farlo, il volto del paesaggio agrario-produttivo. Con l’arrivo dell’Unità nazionale e del nuovo Governo italiano, si assisteva alla chiusura definitiva delle Società economiche, ma le stesse questioni che erano state al centro del loro operato, spesso incagliato da intoppi burocratici, verranno trasferite in altre sedi e poste all’interno di una nuova forma di associazionismo economico, soprattutto quello polarizzato intorno all’istituzione dei Comizi agrari e delle Camere di Commercio nazionali(82).
NOTE
(1) L’espressione "spazio rurale" è stata utilizzata da P. Villani (a cura di), Trasformazioni delle società rurali nei paesi dell’Europa occidentale e mediterranea: secoli XIX-XX, Napoli, Guida, 1986. Il testo rappresenta un punto importante per la produzione storiografica sulla storia economica, in quanto cerca di individuare i legami tra lo sviluppo agricolo e le istituzioni governative che ne hanno di volta in volta regolato l’attività. Scrive a proposito G. Galasso: "La storia è incalcolabilmente più complessa, multiforme, discontinua, agitata. Come quelli di ogni altra storia, i tempi della storia contadina sono trascorsi anch’essi, nei vari continenti e nelle varie epoche, tra fasi alterne e diverse di prosperità e di miseria, di oppressione o di libertà, di tranquillità o di precarietà. […]. Di qui l’importanza fondamentale della storia istituzionale e il problema cardinale di capire i momenti di segno diverso che possono esprimersi sia attraverso il mutamento delle istituzioni sia all’interno della stessa denominazione istituzionale o del suo progressivo modificarsi". G. Galasso, Mondo contadino e società contemporanea, in Ivi, pp. 3-25, cit. p. 7. Sempre su questa tematica, cfr. A. Massafra (a cura di), Problemi di storia delle campagne nell’età moderna e contemporanea, Roma, Dedalo,1992.
(2) A differenza di quanto è avvenuto, ormai a partire da diversi anni, in gran parte d’Europa, dove le Accademie di agricoltura e le Società economiche sono state al centro di una valutazione storiografica che ha permesso di ricostruirne i tratti essenziali e le loro influenze sulla formazione del pensiero economico, nel caso dell’Italia, ed in modo specifico per la Sicilia, non è stato così. Infatti, anche se talvolta hanno dato luogo a dibattiti di risonanza nazionale ed europea, le Società economiche siciliane sono sempre state colte nel loro carattere prevalentemente locale, e per questo motivo sempre inserite all’interno di una generale visione della realtà economica e degli aspetti sociali della storia siciliana pre-unitaria. Però, un’attenta valutazione storiografica sulle Società economiche è stata offerta da un recente volume che ha posto nuove problematiche ed aperto diverse prospettive di ricerca sul campo dell’associazionismo economico ottocentesco: M. Augello e M. E. L. Guidi (a cura di), Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle società economico-agrarie alle associazioni di economisti, Milano, Franco Angeli, 2000. "Gli storici del pensiero economico che si sono in passato occupati di tali realtà associative non sempre hanno mostrato il giusto interesse per gli aspetti istituzionali ed il loro legame con l’economia politica del XIX secolo" (p. XIX).
(3) G. Albergo, Storia della economia politica in Sicilia, Palermo, Lorsnaider, 1855, pp. 35-36.
(4) Tra gli autori siciliani più significativi che in pieno fermento illuministico settecentesco avevano prospettato l’esigenza di istituire organi governativi come le Società economiche che si occupassero soltanto dello sviluppo e del rilancio concorrenziale dell’economia siciliana, vi erano: Vincenzo Emanuele Sergio, Sull’antico e il moderno commercio di Sicilia, 1762; Pietro Lanza, Memoria sulla decadenza dell’agricoltura nella Sicilia e il modo di rimediarvi, 1785; Paolo Balsamo, Corso di agricoltura economico-politico e teorico-pratico e Gaetano La Loggia, Saggio economico-politico per la facile introduzione delle principali manifatture e ristabilimento delle antiche nel Regno di Sicilia. Su questi autori e la loro influenza sulla realtà economica della Sicilia settecentesca, cfr. O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1977; A. Li Donni, L’influsso delle riforme teresiane sugli economisti siciliani, in "Nuovi quaderni del meridione", 77, 1982, pp. 55-65 e M. Augello, M. Bianchini, G, Gioli e P. Roggi (a cura di), Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina "sospetta" (1750-1900), Milano, Franco Angeli, 1988.
(5) Cfr. Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle due Sicilie, II sem., 1831, pp. 131-161. Ricordiamo che, in seguito a questo decreto, le Società economiche nascevano, oltre che a Catania e Messina, anche in altre province siciliane nate dalla riforma amministrativa del 1817, come a Caltanissetta, Trapani, Siracusa e Girgenti. Con questa nuova istituzione, inoltre, la Sicilia veniva uniformata con la parte continentale del Regno, dove tali consessi erano stati già attivati con il decreto 1441 del 1812, per iniziativa del governo francese napoleonico. Cfr. A. Allocati, Le Società economiche di Calabria, in "Atti del II congresso storico calabrese", Napoli 1960, pp. 409-435 e R. De Lorenzo, Società economiche e istruzione agraria nell’Ottocento meridionale, Milano, Franco Angeli, 1998.
(6) Sui cambiamenti politici, sociali ed economici, avvenuti nel Mezzogiorno ed in Sicilia a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, cfr. E. Pontieri, Il riformismo economico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1961; G. Oldrini, Economia e filosofia nella Napoli di Ferdinando II, in "Studi storici", 2, 1970, pp. 199-228 e G. Pescosolodo, Unità nazionale e sviluppo economico: 1750-1913, Roma- Bari, Laterza, 1998.
(7) Su tutta la ricostruzione storica della problematica agronomica siciliana sotto i Borboni, si veda R. Renda, La Sicilia e le leggi agrarie borboniche, in S. Russo (a cura di), I moti del 1837 a Siracusa e la Sicilia degli anni Trenta, Caltanissetta, Ediprint, 1987, pp. 93-113.
(8) Cfr. Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle Due Sicilie, cit., Titolo I, Capitolo VII, Dell’oggetto dell’Istituto, e della sua divisione in due classi, articolo n. 69, p. 141.
(9) Tutta l’organizzazione e la struttura delle Società economiche siciliane sono contenute nella Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle Due Sicilie, cit., Titoli II-IV, Capitoli XII-XVIII, articoli nn. 125-168, pp. 151-161. Una parte del decreto riguardante l’istituzione delle Società economiche, viene preso in considerazione, per una ricostruzione storico-legislativa del Regno delle Due Sicilie, da L. Tomeucci, Appunti per una storia dell’accentramento burocratico-amministrativo borbonico in Sicilia (1816-1860), Messina, D’Amico, 1957.
(10) Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle Due Sicilie, cit., Titolo II, Capitolo XIV, Delle funzioni degli ufficiali, e dell’obbligo dè soci, articolo n. 146, p. 155.
(11) Le Società economiche europee sono state ampiamente studiate da una parte molto attenta della storiografia non solo economica in senso stretto, ma anche "sociale" ed antropologica, cfr. L. Enciso Recio, Las Societades Econòmicas de Amigos del Paìs, in AA.VV., Le Società economiche alla prova della storia (secoli XVIII-XIX), Atti del convegno internazionale di studi, Rapallo, Azienda grafica Busco, 1996, pp. 49-60; D. Roche, Acadèmies sociètès de culture et èconomie politique dans la France du XVIII siècle, in Ivi, pp. 19-41 e M. Augello e M. E. L. Guidi, The Societes of Political Economy and the Associations of economist. Europe, America and Japan in the XIX century, London, Routledge, 2002.
(12) Su questo aspetto, relativo al legame tra lo sviluppo economico con quello sociale per la formazione di uno Stato moderno, cfr. A. M. Banti e M. Meriggi (a cura di), Elites e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, in "Quaderni storici", 77, 1991 (numero monografico); M. Malatesta, Il concetto di sociabilità nella storia politica italiana dell’Ottocento, in "Dimensioni e problemi della ricerca storica", 1, 1992 (numero monografico) e G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. Le premesse dell’Unità: dalla fine del Settecento al 1861, Roma-Bari, Laterza, 1994. Un rapporto fondamentale che lega le problematiche relative alle Società economiche con lo sviluppo delle nuove forze sociali, è anche al centro del lavoro di M. Augello e M. E. L. Guidi, Da dotti a economisti. Associazioni, accademie e affermazione della scienza economica nell’Italia dell’Ottocento, in ID. (a cura di), Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle Società economico-agrarie alle associazioni di economisti, cit., pp. XXI-XCI. "In sostanza, le Società economiche finiscono per essere il luogo nel quale la sociabilità delle elites e i bisogni economici che esse si propongono di rappresentare si politicizzano, e l’economia politica è il linguaggio nel quale avviene questa metamorfosi. Donde il "sospetto" dei Governi nei confronti della scienza economica e il loro tentativo perenne di ricondurre il dibattito agli intenti pratici e agronomici" ( p. LI ).
(13) Tra i soci della Società economica di Catania vi erano importanti personaggi della vita sociale catanese dell’Ottocento. Salvatore Scuderi, per esempio, formatosi sui testi classici del pensiero francese ed inglese, era diventato, già nei primi anni del XIX secolo, professore di Economia politica presso l’Università di Catania; tra le sue più importanti opere vi erano: Sulle contribuzioni e in generale sul sistema daziario della Sicilia, Catania 1813; Dissertazioni economiche, Catania 1818 e Principi di civile economia, Napoli 1827. Cfr. L. Scuderi, ad vocem, in Le biografie degli uomini illustri catanesi del secolo XVIII, a cura di S. Mirone, Catania, Giannotta, 1881, pp. 204-237. Ma anche Carlo Gemmellaro aveva raggiunto un certo valore intellettuale che lo portava ad essere uno dei più importanti personaggi siciliani dell’epoca: laureatosi in Medicina nel 1808, si era dedicato allo studio della geologia e delle scienze fisico-naturali, arrivando a fondare, insieme ad altri colleghi, la catanese Accademia Gioenia e, a partire dal 1830, insegnerà storia naturale e mineralogia presso l’Ateneo della città. Tra i suoi scritti si ricorda Sopra l’origine e i progressi delle scienze naturali in Sicilia, Catania 1833. Sulla sua figura cfr. P. Corsi, ad vocem, in AA.VV., Dizionario biografico degli italiani, vol. 53, pp. 59-62 e G. Bentivenga, La produzione scientifica a Catania (1800-1860): un’ analisi quantitativa, in P. Nastasi (a cura di), Il meridione e le scienze dal XVI al XIX secolo, Palermo, Ediprint, 1988, pp. 169-176. Su una visione d’insieme della vita intellettuale catanese degli inizi del XIX secolo, si veda, inoltre, V. Percolla, Biografie degli uomini illustri catanesi, Bologna, Arnaldo Forni editore, 1977. (Ristampa anastatica, Catania, F. Pastore, 1842).
(14) Anche nel caso di Messina la Società si vedeva circondata di importanti personalità: Antonio Arrosto (Messina 1778-1846), era un noto botanico che arrivò a fondare a Messina una scuola di botanica dai cui lavori all’interno di essa vedrà la luce lo scritto Prospetto di un trattato elementare di farmacia secondo le cognizioni moderne di Storia naturale e di chimica, Messina 1815. Felice Biscazza (Messina 1809 – 1867), era invece un letterario molto apprezzato e nel 1851 ottenne la cattedra di letteratura italiana presso l’Ateneo peloritano. La sua produzione letteraria è molto notevole, ma spicca, tra le tante opere, la raccolta Leggende ed aspirazioni, Messina 1841. Gaetano Caracciolo (Messina 1786 – 1858) era uno dei più rinomati medici messinesi e pubblicava nel 1840 le Istituzioni di semiologia. Paolo Cumbo (Milazzo 1795 – Messina 1872), laureato in Diritto, dal 1832 era divenuto Sostituto procuratore generale della Gran Corte Civile di Messina e di Catania. Giuseppe Falconieri (Messina 1805 – 1854), era un letterato, filosofo e giornalista che era entrato poi in contatto con la filosofia di Pasquale Galluppi ed eletto direttore del periodico letterario "Il Maurolico". Luca Scuderi (Messina 1798 – 1858), infine, era un importante scienziato e naturalista, autore di molte opere lette all’interno di varie Accademie e nella stessa Società economica messinese. Su tutti questi e anche altri personaggi della nuova vitalità socio-economica della Messina dell’Ottocento, cfr. M. Canto, Dizionario degli uomini illustri messinesi, Lodigraf, Lodi, 1991 e M. D’Angelo e L. Chiara (a cura di ), Pietro Pretaino. Biografie cittadine, Messina, Perna, 1994.
(15) ASP, Ministero e Real segreteria presso la Luogotenenza generale, interno (MLI), b. 1945, fasc. 59. Ancora più drammatica risultava, ad esempio, la situazione a Siracusa dove, l’Intendente della Valle, barone Montenero, scriveva al Ministro Mastropaolo chiedendo più tempo, necessario per compilare la prima lista dei soci. "Qualunque sia il processo rapido che faranno gli uomini di lettere, o inclinati ad un commercio nella nuova strada che la saggezza del governo loro apre, tuttavia pel momento si scarseggia di uomini istruiti nella teoria e nella pratica dell’agricoltura, delle arti e delle manifatture. Il tutto organizzandosi, facilmente ne conoscerà il governo le cause: le stesse Società diranno che in questo capovalle non vi è mai stata una cattedra di economia sia naturale sia civile: per la pratica alla quale si addice per spinta di circostanze, vi sarebbero molte ragioni a dire. Il colossal possidente d’interminabili tenute non attende al miglioramento dei suoi fondi: il nulla-tenente non sa dove impiegare le sue speculazioni". (ASP, MLI, b. 1975, fasc. 59 ).
(16) Il ruolo assunto dalla borghesia risulta molto importante per capire i diversi cambiamenti in senso moderno avvenuti nella storia della società e dell’economia, cfr., ad esempio, A. Signorelli (a cura di), Le borghesie dell’Ottocento. Fonti, metodi e modelli per una storia sociale delle elites, Catania, Sicania, 1988. Partendo dal caso specifico di Messina, un’analisi generale del ruolo borghese viene anche offerto da A. Checco, Messina: alle origini di una identità perduta, in R. Battaglia (a cura di), I segni della memoria. Messina nell’Ottocento, Messina, Perna, 1994, vol. IV, pp. 3-43. Infine, si veda B. Salvemini, Note sul concetto di Ottocento meridionale, in ID., L’innovazione precaria. Spazi, mercati e società nel Mezzogiorno tra Sette e Ottocento, Roma, Donzelli, 1995, pp. 3-32.
(17) C. Maravigna, Sui mezzi che debbonsi adottare dalle economiche Società per la promozione dell’agricoltura, delle arti e dell’industria nazionale, in Discorsi pronunciati dal presidente, dal vicepresidente e dal segretario perpetuo della Società economica della valle di Catania, Catania 1834, p. 16, in B. U. R. C.
(18) All’interno della Società economica di Catania, dove comunque il numero delle memorie scritte e dibattute era maggiore rispetto a quelle delle altre Società, i membri che avevano in primo luogo posto al centro delle loro riflessioni il ruolo identificativo delle Società, erano, oltre a quello già citato, i seguenti: A. Bonanno, Rapporto dei lavori dell’anno undicesimo della Società economica della provincia di Catania, Catania 1843; C. Gemellaro, Inaugurazione della tornata della Società economica della provincia di Catania nel dì 30 maggio 1850, Catania 1850; A. Longo, Discorsi pronunziati nella generale adunanza della Società economica di Catania del 30 maggio 1853, Catania 1853 e ID., Relazione dei lavori della Società economica della provincia di Catania nell’anno accademico 1857-1858, Catania 1858. Tutte le relazioni sono in B. U. R. C.
(19) S. Scuderi, Discorso per l’inaugurazione della Società economica della Valle di Catania, Catania 1832, p. 2, in B. U. R. C.
(20) Ivi, p. 13. Sulla figura di S. Scuderi, si veda L. Scuderi, ad vocem, in Le biografie degli illustri catanesi del secolo XVIII, cit., pp. 204-237. Sul rapporto specifico tra il pensatore catanese e la sua attività all’interno del consesso, cfr. L. Petino, L’opera della "Società economica" nella Catania borbonica (1832-1859), in "Annali del Mezzogiorno", 2, 1977, pp. 107-143.
(21) P. Cumbo, Per la solenne inaugurazione della Società economica di Messina. Orazione parenetica, Messina 1833, p. 24, in B. U. R. M.
(22) Ivi, p. 57.
(23) F. Bisazza, Relazione dei lavori del primo biennio della Società economica di Messina, in "Effemeridi scientifiche e letterarie e lavori del Reale Istituto d’incoraggiamento per la Sicilia", tomo XI, anno III, Palermo 1834, pp. 27-36. La creazione delle Società economiche aveva avuto larga eco in molti giornali della Sicilia, nel caso di Messina, ad esempio, le sue finalità – legate allo sviluppo dell’agricoltura, all’istruzione agraria ed ai premi incentivanti per la produzione – erano state salutate con grande entusiasmo: "Fra le opere che onorano più altamente la patria e cooperano a questo incremento di civiltà si è oggi il Reale Istituto d’incoraggiamento e le Società economiche […]. La libera e solenne esposizione, che nella gran sala del Reale Istituto d’incoraggiamento in Palermo si vuol fare ogni due anni di tutte le nuove invenzioni, è una delle principali e potenti cagioni del nostro miglioramento" (C. Gemelli, Relazione, in "Il Faro", anno IV, tomo II, Messina 1836, p. 4 ).
(24) G. Grano, Parenesi letta dal presidente della Società economica di Messina nella solenne distribuzione dè premi il dì 4 luglio 1836, Messina 1836, in B. U. R. M. "Ben poche istituzioni possono tendere al pubblico utile della nostra isola, quanto questa, e le installazioni delle Società economiche nelle Valli, che sotto gli auspici di questo Reale Istituto, da cui dipendono, cooperano ancora al rifiorimento delle nostre condizioni con promuovere e migliorare i prodotti delle nostre fatiche. Da questo nobile officio vedremo aprire la via alla pubblica prosperità, e man mano vedremo, senza vane illusioni, l’incremento delle nostre condizioni vivificarsi, prosperando con ciò primieramente il nostro commercio". (p. 7).
(25) Nel proporre tale scuola di agricoltura, il socio corrispondente della Società messinese, dr. Giuseppe Barresi, scriveva: "La principale risorsa dei paesi, come anche dei vicini Milazzo, S. Lucia e Castroreale posa sull’agricoltura: abbondano essi del pari delle terre a seminati, ad aranci, a limoni, ad olivi, a vigneti, a gelsi, a fichi, a canne, ed a non poche altre piante indigene e di primario bisogno. E terre e piante reclamano seria attenzione e miglioramento, fa d’uopo una volta fugare gli abusi e restituire la Sicilia in mezzo alle nazioni veramente agricole. Non si conoscono ruote di raccolte, strumenti agrari, si ignorano la marna e l’argilla, e tutte altre nuove specie di concime, potature e metodo e tempo delle stesse: insomma tutto ciò che oggi ha fatto sedere l’agricoltura al lato delle altre scienze, le teorie, io dico bene applicate alla pratica: una mano di dotto agronomo che dalla cattedra alla campagna sa guidare il giglio del contadino e dire due paroline all’orecchio del proprietario". G. Barresi, Progetto di una scuola di agricoltura pè dui comuni di Pozzo di Gotto e di Barcellona, in "Lo spettatore zancleo", II, 4 Aprile 1834, pp. 340-341. Sul rapporto tra le Società economiche e l’istituzione di scuole pratiche di agricoltura, si veda G. Lo Giudice, Le conoscenze agrarie e la loro diffusione in Sicilia tra l’800 ed il ‘900. L’istituto agrario castelbuono di Palermo, Napoli, Arte tipografica, 1988.
(26) A. Bonanno, Relazione dei lavori dell’anno decimottavo della Società economica della provincia di Catania letta nell’adunanza generale del 30 maggio 1850, in Discorsi letti nella Società economica della provincia di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1850 faustissimo giorno onomastico di sua Real Maestà Ferdinando II Re del Regno delle Due Sicilie, Catania 1850, p. 17, in B. U. R. C.
(27) Il rapporto politico e sociale tra Stato e territorio in età moderna, è al centro di un interessante studio svolto da R. De Lorenzo, Strategie del territorio e indagini statistiche nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, in ID. (a cura di), L’organizzazione dello Stato al tramonto dell’Antico Regime, Napoli, Morano, 1990, pp. 129-185.
(28) Circa il ruolo giocato dall’ambiente naturale nella sua evoluzione storica per lo sviluppo della realtà socio-economica siciliana, si veda C. Caldo, Il territorio: strutture urbane e rurali, in AA.VV., Storia della Sicilia, Napoli, Società editrice storia del Mezzogiorno, 1978, vol. VII, pp. 3-20 e ID., Aspetti e problemi economici della rete urbana siciliana, in "Annali del Mezzogiorno", 3, 1974, pp. 179-221.
(29) G. La Farina, Pubblicazione della discussione della seduta straordinaria della Società economica di Messina, in "Spettatore zancleo", II, 18 Febbraio 1834, pp. 220-221.
(30) P. Cumbo, Per la solenne inaugurazione della Società economica di Messina, cit., p. 32.
(31) A. Bonanno, Relazione dei lavori dell’anno ventesimo della Società economica della provincia di Catania letta nell’adunanza generale del 30 maggio 1852, in Discorsi letti nella Società economica della provincia di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1852 faustissimo giorno onomastico di sua maestà Ferdinando II, Catania 1852, pp. 13-14, in B. U. R. C.
(32) G. Grano, Parenesi letta dal presidente della Società economica di Messina, cit., pp. 9-10. Sul ruolo giocato dal settore economico nel corso dell’Ottocento nelle varie regioni italiane, si veda M. Romani, Storia economica dell’Italia nel secolo XIX: 1815-1822, Bologna, il Mulino, 1982.
(33) A proposito dell’istituzione del Ministero di Agricoltura, Arti e Commercio, all’interno della Collezione delle leggi e dè decreti, II sem., 1847, si legge: "L’agricoltura ed il commercio cessando di far parte del Ministero e Real Segreteria di Stato degli affari interni, costituiranno un Ministero separato (articolo 1). Faranno parte di esso Ministero le manifatture, gli Istituti d’incoraggiamento, le Società economiche le miniere, la pesca, l’annona, i pesi e misure, la salute pubblica e la pastorizia (articolo 2). La pubblica istruzione, i musei, gli scavi, gli istituti di belle arti, le case di educazione, le scienze, le scuole, le Società e le Accademie corrispondenti, e le biblioteche, ed altro che gli appartenga, saranno per ora riunite a questo Ministero" (articolo 3). (pp. 138-139).
(34) Archivio di Stato di Napoli, Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, fascicolo n. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. (D’ora in poi ASN, MAIC).
(35) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(36) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania. Un aspetto delle varie differenze geografiche della provincia catanese, importanti per un suo sviluppo economico, agricolo e manifatturiero in età moderna, viene tracciato da G. Giarrizzo, Catania, Roma-Bari, Laterza, 1986.
(37) "I grani ed i legumi sono nella provincia di buona qualità da stare ai passi con quelli forestieri. Ma si potrebbero sempre più migliorare, migliorandone la coltura ed introducendone delle nuove specie" (ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania). Su questa tematica, cfr. I. Fazio, La politica del grano. Annona e controllo del territorio in Sicilia nel Settecento, Milano, Franco Angeli, 1993.
(38) Ivi. Si ricorda, a tal proposito, che gli agrumi, proprio nel corso dell’Ottocento, divengono il prodotto più importante dell’economia agraria dell’intero Mezzogiorno e della Sicilia in particolare, cfr. S. Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: la vicenda degli agrumi siciliani, in "Meridiana", 1, 1987, pp. 81-112.
(39) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania.
(40) Ivi.
(41) Ivi. La necessità di nuovi strumenti tecnici era stata avanzata, già a partire dal 1836, dal segretario della Società Alfio Bonanno, che, all’interno di una sua memoria faceva riferimento, oltre che a modelli provenienti da altre regioni, anche a nuovi macchinari inventati dal catanese Francesco Giuffrida. Cfr. A. Bonanno, Rapporto dei lavori del quarto anno della Società economica della Valle di Catania, in Discorsi pronunziati dal presidente, dal vicepresidente e dal socio segretario perpetuo della Società economica della Valle di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1836, cit., p. 65. Si veda, inoltre, per un approfondimento storiografico sul tema, C. Poni, Gli aratri e l’economia agraria dal XVII al XIX secolo, Bologna, il Mulino, 1973.
(42) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania.
(43) Circa la scoperta e l’utilizzo di nuove pratiche agricole, al fine di aumentare la produzione e l’esportazione dei prodotti agricoli, all’interno dell’intera struttura sociale dell’Ottocento, cfr. G. Corona e G. Masullo, La terra e le tecniche. Innovazioni produttive e lavoro agricolo nei secoli XIX e XX, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 353-449.
(44) Cfr. A. Bonanno, Relazione dei lavori dell’anno decimottavo della Società economica di Catania, in Discorsi letti nella Società economica della provincia di Catania, Catania 1850, cit., pp. 25-26. Nel 1857, inoltre, il socio corrispondente Carmelo Sciuto Patti, consigliava, in un discorso Sull’utilità del drenaggio in talune terre della piana di Catania, di stimolare la produzione dei terreni catanesi mediante un’efficace opera di drenaggio, come avveniva già in Inghilterra, in Francia ed in Belgio. Cfr. A. Longo, Relazione dei lavori della Società economica della provincia di Catania nell’anno accademico 1857-1858, Catania 1858, pp. 5-6, in B. U. R. C.
(45) Su questo punto, si veda C. Maravigna, Sui mezzi che debbosi adottare dalle Società economiche per la promozione dell’agricoltura, delle arti e dell’industria nazionale, in Discorsi pronunziati dal presidente, dal vicepresidente e dal segretario della Società economica della Valle di Catania, Catania 1833, in B. U. R. C. Si veda, inoltre, A. Bonanno, Rapporto dei lavori dell’anno decimoterzo della Società economica di Catania, in Discorsi letti nella Società economica della provincia di Catania, Catania 1845, cit.
(46) "Non potendosi recare a miglioramento qualunque sia industria campestre, o manifattura senza istruzione, il prof. Maravigna si fa a mostrare la necessità di un catechismo agrario sì per colino sì per gli allievi, con una raccolta di pratici insegnamenti, adattando le idee ed il linguaggio alla capacità di coloro cui è destinata la istruzione. Oltre a ciò, per innalzare l’edificio della prosperità regionale sopra solide fondamenta, l’autore fa conoscere quanto sia necessario d’istruire né nostri licei e collegi d’arte Cattedre di agricoltura teorica e pratica e di chimica applicata alle arti, impegnandosi dal Governo l’obbligo di andarvi a studiare coloro che sono destinati a dirigere i diversi generi d’industria sì agronomica, come manifatturiera" (ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania).
(47) Tutte le altre memorie che la Relazione del 1845 riportava, affrontavano diversi elementi ma ancorati allo stesso ambito di miglioramento, valorizzazione ed incremento della produzione agricola: come l’importazione di vitigni esteri, la coltivazione del mais, del riso e delle patate americane, l’introduzione di nuove specie di lino, miglioramenti nella coltivazione degli uliveti, opere di recupero dell’area boschiva, bonifica dei terreni e suggerimenti per incrementare le manifatture. Su tutti gli altri titoli delle memorie cfr. Ivi.
(48) Ivi. Un importante lavoro storiografico su tutte le attività agricole e commerciali di Catania, dall’espansione economica del XVIII secolo, attraverso gli anni dell’occupazione britannica, fino alle premesse dello slancio post-unitario, viene proposto da A. Petino, Aspetti e tendenze della vita economica pre-unitaria tra il Sette e l’Ottocento, in ID., Catania contemporanea, Catania, Università degli studi, 1990, pp. 233-296. Si veda, inoltre, S. Cassar, Catania. L’economia tra il XVIII e il XX secolo, Catania, Le Nuove Muse, 2000.
(49) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(50) Pietro Cuppari, nato nella provincia di Messina nel 1816 da una famiglia di ricca possidenti, subito dopo la laurea in Medicina aveva intrapreso un viaggio studio per l’Italia e l’Europa, richiesto come requisito indispensabile per concorrere all’attribuzione di una cattedra di agronomia, per la prima volta istituita a Messina nella prima metà del XIX secolo. Durante il suo viaggio, comunque, una delle tappe fondamentali era stata Meleto, dove aveva stabilito contatti sia con Cosimo Ridolfi – che gli succedeva alla cattedra di agronomia e pastorizia all’Università di Pisa – che con tutto il gruppo di lavoro del "Giornale agrario toscano", che accoglieva molte dei suoi studi sull’agricoltura europea. Tra i suoi scritti, si ricordano: Considerazioni intorno all’insegnamento agrario, Firenze 1863; Lezioni di economia rurale, opera uscita negli anni ottanta dell’Ottocento e Lezioni di agricoltura, pubblicata in più edizioni a Pisa. Sul profilo dell’agronomo messinese, cfr. L. D’Antone, L’intelligenza dell’agricoltura. Istruzione superiore, profili intellettuali e identità professionali, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, cit., pp. 391-425.
(51) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(52) "Il metodo ordinario è quello di raccogliere le uve dei più estesi vigneti senza risceglierne la diversa natura […] bisognerebbe invece scegliere viti che siano tutte della medesima qualità affine che si purghino degli acini infradiciati e che gli altri siano pigiati perfettamente" (Ivi).
(53) Ivi. Diverse valutazioni sulla situazione agraria della provincia di Messina, in quegli anni, venivano riportate anche da numerosi giornali di carattere politico-economico; in questo caso, per esempio, F. L. Fulci, pubblicava su "Il Faro", un lungo saggio, intitolato Sull’attuale stato agrario della parte settentrionale della Valle di Messina, in cui affermava: "S’è noto proposito, ragionando delle cose agrarie, fermarci particolarmente su quegli alberi, e quelle piante, che già nelle nostre terre si coltivano, incominciar certamente dobbiamo dall’olivo, che per un misterioso sentire fu dagli antiche alla sapienza consacrato, e che sopra gli altri, ottenne la primizia dal gran Columella, perché s’è sempre considerato come sorgente di vera dovizia. […] Lo troviamo in ogni terreno, lasciandolo però in braccio alla ventura, e praticandogli quella coltivazione errata che per un’antica consuetudine i nostri padri ci han tramandata" ("Il Faro", IV, II, Marzo 1836, pp. 283-295; citazione p. 290).
(54) ASN MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(55) Ivi.
(56) Parte di questa vasta operazione, che avrebbe consentito alla provincia messinese di recuperare vasti terreni, era stata solo marginalmente accennata dalla Relazione del 1845, ma i suoi risultati, saranno successivamente raccolti in un apposito opuscolo pubblicato a spese della stessa Società. Cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina. Si veda, pure, Rapporto alla Società economica della provincia di Messina dal comitato eletto dalla stessa sulla coltura delle terre bonificate al Faro, Messina 1846, in B. U. R. M., dove si legge: "Nell’antagonismo dell’uomo e della natura, la scienza è l’elemento indispensabile dell’umano potere. Rivelandosi per essa le leggi dei naturali fenomeni è data all’uomo facoltà di volgerli a suo profitto e colle leggi della natura vincere la natura e dominarla. […] Da ciò abbiamo additato che maniera di coltivazione possa adottarsi alla colmata già fatta nelle terre dei margi, sì che assicuri la pubblica salute, e riunisca ad una volta il miglior vantaggio dell’imprenditore". (p. 7).
(57) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina. La memoria inerente al progetto di G. Rapisardi Console, era stata pubblicata dalla Società col titolo Sulla bonificazione dei terreni in pendìo e descrizione geognostica ed idrografica della provincia di Messina, Messina 1850, in B. U. R. M. "La sola idea, senza essere egoista, di non potere vedere il frutto dell’opera delle sue mani, opprime l’agricoltore, quindi, il rimboschimento delle montagne in qualunque modo vorrebbesi effettuare, scegliendo qualunque specie di alberi, anche i più precoci nello sviluppo, sempre porterebbe grande vantaggio". (p. 11).
(58) I boschi messinesi, erano presenti, oltre che sui vicini Monti Peloritani, anche nei circondari di S. Stefano di Camastra e di S. Fratello. Cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina. La politica agraria "boschiva", che in qualche maniera stava cercando di attuare la Società economica di Messina, rappresentava la giusta linea di continuità degli interventi legislativi del 1811 e del 1819, applicati nel Regno di Napoli al tempo del decennio francese, concernenti la creazione dell’Amministrazione generale delle Acque e delle Foreste, a cui veniva interamente delegata la gestione del problema forestale. Su questo aspetto, cfr. R. Pasta, Il mercato e la legge: la legislazione forestale italiana nei secoli XVIII e XIX e W. Palmieri, Il bosco nel Mezzogiorno preunitario tra legislazione e dibattito, in P. Bevilacqua e G. Corona (a cura di), Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Roma, Donzelli, 2000, pp. 3-26 e 27-62.
(59) La diffusione delle chimica era infatti il progetto generale che accomunava tutte le Società economiche siciliane, tanto che tutte le Relazioni del 1845 ne avevano messo in risalto l’importanza, cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Nel caso specifico di Messina, le memoria sulla chimica di F. Arrosto veniva pubblicata a spese della Società, si veda F. Arrosto, Sopra l’origine della chimica e dè suoi progredimenti, Messina 1835, in B. U. R. M. Un estratto del saggio dell’Arrosto veniva pubblicato, in più parti, anche dal giornale messinese "Lo spettatore zancleo", I, 8 gennaio 1835, pp. 3-7 e 14 gennaio 1835, pp. 9-12. Lo scritto di G. Liebig, al quale il medico messinese faceva riferimento, era intitolato Nuove lettere sulla chimica considerata nelle sue applicazioni all’industria, alla fisiologia e all’agricoltura, che cominciava in quel tempo ad essere diffuso anche in Sicilia.
(60) Cfr. L. Majsano, Saggio sulla geologia, comunicato alla Società economica di Messina e all’Istituto d’incoraggiamento di Palermo, in "Il Faro", VI, IV, 16 marzo 1838, pp. 15-27.
(61) Alla memoria del socio G. Interdonato, rispetto a tutte le altre, veniva data una posizione di rilievo dalla Relazione societaria del 1845, considerata come la più completa e rispondente ai generali princìpi dell’agronomia europea, cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina. L’intera memoria, inoltre, veniva anche pubblicata a più riprese dal giornale messinese "Il maurolico", dal fascicolo II del giugno 1841 al fascicolo VI dell’ottobre 1841. "Per nostra mala sorte i Siciliani fittaioli son gente, che crede tutto doversi alla pratica, e di altro non far mestieri. Essi non leggono, non confrontano le varie culture, perlocchè affezionatissimi sono a quella ricevuta dai loro padri.[…] Essi non ascoltano la voce dello scienziato, perché non la intendono, e spessonè anco quella della ragione, perché il pregiudizio, l’abitudine e la loro timida ignoranza nol consentono". (G. Interdonato, Sulla migliore e più economica coltura dei frumenti in Sicilia, in "Il maurolico", fascicolo II, giugno 1841, p. 69).
(62) Tra le altre memorie, venivano ricordate anche le seguenti: Sulla estirpazione delle cavallette di Luca Scudery; Memoria sugli ingrassi di Lisi da Raccuia; Sul modo più acconcio di bonificare i terreni di Lorenzo Majsano; Alcuni cenni sul carbon fossile di Pietro Campanella; Sul gelso delle Filippine e Alcuni metodi della macerazione del lino e della canapa di Vincenzo Ferrara e Piano formato per ovviare alle miserie migliorando la pastorizia, l’agricoltura, le arti e il commercio dei soci Giuseppe Falconieri, Lorenzo Majsano e Francesco Arrosto. Su una visione completa delle memorie cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(63) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina.
(64) Cfr. Monitore economico tecnologico agrario della Società economica della Valle di Messina, anno II, 1, 2 gennaio 1834, p. 1. La notizia della pubblicazione, a Messina, del Monitore, veniva diffusa anche da diversi giornali dell’epoca. Si veda, ad esempio, "Lo spettatore zancleo", II, febbraio 1834, pp. 346-348.
(65) Bisogna ricordare, in questo contesto, che gran parte dei giornali delle Società economiche del Mezzogiorno, sorgevano quasi sempre molto tardi rispetto all’istituzione delle Società stesse, per problemi finanziari o politici e, molto spesso, si interrompevano e si cessavano le pubblicazioni per qualsiasi motivazione, che poteva essere sia una crisi politico-sociale che l’incuria e l’inoperatività degli stessi soci. Una volta sorti, comunque, i giornali societari erano in collegamento tra di loro, sia perché all’interno di un giornale venivano spesso pubblicati articoli di studiosi e membri di Società appartenenti ad altre regioni rispetto a quella di appartenenza del giornale, sia perché i giornali stessi venivano scambiati con altri, stranieri ma soprattutto con quelli della stessa area meridionale, di cui i più diffusi erano: Giornale degli Atti e della Società economica di Capitanata; Giornale economico-letterario della Basilicata; Giornale economico-rustico ad uso dei coltivatori del Molise e Giornale economico di Principato Ultra. Sul ruolo della stampa specializzata in ambito societario, cfr. R. De Lorenzo, Società economiche e istruzione agraria nell’Ottocento meridionale, cit.
(66) La suddivisione del Monitore messinese in un ambito agronomico ed in un altro manifatturiero, rispecchiava, d’altra parte, quella in cui era ripartito tutto l’operato della Società economica, relativo in "economia rustica" ed "economia civile". Cfr. Collezioni delle leggi e dè decreti, II sem., 1831, Titolo II, Capitolo XVI, Delle classi componenti le Società economiche, articoli nn. 153, 154 e 155, p. 157.
(67) Su questi lavori, che trovavano larga eco presso il ceto contadino, cfr. ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina e Monitore economico tecnologico agrario della Società economica della Valle di Messina, cit., II, dal numero 1 del 2 gennaio 1834 al numero 14 del 16 luglio 1834. Circa la pubblicazione di importanti saggi di argomento agrario da parte di studiosi di altre istituzioni, il Monitore pubblicava, ad esempio, una memoria di Pietro Bambagini Galletti, letta all’Accademia dei Fisiocratici di Siena, sulle nuove condizioni terriere da adottare da parte dei proprietari terrieri. Mentre, in ambito regionale, pubblicava molte memorie di soci della Società economica di Catania. Cfr. Monitore economico tecnologico agrario della Società economica della Valle di Messina, cit., II, 23, 1 dicembre 1834, pp. 2-4 e 8, 16 aprile 1834, pp. 1-3.
(68) La notizia del concorso, promosso dalla Società, ed il relativo risultato, venivano comunicati attraverso le pagine del Monitore: "L’ottimo nostro presidente volle di propria volontà fondare un premio di ducati cento per chi prestasse la migliore monografia degli agrumi trattata relativamente alla botanica, all’agricoltura ed all’economia commerciale. […] E nell’ordinaria tornata dè 25 dell’or decorso giugno, già la commissione eletta ad esaminare tutti i lavori presentati alla Società, venne a fare rapporto intorno la monografia di un anonimo autore, e dopo la lettura del rapporto si rinvenne appartenere questa monografia al nostro socio onorario DR. Francesco Arrosto". (Cfr. Monitore economico tecnologico agrario della Società economica della Valle di Messina, cit., II, 13, 1 luglio 1834, pp. 1-2). Sulla vicenda economica siciliana dell’Ottocento, relativa alla produzione ed alla commercializzazione degli agrumi, cfr. R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1950, in particolare il capitolo VII, "La società e l’economia siciliana dopo l’abolizione della feudalità", pp. 161-232.
(69) Francesco Arrosto iniziava la sua lunga memoria con un tono espositivo ricco di buoni propositi: "Gli agrumi sono quegli alberi, che per l’eleganza dè loro rami, per la varietà dei fiori che di continuo tramandano soavissimi profumi, per lo colore bello e vago dè frutti e per le grate loro benefiche qualità, sono venuti in pregio presso tutte le nazioni. […] In guisa che le corrispondenze di Commercio si vennero coll’andar degli anni dilatando, la coltura di simili alberi pervenne nella Grecia, nella Sicilia, nella Sardegna e in tutte le parti dell’Italia meridionale". (Cfr. F. Arrosto, Monografia degli agrumi trattata relativamente alla botanica, all’agricoltura e all’economia commerciale). L’intera opera veniva pubblicata in più parti dal Monitore, dal numero 13 del 1 luglio 1834 al numero 20 del 16 ottobre dello stesso anno. La citazione è tratta dal Monitore, II, 13, 1 luglio 1834, p. 2. Ampi riferimenti al lavoro, inoltre, venivano fatti anche dal giornale messinese "Lo Spettatore zancleo", III, 22, aprile 1835, pp. 121-126. Cfr. anche ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Messina. Ricordiamo che saranno proprio le tante richieste derivanti dai mercati internazionali a determinare, nel corso dell’Ottocento, l’allargarsi del settore agrumario siciliano. "L’aria agrumaria egemonizzata da Messina è meno compatta, ma senza dubbio più ampia di quella che gravita a metà Ottocento attorno a Palermo. I due porti controllano quasi tutto il traffico; segue, ma sino al nuovo secolo a grande distanza, Catania. Se Palermo attrae la produzione della Sicilia occidentale, verso le città dello stretto convergono, oltre ai frutti della stessa provincia di Messina, gli agrumi calabresi, e quelli della nuova, grande zona di produzione degli anni dopo l’Unità, il comprensorio di Acireale" (S. Lupo, Tra società locale e commercio a lunga distanza: la vicenda degli agrumi siciliani, in "Meridiana", 1, 1987, pp. 81-112; citazione p. 92).
(70) A. Longo, Dell’influenza dell’industria straniera sul miglioramento ed il progresso dell’industria siciliana, in Discorsi pronunziati dalla generale adunanza della Società economica della provincia di Catania del 30 maggio 1853, Catania 1853, p. 14, in B. U. R. C. Cfr., inoltre, E. Sereni, Agricoltura e sviluppo del capitalismo. I problemi teoretici e metodologici, in "Studi storici", 3-4, 1968, pp. 477-530.
(71) "Or a vincere questi ostacoli, più volte rivelati, il R. Governo è spiegato gran parte del suo beneficio potere. La censuazione del beneficio delle terre venute ai comuni per effetto dello scioglimento delle promiscuità di usi civici, l’alienazione dei beni di ogni natura del Demanio pubblico, dei pubblici stabilimenti, se tornò utile nei tempi della feudalità arrestava il progresso dell’agricoltura, inceppando la terra con indissolubili legami che ne difficoltavano la circolazione. Ma ciò non basta da se solo. Il lavoro dell’uomo deve pure concorrere efficacemente dell’agricoltura". (F. Di Paola Bertucci, Sullo avviamento economico dell’industria agraria siciliana, in Discorsi letti nella Società economica della provincia di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1852, Catania 1852, pp. 56-57, in B. U. R. C.).
(72) "Or, se vorremmo osservare lo stato effettivo dell’industria in Sicilia, troveremmo lo stato nostro al dir loro ben lacrimevole, la nostra agricoltura proprio da far vergogna a culta nazione. […] Certo l’esempio altrui, i progressi dell’industria straniera debbono esserci di sprone per un verso a farci progredire, debbon dall’altro rischiaraci nella via del progresso in modo che sappiamo profittare delle utili invenzioni pellegrine; ma avute sempre riguardo alle nostre circostanze di luogo, di tempo, da nazionalità; e queste considerate sotto il triplice aspetto, economico, fisico e morale". (P. De Luca, Sulla direzione da darsi all’industria di Sicilia e specialmente all’agricola, in Rapporto dei lavori dell’anno undecimo della Società economica della provincia di Catania letto nella seduta generale del 30 maggio 1843, Catania 1843, pp. 150-151, in B. U. R. C.).
(73) L’agricoltura come base per uno sviluppo industriale e l’Inghilterra come referente politico delle altre nazioni europee per un loro percorso economico in fase di crescita, diventavano, nel corso dell’Ottocento, elementi importanti per tutti quei paesi periferici, come nel caso del Regno delle Due Sicilie, che cercavano di porsi sugli stessi livelli di quelli più produttivi. Cfr. F. Sirugo, Per una ricerca su Inghilterra e mercato europeo nell’età del Risorgimento italiano, in "Studi storici", 2, 1961, pp. 267-297; E. Jones, Le origini agricole dell’industria, in "Studi storici", 3-4, 1968, pp. 564-593 e P. Villani, Il capitalismo agrario in Italia (sec. XVII-XIX), in "Studi storici", 2, 1968, pp. 471-513.
(74) A. Longo, Dell’influenza dell’industria sull’incivilimento dè popoli e dell’incivilimento sui progressi dell’industria nazionale, in Rapporto dei lavori dell’anno decimo della Società economica della provincia di Catania letto nella seduta generale del 30 maggio 1842, Catania 1843, pp. 91-92, in B. U. R. C.
(75) Circa le altre memorie incentrate sulle proposte di uno sviluppo manifatturiero, cfr. S. Scuderi, Sui premi decretati per alcune industrie di Sicilia. Discorso pronunciato nella seduta del 30 maggio 1839, Catania 1841; V. Tedeschi, Sui mezzi di favorire in Sicilia i progressi dell’istruzione delle classi produttive, in Discorsi pronunciati nella Società economica della provincia di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1839, Catania 1841 e S. Marchese, Della primaria istruzione del popolo considerata qual precipuo mezzo di migliorare le condizioni dell’industria siciliana, in Discorsi letti nella Società economica di Catania nell’adunanza generale del 30 maggio 1845, Catania 1845, in B. U. R. C. Mentre, agli anni Venti dell’Ottocento risale un importante opera di G. De Welz, intitolata Saggio su i mezzi da moltiplicare prontamente le ricchezze della Sicilia, (Caltanissetta-Roma, ed. Sciascia 1964), scritto proprio al fine di proporre un piano economico che potesse servire al progresso economico italiano ed europeo. Su quest’opera cfr. l’introduzione curata da F. Renda.
(76) Circa la storia dell’industrializzazione europea tra paesi arrivati prima a tale sviluppo e paesi arrivati dopo, cfr. T. S. Ashton, La rivoluzione industriale: 1760-1830, Roma-Bari, Laterza, 1998 e S. Battillossi, Le rivoluzioni industriali, Carocci, Roma 2002. Per il caso specifico della Sicilia, si vedano invece R. Giuffrida, Aspetti dell’economia siciliana nel decennio preunitario, in "Il Risorgimento in Sicilia", 3-4, 1970, pp. 255-294; ID., Tentativi industriali in Sicilia nel primo Ottocento, in "Economia e credito", 1, 1970, pp. 35-50 e C. S. Sabel, La riscoperta delle economie regionali, in "Meridiana", 3, 1988, pp. 13-71.
(77) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania e Società economica di Messina. Negli anni Trenta del XIX secolo l’esportazione del vino passava da poche centinaia di botti l’anno a parecchie migliaia e toccava, nel 1835, un’esportazione complessiva di più di 52.000 botti. Accanto a quella del vino, dominava, tra l’altro, la produzione di cremore di tartaro, un preparato chimico ottenuto dai grumi del vino, utilizzato in ambito medico ed in tintoria. Sulla ricostruzione storica della produzione industriale siciliana, dalla prima età borbonica al secondo dopoguerra, dati molto interessanti vengono offerti dal lavoro di O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1995.
(78) ASN, MAIC, fasc. 212, Sicilia. Relazioni delle Reali Società economiche: 1845. Società economica di Catania e Società economica di Messina.
(79) Cfr. C. Trasselli, Storia dello zucchero siciliano, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1982 e M. E. Tonizzi, L’industria dello zucchero. La produzione saccarifera in Italia e in Europa: 1800-2000, Milano, Franco Angeli, 2002.
(80) Alcuni metodi sulla macerazione del lino e della canapa pubblicati per ordine della Società economica, Messina 1843, in B. U. R. M. Sulla produzione tessile siciliana ed i suoi legami con quella europea, cfr. G. Motta, Qualche considerazione sull’attività serica in Messina nei secoli XIII-XVII, in "Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Messina", anno IV, 1, 1996, pp. 191-216. Si veda, inoltre, C. Zanier, La sericoltura europea di fronte alla sfida asiatica: la ricerca di tecniche e pratiche estremo orientali (1825-1850), in "Società e storia", 11, 1988, pp. 23-52; C. D’Elia, Uso delle risorse e tentativi di riforma: la macerazione di canapa e lino nel primo Ottocento, in P. Bevilacqua e G. Corona (a cura di), Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, cit., pp. 157-166 e R. Piraino, Il tessuto in Sicilia, Palermo, L’EPOS, 1998.
(81) Sullo sviluppo economico di Messina e Catania e sulla generale questione siciliana nel passaggio dal Governo borbonico allo Stato unitario, cfr. G. Giarrizzo, Alle origini della questione meridionale: il 1860 in Sicilia, in "Annali del Mezzogiorno", 2, 1972, pp. 11-34; G. Barbera Cardillo, Messina dall’Unità all’alba del Novecento, Droz, Genève 1981; ID., Economia e società in Sicilia dopo l’Unità: 1860-1894, Genève, Droz, 1982 e L. Riall, La Sicilia e l’unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866), Torino, Einaudi, 2004.
Sul ruolo dei Comizi agrari, istituiti in Italia con R. D. del 23 dicembre 1866, cfr. P. Corti, I Comizi agrari dopo l’Unità (1866-1884), in "Ricerche di storia sociale e religiosa", 3, 1983, pp. 247-301 e G. Lo Giudice, Le conoscenze agrarie e la loro diffusione in Sicilia tra l’800 ed il ‘900. L’Istituto Agrario Castelbuono di Palermo, cit. Le Camere di commercio siciliane, invece, nascevano con la legge n. 680 del 6 luglio 1862, si veda D. Demarco, Centocinquanta anni della Camera di Commercio di Palermo (1819-1969), Palermo, Camera di Commercio, 1985 e S. Gambino, La Camera di Commercio di Messina. Notizie storiche dalle origini ai nostri giorni, Messina, La Grafica editoriale, 1985. Infine, su una nuova impostazione del problema agrario relativo al periodo post-unitario, fra i tanti lavori storiografici, cfr. L. Spoto, Economisti e questione agraria in Sicilia (1860-1895), Vittorietti, Palermo 1983 e A. Rossi Doria (a cura di), La fine dei contadini e l’industrializzazione in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999.
Introduzione
Le confraternite possono essere definite associazioni religiose di fedeli laici, riconosciute dalla Chiesa ufficiale, organizzate secondo una rigorosa struttura gerarchica interna a capo della quale c’è un superiore, spesso detto Governatore. Inizialmente furono erette per soddisfare due principali bisogni dei loro aderenti: quello spirituale di suffragi religiosi per la salvezza delle anime e quello temporale di aiuto nel trasporto e nel seppellimento dei cadaveri(1). Nel tempo si aggiunsero compiti di solidarietà sociale e civile che sopperivano alle carenze delle strutture sociali del periodo. Oggi esse dipendono dall’autorità ecclesiastica e sono regolate dal Codice di Diritto canonico. A seconda delle varie regioni prendono nomi diversi: Fraterie, Confraternite, Gilde, Gildonie, Collecta, Sodalità(2). Forme di associazionismo simile possono essere considerate nel mondo antico le "Fratrie" e le "Eterie" in Grecia, caratterizzate da scopi più marcatamente politico – giuridici, ed i "Collegi" e le "Sodales" a Roma. Con il Cristianesimo, che attinse molto dai culti pagani, già nel IV secolo a Roma sono presenti i "Fossores" e "Lecticarii", preposti alla sepoltura dei cadaveri e all’esercizio di attività caritative e di culto, ed i "Parabolari" con il compito di assistere gli ammalati(3). Nel XIII secolo, date le specialissime condizioni politico – sociali, più forte si manifestò lo spirito di associazione, espressione di quel bisogno di pace e di profondo rinnovamento della Chiesa avvertito in un’epoca così perturbata. L’origine delle Confraternite attuali può essere ricondotta a quel vasto movimento penitenziale dei Battuti, Flagellanti e Disciplinati (Frates de Poenitentia) che si diffuse nell’Europa del XIII secolo, età attraversata da forti correnti di spiritualità religiosa e da radicali esigenze di rinnovamento a carattere popolare. In quel periodo le Confraternite si diffusero rapidamente, differenziandosi per carattere e scopi, e svolsero una vera e propria funzione di "tessuto connettivo del corpo sociale"(4). Le associazioni confraternali compaiono in Sicilia agli inizi del XIV secolo, durante la dominazione Aragonese, ad imitazione di quelle della città di Roma, con il motto "Pro Dei Timore et Christi amore"(5). Nacquero come libere associazioni di laici, riconosciute dalla chiesa ufficiale, rivolte ad attività di preghiera e di culto. Solitamente ogni istituzione era severamente retta da un consiglio composto dal Governatore, da un maestro dei novizi, da un visitatore degli infermi, a cui si aggiungevano i cosiddetti ufficiali minori quali il tesoriere, il consigliere, sagrestani e nunzi che insieme coadiuvavano l’attività del sodalizio. Coerentemente con lo spirito di mortificazione e di riparazione che animò le prime forme di associazionismo confraternale, per manifestare pubblicamente il loro impegno di espiazione "poiché i loro esercizi furono sin dalla fondazione drizzati alla penitenza"(6) vestirono con rozze tuniche di sacco trattenute alla vita da cingoli di corda (richiamo alle vesti di penitenza di biblica memoria).
Tali sodalizi erano soliti aggregare appartenenti allo stesso ceto sociale così da trasformarsi spesso in vere corporazioni d’Arti e Mestieri(7), a Licata ad esempio la confraternita di S. Salvatore era costituita da agricoltori e pastori(8), quella di S. Giacomo da nobili.
La confraternita se "…recuperò e amplificò sul terreno della cerimonialità popolare la tradizione tre – quattrocentesca dei Disciplinanti" e "…offrì modelli flessibili per l’organizzazione e il controllo di espressioni collettive di devozionalità"(9), svolse anche un importante ruolo sociale portando assistenza ai meno abbienti e bisognosi, aiuti nelle carceri, sussidi nei pellegrinaggi, soccorso in istituti e ospedali. Caso specifico, a Licata, fu la cura e gestione dell’ospedale da parte della Confraternita di S. Giacomo, l’assistenza spirituale ai condannati a morte e la nascita di un ospedale per gli incurabili ad opera della Confraternita della Carità(10) oppure l’aiuto alle orfane e ai pellegrini affidato alla Confraternita della SS. Trinità. L’appartenenza ad una confraternita offriva ai sodali vari benefici quali il soccorso dei fratelli nel bisogno, un dignitoso funerale e accompagnamento alla sepoltura nel cimitero del sodalizio, pratiche spirituali per la salvezza dell’anima o celebrazioni di SS. messe(11).
L’importanza delle confraternite non sfuggì per molto tempo alla Chiesa ufficiale che nel 1562, durante il concilio di Trento, ne esaltò la funzione come centro di aggregazione culturale e religiosa, così se da un lato si riaffermò il controllo della Chiesa sulle confraternite, dall’altro, tale tipo di sodalizio, venne chiamato a svolgere un primario ruolo controriformistico(12).
Nel corso del XVI secolo le Confraternite si moltiplicarono soprattutto sulla scia delle disposizioni di Pio V e Gregorio XIII, quelle legate al culto della Madonna del Rosario e del SS. Sacramento. La rilevanza del fenomeno fu tale che indusse papa Clemente VIII nel 1604 con la Bolla "Quaecumque a Sede Apostolica", a tentare di limitare gli abusi e la compresenza di più Confraternite dello stesso tipo nello stesso luogo(13). Alle Confraternite si affiancarono le Congregazioni, per lo più fondate nelle case di religiosi, sodalizi religioso – laicali che, a differenza delle Confraternite, non indossavano l’abito e non partecipavano a processioni o attività pubbliche ma in privato, attraverso pratiche religiose, si arricchivano e purificavano spiritualmente. Tale fenomeno fu presente anche a Licata agli inizi del XVII secolo ma raggiunse la massima diffusione nel XVIII secolo con l’istituzione di Congregazioni prevalentemente mariane, quasi tutte poste sotto il titolo dell’Addolorata(14). Le Compagnie si differenziavano dalle confraternite per la maggiore attenzione che dedicavano alla cristiana pietà, regole più precise e maggiori obblighi per gli appartenenti. Le Compagnie si proponevano come veri e propri centri di potere e di prestigio spesso rivolte allo sviluppo e valorizzazione della propria autorità.
Nel corso del tempo tutte queste associazioni subirono varie trasformazioni e restrizioni dovute a decreti, leggi, trattati, per lo più da attribuirsi alla preoccupazione dei sovrani che vedevano in esse quasi un "segreto esercito" della Chiesa pronto a creare insurrezioni o agitazioni politiche contro l’autorità civile se la Chiesa ne avesse avuto bisogno. Si collocano tra il 1589 e il 1655 le Costituzioni dei quattro Sinodi agrigentini che sottoponevano ad un sempre più serrato controllo le attività delle Confraternite(15). Nel corso del secolo XVIII il ruolo della Chiesa venne sostanzialmente ridimensionato per effetto di una serie di riforme intese a restaurare il potere regio. Tappe fondamentali di questo processo furono: il 1741 quando, governando Carlo III di Borbone, ci fu la sottoscrizione del Concordato con la Santa Sede che limitava le immunità ecclesiastiche in Sicilia e sganciava l’isola dal vassallaggio pontificio; il 1767, in linea con la politica di limitazione delle prerogative ecclesiastiche, vi fu l’espulsione dall’isola della Compagnia di Gesù; il 1781 quando Ferdinando III di Sicilia ordinò l’istituzione di un magistrato laico preposto ad esaminare regole e capitoli delle confraternite; il 1782 anno dell’abolizione del Santo Uffizio e chiusura di alcuni conventi(16); il 1783 quando, in coerenza ai provvedimenti anticlericali già adottati, vennero soppresse alcune Confraternite che gli ecclesiastici avevano creato e governato nelle loro Chiese(17); il 1792 anno in cui si ebbe l’alienazione dei beni ecclesiastici. Nella legislazione del XIX secolo tutte le opere pie furono assoggettate alla tutela e vigilanza civile, quindi esse furono regolate da commissioni amministrative. Questi istituti rimasero in vigore nelle province napoletane e siciliane fin quando, unificate all’Italia, non si pubblicò una legge del 3 agosto 1862, mentre regnava Vittorio Emanuele III, che istituiva in ogni Comune la Congregazione della Carità, che amministrava tutti i beni destinati a favore dei poveri. Alla Congregazione vennero assegnate tutte le opere pie comunali, e fra queste le Confraternite(18). Nel 1929 col Concordato le Confraternite passarono nuovamente sotto la competenza ecclesiastica.
Se l’origine della crisi di dette associazioni è da ricercare nella scomparsa di congreghe esclusivamente rette da ecclesiastici, nelle idee anticlericali del periodo, nell’impoverimento delle risorse finanziarie dei sodalizi a causa della censurazione dei beni ecclesiastici, dovuta soprattutto alle leggi del 1816 in favore della libera circolazione dei beni e abolizione del latifondo(19), la causa principale è da ascrivere allo stesso mondo ecclesiale per lo sviluppo di un maggiore rapporto gerarchico che privilegiava la centralità giuridica del Vescovo e l’importanza della parrocchia dalla quale spesso il mondo delle confraternite era lontano.
La nascita poi di un nuovo modello di laicato cattolico, che si esprimeva nell’associazionismo di Azione Cattolica più rispettoso delle indicazioni del clero(20) ridusse l’interesse e l’assistenza del clero alle confraternite.
Le confraternite svolsero un ruolo importante anche in campo artistico reclutando artisti, a volte conosciuti, affinché con le loro opere accrescessero l’importanza di un sodalizio rispetto ad un altro e nello stesso tempo ne abbellissero la sede, spesso autonoma, o addirittura, un altare come nel caso della confraternita dell’Immacolata Concezione a Licata.
Così tramite opere di beneficenza, doni di benefattori, lasciti di coloro che speravano di ottenere la vita eterna attraverso un atto di devozione terreno(21), le confraternite diventarono committenti di varie opere d’arte quali Crocifissi, statue lignee, suppellettili d’argento, fercoli professionali, gonfaloni e quant’altro.
A ciò non vennero meno le confraternite di Licata e oggi si ritrovano tele di Filippo Paladini e di G. Portaluni del ‘600, opere della famiglia Spina, manufatti di argentieri palermitani.
Le confraternite siciliane quindi non sono state un fenomeno esclusivamente religioso ma anche storico, sociale e culturale diventando un tutt’uno con la storia del popolo siciliano. Durante i secoli i confrati furono sensibili alle esigenze spirituali e al senso della vita comunitaria, la loro convivenza con la Chiesa mosse le redini della storia, la committenza di opere d’arte oggi rende queste associazioni laicali depositarie non solo di tradizioni religiose, umane e culturali, ma anche di un passato artistico ancora fruibile.
I. La Confraternita del SS. Salvatore
Sede: Chiesa del SS. Salvatore
Fondazione: anteriore al 1242
La confraternita del SS. Salvatore può essere considerata come il più antico sodalizio della città di Licata nato sicuramente prima dell’anno 1242(22). Anticamente aveva sede nell’omonima chiesa di S. Salvatore, in seguito abbandonata per l’attuale antica chiesa di S. Salvatore costruita, come raccontano i confrati, nel 1214.
Una descrizione della chiesa viene data da C. Carità(23) il quale informa che l’architettura esterna fu realizzata nel 1697. Oggi all’interno dell’unica navata si possono ammirare dipinti a olio su tela di un ignoto pittore siciliano del XVIII secolo, un crocifisso ligneo, due belle statue raffiguranti S. Barbara e S. Gaetano da Thiene santi tipicamente onorati in confraternite di contadini e massari come la suddetta, infatti S. Gaetano è solito essere chiamato con l’appellativo di "Padre della provvidenza", S. Barbara è invocata contro gli elementi della natura avversi ai contadini.
Nel corso di restauri è stata anche portata alla luce l’antica cripta sotterranea per tutta la lunghezza della chiesa, con scolatoi, ossari e un altare. Essendo andate disperse nel 1553, nel corso del sacco di Licata, le scritture relative alla fondazione e alle regole della confraternita, don Geronimo Bazzio, vicario del Vescovo di Agrigento, trovandosi a Licata un decennio più tardi rinnovò sia le Bolle di fondazione sia lo statuto, confermando al sodalizio l’attuale chiesa e la sepoltura ecclesiastica nel cimitero della confraternita annesso alla chiesa.
La Confraternita raggiunse il massimo splendore nel corso del XVI secolo annoverando circa 400 confratelli(24). Stemma della congrega è un globo terrestre, cinto dai segni zodiacali, sormontato da una croce, simbolo di Gesù Cristo Salvatore del mondo. I confrati durante le cerimonie indossavano un vestitino di sacco bianco con cappelli e mantelli rosati(25), portavano in processione lo stendardo, un drappo rosso damascato triangolare a coda di rondine sorretto da un asta con globo terrestre finale sormontato da una croce, simbolo del sodalizio.
Durante la Via Crucis del Venerdì Santo la congrega occupava il secondo posto mentre, durante le altre processioni, occupava l’undicesimo posto secondo un cerimoniale prestabilito che organizzava l’ordine di ciascuna confraternita nelle processioni, come avveniva anche a Palermo per le solenni festività tributate a S. Rosalia(26).
In occasione della festa di S. Angelo, patrono della città, i confratelli partecipavano portando lungo le strade e i borghi di Licata lo stendardo damascato che, legato ad un’asta molto alta, sfilava con i gonfaloni degli altri sodalizi. Ma ieri come oggi il ruolo più importante del sodalizio è quello svolto durante la solennità della Pasqua di Resurrezione con l’esposizione dell’Eucarestia. Un tempo in tale ricorrenza, a ricordo della passione di Cristo, era obbligo di tutti i confratelli essere vicini all’altare indossando corone di spine in testa e corda al collo(27).
Con la soppressione della "giunta di Pasqua", incontro tra il simulacro della Madonna e quello del Cristo, si instituì la processione, completamente organizzata dalla Confraternita, del Cristo Redentore detto "u signori ccu’ munnu nmanu", simulacro in legno policromo della fine del XVIIII secolo, tradizione che si è mantenuta sino al 1968(28). Il sodalizio col tempo si concentrò talmente sull’organizzazione di detta processione da mettere da parte le altre attività.
I membri della confraternita si dedicavano anche all’esercizio di pie attività verso i poveri e gli ammalati: durante la festività di Pasqua, secondo antica tradizione, ogni confrate portava del cibo che, benedetto presso il cimitero della congrega annesso alla chiesa, veniva poi suddiviso tra i carcerati, i ricoverati nell’Ospedaletto degli incurabili, retto dalla Compagnia di Maria SS. Della Carità, e i poveri recatisi al cimitero(29).
Nel 1968 la soppressione da parte di Mons. Giuseppe Petraia di molte feste religiose tra le quali quella a cui si era completamente dedicata la congrega, portò la stessa alla quasi inattività durata quasi sino ai giorni nostri. Oggi la confraternita ha ripreso un suo ruolo promovendo l’educazione dei giovani sia in campo religioso che sociale.La maggior parte degli arredi sacri è andata perduta nel corso del tempo e nulla si conosce sulla loro attuale collocazione.
II. Confraternita di S. Andrea
Sede: Chiesa di S. Andrea
Fondazione: XIII secolo
La Confraternita di S. Andrea, annoverata tra le Confraternite più antiche della città di Licata, aveva sede in una chiesetta dedicata al Santo. La sua origine si ricollega alla presenza in città di una comunità di amalfitani che, dedita ai commerci marittimi, fondò tale congrega in onore dell’Apostolo protettore degli stessi. Infatti, anche in altre città marinare, come a Palermo, erano presenti congreghe in onore dello stesso Santo sorte grazie a tali comunità(30).
In seguito, per motivi sconosciuti, la congrega trasferì la propria sede nei locali dell’ex Monastero del Soccorso dove rimase sino a quando le monache di clausura, per esigenza di spazio, decisero di ingrandire l’edificio inglobando anche la chiesa e il terreno di proprietà della Confraternita con un atto che, stipulato nel 1585, ne cedeva la proprietà alle monache in cambio di un’altra chiesa annessa e di un censo annuo.
Il trasferimento nella nuova sede avvenne soltanto nel 1636 ma senza il censo annuo stabilito sino al 1642 quando, il Vescovo di Agrigento, Mons. Francesco Traina, spinto dai confrati ingiunse le monache a sopperire al debito contratto negli anni(31).
La Confraternita occupava il XII posto nelle processioni, secondo il cerimoniale prestabilito dal Capitolo dell’insigne Collegiata, i confrati appartenevano al ceto civile e vestivano sacco con mantello bianco, visiera e pallio color verde(32). Stemma della congrega era una croce di S. Andrea alla quale era appeso un pesce in riferimento alla professione dello stesso(33).
A scopo prettamente cultuale la congrega si dedicava alla formazione religiosa dei membri, all’organizzazione dei riti sacri in onore di S. Nicola di Bari e di S. Biagio, santi venerati nella chiesa con due simulacri in legno oggi andati perduti, ma la più importante festa era quella dedicata al Santo patrono festeggiato con un triduo. La congrega partecipava durante l’anno anche ad altre processioni come quella nel maggio del 1647 quando la Madonna che si venerava nella chiesa di Sabuci fu condotta sino alla chiesa Madre ed esposta alle preghiere dei fedeli per invocare la pioggia in un periodo di gran siccità(34).
Nel 1938 la congrega, a causa del ridotto numero dei suoi adepti e del venir meno dei valori e dei ruoli cultuali che aveva svolto nel passato, decise la propria estinzione vendendo l’antico oratorio e cedendo gli arredi sacri. Di detti arredi si è persa la conoscenza fatta eccezione per il simulacro in legno raffigurante S. Andrea oggi nella moderna chiesa omonima nel quartiere Oltremonte. I capitoli rinnovati nel 1838 e il rimanente archivio entrarono a far parte del patrimonio della confraternita di M. SS. della Carità.
III. Confraternita di S. Angelo
Sede: Chiesa di S. Angelo
Fondazione: anteriore al 1486
La Confraternita di S. Angelo, inizialmente legata al culto dei santi Filippo e Giacomo, antichi protettori della città, aveva sede nell’omonima Chiesa, oggi chiesa di S. Angelo(35).
Negli anni del governo di Federico II di Svevia nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo fu seppellito in gran fretta S. Angelo, martire carmelitano, trucidato nei pressi della porta di Piazza Linares(36) per aver condannato nelle sue prediche il sistema di governo. In seguito a tale avvenimento i Licatesi devotissimi del Santo lo scelsero come patrono della città, gli dedicarono la Chiesa nella quale era stato seppellito che cambiò nome e con essa la Confraternita.
Una descrizione particolareggiata della nuova chiesa, completata alla fine del XVII secolo, si ha nel manoscritto di A. M. Serrovira, della metà del 1600, dal quale si evince che, data la grande affluenza di fedeli che giungevano da tutto il circondario a venerare le spoglie del santo raccolte in un’urna, si decise di edificare una costruzione più vasta che inglobasse quella preesistente(37).
Il documento più antico della Confraternita è considerato il "Rollo Vecchio" custodito nell’archivio della stessa, nel quale si possono attingere numerose e particolareggiate informazioni riguardo alla sua storia. L’attività del sodalizio è già documentata nel 1486 anno in cui le reliquie di S. Angelo, alla presenza degli ufficiali della congrega, furono traslate da una cassa di legno ricoperta di velluto rosso ad una nuova in argento(38).
La congrega, in ricordo della tonaca dei padri carmelitani, vestiva sacco di tela e visiera di colore marrone, con la figura di S. Angelo ricamata, che in seguito, come ricorda L. Vitali(39), cambiò in sacco e mozzette giallo pallido e abitino marrone con l’immagine di S. Angelo ricamata.
Nata come Confraternita di corporazione, raccogliendo più individui esercenti la stessa attività, in questo caso muratori ed in seguito artigiani, nel corso del tempo per incrementare il proprio prestigio accolse al rango di ufficiali anche persone altolocate.
Don Cesare Marullo, Vescovo di Agrigento, nel 1575 concedette ai confrati lo ius patronato sulla chiesa(40), sepoltura ecclesiastica in suddetta chiesa, l’uso dell’oratorio e la custodia delle reliquie del Santo. Da quel momento sorsero continue incomprensioni tra i membri del sodalizio e i PP. Carmelitani i quali, in virtù del fatto che il Santo aveva professato nell’ordine Carmelitano, pretendevano l’assegnazione della Chiesa e, cosa più importante, delle reliquie.
I confrati per accrescere il proprio prestigio e quello della Confraternita presentarono domanda alla Curia Vescovile di Agrigento affinché il pio sodalizio venisse trasformato in Società. Nel 1622 la domanda venne accolta a condizione che i confrati rendessero conto di tutti i loro introiti nel corso delle ricognizioni canoniche.
La Confraternita così trasformata in Società poté portare insegne, eseguire pratiche di disciplina nella chiesa ed esercizi spirituali(41). Ma nel 1784 ritornò ad essere una Confraternita con la costituzione dei dieci capitoli redatti dalla giunta dei presidenti e consultori, ad assolvere quanto spettava alla chiesa di S. Angelo e provvedere all’organizzazione della festa in onore del patrono della città(42). Compito specifico della Confraternita era quello di solennizzare la festa in onore di S. Angelo a ricordo della morte avvenuta il 5 Maggio del 1220. Lo storico licatese L. Vitali ricorda che, sul fare della sera, le reliquie del Santo, raccolte in un’urna d’argento, venivano portate in processione da tutte le Confraternite contraddistinte dai loro stendardi damascati, dal clero e dalle varie comunità religiose(43). L’urna usciva dalla chiesa in mezzo a quattro ceri, in gergo "intorci", artistiche costruzioni in legno denominate: Comuni, Piana, Massari, Pecorari, che portati a spalla venivano condotti sino alla chiesa Madre. La totale spesa di questa processione, e di altre minori nel corso dell’anno, era sostenuta dalla Confraternita grazie all’esercizio del "plateatico", concessione temporanea di terreno a coloro che portavano le loro merci per venderle durante la fiera di agosto.
Tali introiti furono spesso motivo di contestazione da parte dei Deputati delle fabbriche della Chiesa i quali pretendevano che i confrati contribuissero alla realizzazione del nuovo edificio. La lunga disputa si protrasse negli anni ed ebbe termine soltanto nel 1822 quando la Confraternita vide finalmente riconosciuto l’antico diritto di possesso delle gabelle della fiera i cui proventi dovevano essere utilizzati soltanto per i festeggiamenti in onore del Santo. L’esercizio di tale diritto cessò nel 1848 quando detta fiera non ebbe più luogo a causa dei moti rivoluzionari che compromettevano la sicurezza delle strade e delle campagne(44). La congrega godeva anche di un’altra gabella, donata da Don Giuseppe di Caro nel 1557, grazie alla quale riceveva un grano a quintale su tutti i generi che venivano pesati nel porto di Licata a condizione che ogni sabato si celebrasse una messa nella Chiesa di S. Angelo(45).
Agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo la confraternita cessò di esistere con l’ultimo governatore sig. Giuseppe Lodi, in seguito la sede della stessa venne smantellata e gli arredi sacri usati dai PP. Carmelitani nelle solenni liturgie.
IV. Confraternita di Maria SS. della Carità
Sede: Chiesa di Maria ss. della Carità
Fondazione: 1503
La Confraternita di Maria SS. Della Carità data la sua fondazione nel 1503, come tramandano alcune cronache coeve(46), e in seguito accolta nell’oratorio dell’omonima chiesa, sorta nel 1622 grazie ad elemosine degli stessi confrati, e benedetta dal confratello e vicario foraneo, Don Michele Taormina.. La costituzione canonica risale al 1619, quando Mons. Frà Vincenzo Bonincontro, vescovo di Agrigento, ne dichiarò la presenza nell’oratorio della medesima chiesa.
I membri della congrega facevano parte della classe civile e nelle processioni, secondo l’ordine prestabilito, avevano il settimo posto; vestivano abitino bianco raccolto in vita da un cinturino nero e una piccola mozzetta nera recante sulla sinistra un cuore fiammeggiante con su scritto "Charitas", motto della compagnia(47). Nel 1625 venne approvato lo statuto di 27 capitoli dove si elencavano gli scopi sociali e cultuali a cui si sarebbe dedicata la congrega.
Attività principali in quel periodo erano: l’inumazione dei morti in povertà nel cimitero annesso alla chiesa e la divulgazione della fede cristiana con incontri settimanali nell’oratorio. La congrega si dedicava anche ad altre opere pie nei confronti dei confratelli che si trovavano in malattia e in stato di indigenza: infatti lo statuto prevedeva che l’ammalato dovesse essere sostenuto moralmente e religiosamente dai confrati ed, in caso di prolungamento della malattia, aiutato anche dalle elemosine degli stessi.
I confrati caritatevoli non solo con i confratelli in difficoltà ma anche con i poveri e gli ammalati incurabili, che per tal motivo non erano ammessi nell’ospedale, nel corso del XVII secolo edificarono, grazie a donazioni ed elemosine, l’ospedale per i poveri incurabili, chiamato anche "l’Ospedaletto", in cui gli ammalati erano sorretti nel dolore sino alla morte(48).
All’inumazione dei ricoverati si dedicava la pia Confraternita di S. Caterina(49) che, data la collaborazione e vicinanza d’intenti, nel 1655 si aggregò alla Confraternita della Carità la quale, alla chiusura del sodalizio di S. Caterina, in virtù dell’antica aggregazione ne accolse i beni, gli archivi e gli stessi confrati.
Il 1731 segnò la nascita, nello stesso oratorio, dell’"Opera dell’agonia", istituzione finalizzata alla salvezza dell’anima, altro compito a cui si dedicava la congrega, grazie a particolari pratiche spirituali compiute durante l’agonia dell’iscritto, come l’esposizione del SS. Sacramento in un apposito ostensorio dalla raggiera in argento e piede in rame, perché esposizione di tono minore.
Un quadro del XIX secolo, oggi posto nell’oratorio della confraternita descrive in maniera particolareggiata l’uffizio a cui si dedicavano i confrati. Se l’esposizione si protraeva anche nelle ore notturne, dodici confrati, a turno, vegliavano in preghiera il SS. Sacramento e aiutavano spiritualmente il moribondo. Tale pio uffizio riscosse molta fortuna tra gli abitanti di Licata che in molti aderirono all’iniziativa versando all’inizio una quota, e poi la somma di un grano alla settimana, al procuratore dell’opera che trascriveva diligentemente tutte le entrate in libretti, oggi ancora esistenti, in cui, accanto al nome del fedele erano segnati i grani (un cerchietto corrispondeva ad un grano versato).
Attività cultuali erano, ieri come oggi, la chiusura del ciclo delle Quarantore e l’esposizione del simulacro ligneo di Gesù flagellato durante il Giovedì Santo.
Come altre confraternite in Sicilia anche questa congrega chiese ed ottenne, con Bolla del 18 gennaio del 1734 di Papa Clemente XII e conferma del Vescovo di Agrigento, Mons. Lorenzo Giorni, l’aggregazione alla Arciconfraternita della Natività di Gesù Cristo e degli Agonizzanti della città di Roma. La Bolla ancora oggi esistente, presenta miniature, riccamente ornate da oro zecchino, raffiguranti elementi floreali ai lati e in alto al centro la Natività di Gesù Cristo, emblema dell’omonima confraternita.
Nel corso del XVIII secolo la congrega si dedicò all’abbellimento del proprio oratorio facendo realizzare da Pietro Patalano, grazie alle elemosine raccolte dalla Badessa Suor Maria Serrovira, la statua raffigurante la patrona della congrega, Maria SS. della Carità, che fu inserita in un altare di marmo rosso di Francia realizzato nel 1739.
Durante il XIX secolo, l’Ospedaletto venne trasformato in ospizio per povere donne che, per età o per malattia, non potevano lavorare. In seguito la scarsità delle rendite, dovuta anche alla divisione tra le rendite per il sodalizio e quelle per l’opera pia, costrinse le abitanti a chiedere l’elemosina per sopravvivere o ad essere sostenute da famiglie caritatevoli. A poco valse anche la rendita del Comune, insufficiente per il mantenimento delle stesse.
Il XX secolo vide la congrega perdere molto di quel fervore che l’aveva contraddistinta in passato sia per la mancanza di attività pubbliche, quali feste religiose che potevano mantenere viva l’attività e la presenza dei giovani, sia perché dedicandosi ad attività religiose private all’interno dell’oratorio determinò l’allontanamento dei giovani e molti di fedeli. Oggi la congrega si sta dedicando al restauro della chiesa e dei propri beni.
V. Confraternita di S. Sebastiano
Sede: Chiesa di S. Sebastiano
Fondazione: XVI secolo
Antica Confraternita di cui non si conosce la data di fondazione ma, secondo storici locali, già attiva nella prima metà del XVI secolo(50). Sorta come Confraternita di corporazione dei pescatori, con il nome di "Confraternita dei Marinai", raccogliendo più individui rappresentanti la stessa categoria lavorativa, e aveva sede nell’antica Chiesa di S. Sebastiano un tempo vicina alla porta Marina della città di Licata e quindi, per eccellenza, chiesa di marinai.
Tra il XVI – XVII secolo, tutta la Sicilia, compresa Licata, fu flagellata dalla peste e per liberare la città dal contagio, si decise di dar vita a tale sodalizio in onore di S. Sebastiano, protettore contro la peste accanto a S. Rocco, anch’esso venerato nella medesima chiesa. Infatti della vita di S. Sebastiano si racconta che subì il martirio, legato ad un albero venne trafitto da più dardi ma, miracolosamente, si salvò e proprio per questa guarigione, dato che la peste è spesso raffigurata come un dardo, venne invocato come protettore contro questo terribile morbo. Così sorsero più sodalizi e chiese in onore del Santo, in tutta la Sicilia.
La congrega occupava il decimo posto nelle processioni, secondo il cerimoniale prestabilito del capitolo dell’insigne collegiata, vestiva sacco bianco e mantello color turchino scuro(51).
Da una sacra visita nel 1587, effettuata da Mons. Diego Haedo nella città di Licata, si evince che i confrati avevano il diritto di nominare il proprio cappellano beneficiale, godevano dello ius patronato della chiesa, di un oratorio, di una cripta ed un sagrato adibito a cimitero, dove venivano seppelliti i confrati ed i loro congiunti(52).
Attività cultuali erano la solennizzazione delle Quarantore e la festa del Santo patrono, ambedue organizzate con i proventi delle elemosine dei fedeli al Santo, dei due censi urbani e del censo che i marinai pagavano per ogni cento salme di merci imbarcate.
Col passar del tempo la Confraternita perse tutte le rendite e così, anche per l’affievolirsi dei valori associativi tra i confrati, si giunse alla totale chiusura del sodalizio agli inizi del XX secolo. L’oratorio venne abbandonato e nel 1937, per motivi urbanistici dato che ostruiva il passaggio alla Piazza del Duomo(53), abbattuto insieme alla chiesetta.
Il simulacro ligneo raffigurante il Santo patrono, S. Sebastiano, fu trasferito nella chiesa Madre, dove attualmente è custodito nella nicchia del lato sinistro del vestibolo, mentre il simulacro di S. Rocco, anch’esso venerato nella stessa chiesa, col tempo è andato perduto e ad oggi non se ne ha più notizia.
VI. Confraternita del Monte di Pietà dei Bianchi del SS. Crocifisso, detta di S. Caterina
Sede: Chiesa di S. Caterina
Fondazione: 1548
Istituita nel 1548, prima di trovare finalmente sede nell’oratorio dedicato a S. Caterina, la congrega dovette subire molti spostamenti e superare difficoltà. Inizialmente si stabilì nella chiesa di S. Nicola vicino al Castel S. Giacomo ma, dopo il saccheggio operato da una flotta turca nel 1553 e la conseguente decisione di costruire nuovi bastioni attorno al castello, la chiesetta fu demolita e il terreno annesso al castello. La congrega fu costretta a trasferirsi nella chiesetta dedicata a S. Caterina(54), in poco tempo ristrutturata dagli stessi confrati, Chiesa di proprietà dei Bellomo, una famiglia Siracusana, che ne accettò la presenza a patto di avere la facoltà di eleggere il cappellano. Nel tempo i confrati avendo perso ogni potere decisionale si videro costretti ad un nuovo cambiamento di sede, e così, nel 1600, si trasferirono nel Convento di S. Francesco dove ebbero come oratorio la cappella di S. Nicolò che si sarebbe poi trasformata nella cappella dell’Immacolata Concezione, sede dell’omonima Confraternita.
La congrega raggiunse la sede definitiva solo qualche anno dopo quando, ristrutturati dei vecchi locali che aveva ricevuto in dono il 18 novembre del 1600 da Don Baldassarre Naselli conte di Comiso, li adibì a Chiesa, dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, con annesso oratorio.
La Confraternita, composta da rappresentanti del ceto civile, nelle processioni occupava il secondo posto, vestiva sacco e visiera bianca con l’effigie del Crocefisso sotto il titolo di Monte di Pietà(55).
Il sodalizio era, a suo tempo, nato sull’esempio di una Compagnia sorta a Palermo sotto lo stesso nome e che aveva come scopo quello di confortare i condannati a morte, a questo "uffizio" la congrega della città di Licata aggiunse l’istituto delle esequie dei morti in stato di miseria e la questua in aiuto dei poveri.
Molti furono i dissidi tra la detta congrega e quella dei Bianchi Azzoli, la confraternita dei nobili, riguardo "all’uffizio" del conforto dei condannati a morte, diritto da tempo proprio dei Bianchi Azzoli, e riguardo la questua per i poveri che, dopo lettera Viceregia del 1549, fu suddivisa con dei turni settimanali tra le due congreghe(56). I confrati con grande fervore si dedicarono alle esequie degli indigenti, soprattutto durante una tremenda epidemia che colpì la città nel 1600,compito che si aggiunse alla cura degli infermi. Il sodalizio proprio per questo interesse verso i più poveri nel 1650 si aggregò alla Confraternita di Maria SS. Della Carità.
Nel 1806 poiché la Confraternita di S. Gerolamo, per problemi interni, non poté partecipare alle solenni liturgie del Venerdì Santo cui da tempo era preposta, ne affidò il compito alla Confraternita dei Bianchi che sfilò, durante la processione, portando lo stendardo del sodalizio di S. Girolamo(57).
L’istituzione pubblica della sepoltura degli indigenti, ed in seguito la diminuzione dei sacerdoti, portarono la congrega ad una lenta involuzione e i confrati, non potendo più mantenere gli oneri del proprio oratorio furono costretti a cederlo alla Curia di Agrigento, a trasferirsi all’interno della confraternita di M. SS della Carità e a cedere gli arredi sacri, compresa l’antica statua della martire patrona della congrega oggi custodita nella Chiesa della Madonna delle Sette Spade.
VII. Arciconfraternita della SS. Trinità
Sede: Chiesa di S. Antonio Abate
Fondazione: 1573
Arciconfraternita fondata nel 1573 da un gruppo di confrati della Compagnia dei Bianchi i quali, ad imitazione delle congreghe romane, decisero di dedicarsi all’accoglienza e al sostentamento dei pellegrini di passaggio a Licata.
Inizialmente i confrati erano soliti riunirsi nella chiesa di S. Agata La Nuova, oggi non più esistente, che abbandonarono tre anni dopo per trasferirsi nella Chiesa di S. Antonio Abate abbastanza grande e fuori città, quindi luogo più accessibile ai pellegrini. Il trasferimento ufficiale della congrega avvenne nel 1576, anno in cui i confrati ottennero la concessione della chiesa e del terreno circostante al fine di istituire l’Ospizio dei Pellegrini(58).
Il 1578 segnò il cambiamento della denominazione della congrega da Confraternita di S. Agata e S. Antonio Abate in Confraternita della SS. Trinità grazie alla concessione, da parte di Fra’ Rodrigo Gamboa dell’ordine della SS. Trinità, dell’uso delle insegne di detto ordine, dell’altare privilegiato e dell’abito(59). Poco tempo dopo la congrega chiese e ottenne, come avevano fatto molte Compagnie a Licata, l’aggregazione all’omonima Arciconfraternita di Roma.
Oltre al nome mutarono anche l’abito in sacco e visiera bianchi con mozzette rosse, l’uso del colore rosso indica l’effusione dello Spirito Santo ed il fuoco della Carità che deve infiammare il cuore degli iscritti, da qui il soprannome dei confrati chiamati i "Rossi".
Nelle processioni, secondo un ordine prestabilito, occupavano il terzo posto portando con sé lo stendardo di damasco rosso(60).
I confrati si dedicavano ad opere di carità verso i poveri, i carcerati e le orfane alle quali nel 1633 offrirono i locali, un tempo adibiti per i pellegrini, nei quali le orfane rimasero sino al 1869 quando, soppresse le congreghe religiose e i conventi, si trasferirono nei locali del convento del Carmine, ex convento dei PP. Carmelitani(61), aiutate dalla Confraternita della Carità.
Per quanto attiene alle pratiche del culto spettavano al sodalizio le Sante Messe ed i festeggiamenti in onore della SS. Trinità. Nel XVII secolo i confrati desiderosi di abbellire la loro sede commissionarono a Filippo Paladini due tele, una raffigurante la SS. Trinità insieme a S. Agata, Eligio e Paolo l’eremita da un lato, dall’altro S. Cristina, Ludovico e S. Giovanni Evangelista; l’altra raffigurante S. Antonio Abate e storie della sua vita. A queste due tele se ne aggiunse un’altra attribuita a Giovanni Portaluni, sempre raffigurante la SS. Trinità, oggi patrimonio del Palazzo di città.
Nel XVII gli annosi dissidi tra i confrati e i domenicani, riguardo al possesso della chiesa, trovarono una soluzione nel 1622 in un accordo, stipulato tra le due parti, che attribuiva la chiesa ai domenicani che dovettero in cambio concedere ai confrati un appezzamento di terreno da utilizzare solo ed esclusivamente per la costruzione di un rifugio per i pellegrini. La rottura del patto da parte della confraternita fece loro perdere sia la Chiesa che i locali. I confrati furono costretti a rifugiarsi in una chiesetta che venne restaurata e ingrandita grazie alla generosità di un fedele, A. Coniglio(62).
La congrega continuò ad esistere sino alla fine del XIX secolo quando, per il crollo della Chiesa e il pagamento di imposte troppo onerose, i confrati decisero di porre fine al sodalizio e cedere il proprio patrimonio alla congregazione di Maria SS. Della Carità. Di tale patrimonio non è stato possibile individuare alcun manufatto, riconducibile alla presente ricerca, tra le opere esaminate nella Confraternita di Maria SS. della Carità.
VIII. Confraternita dell’Immacolata Concezione
Sede: Chiesa e convento di S. Francesco
Fondazione: anteriore al 1581
Come in altre città dell’entroterra agrigentino anche a Licata sorse una Confraternita in onore dell’Immacolata Concezione. Non si conosce la data esatta della fondazione che sicuramente risale a prima del 1581. Presumibilmente tale congrega fu fondata nel 1551 con Bolla pontificia di Gregorio XIII e la sede collocata nella cappella dell’Immacolata, sul lato sinistro della navata della chiesa dei P.P. Francescani(63).
Il 1581 vide lo stesso pontefice aggregare, con una Bolla, tale Confraternita all’Arciconfraternita di S. Lorenzo di Damaso a Roma(64).
I confrati nel 1604 ebbero la concessione, da parte di Mons. Giovanni Orozco vescovo di Agrigento, di portare sul sacco bianco oltre l’immagine di S. Giovanni Battista anche quella dell’Immacolata(65). Vestivano abitino bianco con mantellino e mozzette di color azzurro intenso. Stemma della Confraternita era una croce di Malta bianca con sopra l’immagine dell’Immacolata Concezione, un esempio dello stesso si può oggi osservare nei locali dell’ex oratorio della stessa congrega.
La devozione all’Immacolata Concezione, già molto viva in Sicilia, si accentuò negli anni della dominazione Aragonese e Borbonica grazie anche alla presenza dei padri Francescani che, al fine di incrementarne il culto, fecero nascere vari sodalizi a Licata, Palermo e in tutta la Sicilia(66).
Nel 1583 Gregorio XIII autorizzò la celebrazione della Santa Messa nell’altare della cappella, sede della Confraternita, dove è degno di nota, oltre al bellissimo altare in legno intagliato e dorato, un olio su tela di Domenico Provenzani raffigurante l’Immacolata che chiude la nicchia nella quale è custodita la statua lignea dell’Immacolata, databile nel XVII secolo, che viene scoperta solo il giorno della festa in suo onore.
Padre Fra’ Luigi Serrovira, guardiano del Convento dei Francescani, annesso all’omonima chiesa, concedette ai confrati un locale da adibire a proprio oratorio(67) a condizione che non si celebrassero funzioni sacre o vi esponessero l’immagine dell’Immacolata.
Durante l’anno Liturgico il ruolo più importante per i confrati era, come ricorda lo storico locale Luigi Vitali, la celebrazione della famosa "giunta pasquale" ossia l’incontro, nel giorno di Pasqua, tra Gesù Cristo e l’Immacolata, entrambi rappresentati da due simulacri lignei, uno portato a spalla dalla Confraternita dei Bianchi Azzuola, oggi non più esistente, l’altro dalla Confraternita dell’Immacolata che "composta da scelta maestranza" fece perdurare tale usanza sino al 1848(68). Essendo stata aggregata al Convento dei PP: Minori Conventuali di Licata la Confraternita dipendeva direttamente dall’autorità del ministro Generale dell’Ordine Conventuale, e non dalla autorità del luogo, in virtù delle " costituzioni Urbaniane dell’ordine " emanata da Papa Urbano VIII nel 1628.
Nel 1866 con l’entrata in vigore di leggi eversive che colpirono gli ordini monastici, che furono privati dei loro beni, la confraternita dell’Immacolata Concezione, legata all’Ordine Francescano, si disgregò di lì a poco, nel 1920, con la morte di Fra’ Luigi Marino Sapio, sacerdote regolare del Convento rimasto come guida spirituale del sodalizio(69).
Gli arredi sacri furono trasferiti in altre chiese e annessi al loro patrimonio, oggi diviene improponibile tentare di ricostruire il patrimonio originale della confraternita.
IX. Arciconfraternita del SS. Crocifisso
Sede: Cappella del SS. Crocifisso, Chiesa madre
Fondazione: 1602
La congrega nata in onore del SS. Crocifisso Nero molto venerato in città, da dove deriva il nome di Arciconfraternita dei Nigri, aveva sede nella cappella del SS. Crocifisso, nella navata destra della Chiesa Madre di Licata.
Fondata con Bolla Papale del 1602 da Mons. Giovanni Orozco de Cavarruvias, vescovo di Agrigento, godendo dello stato giuridico – canonico di Arciconfraternita aveva un proprio abito, insegne, una disciplina spirituale e compiti misericordiosi come l’aiuto spirituale ai carcerati(70).
La storia vuole che durante l’assedio della flotta turco – francese, che nel 1553 distrusse quasi del tutto la città, dei marinai giunti nella Chiesa Madre videro il Cristo Crocifisso che pendeva dall’arco maggiore della navata, secondo l’uso liturgico del tempo(71), e non essendo riusciti a bruciarlo, infatti lo avevano soltanto annerito, decisero di colpirlo con dei dardi, tre dei quali rimasero conficcati, uno sulla fronte, uno sul fianco e l’altro sulla coscia. In seguito dette frecce furono cedute dai licatesi ai maltesi in cambio di tre frecce d’argento(72). Non appena i licatesi poterono rientrare in città, di fronte a tale sacrilegio e conseguente miracolo, decisero di trasferire il Crocifisso dall’arco trionfale alla Cappella del braccio destro del transetto dove ancora oggi è possibile ammirarlo. Nel 1705 per volontà popolare la Cappella in onore del Cristo, che in ricordo di tali eventi fu dipinto di nero, fu ulteriormente decorata con pannelli di legno e oro zecchino(73) e tale oggi si presenta allo spettatore che si reca a visitarla.
Nel 1647 Don Luigi La Nuza introdusse la tradizione, che durò sino alla fine del XIX secolo, della celebrazione nella cappella della messa cantata del venerdì.
Per il mantenimento del culto del SS. Crocifisso i confrati si dedicarono alla questua di elemosine a cui si aggiungevano rendite concesse da ricche famiglie licatesi, devotissime al Cristo, in cambio di messe in loro memoria. Tali rendite vennero usate soprattutto per il completamento e l’ulteriore abbellimento della Cappella e della Chiesa.
Oltre al culto del SS. Crocifisso la congrega si dedicava, durante la Settimana Santa che vedeva impegnate attivamente molte Confraternite, all’organizzazione di una processione penitenziale che la sera del Giovedì Santo terminava nella Cappella del Cristo Nero dove veniva allestito il Santo Sepolcro.
Non conoscendo la data esatta della fine di tale sodalizio, si ritiene comunque, non più esistente nella seconda metà del XVIII secolo.
X. Confraternita dell’Itria e di S. Francesco di Paola
Sede: Chiesa di S. Maria dell’Itria
Fondazione: 1643
La chiesa di S. Maria dell’Itria, nel cuore del quartiere Marina, era di ius patronato e ospitò, a partire dalla prima metà del XVII secolo, la Confraternita di S. Francesco di Paola sorta grazie alla devozione al Santo di molti sacerdoti e fedeli della città di Licata che chiesero nel 1643 a Mons. Francesco Traina, vescovo di Agrigento, la costituzione di detta congrega(74).
In seguito ottennero l’uso di un abito penitenziale, la partecipazione alle processioni seguendo l’ordine prestabilito dal capitolo dell’Insigne Collegiata di Licata, le insegne e i calzari usati dai monaci e dallo stesso Santo, patrono della congrega. Molto poco si conosce di detta Confraternita se non che continuò le proprie attività sicuramente sino alla fine del XVII secolo, seguendo il culto del Santo che si era sviluppato in tutta l’Italia meridionale. Nei secoli successivi se ne perdono completamente le tracce né si conosce la data o il motivo della scomparsa.
Del patrimonio artistico di tale congrega si salvano soltanto la statua lignea del Santo patrono, oggi nella chiesa di S. Angelo, e un mezzo busto raffigurante l’Ecce Homo custodito nella vecchia chiesa della Madonna delle Sette Spade.
XI. Il patrimonio artistico delle confraternite di Licata
Il ruolo delle confraternite in campo artistico si espresse nella committenza di numerosi manufatti e soprattutto di notevoli dipinti e gonfaloni processionali(75). Nel corso dei secoli XVI e, in parte, XVII in Sicilia in conseguenza della cosiddetta "Rifeudazione" si ebbe un rilancio dalle proporzioni eccezionali delle committenze d’arte da parte di quelle classi sociali, nobiltà e clero, e in qualche caso dell’emergente borghesia, non soltanto culturalmente ma finanziariamente forti(76). Tale fenomeno è presente anche a Licata dove, grazie soprattutto alla munificenza di privati, le confraternite commissionarono statue lignee, macchine processionali, altari, Crocifissi e varie suppellettili in argento ed altro materiale.
Le congreghe si dedicarono a commissionare simulacri, in gran parte lignei, raffiguranti il titolo del sodalizio che nel loro semplice, e quasi popolare, aspetto compositivo e iconografico sono abbastanza uniformi dal punto di vista tipologico, oltre che cronologico. Simulacri che per scelte formali e tematiche appaiono vicini ad altri momenti della cultura figurativa siciliana (stampe devote, pitture su vetro, tavolette votive)(77).
Un esempio è dato dal simulacro ligneo del martire S. Sebastiano patrono dell’omonima congrega. Il Santo rappresentato secondo i canoni dell’iconografia tradizionale che lo vuole solitamente legato ad un albero, con un braccio piegato dietro la schiena e l’altro ad arco sul capo, è una figura di giovane dai tratti efebici che si contorce nello spasimo delle fragili membra lacerate.
La resa puristica del corpo sottile e affusolato avvolto da un perizoma scandito da pieghe orizzontali, le gocce di sangue che sottolineano vivamente il pathos della sofferenza, sono tutti elementi che permettono di ricondurre l’opera al XVII secolo, periodo in cui l’arte doveva sapere conquistare visivamente l’animo semplice dei fedeli al fine di suscitare emozioni e sentimenti nel tentativo di ricondurre eretici e dubbiosi alla dottrina cattolica in conformità con i dettami della Chiesa.
L’opera, anche se fortemente ridipinta, presenta nello schema compositivo e modellato plastico tratti comuni con altri manufatti di medesimo soggetto e dello stesso periodo, come la statua omonima conservata nel Museo Diocesano di Palermo(78) ed un’altra conservata nella Chiesa di S. Sebastiano della città di Caltanissetta, attribuita allo scultore Stefano Li Volsi(79).
Del XVIII secolo è il simulacro in legno intagliato della Madonna della Carità di appartenenza della omonima congrega.
La figura della Vergine, da poco tempo restaurata, si erge su di un alto basamento dove, nel lato anteriore, è raffigurato lo stemma della famiglia Serrovira e Figueroa, cui apparteneva la committente dell’opera: Maria Anna Serrovira e Figueroa. Il nome della stessa è riportato nel cartiglio, posto nella parte posteriore del basamento, da cui apprendiamo inoltre che la nobildonna era Badessa del vicino Monastero Circestense e che l’opera fu eseguita da P. Patalano nel 1735.
Il modellato della statua nel panneggio mosso da sinuose ondulazioni e intrecci di pieghe morbide presenta caratteristiche riconducibili al gusto ridondante e ancora persistente nella prima metà del XVIII secolo. Il volto, pienotto e tondeggiante, incorniciato da capelli bruni, richiama alla memoria il viso di tante donne siciliane, certamente molto familiare all’artista esecutore dell’opera.
Lo schema iconografico della statua riprende quello della Madonna del Lume, indice dei rapporti della confraternita di Maria SS. della Carità con i Gesuiti, divulgatori della devozione alla Madonna del Lume.
La devozione al culto della "Madonna libera inferni", che a partire dalla metà del Settecento prese la moderna denominazione di Madonna del Lume, ebbe rapida diffusione in Sicilia(80). Numerosissime furono le tele che riproducevano il tema della Vergine che libera i peccatori dalle fiamme dell’inferno e accoglie benevola le anime purganti ardenti di ricevere il perdono divino.
Presenta similare iconografia anche lo sportello della "Madonna della Carità", opera del pittore licatese Giuseppe Spina(81), usato per nascondere alla vista dei fedeli la statua inserita nell’altare.
Analoga funzione nella cappella dell’Immacolata della Chiesa di S. Francesco assolveva lo sportello che chiudeva la nicchia nella quale era custodita l’immagine lignea della Vergine, detta anche Madonna della Candelora, dipinto da Domenico Provenzani nel XVIII secolo su incarico della importante famiglia dei Serrovira a cui si attribuisce l’istituzione delle scuole Serroviriane affidate alla direzione dei PP. Conventuali di S. Francesco(82).
L’attività del pittore del Gattopardo, presente in molti centri della Sicilia, è documentata anche a Licata(83). Educato artisticamente per volontà di F. Tomasi di Lampedusa, il Provenzani fu portatore di una raffinata cultura di stampo Barocco legata alla sua educazione palermitana(84).
Il simulacro ligneo della Madonna della Candelora riprende lo schema iconografico abituale, diffusosi in Sicilia dopo la promozione del culto dell’Immacolata imposto a tutta la Chiesa dal Pontefice Clemente XI nel 1708(85). Caratteristiche analoghe sono riscontrabili nella produzione della scultura lignea coeva con qualche raro esempio anche nell’oreficeria, come nel caso della statua dell’Immacolata in argento sbalzato e cesellato, attribuita alla maestranza degli argentieri palermitani del 1709, conservata nella Cattedrale di Palermo(86).
Nell’opera licatese il panneggio del mantello fortemente rigonfio e la torsione delle mani giunte rispetto alla posizione del capo fanno ricondurre l’opera all’esecuzione di una bottega palermitana della fine del XVIII secolo.
Il Sant’Andrea Apostolo, attribuito ad un ignoto scultore del XVIII secolo, mantiene i segni dell’iconografia tipica del Santo pescatore, protettore dei marinai, che lo vuole rappresentato vestito di rozza tunica con a fianco due assi di legno incrociate, simbolo della croce dove il Santo aveva subito il suo martirio.
L’opera si caratterizza per il panneggio parallelo e verticale della veste che si contrappone al movimento plastico del manto annodato sul fianco sinistro.
La croce che si presenta sbilanciata in avanti e non allineata alla figura del Santo fa supporre che trattasi di un’aggiunta posteriore.
Riconducibile allo stesso periodo è la scultura lignea di S. Caterina D’Alessandria rappresentata in piedi e avvolta da un mantello dall’ampio panneggio che, scendendo dalla spalla sinistra, avvolge la figura e si annoda sullo stesso fianco.
L’esuberante plasticità del mantello si attenua nella parte inferiore con un andamento quasi parallelo delle pieghe. Ad arricchire la statua contribuisce l’utilizzo armonioso delle cromie.
La preziosità barocca delle vesti della Santa, che richiamano la decorazione propria dei tessuti, è riscontrabile in altre statue coeve, come nel caso della statua della Madonna della Carità dell’omonima confraternita, o della statua della Madonna del Rosario, patrimonio del vicino Monastero delle Benedettine a Palma di Montechiaro(87), preziosità che trova peraltro esempi anche nella statuaria lignea spagnola, confermando un legame culturale con la Spagna protrattosi per secoli.
Infatti fin dai primi anni del XV secolo, che segnano l’inizio della dominazione spagnola nell’isola, tutta la produzione artistica siciliana appare fortemente influenzata dai repertori stilistici valenziani e catalani.
Fenomeno riscontrabile in un primo momento, durante il XV secolo, nell’argenteria(88) e nella oreficeria(89) e in un secondo momento, nel XVII secolo, nella scultura lignea(90).
L’influsso degli artisti catalani sopravvisse all’uscita della dinastia spagnola dalla scena politica siciliana, "…tale tendenza non rimarrà bloccata dal subentrare della sovranità piemontese nel 1713, con la sussistenza dell’horror vacui della corrente spagnola"(91).
Il simulacro ligneo di S. Francesco di Paola appartenente all’omonimo sodalizio, oggi nella chiesa di S. Angelo, rispetta l’iconografia abituale, si presenta infatti con la barba lunga, il saio francescano raccolto in vita da un cordone e la testa coperta dal cappuccio. Il volume serrato e la plasticità quasi bloccata, ormai lontani dall’esuberanza barocca e tardobarocca, consentono di datare il manufatto nel XIX secolo.
Dalle confraternite furono anche commissionati altri simulacri lignei espressione di devozioni diverse e disparate. È il caso dei simulacri di S. Barbara e di S. Gaetano da Thiene, ambedue riconducibili alla seconda metà del XIX secolo, conservati dalla confraternita del SS. Salvatore. Tale sodalizio costituito prevalentemente da contadini e massari era legato al culto dei due Santi, la prima invocata contro gli elementi della natura avversi alla coltivazione dei campi, il secondo chiamato anche "Padre della Provvidenza".
S. Barbara è raffigurata in piedi con una torre sul libro che tiene nella mano sinistra. La torre presenta tre finestre in ricordo di quando la Santa rinchiusa dal padre in una torre riuscì a far entrare di nascosto il sacerdote che la battezzò(92). Nella mano destra tiene una palma simbolo del martirio subito dalla vergine. L’opera sembra legata ad una committenza di matrice popolare e pertanto riconducibile ad un autore poco maturo e qualificato che si potrebbe collocare nella seconda metà del XIX secolo.
Il simulacro di S. Gaetano invece si caratterizza per l’ampio e morbido panneggio delle vesti, riconducibili al gusto neo classico emergente, e per la resa naturalistica delle mani. Il Santo, poiché nell’iconografia rituale era rappresentato con in braccio il Bambin Gesù ed una spiga di grano in mano, simbolo di abbondanza dei raccolti, veniva considerato protettore degli agricoltori(93).
Tra le sculture lignee, il Bambinello della confraternita di Maria SS. Della Carità è riconducibile alla tradizione presepiale, assai diffusa nei secoli XVIII e XIX(94), dei Bambinelli in legno, in cera, i cui centri di maggior produzione furono Palermo e Siracusa dove l’apicultura molto diffusa ne favorì la produzione, e più di rado in argento, come nel caso del Bambino Gesù opera di maestranze messinesi del 1699 conservato presso la Chiesa di S. Maria La Nuova di Scicli(95). In questa arte si distinsero i cosiddetti "Bambinai"(96) che operavano a Palermo nella zone della Chiesa di S. Domenico tra il XVII e XVIII secolo. Caposcuola è considerato Gaetano Zumbo. I bambinelli dall’espressione gioiosa o dormienti, spesso di fattura raffinata, impreziositi da accessori d’oro e d’argento erano immersi in un tripudio di fiori di carta e lustrini colorati dentro teche di vetro (scarabattole) o collocati su tronetti intagliati per essere esposti durante le festività natalizie. Il Bambinello della Confraternita di Maria SS. della Carità, di autore sconosciuto, ma sicuramente attivo nel XVIII secolo, presenta un’espressione gioiosa, un atteggiamento tenero e affettivo che richiama evidenti analogie con le movenze del Bambinello della Confraternita di Maria della Mercede di Palermo(97).
Spesso i sodalizi erano legati al culto di un simulacro già presente e molto venerato nella città. Questo è il caso del SS Crocifisso Nero di Licata, sotto la cui protezione nacque la confraternita che in suo onore si chiamò Arciconfraternita del SS. Crocifisso.
Il SS. Crocifisso in mistura, oggi nell’eponima cappella della Chiesa Madre, fu eseguito a Messina nel 1469 da Jacopo e Paolo "…bravi maestri messinesi di un’oscura famiglia Dè Matinati i quali sopra ogni altro ebbero a venir molto in rinomanza in Sicilia per i lavori di crocifissi…"(98) la cui attività è documentata sino agli anni 1548 – 49(99). Manufatti di tal genere prodotti in serie, su scala semindustriale(100) si diffusero in tutta la Sicilia sostituendosi in molti casi alla coeva produzione lignea. In quest’arte si distinsero soprattutto alcune famiglie di scultori messinesi come i Pitti, i Comunella e principalmente la celeberrima famiglia dei Matinati(101).
Sono attribuiti a questa famiglia di "Crocifissai"(102) il Crocifisso realizzato per la Chiesa di S. Domenico di Palermo che si caratterizza "….per bellissima espressione del volto…"(103) e quello custodito ad Alcamo nella sagrestia della Chiesa di S. Francesco di Paola del 1549 modellato da Giovannello De Li Matinati(104). Anche A. Gagini s’inserì nella produzione di Crocifissi in mistura, esempio pregevole può essere ritenuto il Crocifisso della Chiesa Madre di Alcamo del 1523(105).
Il manufatto licatese presenta nella composizione grandi analogie con il Crocifisso conservato nella chiesa di S. Martino nella città di Randazzo, realizzato nel 1540 da Giovanni Matinati(106), anche se l’opera risulta appesantita da più ridipinture, in ricordo degli avvenimenti accaduti nel 1553. Durante il secolo XVI, poiché secondo le disposizioni di Papa Leone X(107) ogni altare doveva presentare l’immagine del Crocifisso, s’intensificò da parte delle confraternite la committenza di Cristi crocifissi, soprattutto lignei.
Ma l’epoca in cui il tema della crocifissione ebbe un particolare culto fu quella relativa alla controriforma soprattutto per merito di alcuni ordini religiosi, e particolarmente Francescani; un periodo in cui la Chiesa con Urbano VIII (Maffei Barberini)(108) diede le direttive alle quali si dovevano ispirare gli artisti nella realizzazione di opere d’arte sacra finalizzate ad illustrare la fede e i dogmi cattolici. Si affermò così in campo artistico un modello di Cristo Crocifisso che sprigionava una fortissima drammaticità e passionalità raggiunti soprattutto attraverso l’uso delle diverse cromie. Una figura afflitta e vilipesa, con la pelle lacerata in cui il colore del sangue, sgorgando dalle ferite, contrastava con l’accentuato livore corporeo, la corona di spine sulla testa e il costato trafitto ne esaltavano il pathos.
La figura del Cristo non apparve più ai fedeli come quella di un uomo che sopportava con umiltà e passivamente il dolore, ma di un Uomo – Dio che compiva un gesto eroico per la salvezza del genere umano(109). Rappresentazioni di siffatto tipo rispondevano all’esigenza di suscitare emozioni forti nell’animo del credente e richiamarlo al culto del divino in un’età che appariva disorientata spiritualmente e percorsa da spinte riformistiche a cui la Chiesa contrappose nuove certezze spirituali nel tentativo di contrastare efficacemente il dilagante protestantesimo.
Drammaticità e realismo, che richiamano tanta statuaria spagnola di età barocca in un continuum artistico - culturale protrattosi nel tempo, sono elementi facilmente riscontrabili nelle opere della produzione licatese, accentuati da una tendenza locale ad esasperare il senso del tragico nei simulacri legati ai riti della Settimana Santa. Rientra in questa tipologia il Busto dell’Addolorata appartenente al patrimonio della confraternita del SS. Salvatore. La drammatica espressività dei gesti e delle masse plastiche del viso, che comunicano il senso tragico del dolore di una madre per la morte del proprio figlio, presentano una certa comunanza espressiva con il volto dell’Addolorata della Madonna de "Virgen de las angustias", dello scultore spagnolo G. Fernàndez(110).
Le celebrazioni del triduo pasquale si presentano in Sicilia come una sequenza narrativa della commemorazione della Passione, Morte e Resurrezione del Cristo, ma anche come richiamo ad una ritualità simbolica precristiana dove il transito da una fase di morte della natura ossia l’inverno, ad una fase di vita e risveglio, la primavera, si esplicitava con la Morte e Resurrezione di Gesù(111). In tal senso è spiegabile la molteplicità e diversità delle commemorazioni del triduo pasquale, mescolanti tradizione e religiosità popolare, nelle varie città della Sicilia che diventano per l’occasione un grande palcoscenico della sentita e commovente rievocazione(112).
Anche a Licata la Santa ricorrenza del Triduo Pasquale è scandita da meste e lunghe processioni che culminano nella celebrazione del Venerdì Santo, alla cui organizzazione è preposta la confraternita di S. Girolamo della Misericordia, giorno in cui si rievoca la Crocifissione e morte del Cristo, rappresentazione comune di molte città dell’isola, vissuto con particolare devozione da tutti i credenti.
Dei vari Cristi Crocifissi un esempio tra i più espressivi è quello del Cristo Crocifisso della Confraternita di S. Girolamo della Misericordia di un ignoto scultore del XVIII. Realizzato in cartapesta policroma riprende dalla coeva produzione lignea barocca i forti toni tragici accentuati dal contrasto delle cromie della superficie. Il manufatto, consono ai modi della spiritualità francescana(113) ricalca la tipologia del Cristo in croce ancora vivo, dal viso sofferente con la bocca e gli occhi semiaperti, i piedi posti uno sull’altro e bloccati da un solo chiodo, "Caposcuola e diffusore di tale iconografia nei conventi francescani…" fu Frate Umile Da Petralia i cui modi "…furono per lungo tempo ripresi da diversi intagliatori del legno a causa delle numerose commissioni soprattutto di Confraternite ed Ordini religiosi…"(114). Viene infatti attribuita al Frate un’ampia produzione di manufatti lignei tutti drammaticamente idealizzati, caratterizzati da un acceso patetismo e da "sovrumana dolcezza" perché l’arte di Frate Umile non è mai fine a se stessa ma mirante alla conversione attraverso la compartecipazione del fedele(115).
Tra le tante opere che gli si attribuiscono esempi pregevoli sono il Cristo Crocifisso della Cattedrale di Caltanissetta(116) e quello della Chiesa di S. Antonio martire a Castelbuono.
Alla Confraternita di S. Girolamo della Misericordia appartiene anche un altro Crocifisso anch’esso in cartapesta policroma, di più recente manifattura. L’opera si differenzia per il pacarsi dei toni drammatici, giustificabile con un’attribuzione ad una bottega non siciliana della prima metà del XX secolo.
Scultura lignea policroma è il Crocifisso della confraternita del SS. Salvatore caratterizzato da un forte patetismo accentuato dalla posizione contorta del corpo, dalla rilevanza della massa muscolare e dal volto emaciato e sofferente. Anche la rifinitura pittorica contribuisce ad amplificare la sensazione visiva col sovrabbondare delle superfici coperte di rosso sangue. Del precedente reperto riprende le caratteristiche del "Cristo patiens" di stampo francescano. L’opera è stata eseguita nella seconda metà del secolo XIX dall’ artista licatese Ignazio Spina(117) a cui vengono attribuite varie opere tra le quali il Gesù flagellato(118) facente parte del patrimonio della confraternita di Maria SS. Della Carità.
La figura del Cristo continua la linea di drammaticità, in questo caso aumentata dalle ciocche di capelli naturali del capo e dalla cromia dei lividi e delle ferite. Il manufatto fu destinato all’esposizione durante i riti del Giovedì Santo. L’autore proveniva da una grande famiglia di artisti: del padre, Giuseppe Spina, sono numerosi i dipinti nella chiesa della Madonna della Carità, mentre Giovanni, nonno di Ignazio Spina, è l’autore(119) della drammatica raffigurazione del Cristo alla Colonna patrimonio della stessa confraternita.
Quest’opera raffigura il Cristo in piedi con il capo piegato verso la propria destra e con un braccio disteso, mentre l’altro è piegato sul davanti. L’usuale tragicità è ulteriormente esaltata dall’uso del colore che rende molto realisticamente i lividi, le ferite ed il sangue.
Dello stesso autore è il Cristo alla Colonna della confraternita del SS. Salvatore in legno intagliato, della prima metà del XIX secolo. La predisposizione di articolazioni snodate e il foro nelle mani fanno pensare che molto probabilmente era stato realizzato per essere utilizzato come Cristo Crocifisso nella rappresentazione della crocifissione del Venerdì Santo.
L’opera dai toni fortemente drammatici s’innesta perfettamente in quella tradizione licatese incline, attraverso un sapiente uso delle cromie, ad accentuare e quasi esasperare il pathos della sofferenza.
Il busto dell’Ecce Homo della confraternita di S. Francesco di Paola si differenzia dalle produzioni coeve in quanto privo di finitura pittorica e affida la propria realistica drammaticità alle venature del legno che creano suggestivi contrasti chiaroscurali. L’iconografia dell’Ecce Homo, diffusa in Sicilia da Frate Umile, assieme a quella del Cristo Patiens, contribuì a divulgare quella tipologia del Cristo, voluta dalla Chiesa ufficiale, che caratterizzò gran parte della scultura lignea di età barocca(120). Oggi l’opera è inserita in una piccola nicchia dell’antica chiesa di Maria SS. delle Sette Spade.
Alla produzione artistica finalizzata alla celebrazione della Settimana Santa è riconducibile l’Urna processionale di proprietà della congrega di S. Girolamo.
Il manufatto, commissionato per trasportare il simulacro del Cristo Morto durante la processione del Venerdì Santo, è opera di uno scultore catanese della fine del XIX secolo, come si evince da una specchiatura dell’intaglio presente sul lato destro dell’urna nel quale risulta scritto: LOPEZ//CATANIA. Non si sono riuscite a trovare ulteriori informazioni riguardo alla bottega artigiana che eseguì l’opera. All’abilità tecnica dell’artista non corrisponde un’adeguata cultura figurativa, l’opera infatti risente di un gusto poco aggiornato e caratterizzato da attardate ispirazioni stilistiche, pur venendo incontro alle esigenze e alle attese della committenza devozionale.
Come ha notato Bresc Bautier(121) è spesso attribuibile proprio alle confraternite qualche aspetto arcaicizzante dell’arte siciliana e in particolare, come avvenne per buona parte del XVI secolo, il tardo mantenimento dei fondi d’oro.
La profonda devozione del popolo licatese raggiungeva una delle sue massime espressioni nei festeggiamenti in onore del Santo patrono, S. Angelo Martire carmelitano. Legati al culto e alla festa in onore del Santo sono i quattro grandi Ceri processionali appartenuti all’omonima congrega.
I manufatti, in gergo "Intorci", realizzati nella seconda metà del XIX secolo in legno intagliato policromo e con parti dorate, venivano portati in processione durante i festeggiamenti.
Lo storico locale L. Vitali(122) racconta che i quattro artistici Ceri, in origine di competenza di diverse maestranze, splendidamente illuminati, nella fase iniziale della processione portati a spalla dai contadini, che procedevano secondo un ordine prestabilito, venivano poi ceduti ai marinai che li conducevano sino al mare, dove si officiava il rito della Santa benedizione, e di lì sino alla chiesa Madre. Oggi i Ceri sono talmente danneggiati da non poter più adempiere l’antico compito.
La struttura degli "Intorci" è comune ad altri manufatti di medesimo soggetto, quali i ceri processionali di S. Agata a Catania e di S. Antonio Abate ad Aci S. Antonio e Misterbianco.
La profonda devozione della popolazione e della confraternita verso il Santo martire nel 1486 si tradusse nella realizzazione di una cassa d’argento per contenere le reliquie del Santo in sostituzione della precedente in legno dorato. Ma nel 1621 la popolazione non contenta della fattura e del minimo valore dell’opera affidò l’esecuzione dell’attuale Urna reliquiaria all’argentiere ragusano Lucio de Arizi, come risulta dall’atto datato 6 Dicembre 1621(123). La realizzazione dell’opera fu portata a termine nel 1623.
L’Urna, che s’inserisce nell’antica tradizione delle urne reliquiarie(124), costituisce un elemento isolato nel panorama artistico della città di Licata e della diocesi di Agrigento con l’unica eccezione rappresentata dall’Urna di S. Gerlando dalla quale è stilisticamente molto lontana. Infatti l’Urna licatese si allontana dai coevi schemi barocchi, presenti nella Cassa di S. Gerlando ad Agrigento e nell’urna di Santa Rosalia a Palermo, in cui "…il modello del sarcofago classico si è trasformato in un’esaltazione trionfale in onore della Santa"(125), e appare più vicina ai moduli stilistici "dell’accademismo classicheggiante", presente nel primo trentennio del Seicento, di cui massimo rappresentante fu Nibilio Gagini(126) al quale si deve la realizzazione della Cassa di S. Giacomo a Caltagirone, il cui modello stilistico fu ripreso dall’argentiere che realizzò la Cassa di S. Giovanni Battista a Ragusa, città di origine dell’Arizi che presumibilmente a quell’opera si ispirò nella realizzazione del manufatto licatese.
Tipica committenza da parte delle confraternite erano anche i fercoli processionali di legno finemente intagliato e dorato, atti a trasportare le statue del Santo titolare del sodalizio. Finalizzato a quest’uso è il Fercolo di Sant’Angelo, macchina lignea processionale del XVIII secolo.
La monumentalità architettonica che caratterizza l’opera è riscontrabile anche nella produzione di mobili di rappresentanza, che per tal motivo dovevano impegnare molto gli esecutori. L’Armadio ligneo posto nella sagrestia della chiesa di S. Angelo n’è un valido esempio.
Un’uguale imponenza architettonica contraddistingue un altro manufatto anch’esso in legno intagliato: l’Altare dell’Immacolata del XVII secolo, situato nella cappella del lato sinistro della chiesa di S. Francesco D’Assisi, antica sede della ormai scomparsa Confraternita dell’Immacolata Concezione. Lo schema compositivo è di chiaro gusto barocco e risente, come nell’analogo caso dell’altare marmoreo della chiesa di M. SS. della Carità, del gusto per gli apparati effimeri coevi, realizzati da Paolo Amato(127), "…rivolti ad un pubblico da manipolare e stupire attraverso una rituale spettacolarità"(128).
Il monumentale Altare marmoreo della chiesa di M. SS. della Carità, nato per accogliere la statua della Santa patrona dello omonimo sodalizio, è realizzato in gran parte in marmo rosso con incrostazioni a marmi mischi secondo una tecnica, molto diffusa in Sicilia nei secoli XVII e XVIII, che tendeva alla realizzazione di tarsie caratterizzate da intensi effetti cromatici, ottenuti attraverso l’uso di marmi di colore e sfumature differenti, e da motivi fogliacei e floreali ripresi per la gran parte dai broccati serici presenti nel messinese(129). L’opera è espressione locale di un certo gusto barocco riscontrabile nelle produzioni architettoniche del periodo.
Parlando dell’altare della Chiesa di M. SS. della Carità non si può fare a meno di menzionare le due Coppie di Candelieri elementi indispensabili della celebrazione eucaristica data la connessione con la simbologia della luce(130). La prima coppia di manufatti del XVIII secolo, in legno intagliato e dorato, presenta elementi del coevo gusto neoclassico.
La seconda coppia, dello stesso periodo della prima, mantiene le stesse caratteristiche ma presenta una fattura meno raffinata e più di stampo seriale.
La committenza confraternale a Licata si espresse anche nella realizzazione di suppellettili liturgiche spesso in argento. Infatti all’artistica Urna di Sant’Angelo si aggiungono altri manufatti in argento espressione di fede e fondamentali strumenti per le azioni liturgiche.
Importante esempio è l’Ostensorio di proprietà della confraternita di M. SS. della Carità, caratterizzato da un’imponente struttura "Raggiata", tipica delle produzioni di oreficeria sacra del XVIII secolo.
Spesso nelle opere eseguite su commissione era inciso lo stemma della confraternita committente e il manufatto sopracitato presenta nel piede lo stemma del sodalizio: un cuore, stilizzato come uno scudo, sormontato da una corona. L’opera è ricca di elementi fitomorfi nel nodo e nella parte superiore del fusto.
Dello stesso patrimonio fanno parte la Pisside in argento sbalzato e cesellato, con l’interno della coppa e globo apicale dorati, e la Corona della Madonna della Carità anch’essa in argento sbalzato e cesellato. L’iscrizione incisa sul bordo inferiore della corona si riferisce alla stessa committente della statua della Madonna della Carità. Tutti i manufatti ricalcano moduli stilistici riscontrabili nella produzione degli argentieri palermitani del XVIII secolo. Altro esempio è la Corona di S. Caterina anch’essa in argento sbalzato e cesellato. Essa riprende la tipologia a fastigio aperto, diffusa tra le corone di statua nell’arco del Seicento e del Settecento(131), ma la presenza di bizzarrie fitomorfi e floreali proprie del gusto eclettico della prima metà del XX secolo riconducono il manufatto ad una bottega palermitana di quel periodo.
Un altro manufatto in argento è la Chiave di Tabernacolo appartenente alla Confraternita di M. SS.della Carità. Il piccolo reperto pur rifacendosi nell’impugnatura a moduli stilistici settecenteschi tradisce nella parte terminale dell’asta una dichiarata tendenza neoclassica che permette di inserirlo alla fine del XVIII secolo.
Della stessa Confraternita fanno parte due insoliti reliquiari espressione della devozione popolare. Il primo è il Reliquiario del Capello della Madonna in oro, argento smalti, perle e panno. Il reliquiario per l’assemblamento di tanti materiali diversi è riconducibile al gusto del secondo quarto del XX secolo pur presentando un pendente d’oro, ornato da tre catenelle con perle finali, che rimanda alla produzione orafa siciliana del XVIII secolo(132).
Il secondo è un Reliquiario in argento sbalzato e cesellato, rame dorato, legno intagliato dorato. Il manufatto presenta una ricchezza d’importanti reliquie raggruppate in tre categorie: reliquie riguardanti la Vergine, reliquie riguardanti Cristo, reliquie riguardanti i Santi immediatamente collegati alla figura di Cristo. Il reliquiario presenta evidenti caratteristiche stilistiche tipiche della coeva produzione architettonica neoclassica. Attualmente il reliquiario è collocato tra gli oggetti relativi alla devozione dell’Addolorata, tanto venerata nella chiesa di S. Agostino della stessa città e indossato dal simulacro durante la festa in suo onore del 14 aprile.
Fanno anche parte del patrimonio della confraternita di Maria SS. della Carità corredi liturgici di paramenti sacri, nei quali l’antica tradizione del ricamo si coniuga alla devozione delle donatrici. Infatti di frequente i manufatti venivano realizzati utilizzando ricchi tessuti donati dalle nobildonne del luogo.
I paramenti sono riconducibili a diverse tipologie a seconda che siano stati confezionati in tessuto operato o a ricamo. Al primo gruppo, per il quale diventa difficile l’attribuzione ad un preciso ambito di provenienza, sono ascrivibili la Pianeta violacea con trina in fili d’argento, il Piviale Violaceo in tessuto di seta policroma con gallone dorato e le due Tunicelle Azzurre in broccato di seta. Del secondo gruppo fanno parte le due Tunicelle Rosse in taffetas di seta e la Pianeta bianca in seta, entrambi i manufatti impreziositi da ricami in fili dorati e argentati richiamano nel disegno la manifattura benedettina del vicino Monastero del Rosario di Palma di Montechiaro, espressione di una tradizione tipica delle moniali dei monasteri siciliani(133).
La maggior parte delle confraternite in Sicilia, inizialmente nate ad imitazione di quelle della città di Roma, spesso si aggregarono ai molteplici sodalizi presenti nella capitale.
Anche la Confraternita di M. SS. della Carità chiese ed ottenne, con una Bolla pontificia del 18 gennaio del 1734 di Papa Clemente XII, l’aggregazione all’Arciconfraternita della Natività di Gesù Cristo e degli Agonizzanti della città di Roma.
Il Diploma di Aggregazione, ancora oggi ammirabile, è abilmente miniato. In alto al centro dell’opera è raffigurata, secondo la tradizionale iconografia(134), la Natività di Gesù Cristo, emblema della congrega romana, arricchita ai lati da elementi floreali.
I Manufatti artistici delle confraternite fin qui esaminati, al di là del loro intrinseco valore, in linea con altre espressioni della religiosità popolare, occupano un posto non secondario nel panorama religioso della città di Licata e, documentando la presenza e la diffusione dei singoli culti, di fatto finiscono indirettamente per testimoniare l’incidenza che i diversi ordini religiosi connessi a quei culti hanno avuto nella società siciliana.
NOTE
(1) Centro diocesano Confraternite laicali, Palermo: Le Confraternite della Chiesa palermitana, Palermo 1992, p. 9
(2) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, Brescia 1978, p. 7
(3) F. Azzarello, Compagnie e Confraternite religiose di Palermo, Palermo 1984, p. 7
(4) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna,cit., p. 23
(5) S. Mangano, Le Confraternite a Corleone, contributo alla stiria religiosa negli ultimi cinque secoli, Palermo 1994, p. 17
(6) A. Mongitore, Le Compagnie, ms. QqE, sec. XVIII
(7) G. Gallo, Tradizione e trasformazione: Breve storia sulle Confraternite palermitane, Palermo 1991, p. 21
(8) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, Licata 1998, p. 33
(9) G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno in Storia della Sicilia, Napoli 1968, Vol. VI, p. 66
(10) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 33
(11) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, cit., p. 58
(12) M. C. Di Natale, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo ,Committenza, arte e devozione in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, Storia e Arte, Palermo 1993, p. 19
(13) G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno in Storia della Sicilia, cit., p. 66
(14) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit. , p. 10
(15) A. Marrone, Storia delle Confraternite religiose e degli edifici sacri a Bidona, S. Stefano Quisquina 1997, p. 24
(16) F. Renda, Dalle riforme del periodo Costituzionale in Storia della Sicilia, cit., p. 207; p. 229; pp. 243-244
(17) G. Gallo, Tradizione e trasformazione: Breve storia sulle Confraternite palermitane, cit., p. 32
(18) Ivi, p. 32; S. Mangano, Le Confraternite a Corleone, contributo alla stiria religiosa negli ultimi cinque secoli, cit. , p. 22
(19) F. De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Laterza 1977, p. 252
(20) F. Azzarello, Compagnie e Confraternite religiose di Palermo, cit., p. 12
(21) G. Bresc Bautier, "Artistes, Patriciens et confrèries, Production et consommation de l’oeuvre d’art à Palerme et en Sicile Occidentale", Roma 1979, p. 38
(22) Archivio Storico del comune di Licata, atti della cessata Congregazione della Carità
(23) C. Carità, Alicata Dilecta. Storia del Comune di Licata, Palermo 1988, p. 455
(24) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 14
(25) L. Vitali, Licata città Demaniale, Licata 1909, p. 271
(26) M. Vitella, Ruolo e ordine delle Confraternite nei festini di S. Rosalia in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, pp. 337- 339
(27) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 15
(28) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 16
(29) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 243
(30) S. Terzo, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo,passato e presente. La città in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 75
(31) A.M. Serrovira, ms. , b.c.l, c.302
(32) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 270
(33) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 19
(34) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 274 – 275
(35) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 260 - 261
(36) V. Bruscia, Un amico di S. Francesco morto a Licata, Milano, s. d.
(37) A.M. Serrovira ms., cit., c. 274 r
(38) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 261
(39) Ivi, p. 266
(40) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit, pp. 21-22
(41) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 430
(42) Statuto della compagnia di S. Angelo in atti della Congregazione di carità
(43) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 247-248
(44) C. Carità, Alicata Dilecta ,cit, p. 413
(45) Archivio Confraternita di S. Angelo, Rollo Vecchio da f. 21 a f. 29
(46) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 31
(47) Ivi, p. 43
(48) Archivio della Confraternita della Carità, rollo vol . 1, c. 7
(49) Ivi, c. 9
(50) Archivio Parrocchiale chiesa madre di Licata, fondo Confraternita di S. Caterina
(51) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 271
(52) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 46
(53) F. Giorgio, Licata storia della città, Roma 1983, p. 65
(54) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 269
(55) Ivi, p. 269
(56) A. M. Serrovira, ms, cit. c. 302
(57) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 60
(58) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 69
(59) Ivi, p. 71
(60) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 463
(61) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 282 – 283
(62) A. M. Serrovira, ms, cit. , c. 287
(63) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p.342
(64) A. M. Serrovira, ms, cit. , c. 277 r.
(65) Ivi, c. 277 r.
(66) P. Ferranti, La pietà Mariana nella diocesi di Agrigento, Roma 1991, pp. 99 – 100
(67) F. La Perna – C. Lo Greco, Le antiche Confraternite di Licata, cit., p. 84
(68) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 242 - 243
(69) F. La Perna – C. Lo Greco, Le antiche Confraternite di Licata, cit., p. 85
(70) A. M. Serrovira, op. cit. , c. 271
(71) F. La Perna – C. Lo Greco, Indagine sul SS. Crocifisso Nero, Licata 1996, p. 5
(72) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 254
(73) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 390
(74) A. C. Vescovile di Agrigento, atti dei vescovi, reg. 1642-1643 c. 482
(75) G. Bresc Bautier, Artistes, patriciens et Confrèries, production et consommation de l’oeuvre d’art a Palerme et en Sicile Occidentale, cit., p. 38
(76) M. Ganci, Irrazionale religioso e magico nel barocco siciliano in Domenico Provenzani "Pittore dei Lampedusa" e la pittura nel secolo XVIII, Palermo 1990, p. 29
(77) A. Buttitta in G. Cocchiara, Le immagini devote del popolo siciliano, Palermo 1982, p. XVI
(78) S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo, in Arti decorative nel Museo Diocesano di Palermo,Dalla città al Museo, dal Museo alla città, a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1999, p. 88
(79) E. Falzone, Caltanissetta nell’arte, s. d, p. 78
(80) L. Bica, scheda II, 17 in Le Confraternite dell’arcidiocesi di Palermo, storia e arte, cit., p. 155
(81) C. Carità, Gli Spina, Una famigli licatese di artisti e letterati, Licata 1998, p. 27
(82) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 726
(83) C. Carità, L’attività pittorica di Domenico Provenzali a Licata in Domenico Provenzali "Pittore dei Lampedusa"e la pittura in Sicilia nel XVIII secolo, cit., pp. 119, 124
(84) L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II pittura, Palermo 1993, pp. 424 - 427
(85) S. La Barbera, scheda III, 20 in Le confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo. Storia e arte, cit., p. 219
(86) Ori e Argenti di Sicilia, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Milano, 1989, p. 266
(87) S. La Barbera, La scultura lignea in Arte e Spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1999, p. 158
(88) M. Accascina, L’oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1974
(89) M. C. Di Natale, Ori e Argenti di Siclia, cit., p. 23
(90) S. La Barbera, La Scultura Lignea, cit., p. 75
(91) M. G. Paolini, introduzione in Le arti di Sicilia nel Settecento, studi in memoria di M. Accascina, Palermo 1992, p. 13
(92) S. La Barbera, scheda III, 22 in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palemo, cit., p. 206
(93) H. Krauss - Uthemann, Quel che i quadri raccontano, Milano 1994, p. 465
(94) A. Uccello, Il presepe popolare in Sicilia, Palermo 1979
(95) M. C. Di Natale, Ori e Argenti di Sicilia, cit., p. 249
(96) R. Cedrini, Il sapere vissuto in Arte popolare in Sicilia, Palermo 1991, pp. 177 - 185
(97) N. Bertolino, scheda III, 27 in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 209
(98) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, vol. III, Palermo 1980, p. 91
(99) Ivi, p. 92
(100) S. La Barbera, La Scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo, cit., p. 77.
(101) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. "L’arte e il Misticismo", Caltanissetta 1986, p. 23
(102) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia , cit., p. 718
(103) Ivi, p. 91
(104) V. Regina, Alcamo, storia arte e tradizione. Dalle origini sino al Cinquecento, Palermo 1980, p. 80
(105) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia , cit., p. 719
(106) F. La Perna – C. Lo Greco, Indagine sul SS. Crocifisso Nero venerato nella Chiesa Madre di Licata, Licata 1996, p. 26
(107) M. C. Di Natale, Il ruolo delle Confraternite nella produzione artistica in Sicilia in Le Radici e la memoria, un contributo per il recupero dei beni culturali di Canicatti, Canicatti 1996, p. 9
(108) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. "L’arte e il Misticismo", cit, p. 23
(109) M. C. Di Natale, Il ruolo delle Confraternite nella produzione artistica in Sicilia in Le Radici e la memoria, un contributo per il recupero dei beni culturali di Canicatti, cit., p. 8
(110) Ars Hispaniae, Historia Universal del Arte Hispanico, Madrid 1963, p. 79
(111) A. Amitrano Bavarese, Pasqua in Sicilia: scenari di rinascita in <<La Sicilia Ricercata>>, anno II, Aprile 2000, p. 6
(112) G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Bologna 1969, p. 22
(113) S. La Barbera, La Scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo,cit., p. 151
(114) S. La Barbera, cheda II, 16, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 203
(115) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. "L’arte e il Misticismo", cit, p. 23
(116) F. Pulci, Guida di Caltanissetta e i suoi dintorni, Caltanissetta 1901
(117) C. Carità, Gli Spina. Una famiglia di artisti e letterati, Licata 1998, p. 34
(118) Ivi, p. 99
(119) Ivi, p. 30
(120) S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo diocesano di Palermo, cit., p. 151
(121) G. Bresc Bautier, Artistes, patriciens et Confrèries, production et consommation de l’oeuvre d’art a Palerme et en Sicile Occidentale, cit., p. 39
(122) L. Vitali, Licata città demaniale, cit.,p. 248
(123) Ivi, p. 262
(124) B. Montevecchi - S. Vasco Rocca, Dizionari terminologici. Suppellettile Ecclesiastica vol. 1, Firenze 1988, p. 157
(125) M. Accascina, L’oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, cit. , p. 341
(126) Ivi, p. 175
(127) M. C. Rugieri Tricoli, Paolo Amato. La corona ed il serpente, Palermo 1983
(128) M. A. Spadaro, Il design dell’effimero tra scenografia, architettura e città in Le arti in Sicilia nel Settecento, Studi in memoria di M. Accascina, cit., p. 160
(129) M. Guttilla, Dalla conservazione alle scelte. Arti minori nel Museo regionale di Messina, Quaderno n. 4 dell’Archivio fotografico delle arti minori in Sicilia, Palermo 1988, p. 34
(130) B. Montevecchi - S. Vasco Rocca, Dizionari terminologici. Suppellettile Ecclesiastica vol. 1, cit., p. 47
(131) M. Vitella, Gli argenti della Maggior Chiesa di Termini Imerese,Palermo 1996, pp. 109, 111
(132) M. C. Di Natale, Ori e argenti di Sicilia, cit.; M. C. Di Natale – V. Abbate, Il tesoro nascosto, Gioie e Argenti per la Madonna di Trapani, Palermo 1995
(133) E. D’amico del Rosso, I Paramenti sacri, Palermo 1997, p. 15; M. Vitella, Tradizione Manuale e continuità iconografica, la collezione tessile del Monastero di Palma di Montechiaro in Arte e spiritualità, cit., pp. 178 – 198; R. Civiletto, La ricchezza della tradizione, Paramenti sacri nel Monastero benedettino di Palma di Montechiaro in Arte e Spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa, cit., pp. 199 - 221
(134) A. Daneu Lattanzi, La Miniatura nell’Italia meridionale e in Sicilia tra Gotico e Rinascimento, in La Miniatura italiana tra Gotico e Rinascimento, vol. II, Città di Castello 1995, p. 752
I. Brevetti e privative: aspetti generali
Nel 1589 Giovanni Botero, teorico della ragion di Stato, indicava la dinamica della politica economica che ogni sovrano avrebbe dovuto adottare per dar floridezza e ricchezza al proprio regno: il buon Principe deve rendere popoloso e florido il proprio Stato, deve "introdurvi ogni sorte di industria e d’artificio; il che farà, et condurre artefici eccellenti dà paesi altrui e dar loro recapito e commodità conveniente, e col tener conto de’ belli ingegni, e stimare l’inventioni e le opere che hanno del singolare o del raro; e col propor premi alla perfettione et all’eccellentia"(1).
Così si comportò il re di Spagna Filippo II che, prima a Lisbona e poi a Siviglia, concesse sincera disponibilità e ospitalità, risorse e mezzi, allo scienziato Giuseppe (in castigliano antico Josepe), hidalgo natural de Palermo(2).
Nel tardo Cinquecento, in Spagna come in Sicilia, esistevano dei registri ufficiali nei quali venivano annotati brevetti e privative, e se le registrazioni in Sicilia godevano di una certa uniformità, nei regni iberici ciò non avveniva. La documentazione si schedava infatti decentrando in varie sedi gli atti ufficiali: nella Chancillería di Granada, nella Casa de la Contratacíon di Siviglia, a Madrid e a Barcellona. In Spagna inoltre l’accoglimento (o il rifiuto) della richiesta del privilegio spettava alla competenza di uno dei Consejos amministrativi, con l’obbligatorio parere vincolante del sovrano.
In Sicilia la concessione di privative era invece prerogativa della Real Cancelleria; l’autorità a provvedere in materia era attribuita al viceré, che deliberava sotto istanza della parte interessata. Nelle concessioni doveva essere precisata l’utilità generale dell’invenzione, il requisito della novità, si est novum artificium, il principio secondo il quale l’inventore del nuovo ingegno potesse beneficiare della sua utilità e dell’onore derivante(3): ciò comportava il sorgere di un diritto nuovo, il diritto all’esclusiva come prodotto intellettuale, sanzionato con una pena pecuniaria a carico del contravventore che spesso veniva scritta nelle stesse ordinanze d’esecuzione. Così l’invenzione diventava uno strumento del diritto al monopolio d’esercizio, che nessun altro poteva utilizzare o copiare. I diritti dei terzi venivano fatti sempre salvi con la riserva: se la privativa in questione, o altra somigliante, era già stata oggetto di concessione in precedenza, perdeva rilevanza giuridica automaticamente(4).
Chiaramente il monopolio non era ad infinitum, era sempre previsto un termine generalmente di dieci anni. In un atto della Real Cancelleria siciliana del 1578 si esprime un principio di carattere generale, che sembra sia stato successivamente accolto, in via consuetudinaria nel corso del secolo XVII, anche nelle cancellerie spagnole: "cosa ordinaria ad ogni uno che inventa in un Regno un magisterio novo, il regitore concederle per anni dieci nixuno poterlo fare et salvo di esso"(5).
Da ciò si deduce come l’aspetto giuridico del fenomeno della concessione di privative non fosse considerato meno importante di quello economico. Tale nuova prassi giuridica, risalente al tardo Quattrocento, in contrasto con il divieto dei monopoli sancito dal diritto romano, non sembra sia stato teorizzato dai giuristi né contemplato da regole note. Nei vecchi trattati di diritto commerciale si accenna appena alla questione e solamente in relazione alle privative di stampa. Nel Settecento lo Scaccia, dopo aver ribadito il divieto generale dei monopoli, affermava ad esempio che era giustificabile l’eccezione alla regola: "in his qui suis faciunt impensis libros imprimi et Principes in eorum privilegium decernunt, alii eosdem infra certum tempus imprimere valeant; quia ex hoc privilegio animantur docti ad imprimendum libros, ut sic eorum doctrina multis communicetur; quod in publicam redundat utilitatem"(6).
Nelle istanze, di solito integralmente riportate nell’atto di concessione e nel dispositivo di questo, mancava di norma ogni descrizione dell’artificio per cui veniva richiesta privativa, probabilmente per timore di possibili imitazioni e di plagi; non è escluso però che talvolta al Consiglio competente venissero dati in visione progetti dettagliati; è questo fortunatamente il caso dello scienziato Bono. Oggi, grazie alla sua "fiducia nelle istituzioni", possiamo comprendere la struttura e il funzionamento del suo vaso ondo, del suo ingegno.
Nel Cinquecento le autorità conferendo questi diritti nuovi, ampliarono la sfera giuridica di pertinenza del soggetto che aveva chiesto l’intervento dell’istituzione pubblica competente per attuare e proteggere l’idea della nuova invenzione o anche per ottenere i mezzi per intraprendere una nuova attività. E’ opportuno sottolineare che non vi è una differenza formale tra atti giuridici che riguardano l’eventuale descrizione dell’invenzione e la sua utilità, e quelli che si riferiscono invece alla introduzione di nuove tecniche o, come per esempio in agricoltura, di nuovi prodotti già sperimentati in altri luoghi da altri.
Diverso è il discorso per i documenti relativi allo sfruttamento di un bene che facesse parte del regio demanio, come ad esempio il mare in un’età in cui nella storia del diritto non si era ancora sviluppata l’idea del ‘mare libero’. In tali casi si è in presenza di strumenti che rivestono il carattere di vere e proprie concessioni, spesso integrate da capitolari di natura contrattuale: deroghe a norme giurisdizionali o di diritto delle genti, costituzioni di servitù, esenzioni fiscali, guidatici per debiti o salvaguardie. Spesso queste deroghe o diritti erano esplicitamente richiesti dagli inventori nelle supliche, ma l’accoglimento positivo era l’eccezione.
Era rarissimo invece l’obbligo di effettuare delle dimostrazioni o delle experientie, anche se in qualche caso sembra probabile che il richiedente avesse offerto la prova pratica della validità del suo ritrovato, presentando delle mostre.
In genere venivano richiesti e concessi sia il "diritto di esclusiva", sia la "licenza di impianto ed esercizio". La concessione era estensibile ad eventuali soci o agli eredi del richiedente, sempre entro i limiti cronologici stabiliti. A proposito di questi ultimi rilevo che, mentre le domande erano spesso avanzate per una durata variabile tra i dieci e i trenta anni, o addirittura vita (dell’ideatore) natural durante, le concessioni successive individuavano una durata sempre inferiore(7).
Non mi è stato possibile in Spagna individuare un corpus legislativo unico su questi argomenti (privative e richieste di monopolio d’utilizzo), sia la documentazione, sia la bibliografia risultano piuttosto frammentarie(8).
Le invenzioni, lo sviluppo delle tecnologie e di alcune attività preindustriali rappresentano sicuramente uno dei più interessanti aspetti della storia economica del periodo rinascimentale, attraverso cui si realizza - a mio avviso - il tentativo di composizione e di fusione della tradizione classica-umanistica e di quella tecnica, nonché una vera e propria presa di coscienza dell’importanza delle nuove invenzioni come fattore di sviluppo dell’economia.
E’ ben vero che il progresso tecnico non ha conosciuto sosta sin dall’antichità, e che esso è stato costante, attraverso una ininterrotta serie di piccole e grandi modificazioni; tuttavia, a partire dal secolo XV, e soprattutto nel secolo XVI, si verificò un po’ dovunque quello che potrebbe essere definito come il boom delle nuove invenzioni(9). Se infatti è vero che "intorno al 1760 un’ondata di congegni si abbatté sull’Inghilterra"(10), è ancor’ più vero che in età moderna il numero delle invenzioni e delle innovazioni, introdotte in moltissimi campi, fu per lo meno pari a quello del periodo della rivoluzione tecnologica del diciottesimo secolo(11). "La rivoluzione industriale fu in primo luogo un’età caratterizzata da una tecnologia di produzione in rapido mutamento alimentata dalla creatività tecnologica"(12), ma questa creatività, la capacità di riconoscere e adottare invenzioni, non fu patrimonio esclusivo dell’ultimo evo moderno o dell’evo contemporaneo: "le invenzioni industriali del XVIII secolo […] non bruciarono le tappe della storia e non misero in azione protagonisti da tempo ibernati"(13).
Lo Stato d’antico regime agevolava l’introduzione di nuove manifatture e concedeva monopoli e privative agli operatori del settore industriale e tecnico-artigianale, arrivando a creare delle nuove figure giuridiche per la protezione giurisdizionale dell’inventore(14).
Così, proprio nel XVI secolo la Baviera Albanese, forse provocatoriamente, individuava in Sicilia i prodromi della rivoluzione industriale, elencando e citando diversi casi d’ingegnose invenzioni. Forse la storia del hidalgo de Palermo Giuseppe Bono, a lei sconosciuta, l’avrebbe ulteriormente convinta della falsità del cliché che caratterizza l’ampia, anche se già superata storiografia della Sicilia spagnola che etichetta quegli anni di ‘dominazione’ con il marchio "dell’arretratezza politica ed economica, di oscurantismo intellettuale e di immobilismo"(15).
Il Trasselli, con uno studio che prende in esame un vastissimo campione di soggetti, ha chiarito per gli inizi del secolo XVI le contraddizioni tra fenomeni che indurrebbero a considerare i costumi della società siciliana violenti, amorali e arretrati, e fatti che al contrario fanno presentire una svolta verso una evoluzione morale e culturale, materiale ed economica, ed una sincera apertura all’esterno non ancora studiata(16).
Anche la Sicilia, nodo chiave delle vicende mediterranee, bastione di difesa e di lotta contro il miscredente Turco, produttrice ed esportatrice di grano, seta, sale, ed altro ancora, è terra d’invenzione e di genialità.
La Baviera Albanese sintetizzava nel suo studio i dati di un’indagine sulle richieste e concessioni di privative in Sicilia per nuove invenzioni, e sulle richieste di licenze "pro nova arte introducenda"(17). La ricerca focalizzava essenzialmente l’ultimo trentennio del XVI secolo, tra il 1570-1575 e il 1600. Per la studiosa siciliana "è proprio in quel trentennio che il fenomeno si presenta con una intensità mai riscontrabile prima e mai ripetuta dopo"(18): in quegli anni nasce, cresce e si sviluppa la storia sconosciuta del palermitano Bono, scienziato di corte prima a Firenze e dopo in Spagna.
II. Identikit di uno scienziato cinquecentesco
Gli storici del diritto industriale affermano che il il "principio della novità" come fattore indispensabile del ritrovato tecnico-scientifico, ma soprattutto la "qualità d’inventore", di scienziato, il suo status giuridico, sarebbero stati istituzionalizzati soltanto con lo Statute of Monopolies emanato in Inghilterra nel 1623; mentre, per trovare l’obbligo di portare a conoscenza di tutti, mediante appositi sistemi di pubblicità, l’avvenuta concessione della privativa a tutela dei diritti dell’interessato e dei terzi, bisognerebbe addirittura aspettare le norme francesi del 21 dicembre del 1762(19). Non credo che ciò sia vero: questi due elementi sono infatti già presenti esplicitamente nei documenti spagnoli e siciliani da me esaminati.
Ma procediamo per gradi: chi è Giuseppe Bono?
L’esame di alcuni documenti dell’Archivo General de Indias di Siviglia mi ha portato alla scoperta di questo siciliano davvero singolare: uno scienziato, un nostro ‘cervello’ d’esportazione, un viaggiatore e un emigrante, un uomo amico dei potenti, un uomo del suo tempo a cui restituire il suo segmento di storia, conducendolo fuori dal grigio limbo dei senza nome(20).
Di questo scienziato non si conosce la data di nascita esatta, né tanto meno il luogo e l’anno in cui morì; si sa solo che fu un palermitano che, ovunque andasse, ricevette sempre in cambio rispetto, stima e consensi, da uomini semplici come da uomini che controllavano i destini di altri uomini.
Nel corso dell’età moderna non sono pochi i casi di scienziati ed inventori che, non trovando sostenitori nelle proprie realtà geografiche, decidevano di intraprendere avventurosi viaggi alla ricerca di un Signore che li ascoltasse e credesse nei loro alchimistici progetti.
Presso l’Archivio di Stato di Palermo si custodiscono diversi documenti che attestano ciò: è il caso ad esempio del viaggio inverso Spagna–Sicilia di cui fu protagonista un sivigliano, Juan Damis, italianizzato in Giovanni Damis, che nell’agosto del 1589 chiese e ottenne riconoscimenti e privativa per l’introduzione di un sistema atto a purgare e a raffinare qualsiasi specie di sale(21).
Il migrare alla ricerca di fortuna e consensi non può dunque essere considerato un evento isolato e circoscritto: una rigorosa indagine comparativa sugli scambi di risorse umane tra la Spagna e la Sicilia potrebbe aiutarci a far luce su quei fili a doppio binario che legavano singoli e istituzioni, pubbliche o private, laiche o religiose, dell’isola alla penisola iberica.
Come Giovanni Damis anche Bono andò via dalla sua terra per cercare fortuna altrove, e questa si presentò sotto belle e raffinate grazie nella culla dell’arte italiana, la capitale del Granducato di Toscana.
Accolto da Cosimo I dei Medici nel 1570, ottenne dopo pochi mesi la licenza di sfruttare un’invenzione(22). Tutto ebbe inizio con i migliori auspici: proprio in quell’anno Papa Pio V nominava solennemente i Medici granduchi. Cosimo I credette nelle proposte del palermitano e gli diede fiducia, nominandolo Commissario Generale di tutte le Armi di Toscana(23). Ma il granduca credette soprattutto ad un progetto che Giuseppe Bono voleva a tutti i costi realizzare, e che lo stesso inventore gli sottopose accuratamente: era una sorta di campana subacquea che avrebbe permesso di sfruttare al meglio la pesca e la raccolta sottomarina del corallo. Dal progetto, allora solo cartaceo, sarebbe stato sviluppato il prototipo in scala di poco ridotta(24).
Questa campana "pesante e robusta", definita come un baso casi de cebura de horinal, strumento nuevo nunca usado, venne anche collaudato, con esito positivo, nei pressi della costa livornese, a Montenero nel Tirreno, un villaggio marinaro posto di fronte all’isola di Gorgona. Dal privilegio del granduca si deduce che grazie all’esperimento, esistevano possibilità per una attività programmata volta ad utilizzare al meglio e con profitto la nuova campana. Non a caso, nel dicembre dello stesso 1570, Cosimo I concesse allo scienziato il monopolio di gestione per dieci anni della sua ‘creatura’, con il vincolo di consegna del dieci per cento del corallo raccolto all’intendente all’uopo nominato, prevedendo anche una salatissima multa per i trasgressori del diritto di monopolio riconosciuto al Bono pari a cinquanta ducati in oro, da dividere eventualmente in due parti uguali tra lo scienziato e il regio fisco de camara. La gracia y previlegio è sub condicione: tutto il corallo pescato doveva essere trasferito da Livorno a Pisa o a Firenze, y no en otra parte alguna, per le operazioni di raffinazione e di coloritura(25).
La permanenza in Toscana di Giuseppe Bono non doveva però rivestire l’abito della stabilità: a causa della morte improvvisa del mecenate Cosimo I nel 1574 lo scienziato, trovandosi senza protettore e - per cause a noi sconosciute - non incontrando più i favori della corte, decise di spostarsi un po’ più a sud.
Bono entrò per la prima volta in contatto con le istituzioni spagnole a Napoli dove ottenne dal re di Spagna Filippo II, per intercessione dell’arciduca d’Austria Alberto, una cedola per sfruttare per altri dieci anni l’apparecchiatura subacquea nelle acque dolci e salate del regno meridionale della penisola italiana(26). Si ignora come e dove il palermitano sia entrato in contatto con l’arciduca Alberto, però è noto che il loro primo incontro avvenne (forse a Napoli) prima del dicembre del 1577, anno in cui l’arciduca d’Austria, già nelle vesti di protettore, ottenne la nomina di cardinale diacono dal Papa bolognese Gregorio XIII e poi ancora l’investitura di prete della Santa Croce in Gerusalemme, ma soprattutto la ‘carica’ di arcivescovo di Toledo, che lo qualificava come "patriarca ecumenico" di tutti i possedimenti spagnoli di terra e di mare. L’allora arcivescovo di Toledo fu il destinatario di alcune lettere che il Bono indirizzò al muy poderoso señor (27).
Ma il Bono ora desiderava recarsi in Spagna, e così fece: l’avventuriero siciliano si imbarcò per la penisola iberica con la sua macchina per palombari, assumendosi tutti gli eventuali rischi economici derivanti dalle spese a cui sarebbe andato incontro. Le peripezie e le rocambolesche avventure che dovette affrontare durante il lungo viaggio che da Napoli, da Cartagena di Murcia, da Badajoz, lo condurrà infine in Portogallo e a Siviglia, sono a noi note grazie a una filza di documenti custoditi nell’Archivo de Simancas(28).
Nella capitale portoghese lo scienziato giunse agli inizi del 1581, e lì aspettò durante un anno il segnale della Corona pro domo sua. A Lisbona, il 27 febbraio del 1582, Filippo II accolse finalmente la petizione del palermitano, ordinando di dare esecuzione alla concessione del privilegio "para que por el tiempo que fuessemos servidos vos o quien vuestro poder, o viere y no otra persona alguna pudiessedes usar y usarde della en los dichosnuestros Reinos y Señorias en toda agua salada y dulçe, o como tanta merçed fuese"(29).
Nell’ordinanza si specifica la novità dell’invenzione e la possibilità di utilizzarla in tutti i territori che afferiscono alla Corona di Spagna. Anche qui, come nella concessione toscana, è ovviamente specificato l’obbligo di versare alla Real Hazienza un decimo di tutto quello che sarebbe stato pescato, al netto delle spese.
La pena pecuniaria per chi violava il diritto di privativa concesso all’ideatore palermitano era fissata in trentamila maravedís, di cui un terzo appannaggio del fisco, l’altro terzo del giudice all’uopo nominato e la restante parte al denunciante della violazione.
III. Per chi suona la campana delle Indie?
La campana è descritta con grande precisione come un vaso di legno - forse cedro - a forma di ficodindia ottagonale (?), "en forma de frascón ochavado"(30), senza nessun respiratore e con una apertura nella parte bassa con la quale si può pescare, raccogliere e prelevare il corallo, le perle e tutto ciò che è accessibile nei fondali, "todas las demas cosas que estan ocultas en el baxo del agua". Il cono subacqueo, se calato in acqua da uno scafo d’alto bordo e sufficientemente zavorrato, necessitava di almeno due uomini per le manovre ordinarie.
Le dimensioni dell’ingegno sono a noi conosciute. Tra le mappe e i disegni conservati nell’Archivo de Indias vi è uno schizzo ad inchiostro su carta che riproduce l’invenzione del palermitano(31). Su di un sistema di assi perpendicolari, su ascisse e ordinate, è scritta l’unità di misura, il palmo. Un palmo è lungo venti centimetri, la campana, come si può appurare dal disegno – todos estos son çinco palmos - aveva una base di cinque palmi, quindi la circonferenza d’accesso possedeva un raggio di mezzo metro, mentre l’altezza era di poco superiore al diametro della base, circa un metro e venti centimetri. Con queste dimensioni è possibile ricavare il peso, circa sette quintali, e anche il volume interno, 82 cm3 approssimativamente(32).
Nella parte superiore del vaso, esternamente, era fissata una morsa, alla quale era legata una robusta fune che permetteva i movimenti della campana verso l’alto, così come verso il basso. La bocca, oltre che la visibilità, consentiva l’ingresso e l’uscita dei palombari che spesso si intercambiavano con dei veri e propri turni di rotazione senza mai lasciare vuoto il vaso; sempre dall’apertura entravano e uscivano gli oggetti pescati che venivano agganciati ad un sistema di funi, con pesi e contrappesi, che circondavano il vaso nella fase dell’immersione. Internamente alla campana, nel suo soffitto - nel prototipo in legno - vi era agganciato un piccolo argano con corde avvolte in un tamburo che, azionate a mano, consentivano movimenti sicuri. In una di quelle funi era assicurata l’ancora, che poteva essere di diversa forma e peso.
Rispetto a quanto disposto dall’ordinanza medicea quella di Filippo II, conservata nell’Archivio delle Indie sivigliano, amplia lo spettro delle possibilità d’impiego dell’invenzione: deve essere impiegata oltre che per il corallo, anche per prelevare dalle navi affondate tutto ciò che sia accessibile e inoltre per la pulitura dei fondali marini e fluviali adiacente ai porti(33).
Ottenuto il ‘brevetto’ Josepe Bono si spostò lungo il Guadalquivir, e fu a Siviglia dove, dopo una serie di esperimenti riusciti, decise di apportare alcuni accorgimenti alla campana subacquea. Non sa che nella capitale andalusa ci sarebbe un buon affare da migliaia di ducati: il recupero delle imbarcazioni affondate e il dragaggio del fiume. Ma questa possibilità gli sfuggirà a causa della concorrenza(34).
Ora tutti i suoi desideri si indirizzarono verso le Indie. Pensava già di poter usare la sua invenzione in quel leggendario e smisurato oceano, ricco di coralli e perle? Sì, desiderava toccare con mano quel mondo di cui aveva solo ascoltato racconti fantastici e di cui non possedeva nessuna nitida idea.
In previsione di un possibile viaggio il Bono progettò una nuova macchina sottomarina in scala di poco superiore, ma questa volta in metallo e tutta in un unico pezzo, per evitare le piccole ma fastidiose infiltrazioni d’acqua, e soprattutto per aumentare il grado di sicurezza dei pescatori che dovevano lì lavorare; questa esigenza dalle carte appare particolarmente sentita dal suo protettore e mecenate, l’arcivescovo cardinale di Toledo Alberto, che otterrà presto anche la dignità viceregia del Portogallo.
Per la realizzazione del nuovo vaso, necessario per poter operare nelle Indie, ritornò a Lisbona dove, per ottenere i fondi necessari, sottopose la sua creazione ad una serie d’immersioni ufficiali, alla presenza di testimoni giurati, per la stesura di un memorandum del Consiglio delle Indie. Il segretario regio Antonio de Crasso partecipò al collaudo in qualità di supervisore generale della Corona.
Il vaso verrà fuso in bronzo tra il 28 maggio e il mese di settembre del 1583. E proprio da una relazione di quest’ultimo mese, redatta dal regio scrivano Tomás de Soria, con la testimonianza del regio uditore del Portogallo Martin de Aranda, di un marinaio e due maestri d’ascia, si deduce che le prove diedero risultati soddisfacenti:
Muy Illustre señor, Jusepe Bono siciliano dize que le conviene hazer una informaçion de un cierto genero de vaso ynventado por el para pescar perlas, corales y sacar todas las cossas que nacen y que estan ocultas de baxo del agua y dello a hecho en el año pasado espirencia muy clara publica en este rio de Lisboa en donde con el dicho vaso perscó y saqué seis ancoras de mucho tiempo perdidas y en mucho hondo y corriente por el qual su Magestad le concedio previlegio para poderse aprovechar por el tiempo de diez años y por esta ynformacion quiere provar como el dicho vaso es util y provechosso y que los hombres que andan en el puedan salir y entrar en el dicho vaso y estar de baxo del agua en el vasso quanto quieren sin ninguna manera de peligro ni de pesadumbre como conexa a los que an visto pescar las ancoras y aquellos que an andado de baxo del agua con el dicho vaso, suplica a Vuestra Magestad mande tomar la dicha ynformacion y se le manda dar sygnada, Jusepe Bono.
E vista por el dicho señor auditor general dicho que mandava y mandó se reciba la ynformacion que el dicho Jusepe Bono confida se le de un traslado de la dicha ynformacion sygnada en publica forma y en manera que haga fee a lo dicho Jusepe Bono para el efeto que lo pide que en ello dijo que ynterponia y ynterpasó con autoritad y decreto judicial para que vaya y haga fee por ma de su Eccellencia Aranda e ante mi Soria(35).
In questa relazione si ricordava anche un esperimento sul Tago a cui parteciparono molti curiosi e nel corso del quale furono recuperate alcune ancore, sei in tutto, da tempo perse nei fondali del porto di Lisbona.
Il regio segretario de Crasso nella sua relazione scrisse che alla campana subacquea furono aggiunti dei pesi di piombo, legati saldamente con doppie funi, e che le perdite d’aria erano state minime, così come la quantità d’acqua che era riuscita ad entrare dalle pur piccole fessure. Fu annotato anche che per i pescatori fu facile entrare e uscire dall’apparecchio subacqueo, lo spazio interno fu considerato grandissimo, non facevano grandi fatiche e non incorrevano in nessun tipo di pericolo: la campana era sicura. Il segretario non fu avaro nel lesinare complimenti al genio siciliano e scrisse del vaso come muy perfecto(36).
Altro partecipante all’esperimento fu Mateo de Ottgen, inviato dell’arciduca d’Austria Alberto, che per suo mandato scrisse alcune righe per verificare il buon funzionamento del prototipo: gli uomini che entrarono nel vaso furono due, stettero lì per circa un quarto d’ora e uscendo dichiararono che era possibile restare sotto la campana per tutto il tempo che si sarebbe desiderato. Gli stessi ritornarono poi dentro l’ingegno per raccogliere nel fondale qualcosa come dimostrazione, il tutto "sin peligro ny pesadumbre de los que andan en el segun ellos lo affirman"(37). Anche il messo cardinalizio si pronunciò chiaramente a favore della ‘macchina’ di mastro Bono: il "vaso es muy a proposito y provechoso para pescar perlas y coral"(38).
Il Consiglio delle Indie richiese ulteriori informazioni tecniche sulla campana e sugli esperimenti fatti, aggiungendo nella nota di relazione il conosciuto parere favorevole del principe cardinale d’Austria e l’offerta dell’ideatore di contribuire alla Real Hazienda con un quinto dei profitti economici(39).
Così lo scienziato espresse chiaramente il suo desiderio di poter sperimentare il suo ingegno nelle acque del Nuovo Mondo, convinto di poter sfruttare al meglio lì, in quei vergini fondali, le possibilità estrattive dell’invenzione: chiese ufficialmente l’autorizzazione per il passaggio alle Indie. Questo desiderio però dovette sul momento rimanere disatteso: gli si rispose infatti negativamente a causa del suo status di non cittadino. In terra di Spagna Giuseppe Bono era formalmente e per diritto extrajero. Il Consiglio delle Indie nel 1583, se da una parte rifiutava il passaggio - se lo estorva escluyendole por estrangero de estos reynos - dall’altro avvisava però il sovrano della possibilità di fare merçed al siciliano de haverle por natural dellos para solo este efecto(40).
Bono così, caparbio ed insistente, chiese direttamente a Filippo II la concessione della naturaleza per rimuovere ogni ostacolo per il suo passaggio in America, forte anche dell’appoggio del nuovo viceré del Portogallo:
Muy Poderoso Señor,
Jusepe Bono dize que por el testimonio del gran Duque de Toscana ynformacion de testigos y relacion del secretario Antonio de Crasso que a presentado, pareçe la perfecion y efetos de su vaso y lo mismo affirma que el serenisimo Principe Cardenal de Austria por una testificaçion suya que esta en poder de secretario Ledesma, suplica a Vuestra Alteza sea servido mandar se vea dicha certificaçion y se le provea conforme el Privilegio y merçed que de su Magestad tiene para ello y a suplicando y reçibira grandissima merçed(41).
Le quattro suppliche d’autorizzazione emesse da Giuseppe Bono tra il 9 dicembre del 1583 e il 1584, nelle quali si ripetono la descrizione dell’ingegno e le sue diverse possibilità d’impiego, le caratteristiche e dimensioni della nuova struttura in metallo, la sua sicurezza, oltre che l’offerta di contributo alla Hazienda Real del quinto dei profitti, sono gli ultimi spasmi di un uomo desideroso di una nuova possibilità di vita(42). Il 7 febbraio del 1584 il re di Spagna concesse al palermitano la tanto agognata licenza per potersi recare nelle Indie - non sappiamo però se come ‘naturale’ di Castiglia(43). Quest’atto fu il passaporto per superare l’Atlantico: mastro Bono ottiene dal sovrano spagnolo il trasferimento con la sua campana subacquea di bronzo nel Nuovo Mondo.
Successivamente, nell’ottobre del 1584, sappiamo che il Bono chiese una vera squadra di assistenti composta da quattro o cinque servi per la sua persona e altrettanti schiavi per la pesca e le manovre della campana fuori e dentro l’acqua. L’inventore si avvalse inoltre della facoltà di utilizzare soggetti di nazionalità straniera per far fronte alle particolari mansioni ‘specialistiche’ richieste nell’uso dello strumento: "se le de […] quatro o cinco criados y otros tantos esclavos que ha menezer".
Oramai senza alcuna remora, lo scienziato avanzò la rilevante richiesta al pubblico erario spagnolo di 1.000 ducati, giustificati con le ordinarie spese d’amministrazione e con "las personas que fan de servir el ingenio y lo demas para su persona". Da un precedente atto del 26 agosto dello stesso anno si deduce che Bono aveva deciso di portare con sé nel Nuovo Mondo due esemplari del vaso; non si conoscono le cause che gli fecero cambiare idea e progetto e perché dei due vasi non si parli più nei documenti successivi, ma questa fonte ci informa anche della durata della concessione per la pesca nelle Indie Nuove, por tiempo de diez años, e sulla richiesta dello scienziato che gli vengano date lettere di raccomandazione da presentare ai viceré e agli organi portuali delle Indie:
C. Real Magestad,
Josepe Bono natural de la ciudad, de Palermo dize que Vuestra Magestad le a conçedido liçencia para que con un baso de bronce de hechura de campana pueda sacar perlas en las partes donde lae ay en las Jndias por tiempo de diez años y para ello querria pasar en persona a ellas, supplica a Vuestra Magestad que pues dello podra redundar benefiçio al patrimonio real de los quintos que a de pagar se le de para ello liçençia y llebar libremente dos de los dicho ingenios y estos aparejos que sovran menezer para ello sin que se le lleban derechos de almoscarifazios.
Asimismo supplica se de liçençia para que quatro o çinco ombres (n.i.) que seran menezer para entrar dentro en el dicho yngenio en la mar pueda embiar o llebar consigo aunque sean de naçione extrangeros de estos reynos.
Y que Vuestra Magestad le de sus cartas de rrecomendaçion para los governadores y audiencias reales de las yslas de barco vento y cabo de la vela, cartagena y otras partes a donde hiziexe la dicha pesqueria(44).
Di qui, quindi, un periodo di permanenza piuttosto lungo sul quale purtroppo non possedendo dati non siamo in grado di aggiungere altro. Con certezza possiamo solo affermare che sino al 9 luglio del 1586 il ‘cervello’ palermitano ancora pazientemente aspettava a Siviglia il galeone per potersi imbarcare per la traversata atlantica. Il Bono, mantenendo continui contatti con la Corte e con il duca Alonso Pérez di Medina-Sidonia, il grande-ammiraglio della disfatta dell’Armada Invincibile, forse cominciò definitivamente a dubitare di un roseo destino.
Forse la verità un giorno la sapremo dalle carte ancora introvabili del segretario regio per il Portogallo Ledesma il quale, sicuramente sino al dicembre del 1584, tenne con sé a Siviglia tutta la documentazione sul dossier Bono che poi, probabilmente, portò in Brasile(45).
Negli anni e nei secoli successivi del vaso dell’ingegnere e avanguardista siciliano Bono si perdette memoria. Il XVII secolo fu un’età di grandi invenzioni e di grandi ritrovati tecnici e tecnologici, e in agricoltura come nelle manifatture e nella futura industria si sperimentò con risultati di chiara ottimizzazione delle risorse e massimizzazione dei profitti; il protagonista del settore terziario, il mercante e bottegaio, rurale o di città, attraverso diverse fasi si trasformò repentinamente in imprenditore. Dal mercantilismo, attraverso una ‘rivoluzione’, si giunse ad una nuova Europa capitalistica e neo-colonialista. Altri ‘vasi’, altre ‘campane’ furono mostrate ai signori di tutti i tempi, e di quella di Giuseppe Bono si perdette la paternità. Bisognerà aspettare il Settecento quando Edmund Halley e James Smeaton si servirono di quella tecnologia - il primo per studiare i movimenti delle maree e il secondo in ingegneria sottomarina - affinché l’innovativa campana subacquea del palermitano Bono ottenesse una piena se pur’ indiretta legittimità storica.
NOTE
(1) G. Botero, Della ragion di Stato libri dieci, Torino 1596, pp. 217-218.
(2) Hidalgo è l’aggettivo spagnolo che deriva dalla locuzione arcaica hijo de algo, letteralmente figlio di "qualche cosa", cioè figlio di ricchi, di possidenti. L’hidalgo appartiene alla bassa nobiltà spagnola impregnata di idealismo eroico e cavalleresco, ma anche di intolleranza e di misticismo religioso. Gli hidalgos sono patrizi e gentiluomini e l’hidalguía definisce l’ultimo grado della gerarchia del privilegio. Ma hidalgo assume anche un secondo significato meno conosciuto: generoso, valoroso, leale e fidato. Così fu Giuseppe Bono nei confronti dei suoi Signori. Sulla Spagna dell’hidalguía, cfr. M. Fernández Álvarez, Historia de España Menéndez Pidal. El siglo XVI. Econimía. Sociedad. Instituciones, Madrid 1989, pp. 315-487.
(3) Appare interessante il richiamo all’onore nel quale è possibile vedere la chiara allusione alla tutela di un bene immateriale: era l’idea in sé e per sé che si proteggeva, non l’apparecchio materiale derivante dall’idea.
(4) Cfr. A. Baviera Albanese, In Sicilia nel sec. XVI: verso una rivoluzione industriale?, Caltanissetta-Roma 1974.
(5) Archivio di Stato di Palermo (in avanti ASP), Real Cancelleria, reg. 456, c. 353.
(6) S. Scaccia, Tractatus de commerciis et cambio, Colonia 1738, p. 301.
(7) Ciò solo sino alla prima metà del Cinquecento; successivamente si arrivò ad una regolamentazione temporale delle concessioni, l’esclusiva veniva concessa per nove o dieci anni, cfr. ASP, Real Cancelleria, reg. 456, c. 353. Sulle modalità di concessione di brevetti e privative gli studi non sono molto numerosi. I primi storici dell’economia che ricercarono fonti sui rilasciti di brevetti, sottolinearono soprattutto come la loro crescita esponenziale in età moderna sia stata un primo sintomo della rivoluzione industriale sette-ottocentesca. Cfr. T.S. Ashton, La rivoluzione industriale, 1760-1830, Roma-Bari 1972, p. 97.
(8) E’ eccezionale per la quantità di informazioni, e penso sia l’unico caso, la documentazione in materia di privative conservata a Venezia. La ‘parte’ votata dal Senato della Serenissima Repubblica nel 1474 è una pietra miliare del diritto sul tema dal tempo dei romani. Cfr. G. Mandich, Le privative industriali veneziane (1450-1555), in "Rivista di Diritto Commerciale", n. XXXIV, 1936; dello stesso autore, Primi riconoscimenti di un diritto di privativa agli inventori, in "Rivista di Diritto Industriale", n. VII, 1958, p. 101.
(9) A. Baviera Albanese, In Sicilia nel sec. XVI cit., p.23. Sulla rivoluzione tecnico-scientifica in età moderna, cfr. A. Rupert Hall, Il metodo scientifico e i progressi della tecnica, in E.E. Rich, C.H. Wilson (a cura di), Storia economica Cambridge, Torino 1975, v. 4, pp. 107-177.
(10) T.S. Ashton, La rivoluzione industriale cit., p. 65.
(11) Così A. Rupert Hall, Il metodo scientifico cit., p.107: "La critica storica ha ormai confutato l’opinione un tempo comune secondo la quale non vi sarebbe stato alcun reale progresso scientifico e tecnologico nell’età medievale. Il periodo successivo al secolo XII fu infatti caratterizzato da uno sviluppo rapido e pressoché ininterrotto […] le conquiste raggiunte in ciascun campo verso la fine del XV secolo costituirono un salto di qualità […] paragonabile soltanto a quello provocato dall’avvento della scienza e della tecnologia del secolo XIX. Senza questo stadio intermedio, non avremmo avuto né la rivoluzione scientifica del XVII secolo, né la rivoluzione industriale del XVIII secolo".
E così E.L. Jones, Il miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella storia europea e asiatica, Bologna 1984, p. 103: "Il Medioevo fu testimone di un lento miglioramento […] dell’habitat umano, della tecnologia, e di un’accresciuta disponibilità di capitale e di energia meccanica".
(12) J. Mokyr, Leggere la rivoluzione industriale, Bologna 1997, p. 27.
(13) E.L. Jones, Il miracolo europeo cit., p. 107. L’autore, a prova della tesi che guarda ai secoli XV e XVI come a un periodo di crescita tecnologica, cita un rapporto del governo degli Stati Uniti d’America che "segnala cinquanta invenzioni importanti nel periodo 1450-1525, contro quarantatré soltanto nel XVIII secolo". Poi insiste con una sfilza di esempi (nel mondo delle innovazioni militari, delle costruzioni navali e civili) che confermerebbero la sua opinione circa il fenomeno del progresso tecnico-tecnologico come un continuum dal Medioevo ai nostri giorni. Cfr. Ivi, p. 105-112.
(14) Sui progressi nel settore artigianale-industriale e sulla cultura scientifica nel XVI secolo cfr. H.G. Koenigsberger, G.L. Mosse, G.Q. Bowler, L’Europa del cinquecento, Roma-Bari 1990, pp. 33-73, pp. 467-487. Sul passaggio dall’antico regime all’età industriale e i suoi risvolti economico-sociali, cfr. G. Borelli, Temi e problemi di storia economica europea, Verona 1993, pp. 275-426. Sulla distinzione tra ‘innovazione’ e ‘invenzione’, cfr. J. Mokyr, Leggere la rivoluzione cit., pp. 34-37, e cfr. la bibliografia lì citata.
(15) A. Baviera Albanese, In Sicilia nel sec. XVI cit., p. 8. Sul superamento della posizione storiografica che considera la dominazione spagnola in Italia come un periodo di generale decadenza cfr. Sv. Arnoldsson, La leyenda negra. Estudios sobre sus origenes, in "Acta Universitatis Gotobergensis", v. LXVI, Goteborg 1960 e G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino 1994.
(16) C. Trasselli, Prodromi del Cinquecento in Sicilia, in "Clio", trimestrale di Studi Storici, 1969, n. 4, pp. 333-351.
(17) A. Baviera Albanese, In Sicilia nel sec. XVI cit., p. 21.
(18) Ibid., p. 9.
(19) Ibid., p. 112.
(20) Su Giuseppe Bono e la sua invenzione, cfr. L.A. Maggiorotti, Architetti e architetture militari, v. III, Roma 1939, pp. 120-125, p. 366; F. Giunta, Un inventore palermitano verso le Indie nuove nel 1583. Giuseppe Bono e la prima campana subacquea, in N. De Domenico, A. Garilli , P. Nastasi (a cura di), Scritti offerti a Francesco Renda per il suo settantesimo compleanno, Palermo 1994, pp. 653-666; A. Dell’Aira, La campana di Giuseppe Bono, ‘hidalgo natural de Palermo’, in "Kalós. Arte in Sicilia", n. 1, 2000, pp. 34-41.
(21) ASP, Tribunale Real Patrimonio, Atti giudiziari e sentenze, reg. 127, c. 512. Per altri casi, cfr. A. Baviera Albanese, In Sicilia nel sec. XVI cit., pp.32 ss.
(22) Già da alcuni anni i Medici cercavano personale specializzato in attività manifatturiere nel meridione d’Italia, cfr. G. Vivoli, Annali di Livorno, Livorno 1976, v. III, p. 34.
(23) Archivio Generale delle Indie (in seguito AGI), Patronato, 260, R. 10. Questa è la traduzione fedele in castigliano, "sin quitar ni poner palabra ny silva alguna demas ni de menos", dall’originale pergamena in "lengua latina" andata perduta, che era stata dettata a Firenze il 30 ottobre del 1570. Era "en pergamino sellada con su sello de plomo pendentie en ciertos hilos". La trascrizione in castigliano del 22 settembre 1583, avvenuta a Lisbona davanti ai testimoni Julio de Castromonte e Pedro de Villareal, è opera dello scrivano Juan de Orio Salazar, con la supervisione dell’Escrivano Publico Diego de Tiano:
"PREVILEGIO DEL GRAN DUQUE DE TOSCANA
Este es traslado bien y fielmen sacado de una carta e previlegio concessa e dada por el gran Duque de Florencia en favor de Jusephe Bono siciliano escripta en pargamino sellada con su sello de plomo pendentie en ciertos hilos segun por ella parecia sustenere es como se sigue:
PREVILEXIO Y MERZED
Cosmo de Medices por la gracia de Dios gran duque de Toscana y Sena duque segundo de Portoferraro en la isla de l’Elba etc. Reconosemos y habemos fe a todos como Jusephe Bono hidalgo natural de Palermo, comessario general de todas las harmas en nuestro estado. Haviendo hallado de su propria yndustria y yngenio una manera de pescar coral y con un baso casi de cebura de horinal el qual es ynstrumento nuevo nunca usado, para sacar de hondo del mar con nueva facilidad qualquiera cosa que en ella ubiese yaviendo. Renovado la pesca del coral cerca de Montenegro a su costa en nuestro mar Tirreno. Havemos considerado ser cosa justa le ibiesemos merced, de concederle en recompensa de su travajo e yndustria el fruto della, y ansi movidos por lo ya dicho como por otras justas consideraciones de toda nuestra autoridad, mandamos y proyvimos a todos los pescadores mercaderes navegantes soldatos y otras de qualquiera suerte o condicion que sean que nenguno durante el tiempo de diez años pueda ny se atreva de pescar en toda la dicha mar y lugar de Montenegro ningun genero de coral con qualquier suerte de artificio red ni yngenio alguno, por todo el çerquyto del dicho mar si no fuere el dicho Jusepe o quien su poder subiere y sus herederos y subçesores, a los quales solos conçedemos que por todo el tiempo de los dichos diez años ansy conrred como con el dicho vaso o qualquier otro ynstrumento puedan pescar y otra persona alguna no; y quien a contrario sisiere yncurra en pena de quinientos ducados de oro y deperdimiento de los baxeles y coral, la mitad de todo lo qual sea de aplicar para el dicho Jusephe y la otra al fisco de nuestra camara, conchedemos pues esta gracia y previlegio al dicho Jusephe Bono y a sus herederos con las condiziones seguientes:
Primeramente quel dicho Jusephe o sus dichos herederos de qualquiera parte de coral ansy grande como pequeña y de qualquiera suerte o calidad que ellos a su costa sacaran del dicho nuestro mar sean obligados de dar y entregar el diezmo al nuestro veedor que para este efetto avemos nombrado es a saver de cada cien libras de coral de qualquiera ley o calidad que sea, diez al nuestro veedor al qual ansy el dicho Jusephe Bono como sus herederos sy hallaren otra cosa demas de coral sean obligados de manifestar y asimismo que todo el coral que sacaren se lleve en Pisa oy en Florençia y no en otra parte alguna, para que se pueda refinar y dar color por nuestros oficiales para este ministerio suficientes y esto conchedemos al dicho Jusepe Bono, non obstante toda y qualquiera cosa en contrario a la qual de nuestra voluntad y llena e special y espresa derogamos y asy le havemos mandado dar la presente firmada de nuestra mano y sellada de nuestro sello ducal de plomo: fecha en Florençia a trenta de octubre de mil quinientos y setenta en el ano primero de nuestro gran ducado, trentayquatro de Florençia, catorçe de Sena el granduque de Toscana. Vidit Celius Françisco Vintha.
En la çiudad de Lisboa a veinteydos de mes de setembre milyquinientos y ochenta tres años por ante mi el escrivano publico y testigos deyuso escriptos parechio presente Diego de Tiano, estante en esta dicha çiudad de Lisboa y juró en forma de derecho quel traslado desuto contenido lea sacado y traducido bien y fielmente de lengua latina en castellano, sin quitar ni poner palabra ny silva alguna demas ni de menos y quel original de la dicha merced y previlegio quedo en poder del dicho Jusephe Bono, no en bargante que a mi el presente escrivano me fue mostrado y lo firmó de su nombre testigos Julio de Castromonte y Pedro de Villareal, estantes en esta corte Diego de Tiano.
Yo Juan de Orio Salazar scrivan de su magestad Cattolica."
Fu lo stesso Bono che fece tradurre in spagnolo il privilegio mediceo, volendo conservare la versione autentica, per mostrare all’occorrenza la copia (proprio questa normale precauzione fu la causa dello smarrimento della prima concessione!). A ulteriore conferma, presso l’Archivio di Stato di Firenze (ASF), esistono due lettere del 1569 con cui il granduca nominava il mastro siciliano commissario degli armamenti dello Stato toscano, cfr. ASF, Pratica segreta, 187, citato in A. Dell’Aira, La campana cit., p. 36.
(24) Sulle invenzioni sottomarine, cfr. E. Nardi, "De urinatoribus": ovvero dei ‘sub’ nell’antichità, in "Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, classe di Scienze Morali", 1986, pp. 51-63; T. Rodríguez Cuevas, J. Ivars Perelló, Historia del buseo. Su desarollo en España, Barcellona 1997. Sugli ingegni e le opere pubbliche nell’età di Filippo II, cfr. AA.VV., Felipe II. Los ingenios y las máquinas. Ingenería y obras públicas en la época de Felipe II, Madrid 1998.
(25) Se sino ai primi quattro decenni del XVI secolo Livorno era una piccola cittadina portuale con meno di 600 abitanti, con Cosimo I (1537-74) la città si sviluppò enormemente. Lo scalo di Porto Pisano, già quasi del tutto interrato per l’avanzata del litorale e l’impaludamento, venne abbandonato. Così, nei primi anni del Seicento a Livorno vivevano 5.000 abitanti e soprattutto vi erano in attività circa venti fabbriche per la raffinazione del corallo (che poteva essere lì comprato quando la città divenne "porto franco" nel 1591). Inoltre, l’amministrazione doganale toscana prevedeva il pagamento di alti dazi per la pesca nei fondali del prezioso celenterato. Sull’attività corallifera in Toscana, cfr. G. Vivoli, Annali cit., pp. 39 ss. Sull’economia e la società livornese in età moderna, cfr. D. Matteoni, Livorno, Roma-Bari Laterza, 1988.
(26) R. Magdaleno (a cura di), Titulos y privilegios de Napoles, Valladolid 1980, p. 82.
(27) Di queste lettere ho trovato un paio di esemplari nell’Archivo General de Indias, nei legati Patronato e Indiferente, già in parte utilizzati dal F. Giunta, Un inventore palermitano cit., pp. 653-666. Lo storico siciliano però si limita allo studio dei soli documenti compresi nel dossier segnato Regio Patronato, ignorando il legato Indiferente e perdendo così le tracce di Giuseppe Bono nel 1583. A. Dell’Aira, La campana cit., pp. 34-41, estende la ricerca delle fonti all’Archivo General de Simancas e all’Archivio di Stato di Firenze. Si sono dimostrate purtoppo infruttuose le ulteriori ricerche da me effettuate a Siviglia, nell’Archivo Historico Provincial, e a Madrid, nell’Archivio di Stato. Riproduco la trascrizione della prima delle due lettere inviate dal Bono all’arciduca Alberto, AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 20/1, già pubblicata dal Giunta con alcune distrazioni. Questa lettera porta la data dell’11 luglio 1583:
"Muy Poderoso señor,
Jusepe Bono siciliano vassallo de Vuestra Alteza dize que con mucha costa y trabajo suyo, ha hecho un vaso y jngenio para pescar perlas y corales en la mar con el qual ha sacado en el puerto de Lisboa seyes ancoras perdidas de muchos anos y metidos en el hondo onze y doze passos y porque la fabrica y jnvencion del ha gastado muchos ducados, y que es justo que cadauno se aprovecha de su industria y abilidad, supplica a Vuestra Alteza sea servido mandar dar privilegio porque nadie pueda usar del dicho jngenio y artificio en todos estos reynos ny en todas las Indias de Vuestra Alteza sin licencia suya durante su vida, que en ello recibira muy particular merçed de Vuestra Alteza."
(28) AGS, GA, Legajos, 109,344; 110,290; 148,122; 149,339; 151,50; 172,84-86; 186,112, cfr. A. Dell’Aira, La campana cit., pp. 34-35. Così l’autore argomenta: "Si è imbarcato a Napoli ed è sceso a Cartagena con un arsenale di sue invenzioni e di strumenti bellici. Noleggia due carri, rassegnato […] lascia gran parte dell’armamentario sul posto, sperando nella sua buona stella e fidandosi del re".
(29) AGI, Indiferente, 2094, N. 153/1/9:
"El Rey,
Por quanto por parte de vos Josepe Bono natural del Reino de sicilia nos asido hecha peticion que con vuestra yndustria y trabajo Aveis alcançado un ingenio y arte que es un vaso de madera hecho en forma de frascon ochavado sin respiradero alguno con una voca en la parte baja con el qual se pueden pescar y sacar perlas coral y todas las demas cosas que estan ocultas en el baxo del agua y sacar de las naos y limpiar los puertos de qualquier immundicia que tengan en esta manera que en lo alto de el dicho vaso por la parte de dentro esta un torno dodscioge una cuerda de que se cuelga una piedra de peso competente que el torno haze subir y baxar el vaso, lo que quieren los que van dentro del y en la parte de abaxo del dicho vaso esta la dicha boca por donde entran y salen los hombres que le ande governar y salir a pescar y dentro del ande llevar refresco y su repilla para engujarse quando entran. El dicho vaso del qual a de salir el uno y buelto al vaso a de salir el otro porque no le ande star solo y por la dicha voca pueden ver todo lo que esta de baxo y salidos del vaso todo lo que ay en su contorno y pescar lo que conviene y lo que no quisieren poner en el vaso lo pueden atar con cuerdas que para ello an de llevar con sus corchillos al cabo que en soltando las suben sobre el agua y cogidas por los que van en el vaso tiran dellos y lo sacan con facilidad y para salir con esta yndustria aveis gastado mucho tiempo y tenido mucho trabajo y costa, suplicandonos que pues de la dicha invencion se siguria mucho beneficio a todos nuestro Reynos y señorias, os mandamos dar previllegio para que por el tiempo que fuessemos servidos vos o quien vuestro poder, o viere y no otra persona alguna pudiessedes usar y usarde della en los dichos nuestro Reynos y senorias en toda agua salada y dulçe, o como tanta merçed fuese. Nos acatando lo suso dicho y el benefficio y utilidad que dello se siguiria avemos tenido por vien por ende siendo el dicho yngenio nuevamente ymbientado y no se aviendo usado del hasta aora en los dichos nuestros Reynos y señorias por la presente sin previsio’ de tercero alguno, damos licencia a vos el dicho Jusepe Bono para que por tiempo de diez años primeros siguientes contados desde el dia de la fecha desta nuestra çedula en adelante, vos o quien en vuestro poder o causa y no otras personas algunas podais usar y usando la dicha ynvencion en los dichos nuestros Reynos y señorias en toda agua salada y dulçe con tanto que seais y sean obligados acudir con la decima parte de todo lo que con el dicho yngenio se hallase y aprendiese limpio y libre de toda costa manifestando luego todo lo que se hallara de la persona a cuyo cargo estuviere la cobiança de nuestra Real hazienda en el districto donde lo tal suçediese para que con ynvencion de la nuestra justicia principal del sea parte y tome para nos la dicha dezima parte sopina de aver pedido todo lo que de otra manera se sacase y pescare con mas otrotanto applicado la tercia parte para nuestra camara y la otra tercia parte para el juez que lo sentenciare y la otra tercia parte para el que lo denunciare y proibivimos y defendemos que durante el tiempo de los dichos diez años otras personas algunas de qualquier estado y calidad que sean no sean osados de hazer tener ni usar de la dicha ymbencion o yngenio ni de cosa del si no tan solamente vos el dicho Jusepe Bono o quien en vuestro poder o causa o viere o a quien diese licencia para ello y a qualquier otra persona o personas que sin tener vuestra liçencia durante el dicho tiempo lo hiquieres o usare de la dicha ymbencion o la tuviere, yncurra por el mismo caso y hecho cada vez que lo hizieren en pena de treinte mill maravedis y sacase perdida, la qual dicha pena applicamos por tercias partes en la manera que dicha es y mandamos a qualquier nuestro juezes y justicias de los dichos nuestros Reynos y señorios a cada uno en su jurisdicion que siendo requeridos por vos dicho Jusepe Bono o por quien vuestro poder aviesen, executen los tales las dichas pena y ansi mismo mandamos a los del nuestro Consejo presidentes y oidores de la nuestra audiencias y otros qualesquier nuestros juezes y justicias de los dichos Reynos y senorios que guarden y cumplan y hagan guardar y cumplir nuestra çedula e lo en ella contenido. Fecha en Lisboa e veinte y siete de febrero de mill y quinientos y ochenta y dos anos.
Rescripta de Julio Vazquez, señada de Juan Mayor.
Concertada con el libro (adonde esta sentada) Por Mi L. Nuñez de Valdivia".
(30) E’ curiosa la terminologia usata per la descrizione dell’ingegno nelle due ordinanze, quella spagnola e quella toscana (in lingua castigliana): ora, in questo ficodindia, prima orinal, vaso da notte. Il Dell’Aira sostiene che sia stato commessso un errore nella traduzione dell’ordinanza medicea in castigliano, e che baso casi de cebura de orinal non sia in realtà la traduzione dal latino vas orinatorium. Il vocabolo frainteso è urinator, ossia palombaro. Cfr. A. Dell’Aira, La campana, cit., p. 36.
(31) AGI, Mapas y Planos, Ingenios y Muestras, 5. Cfr. Fig. 1, p 27. Questo disegno rappresenta però l’apparecchio in metallo, non quello in legno. Sul vaso sottomarino, cfr. T. Rodríguez Cuevas, J. Ivars Perelló, Historia del buseo, cit., pp. 32-33.
(32) Una nota sul disegno del vaso ondo è in AA.VV., Archivo General de Indias. Collección archivos europeos, Madrid 1995, p. 152.
(33) A partire già dalla prima metà del XVI secolo in tutta Europa si realizzarono esperimenti analoghi, resi possibili anche grazie agli studi del matematico bresciano Niccolò Fontana, detto il Tartaglia (1499-1557). Egli, nel suo libro Travagliata Inventione pubblicato a Venezia nel 1551, prospettava la possibilità di riscattare brigantini o vascelli, o più semplicemente i tesori lì conservati, basandosi sul principio di Archimede. Proprio la laguna veneziana fece da scenario di sperimentazione per numerosi ingegni, simili a quello ideato dal Bono. Con molta probabilità lo stesso Giuseppe Bono conobbe gli studi del Tartaglia. Cfr. AA.VV., Felipe II. Los ingenios cit., p. 202.
(34) Già a partire dal 1578 il Re Prudente si mostrava preoccupato per le condizioni critiche in cui versava il porto di Siviglia: "Yo he entendido que conviene mucho limpiarse el río de Sevilla porque della a las Horcadas dice que se ha hecho innavegable para navíos grandes con los bajítos que tiene y por otras muchas causas", cfr. M. Babío Wall, Aproximación etnográfica del puerto y río de Sevilla en el siglo XVI, Siviglia 1990, p. 137. Fu un certo Antonio Çibori, anch’egli di origine italiana, ad aggiudicarsi ‘l’appalto’ del recupero delle navi affondate nel Guadalquivir tra il 1580 e il 1582: sei carcasse saranno riportate in superficie e per ciascuna di esse il Çibori riceverà 2.000 ducati di ricompensa, più tutto ciò che là venne ritrovato. Inoltre, nessuno avrebbe potuto usare per i prossimi vent’anni le macchine costruite dall’ingegnere che noi oggi sconosciamo. Cfr. AA.VV., Felipe II. Los ingenios, cit., pp. 202-203.
(35) AGI, Patronato, 260, R. 11. I mastri d’ascia e il marinaio avevano già eseguito il collaudo del vaso in legno.
(36) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 10/1.
(37) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 4.
(38) Ibid.
(39) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 5.
(40) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 6.
(41) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 7.
(42) AGI, Patronato, 260, N. 1, R. 8. Francesco Giunta non conosceva il finale della storia, egli possedeva, come ultima traccia, solo la supplica d’autorizzazione del 1583.
(43) AGI, Indiferente, 2094, N. 153/13-16. In questo documento, emesso il 30 ottobre del 1584, solo indirettamente si menzione la licenza reale di Filippo II.
(44) AGI, Indiferente, 2094, n. 153/1/1-4.
(45) Questa la richiesta dell’originale licenza di passaggio alle Indie di Giuseppe Bono della Casa de la Contratación di Siviglia al segretario regio per il Portogallo Ledesma. Il documento è senza data. AGI, Indiferente, 2094, n. 153/1/5:
"Muy alto y muy Poderoso Señor,
Jusepe Bono, di […] por principio deste ano conçedio Vuestra Magestad liçençia para que lo quien suo poder huniese y no otra persona pudiese pescar perlas en Yndias con un jngenio de bronçe hecho a forma de campana y haviendo pedido a Vuestra Magestad liçençia para pasar a las Yndias con el dicho yngenio y buçie que an de servir en la pesquera se le ha respondido muestra el prebilexio de Su Magestad y la original esta en Sevilla donde ay nescesidad della, suplica se mande sacar una copia della de las libras del secretario Ledesma para le presentar antes el Consejo de Yndias para que se le conçeda a pasar a ellas como lo tiene suplicado".
Fig. 1. Disegno della campana subacquea di Giuseppe Bono (1583?).AGI, Mapas y Planos, Ingenios y Muestras, 5.