Enzo DI NATALI, Il dopo Concilio ad Agrigento e i cattolici del dissenso. Agrigento, Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini, 2004.
In questo pregevole lavoro Enzo Di Natali illustra, con dovizia di particolari, le conseguenze politiche che in provincia di Agrigento, territorio sempre molto sensibile all’influenza cattolica, ebbe il Concilio vaticano II.
Già alla fine degli anni cinquanta la compattezza del clero, che aveva caratterizzato nei secoli la vita agrigentina, era venuta meno; una parte del clero, quella costituita, soprattutto, dai giovani sacerdoti, sentiva che molte scelte e molti comportamenti della Chiesa non erano compatibili con l’insegnamento evangelico e non erano più idonei a rispondere alle esigenze e alle richieste che provenivano dai ceti più poveri. Le continue crisi politiche regionali e amministrative, lo svilupparsi del clientelismo e l’inadeguatezza della Democrazia Cristiana a risolvere i problemi del Mezzogiorno, avevano portato parte del clero a porsi contro le scelte politiche del vaticano, facendo venir meno, così l’unità politica dei cattolici. Nel 1958 con l’esperienza Milazzo una parte del clero si era schierata con i ribelli DC e si era dichiarata pronta a sostenere alleanze politiche anche con i comunisti se questo fosse servito al miglioramento delle condizioni dell’Isola. Tuttavia, in seguito alla scomunica comminata da Papa Giovanni XXIII ai ribelli, la crisi era rientrata.
Dopo il Concilio e sotto il Pontificato di Paolo VI la contestazione da parte di alcuni sacerdoti progressisti alle scelte politiche vaticane si fece più rigida e pressante. Peraltro i tempi erano decisamente cambiati, lo stesso Papa che nel ’58 aveva lanciato quell’anacronistico anatema contro chi collaborava con il partito comunista, aveva poi favorito delle clamorose aperture a sinistra. Il suo successore, incerto sul da farsi, aveva assunto un atteggiamento attendista che poteva essere interpretato in maniera diversa e che favorì, peraltro, la proliferazione dei preti progressisti che ritenevano naturale un’alleanza stabile dei cattolici con le sinistre.
Il vescovo di Agrigento Mons. Petralia si trovò impreparato a fronteggiare una tale situazione e ritenne di poter rimediare esortando i sacerdoti a tornare dentro le sacrestie, ad occuparsi più del culto che dei problemi a carattere politico e sociale. Nel frattempo arrivava il ’68 con la sua pericolosa carica di contestazione giovanile che fece da catalizzatore, nel giovane clero, di istanze che ormai da tempo erano rivendicate con insistenza. Il vescovo comprese allora che occorreva cambiare tattica, democratizzare la diocesi, e diede vita nel ‘69 alla prassi di rendere conto annualmente al clero riunito in assemblea del proprio operato. Petralia temperava questo esperimento di modernizzazione con l’organizzazione dei mensili ritiri spirituali che miravano a rompere l’isolamento del sacerdote e a difenderlo dalle tentazioni.
Nel 1970 la diocesi eleggeva il primo Consiglio pastorale diocesano, composto da 29 sacerdoti, 5 suore e 26 laici che si poneva subito in contrasto con l’indirizzo fino ad allora seguito da Petralia; infatti contro il modello di prete cultuale che dedicasse tutto il suo tempo al ministero, proposto dal Vescovo, si patrocinava il modello di prete sociale, interamente calato nella realtà politica e sociale, alla cui mancanza, a parere del Consiglio, si doveva in gran parte la crisi vocazionale che iniziava proprio in quel periodo.
Nel 1971, in occasione di un corso di aggiornamento tenutosi a Sciacca, i sacerdoti partecipanti sottoscrissero un documento comune che condannava la mafia, il clientelismo e il collateralismo politico della Chiesa e del clero; per la prima volta si parlava di apertura della Chiesa ad ideologie diverse che avessero in comune con essa la promozione umana. Tuttavia in netto contrasto con tal documento il Vescovo, tramite il giornale diocesano "L’Amico del popolo", condannava, anche a livello amministrativo, giunte costituite da alleanze tra DC e PCI, tollerando, al massimo giunte tra democristiani e socialisti, purché questi ultimi si dichiarassero formalmente anticomunisti. Per reazione si formarono nella diocesi delle Comunità cristiane di base, di cui la più importante fu senz’altro quella di Favara che, nel 1973, elaborava un documento di protesta formale contro l’operato della Chiesa di cui rifiutava il suo carattere interclassista, sostenendo, sulla base della prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, che non si poteva accettare "la presenza del ricco nella vita della Chiesa, perché la sua stessa condizione sociale, quella di essere ricco, urtava contro la parola di Dio e il Sacramento dell’Eucarestia" (p. 67).
L’anno successivo Petralia, che aveva fin dal primo momento condannato i gruppi spontanei e le comunità di base, davanti al proliferare di tali organismi in tutta Italia, si rassegnò ad assumere un atteggiamento più conciliante nei loro confronti pretendendo dagli stessi - come scriveva nella Lettera Pastorale per la preparazione del Giubileo - la vita di fede, la vita di grazia e la vita di comunione. Ma ai sacerdoti di avanguardia ciò, che secondo l’autore era il massimo che il vecchio Vescovo potesse concedere, non bastava e contro tale lettera fu redatto un documento detto dei sessanta, in cui i preti firmatari, la cui età media era approssimativamente sui 35 anni, sfiduciavano il loro Vescovo.
Nel 1974 il referendum sull’abrogazione del divorzio, mise in rilievo la secolarizzazione della società italiana; tale evento politico, infatti, non divise solo l’elettorato tradizionalmente cattolico, ma lo stesso clero. In quell’occasione il direttore del giornale diocesano Di Giovanna pubblicava l’articolo di Enzo Mulè che, sebbene abbastanza equilibrato, invitava di fatto i cattolici a votare contro l’abrogazione della legge. Lo stesso direttore, inoltre, anche se non poteva esprimersi apertamente a favore del divorzio, esortava i lettori a non assumere, sulla questione, atteggiamenti da crociata. La vittoria dei divorzisti al referendum peggiorò ancora di più i rapporti tra Petralia e quella parte del clero diocesano che aveva sostenuto il mantenimento della legge, fra cui ormai entrava a pieno diritto don Alfonso Di Giovanna che il Vescovo decise, appunto, di licenziare, assumendo egli stesso la direzione del giornale. Il provvedimento determinò le dimissioni di tutta la redazione segnando una frattura incolmabile all’interno della comunità ecclesiale diocesana, di cui chiara espressione fu la fondazione del settimanale "Scelta" diretto appunto da Di Giovanna, in netto contrasto con gli indirizzi episcopali. In tale giornale potevano distinguersi due tendenze: una, seppur di contestazione al vescovo, tuttavia favorevole al dialogo e alla composizione, facente capo allo stesso direttore; l’altra riconducibile a don Luigi Sferrazza, di rigida opposizione alla politica dell’episcopato e di netta rottura nei suoi confronti e soprattutto aperta ad una analisi della società di tipo marxista. Perciò nelle elezioni del 1975, il settimanale si sarebbe schierato apertamente a favore dei comunisti.
Di contro, "L’Amico del popolo", con il nuovo direttore nominato dal vescovo, il tradizionalista mons. Domenico De Gregorio, riprese il sostegno politico alla DC che proprio in quel periodo temeva seriamente la possibilità di un sorpasso comunista, tornando ai toni bellicosi propri del 1948 e rivendicando alla Chiesa il diritto di intervenire nelle scelte politiche dei cattolici, ricordando, peraltro, che la scomunica papale del 1949 contro i comunisti era ancora valida.
Dopo le elezioni del 1976 che si erano concluse positivamente per la DC che aveva evitato il sorpasso dei comunisti, la frattura tra il vescovo Petralia e i sacerdoti del dissenso divenne incolmabile, frattura che avrebbe portato all’abbandono del ministero sacerdotale di ben venti sacerdoti, soprattutto quando il vescovo decise di imporre a don Luigi Sferrazza, che successivamente fu sospeso a divinis, e a don Antonio Morreale di lasciare la parrocchia e l’insegnamento della religione nelle scuole, perché le loro scelte politiche apparivano in netto contrasto con le direttive della Conferenza episcopale.
I gravi provvedimenti presi da Petralia fecero sì che già nel 1977 si registrasse un calo del dissenso, fenomeno questo che non fu peculiare della diocesi agrigentina, ma che si manifestò in tutta Italia, tant’è vero che il III convegno nazionale dei Cristiani per il socialismo registrò una minore affluenza di intervenuti rispetto agli anni precedenti.
Questo libro appare particolarmente interessante perché esamina dall’interno un ambiente, quello della Chiesa agrigentina, che ha sempre avuto un ruolo basilare nelle scelte politiche del territorio e che tanto ha influenzato dal 1946 in poi la politica regionale siciliana.
Gabriella Portalone
Umberto CHIARAMONTE, Arturo Vella e il socialismo massimalista, Mandria – Bari – Roma, Piero Lacaita ed., 2002.
Per merito dello studioso Umberto Chiaramonte scopriamo un altro dei tanti personaggi di rilievo cui diede i natali Caltagirone, prolifica madre di uomini che hanno fatto la storia d’Italia. La figura di quest’ennesimo calatino di rilievo, è stata purtroppo messa in ombra dagli avvenimenti politici che incalzarono alla vigilia della prima guerra mondiale, anche all’interno del partito socialista, proprio nel periodo in cui Vella raggiungeva l’acme della sua carriera politica come vice segretario del partito. Fu senz’altro questo il motivo dell’oblio in cui cadde il politico socialista e non certo il non aver egli partecipato alla Resistenza così come Nenni ebbe a rispondere, durante una sua visita a Caltagirone nell’immediato dopoguerra, a chi gli chiedeva perché un così eminente soldato del socialismo non avesse ottenuto gli onori che gli sarebbero spettati per tutta una vita dedicata all’ideale. Nel dopoguerra, in effetti, si tendeva a dividere gli italiani tra fascisti (cattivi) e antifascisti (buoni), ma fra questi ultimi avevano diritto al ricordo perenne solo coloro che avevano combattuto fra le file delle brigate partigiane. Gli altri, anche chi aveva eroicamente mantenuto le sue idee osando professarle liberamente, pur rimanendo in patria e svolgendo una normale attività di lavoro, veniva sepolto sotto una coltre di colpevole silenzio, pur potendosi vantare di tutto un passato di coerenza e di dedizione all’Idea .
Emigrato a Roma in giovanissima età dopo la tragedia che aveva sconvolto la sua numerosa famiglia con la morte del padre, fu un autentico autodidatta, attratto quasi esclusivamente dal pensiero politico e soprattutto dalla dialettica creatasi all’interno del socialismo europeo. Infatti, pur non essendo uno scolaro diligente e pur avendo più volte subito l’umiliazione della bocciatura, prima di conseguire la licenza tecnica, già a sedici anni era impegnato nella federazione degli studenti delle scuole superiori di Roma che traghettò verso il socialismo, una volta divenuto segretario della sezione romana. Già nel 1905 si era avvicinato alla Federazione Nazionale Giovanile Socialista, nata al Congresso di Firenze del 1903, e aveva cominciato a collaborare al suo organo ufficiale di stampa "La Gioventù socialista". Già da allora il giovane calatino si proponeva come meta principale il mantenimento dell’unità del partito, per cui non si fece lusingare dalle sirene del sindacalismo rivoluzionario che riuscì a spaccare la gioventù socialista attraendone gran parte al suo interno. Al sindacalismo rivoluzionario Vella contestava la pratica della violenza, l’antistatalismo inteso come antiparlamentarismo e il tentativo di indebolire il partito che avrebbe invece potuto trionfare solo mantenendo la compattezza, pur nella dialettica delle sue diverse componenti. Nel 1907 il giovane socialista siciliano venne eletto segretario nazionale della Federazione Giovanile Socialista, incarico che lasciò solo nel 1912, all’età di 26 anni per passare alla direzione del partito. La scissione che al Congresso di Bologna si era perfezionata tra le due correnti della gioventù socialista, lasciò l’ala maggioritaria, fedele al partito, che faceva capo a Vella, priva dell’organo di stampa "La gioventù socialista" di cui si erano appropriati i sindacalisti. Al calatino, appunto, fu dato l’incarico di fondare un altro giornale che si opponesse a quello degli scissionisti; vide così la luce "L’Avanguardia", di cui Vella fu il primo redattore responsabile e su cui scrissero i più noti socialisti del tempo come Morgari, Modigliani, Gnocchi Viani, Podrecca, ecc.
Dei dogmi propri del marxismo, sentì fortemente l’antimilitarismo, mentre meno scritti dedicò all’anticapitalismo, forse anche per la sua insufficiente conoscenza filosofica, e all’anticlericalismo. A parole infatti si dichiarava assolutamente anticlericale, ma era stato troppo condizionato dalla religiosità insita nel suo ambiente familiare per professare veramente i principi che proclamava come propri per puro spirito di propaganda. Difficile fu per lui trovare una giusta posizione tra l’internazionalismo marxista e il patriottismo che alla vigilia del primo conflitto mondiale infiammava i giovani italiani, sulla scia soprattutto del movimento irredentista triestino. Alla stregua di Arturo Labriola egli distingueva il patriottismo dal nazionalismo e, dichiarandosi strenuamente contrario all'irredentismo, che considerava strumento politico nelle mani della borghesia triestina, appoggiava il diritto dei popoli all’autodeterminazione contro ogni forma di prevaricazione imperialista e sosteneva, quindi, sia i diritti dei triestini sottomessi all’Austria che quelli degli slavi sfruttati in Istria dal capitale italiano.
Al Congresso di Reggio Emilia del 1912 che decretò la vittoria della corrente intransigente e l’espulsione dei socialisti riformisti di Bissolati e Bonomi, Vella fu eletto membro della direzione nazionale e gli fu affidato l’incarico di vicesegretario con il compito precipuo di riorganizzare il partito. Il suo progetto fu imperniato nel combattere l’eccessiva autonomia delle sezioni e nel costituire federazioni regionali e provinciali che dessero maggiore coesione al partito, soffocando le posizioni centrifughe assunte dalle varie correnti. Sempre nello stesso anno veniva eletto consigliere al Comune di Roma, ma nelle successive elezioni amministrative del 1914 non venne rieletto, dato il vistoso calo riportato dal partito, e si dedicò completamente all’incarico di vicesegretario nazionale del PSI. Sui rapporti tra Vella e Mussolini si sa ben poco per mancanza di documenti, eccetto una lettera scritta dal vicesegretario al direttore de "L’Avanti" in cui il primo si lamentava per la collaborazione al giornale di Arturo Labriola e per l’eccessiva satira nei confronti dei siciliani. Si diceva che al momento della nomina del futuro duce alla direzione dell’organo di stampa socialista, nomina proposta e voluta dal segretario politico Lazzari, Vella avesse espresso la sua contrarietà, ma non ci sono prove documentali che accertino tale affermazione. Tuttavia, nella famosa riunione della direzione del partito del novembre 1914, in cui Mussolini dichiarò di aver sposato la tesi dell’interventismo, Vella fu tra i suoi più accaniti accusatori, anche se, dopo la presentazione delle dimissioni da parte di Mussolini, la cui logica conseguenza sarebbe stata l’espulsione dal partito, il siciliano tentò una mediazione, proponendo al dimissionario, che tuttavia non accettò, tre mesi di congedo per malattia che gli avrebbero dato il tempo per riflettere. Sappiamo, però, da una lettera di Mussolini, successiva a questo evento, della sua risoluta opposizione alla nomina di Vella a direttore de "L’Avanti". In quell’occasione il futuro duce, definì sprezzantemente " vellismo" la posizione politica del calatino, che egli considerava priva di coraggio e di scelte intransigenti.
Nel 1916, l’antimilitarista Vella dovette sospendere la sua collaborazione alla direzione del partito perché chiamato a prestare servizio militare. Tale obbligo oltre a cozzare con i suoi principi politici e morali lo poneva in netto contrasto con la famiglia e soprattutto con due dei suoi fratelli, con Raffaele, che gli aveva fatto da padre mantenendolo agli studi, assieme alle sorelle insegnanti, con il suo stipendio di maresciallo dell’esercito e Riccardo, medico, che era partito volontario per il fronte e che più tardi avrebbe aderito entusiasticamente al fascismo, il quale considerava il neutralismo come vergognosa codardia. Il giovane socialista svolse quasi l’intero servizio militare nella sua Sicilia tra Palermo, Trapani, Siracusa, Catania ed Acireale; il periodo trascorse fra congedi vari per malattia ed un periodo di prigione per disfattismo: evidentemente gli stessi superiori non si fidavano di un noto antimilitarista come lui e avevano quindi tutto l’interesse di allontanarlo anche dagli uffici dove avrebbe potuto accedere a notizie riservate che sarebbe stato più prudente celargli. Dopo la sconfitta di Caporetto fu accusato di seminare disfattismo fra i commilitoni e di essere al corrente di piani militari nemici. Il processo contro di lui si svolse il 4 settembre 1918 presso il Tribunale militare di Catania che lo condannò a cinque anni di carcere militare, condanna che apparve come una punizione data al politico socialista più che al presunto reo di disfattismo, cosa che il Vella colse chiaramente: "Le accuse non possono essere considerate all’infuori delle mie idee. Il processo non può perdere il suo carattere ideale – politico. Io non sono qui come soldato, ma come uomo politico; come soldato ho fatto il mio dovere anche nei rapporti della disciplina; se non avessi militato in un Partito politico il processo non si sarebbe fatto. (p 223)." La condanna non sarebbe mai stata espiata, poiché, alla fine della guerra, il Re concesse un’amnistia per tutti i reati militari e il socialista siciliano poté tornare a Roma dove riprese immediatamente il suo impegno politico.
Al Congresso socialista di Bologna, nell’ottobre 1919, fu chiamato a fare gravi scelte determinate ancora una volta dal suo desiderio di mantenere il più possibile compatto il partito. A Bologna, infatti, si preparava il disfacimento di quel glorioso partito che tanto aveva dato allo sviluppo democratico italiano. La guerra e il clamoroso evento della rivoluzione proletaria in Russia moltiplicarono le correnti. Tre erano le principali: quella capeggiata dal suo vecchio capo Lazzari che respingeva il ricorso alla violenza e si schierava per la continuazione della battaglia politica su base parlamentare e sindacale, pur non escludendo, da buon massimalista la catarsi rivoluzionaria, quella capeggiata da Bordiga che, premettendo l’assoluto astensionismo in tema di lotta parlamentare, si schierava completamente con i rivoluzionari russi auspicando la nascita in Italia di una repubblica sovietica e, infine, quella di Serrati che, pur esaltando la rivoluzione russa, proponeva di continuare la lotta sul terreno elettorale e dentro gli organismi dello Stato borghese, per meglio diffondere i principi comunisti. Quest’ultima corrente ottenne la maggioranza e ad essa aderì lo stesso Vella che vedeva nella mozione del suo vecchio maestro Lazzari uno strumento di divisione del socialismo italiano. Tuttavia, l’abbandono della linea di Lazzari dovette costargli un grosso sacrificio, perciò per coerenza rifiutò di far parte della direzione del partito.
Alle elezioni del 1919, le prime con il sistema proporzionale da lui osteggiato fino alla fine, e in quelle successive del ’21, Vella fu eletto deputato al Parlamento per il collegio di Bari e nel corso delle due legislature dimostrò tutta la sua anima di meridionalista sulla scia dell’insegnamento di Salvemini. Durante la campagna elettorale del 1921 fu vittima della violenza dei fascisti contro cui, tuttavia, non espose denunzia per evitare di aggravare il diffuso clima di odio, anzi distolse i suoi sostenitori dall’organizzare uno sciopero generale di protesta.
Malgrado al Congresso di Livorno, che segnò la scissione dei comunisti e la fondazione del nuovo partito, la maggioranza capeggiata da Serrati avesse scelto di aderire all’Internazionale Comunista, Vella pur avendo votato con la maggioranza, si dichiarò nettamente contrario ad ogni fusione con i comunisti, motivando il suo rifiuto con l’attaccamento alla tradizione e all’autonomia del partito. Così al successivo Congresso nazionale di Roma del 1922, presentò un ordine del giorno in cui proponeva di rinviare l’adesione del PSI all’Internazionale Comunista a dopo il Congresso di Mosca, dove i socialisti italiani avrebbero dovuto chiedere che il PSI conservasse in modo completo il suo nome e la sua autonomia politica. Questa sua posizione lo avrebbe reso fortemente inviso a Mosca che ne chiese l’allontanamento dal partito. Dal Congresso di Roma il partito uscì ulteriormente diviso, poiché l’ala contraria all’adesione all’Internazionale socialista, capeggiata da Matteotti, decise di staccarsi dal PSI e formare un nuovo partito il PSU. Vella, pur rimanendo ancora una volta all’interno della maggioranza, si sentiva ormai più vicino agli scissionisti che alla corrente vittoriosa dell’internazionalista Serrati; sosteneva, infatti, che una sudditanza al Pc avrebbe fornito al fascismo nascente una nuova formidabile arma per convincere gli italiani a diffidare di un partito, ormai chiaramente succube di uno Stato straniero. Nelle elezioni del 1924, seppur sconfitto nel collegio di Bari, riuscì vincitore in quello di Siracusa; tuttavia, la legislatura sarebbe durata ben poco, poiché dopo il delitto Matteotti le opposizioni avrebbero deciso di abbandonare il parlamento. Vella pur avendo aderito alla secessione aventiniana, ne comprese ben presto l’inutilità e ciò si evince dalla sua corrispondenza con Pietro Nenni; in una lettera del 1924 il calatino proponeva, ben sei mesi prima di Turati, il rientro in parlamento, anche se la letteratura sull’Aventino ignora il particolare. Tentò di riorganizzare il partito in Sicilia e anche dopo le leggi fascistissime del 1926 non interruppe mai i suoi collegamenti con i compagni in Italia e all’estero, nonostante i pressanti controlli della polizia. Da quel momento in poi l’esistenza di Vella si trascinò stentatamente tra la gestione dell’azienda di famiglia a Caltagirone e il rimpianto per il suo passato speso generosamente per il trionfo delle sue idee, finché la morte non lo raggiunse dopo una lunga malattia nel 1943.
Siamo grati all’autore non solo per aver dissepolto dall’oblio un così illustre personaggio, ma anche per averci dato una pregevole quanto equilibrata sintesi della storia del socialismo italiano della prima metà del ‘900.
Gabriella Portalone
Lino DI STEFANO, Il messaggio di Ugo Spirito, Venafro, Edizioni Eva, 2004, pp. 104
Lino Di Stefano non è nuovo a studi riguardanti le opere di Ugo Spirito. Già nel 1975 pubblicava Il pensiero di U. Spirito (Bianchini editore, Frosinone), nel 1980 dava alle stampe il saggio Ugo Spirito: filosofo, giurista, economista (Volpe editore, Roma) e ancora: nel 1984 Profili di pensatori contemporanei, nel 1987 Filosofi del Novecento, nel 1995 Pensatori del XX secolo, dove i riferimenti ad Ugo Spirito non solo non mancano, ma sono approfonditi, acuti, penetranti.
Quest’ultimo libro "Il messaggio di Ugo Spirito" (Edizioni Eva, 2004) è però un saggio, direi, particolare perché in esso - a parte l’evidenziazione del pensiero economico del grande discepolo di Giovanni Gentile (Spirito fu sempre devoto al Maestro, anche quando la ricerca lo portò a differenziarsi) - ci sono delle confessioni importanti, scaturite dai rapporti personali tra l’Autore e Ugo Spirito, che gettano nuova luce in ordine alla ricerca dell’Assoluto, della morte e di quella "terza via" che resta certamente la grande intuizione del filosofo del problematicismo, come Ugo Spirito è comunemente inteso.
Al cap. X si può leggere: "Chi ebbe la ventura di parlargli, come lo scrivente, negli ultimi mesi della sua esistenza, captò chiaramente la preoccupazione spiritiana, preoccupazione culminata in una "conversione" priva soltanto del crisma dell’ufficialità. Spirito insomma era sulla via di Damasco. In una località del Tirreno, infatti, il Filosofo ebbe a dirmi, tra l’altro: "Di fronte all’immensità e profondità degli oceani, al cospetto del firmamento e del maestoso spettacolo dell’universo, come si fa a non ammettere un Dio?".
Dinanzi a tale ammissione Di Stefano ne deduce che il Filosofo "aveva riacquistato in pectore la fede, quella fede alla quale era stato educato in gioventù - in seno ad una famiglia di rigidi principi cattolici - e dalla quale si era allontanato dopo l’esperienza positivistica che aveva impregnato di sé la seconda parte dell’Ottocento e gli inizi del Novecento".
Con specifico riferimento alle riforme avviate in Iran dallo Scià di Persia, Reza Pahlavi, proprio sulla base delle indicazioni e dei consigli di Ugo Spirito, nel capitolo delle conclusioni, è invece riportato: "La nuova rivoluzione è cominciata... si intravede la "terza via"", affermazione che si rifà alla elaborazione di quel concetto di "comproprietà" in cui intravide la possibilità del superamento del capitalismo e del collettivismo. Ed è su questo principio etico-sociale che Ugo Spirito insiste anche nelle conversazioni avvenute, negli ultimi mesi della sua vita, con il Di Stefano. Nella "comproprietà" Spirito individua infatti l’unica categoria capace di eliminare l’antitesi "ricchi-poveri", "padroni-servi", "pubblico-privato".
Un dato che emerge dalle ultime, diciamo, confessioni è che Sprito non ritiene di avere risolto il problema del principio capace di unificare il mondo, ma di averlo semplicemente posto.
Ora non c’è dubbio che questo nuovo lavoro di Lino Di Stefano non solo inquadra sotto il profilo del grande travaglio dell’uomo il pensiero di Spirito, ma ne illumina le intuizioni più geniali, proiettandole in un futuro in cui potrebbero trovare pratica attuazione. Afferma Spirito: "Il futuro non potrà che sposare tale causa se vuole salvarsi. Neo-corporativismo. La partecipazione quale unico rimedio all’intitesi capitale lavoro".
E ha fatto bene Lino Di Stefano ad intitolare il suo saggio "Il messaggio di Ugo Spirito". Tutta l’opera di Spirito è un grande ponte lanciato al domani dell’uomo.
Dino Grammatico
Giovanni BOLIGNANI, Bernardo Mattarella. Biografia politica di un cattolico siciliano, prefazione di Angelo Sindoni, Soveria Mannelli, Editore Rubbettino, 2001, pp. 355.
Il libro di Giovanni Bolignani sulla figura e l’opera di Bernardo Mattarella suscita interesse in quanto non è soltanto la biografia di un personaggio pubblico vissuto nel secolo scorso, ma anche una analisi ampiamente documentata sulla storia della Democrazia cristiana, dalla nascita delle prime organizzazioni politiche e sindacali ai governi di centro-sinistra. Lo studio di Bolignani si snoda in un arco di tempo che va dagli inizi del ‘900 sino ai primi anni ’70, sullo sfondo di una Sicilia "ricca di fermenti e alla ricerca di spazi democratici". In tutto ciò, quasi a far da filo conduttore, s’inserisce la figura dell’uomo pubblico, del politico Bernardo Mattarella.
Mattarella nasce a Castellammare del Golfo (Trapani) nel 1905 da una famiglia cattolica di condizioni piuttosto modeste. Alla solida formazione religiosa si accompagna una particolare sensibilità per i problemi sociali e politici che agitano la Sicilia del primo dopoguerra. Sin da giovanissimo s’inserisce nei locali circoli cattolici che, alla luce della lezione di Luigi Sturzo e della Rerum Novarum, cominciavano a porre in essere iniziative per risollevare le classi più deboli tartassate dalla crisi economica. Nello stesso tempo, alla preponderanza della propaganda socialista, fa eco la nascita di diverse sezioni del partito popolare e di unioni professionali grazie all’attività del clero e degli elementi più dinamici della gioventù cattolica. L’appello di Sturzo trova pronta accoglienza anche nella provincia di Trapani: nel maggio del 1919 si erano costituite ben 19 sezioni.
Con l’avvento del fascismo molti giovani cattolici furono coinvolti direttamente in politica, soprattutto a causa della direttiva delle massime gerarchie ecclesiastiche che invitavano "vescovi e preti a tenersi in tutto alieni dalle lotte dei partiti". Anche per Mattarella giunge il momento dell’impegno politico diretto: già nel 1922 contribuisce a ricostituire ad Alcamo la sezione del P.P.I e nel 1924 riorganizza la sezione del partito di Castellammare e ne diventa il segretario. Contemporaneamente all’esperienza di partito Mattarella continua il suo impegno nei ranghi della Gioventù Cattolica, partecipa a molte iniziative e incontri dove spesso è relatore, crescono per lui le possibilità di mettersi in luce in diocesi come uno dei giovani più promettenti. Così, quando nel 1927 la prefettura di Trapani comunica lo scioglimento forzato della sezione del partito, l’A.C. rimane l’unico ambito all’interno del quale poter continuare ad operare nel sociale seguendo una tradizione consolidata. Nel 1928, su proposta di Padre Gaspare Morello, viene nominato presidente federale della G.C. della diocesi e successivamente consigliere superiore della G.C. nazionale e dell’Unione Uomini; aumenta così il suo impegno, intreccia rapporti con monsignor Montini e Luigi Gedda. Nel 1934 si dimette da presidente federale. Dai documenti che l’autore ha consultato non risulta che vi fossero ragioni di carattere punitivo o contrasti dietro quella scelta; tuttavia l’accenno di Mattarella a "qualche contrasto di vedute", fa pensare ad un possibile dissenso verso i cedimenti di una parte rilevante dei cattolici nei confronti del regime.
Alla fine del 1935 si trasferisce con la famiglia a Palermo dove ritiene di poter avere maggiori possibilità professionali. Nel 1936 viene nominato dal Cardinale Lavitrano presidente della giunta diocesana e successivamente consigliere nazionale dell’Unione Uomini per la Sicilia.
Il periodo palermitano è anche caratterizzato da un rinnovato interesse per la stampa. Mattarella dà nuovo impulso a uno dei giornali di punta "Primavera siciliana" avvalendosi anche della collaborazione di Italo Corsaro, Gaetano Miccichè e Vincenzo Mangano. Stabilisce rapporti con numerosi personaggi del mondo cattolico, tra i quali Pietro Mignosi del quale recepisce soprattutto un aspetto del suo pensiero:la tolleranza e la ricerca della comprensione delle ragioni degli altri.
La ripresa dell’attività politica già durante l’ultima fase del regime fascista vede Palermo diventare il centro più importante dell’antifascismo siciliano. Nella casa dell’ex deputato Giovanni Baviera, sotto la copertura di un circolo dello scopone si riunivano esponenti politici del periodo prefascista e intellettuali antifascisti di tutte le tendenze politiche, e tra questi anche Mattarella e Aldisio. Intanto, mentre a Roma De Gasperi lavora per la ricostruzione del nuovo partito, Mattarella assieme a Giuseppe Alessi diviene il trade-union tra la Sicilia e la capitale. Saranno punti caratterizzanti del pensiero di Mattarella il repubblicanesimo, l’intransigente opposizione al movimento separatista e il sostegno alla creazione dell’Ente Regione, sebbene, a differenza di Sturzo, avrà qualche perplessità sulla forma dell’autonomia e sarà contrario alla permanenza dell’Alta Corte dopo l’entrata in funzione della Corte costituzionale.
Nel 1944 viene chiamato a Roma a ricoprire incarichi di governo; d’ora innanzi la sua attività si dividerà tra la Sicilia e Roma. Nei due governi Bonomi sarà sottosegretario alla pubblica istruzione, poi per un quinquennio, nei governi guidati da De Gasperi sarà chiamato a ricoprire la carica di sottosegretario ai trasporti in una fase in cui si avvia il processo di ricostruzione economica dell’Italia. Nello stesso tempo avrà incarichi all’interno del partito: vicesegretario con compiti organizzativi, componente della direzione e del Consiglio Nazionale, rappresentante per il gruppo D.C. all’Assemblea Costituente. Nel 1953 viene affidato a Mattarella il dicastero della Marina mercantile; è il momento in cui l’Europa inizia il difficile cammino verso l’unificazione e Mattarella, rispetto ai colleghi europei, sarà tra i pochi che apertamente si pronunceranno a favore di una più stretta collaborazione internazionale in materia di coordinamento delle politiche dei trasporti. Nel 1955, con il governo Segni, gli viene affidato il Ministero del Commercio Estero, e nel 1957 assume l’incarico di Ministro delle Poste. Con la costituzione del secondo governo Fanfani, dopo le elezioni del 1958, Mattarella non assume cariche di governo.
Intanto in Sicilia profondi contrasti mettono in crisi il partito. Mattarella viene incaricato dalla direzione nazionale di appianare i contrasti e risolvere la crisi. Egli non riesce nell’intento, anzi non sarà condiviso da Sturzo per la posizione assunta a proposito del noto "caso Milazzo".
Quando Moro assume la leadership del partito Mattarella diviene uno dei suoi più stretti collaboratori e condividerà in pieno l’impostazione dello statista democristiano: apertura a sinistra, necessità di una programmazione che attenui gli squilibri, esigenza di tenere unito il partito.
Nel 1962 Mattarella ritorna al governo come ministro dei Trasporti ed avrà un ruolo non trascurabile nel "miracolo economico" e nell’inserimento a pieno titolo dell’economia italiana nel grande mercato europeo. Nel 1963 Mattarella assume l’incarico di guidare il Ministero dell’agricoltura. Si tratta di un momento delicato, considerato di transizione per il passaggio ad un centro-sinistra organico come era nel progetto di Aldo Moro. L’agricoltura assume un ruolo preminente sia nell’economia italiana che all’interno della Comunità Europea; ai negoziati sulla politica agricola comunitaria Mattarella non manca di dare il proprio contributo prima di lasciare il Ministero dell’agricoltura per tornare, nel primo governo Moro, al Commercio Estero.
Sul finire del 1963 il leader socialista Pietro Nenni avverserà la presenza di Mattarella al governo a causa dei suoi presunti rapporti con la mafia. In effetti, l’accusa di collusione con ambienti mafiosi mossa a Mattarella risale a parecchi anni prima, quando Gaspare Pisciotta indicò nel leader democristiano il mandante della strage di Portella della Ginestra avvenuta il primo maggio 1947. Da allora, si erano succedute diverse campagne denigratorie supportate da dossier e dichiarazioni. Tuttavia non vi fu mai conferma da parte degli organi giudiziari che Mattarella avesse avuto contatti con ambienti mafiosi.
Nel 1966, in seguito alla crisi del secondo governo Moro, Mattarella esce definitivamente dal governo. Da quel momento si dedicherà all’attività legislativa all’interno delle commissioni Affari Costituzionali e Difesa. Mattarella muore il 1° marzo 1971.
Risulta apprezzabile lo studio di Bolignani che, pur trattando di un uomo politico che ha attraversato diverse stagioni quasi sempre da protagonista (da esponente di rilievo del laicato cattolico organizzato a dirigente di partito a Ministro della Repubblica) nulla cede al gusto narrativo del privato o all’apologia del personaggio. Come afferma Angelo Sindoni nella premessa l’ autore, grazie alle diverse fonti utilizzate, è riuscito "a darci un personaggio a tutto tondo, una figura dalla straordinaria operosità, che finalmente possiamo conoscere in tutte le sue fasi in modo unitario".
Rosanna Marsala
Pubblichiamo di seguito la lettera di Sergio Marano, uno dei protagonisti del Movimento clandestino fascista di Trapani e autore del volume Il bosco di Rinaldo, in riferimento agli articoli apparsi sul "Giornale di Sicilia" (martedì 27/01/04; sabato 07/02/04 e martedì 20/02/04) del giornalista Mario Genco nella pagina della rubrica "La macchina del tempo" di Cultura e Società.
La lettera risulta indirizzata al Direttore del Giornale di Sicilia e, sembra, mai resa di pubblica conoscenza. Eccone il testo.
Egregio Direttore,
chiamato in causa da una serie di articoli pubblicati sul Suo autorevole giornale (martedì 27/01/04, sabato 7/02/04 e martedì 20/02/04) dal giornalista Mario Genco nelle pagine della rubrica "La macchina del tempo" di "CULTURA E SOCIETA’", mi corre l’obbligo di intervenire a tutela della verità dei fatti che ivi sono descritti con approssimazione e parziale o inesatta informazione.
Prescindo dal giudizio critico sui predetti articoli che si rivelano viziati da pregiudizio ideologico e privi di dignità storica. Mi preme correggerne alcune distorsioni. Pertanto, egregio direttore, La prego di voler cortesemente concedermi un diritto di replica sui seguenti punti:
1 - Il mio libro Il bosco di Rinaldo (editrice SANTI QUARANTA Treviso) è tutto fuor che "reticente e ambiguamente autoassolutorio" come scrive il giornalista (che non dice però dove è reticente e dove autoassolutorio).
Basta una lettura condotta sine ira et studio, con un’ottica neutra per sincerarsene. Se un pregio ha questo libro è quello della sincerità. E l’acclusa presentazione dello scrittore siciliano Antonio Russello è lì a testimoniarlo con argomentazioni non peregrine.
2 - Il giudizio espresso dall’autore su Maria D’Alì (pag. 70), come di donna anticonformista e antiborghese (considerata la sua appartenenza a una ricca e altolocata famiglia) voleva semplicemente esprimere un sentimento di ammirazione per una donna che amava "mescolarsi alla gente comune e respirare aria semplice e schietta, popolana (come popolani eravamo tutti noi)". Giudizio, dunque, affatto espressione di "un codice linguistico fascista" e quindi di donna "dura e pura", come scrive superficialmente il giornalista.
3 - Il quale, inoltre, a proposito di Antonio De Sanctis (uno dei giovani finiti in carcere), fa testimoniare un certo dott. Giuseppe (L)?, dirigente INPS in pensione. Il predetto Giuseppe L. dichiara, infatti, che "fra una partita e l’altra di bigliardo, nel 1942, sentì (lui appena undicenne) affermare il De Sanctis, con tono perentorio e sprezzante, "ma perché l’Italia non taglia la testa ai traditori?". Che autorevolezza e che peso di testimonianza! E perché? Perché, a detta di questo dottor Giuseppe L. (sempre anonimo), Antonio De Sanctis "era un intransigente, un intellettuale pericoloso". Ergo, un pericoloso fascista! Il lato grottesco della testimonianza consiste nel fatto che codesto dottor Giuseppe L. si vanta, proseguendo nella sua testimonianza, che, appena tredicenne, nel 1944, "Con una bomba ricavata da una mina anticarro americana, io e un mio coetaneo facemmo saltare la baracca di legno dov’era sistemata la sede della CGIL in pieno, centro...".
Ora, per quanto riguarda la personalità di Antonio De Sanctis basterà, presumo, leggere il libro e in particolare la testimonianza del professor Virgilio Titone, liberale e illustre storico e titolare allora della cattedra di storia moderna all’Università di Palermo, il quale non si peritò di farci visita in carcere e di offrirci il suo sostegno morale, in particolare al suo allievo Antonio De Sanctis che aveva in grande considerazione. Infatti, all’uscita nostra dal carcere, gli aveva proposto di diventare suo assistente alla cattedra di storia. L’anticamera di una carriera universitaria. Ma l’incalzare del male che affliggeva il nostro amico Antonio gli impedì di accettare e di assumere l’incarico. Si leggano le pagine 121-142 del libro.
4 - Il giornalista Genco calca con evidenza la penna nel definirci "figli del regime" (come se non lo fossero stati tutti gli studenti italiani di ogni ordine e grado!) e "dei suoi programmi scolastici e culturali... con professori che commentavano la dottrina fascista, che li radunavano nel cortile della scuola per celebrare le vittorie sui barbari abissini, ecc.". Sfonda una porta aperta! È il mio libro che gli fornisce la materia. Ma, e questo è singolare, si dimentica il giornalista di raccontare che proprio quegli stessi professori (pagine 43 - 74 - 120 - 121), all’indomani dello sbarco degli Alleati in Sicilia, si erano affrettati a cambiare casacca e a vestire le nuove divise (comunista, socialista, eccetera.)
Istruttive le pagine al riguardo di Ruggero Zangrandi, ancora oggi.
5 - Cita poi la testimonianza dell’avv. Vito Nola di Trapani, nostro compagno di avventura, che è la più penosa. La verità è quella descritta a pag. 32 del libro, che il giornalista Genco (che per altri versi ha saccheggiato, le mie pagine ad usum delphini) non cita (ma perché?) e lascia campo alla balbettata e confusa autodifesa di Vito Nola. Ecco la verità: Vito Nola ed Enzo Scuderi (gli scarcerati senza condanna) fecero parte, a pieno titolo, del Comitato dei Nove, di cui si parla negli articoli, con le stesse determinazioni e quindi con le stesse assunzioni di responsabilità. Un caso fortuito volle che non si trovassero (o mancassero) le tessere firmate di adesione al movimento sia di Scuderi che di Nola. Per cui veniva meno l’accusa principale. Noi rimanenti sette del Comitato, per avvalorare la mancanza dell’adesione firmata, testimoniammo a loro favore scagionandoli del tutto e fummo lieti che li liberassero. Si leggano le pagine 32 e 33 del libro. L’avvocato Vito Nola non ci fa una bella figura! Non c’era nulla di disdicevole nell’ammettere quella verità. E sarebbe stato molto più dignitoso. Mi dispiace ritornare su questo aspetto della vicenda, ma vi sono stato costretto.
Altre parti andrebbero raddrizzate e corrette, ma ritengo che quanto esposto sia sufficiente a mettere in evidenza la parzialità della ricostruzione del giornalista Genco, che mi spiace di non potere annoverare fra i lettori attenti e spassionati. Questo non significa non accettare a priori le critiche. Ben vengano, purché obiettive e non tendenziose.
La ringrazio dell’attenzione che vorrà riservarmi e mi scuso se sono stato costretto a intervenire. Ma non potevo tacere in fatti che hanno profondamente inciso, ancora oggi, nel mio animo e in quello dei miei amici.
Con cordialità.
Sergio Marano
Questo lavoro di Maurizio Degl’Innocenti, L’epoca giovane. Generazioni, fascismo e antifascismo. (Collana "Società e Cultura", Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma, 2002) eccezionale per la vastità del tema, per la documentazione storica, per la puntuale ed equilibrata analisi critica, costituisce soprattutto una carrellata sui movimenti politici e culturali europei del primo dopoguerra, tutti caratterizzati dal fattore generazionale, dal cosiddetto giovanilismo, analizzato anche sotto l’aspetto della retorica e della dicotomia, vecchio - giovane, nuovo-vecchio.
In effetti, l’attenzione all’universo giovanile, soprattutto nel campo dell’arte, comincia già prima della guerra; il cosiddetto novecentismo, caratterizzato dall’esaltazione della tecnologia, delle scoperte scientifiche e del progresso scatena nelle nuove generazioni una tendenza al ribellismo e una volontà di affermazione e di protagonismo in un mondo che è visto in piena trasformazione e in netta rottura col passato. Se precedentemente il razionalismo positivista scoraggiava ogni forma di contestazione nei confronti di ciò che veniva considerato come scientificamente acquisito, alla fine del secolo, il diffondersi del decadentismo in letteratura e dell’irrazionalismo nel campo artistico, assecondarono la naturale tendenza giovanile alla ribellione e alla rottura col passato, nello sforzo di rinnovamento che comprendesse ogni campo di esperienza umana, dall’economia alla politica, dalle scienze alle arti, dalla filosofia alla medicina.
Nuove scoperte scientifiche misero in dubbio certezze che si consideravano quasi a livello di dogmi: il quantismo in matematica e la teoria della relatività in fisica costituirono un incredibile scossone capace di intaccare la sicurezza da decenni acquisita dai vecchi notabilati scientifici; l’espressionismo e poi l’astrattismo e il dadaismo nella pittura, scardinarono principi estetici che costituivano da secoli i pilastri dell’arte, facendo comprendere a chi accettava tali rivoluzionari cambiamenti, e quindi ai più giovani, che esistevano altre forme di espressione artistica al di là dei canoni accademici, basati soprattutto sulla libertà di esternazione. Anche la musica subiva una vera e propria rivoluzione con l’introduzione dei ritmi meccanizzati e con la diffusione degli stessi tramite la riproduzione discografica. La musica non è più quella classica o sinfonica privilegio delle élites, bensì quella moderna discendente dalle tradizioni afro-americane e disponibile per ogni ceto. Ma soprattutto nel campo della medicina, la psicanalisi di Freud introduceva nella storia dell’uomo il ruolo esplicato dall’inconscio, dunque dall’irrazionalità, che diventava anch’essa un fattore rilevante della vita e quindi della politica, della storia e dell’economia. In campo filosofico-sociologico le teorie di Bergson e di Le Bon finivano per negare la razionalità delle masse che consideravano, d’accordo con il sindacalista Sorel, strumenti nelle mani delle élites, facilmente plasmabili ed influenzabili, pronti a seguire il capo- guida ( non per niente i dittatori del dopoguerra assumeranno l’appellativo di Duce, Furher, Conductator, Caudillo, ecc. tutti sinonimi, appunto, di guida) e bisognose di credere in un mito, come i bambini, per poter acquisire la necessaria motivazione ad agire.
Nel teatro nascono le Avanguardie con il compito, innanzitutto, di dimostrare di possedere "la forza di distruggere, di fare il vuoto" ( p. 5) e l’aspirazione al rinnovamento diventa inevitabilmente conflitto generazionale.
L’autore dimostra che lo scontro tra padre e figlio diviene il punto di riferimento di ogni espressione artistica e, sulla scia della famosa opera di Freud Totem eTabù, fondata soprattutto sui riflessi sociologici e psicologici del cosiddetto complesso di Edipo e quindi sul conflitto latente tra genitore despota e figlio vittima, si moltiplicano le opere letterarie e teatrali che si rifanno a tale scontro generazionale, portato agli estremi, fino al parricidio (per es. "Der Sohn" del 1914 di Walter Hasenclever o "Parricidio" di Arnolt Bronnen, o "Il mendicante" di Johannes Sorge del 1912). Se il vecchio o il padre era visto fino a qualche tempo prima come il protagonista della vita familiare, sociale e politica, la quintessenza della saggezza a cui ricorrere per non sbagliare, adesso è visto come il cinico che ostacola la rivoluzione e la liberazione dalle incrostazioni di un passato interpretato come negazione del progresso.
I giovani intellettuali italiani trovano il loro campo di azione per rinnovarsi e fabbricare "l’uomo nuovo" nel vocianesimo, nel crepuscolarismo e, soprattutto, nel futurismo. Questa corrente artistica, che costituisce una vera e propria rivoluzione in campo artistico e letterario, suscettibile di determinanti influenze anche sui più moderni movimenti politici, nasce in Italia, ma trova corrispondenze e analogie con l’avanguardismo russo di Malevic e con il cubismo francese. Con il culto del movimento e della velocità il futurismo, chiaramente sulla scia di Nietzsche, finisce per esaltare la forza fisica, lo sport, il primato della ginnastica sui libri, fino all’apologia dell’eroismo, della temerarietà, dell’audacia e quindi anche della violenza. Il futuro dunque, finirebbe per appartenere "alle minoranze audaci, vere e proprie avanguardie trascinatrici e preconizzatrici delle generazioni di appartenenza, più che alle nuove classi d’età" (p. 26). Da qui l’aspirazione del giovane a primeggiare, sulla scia del Super uomo di Nietzsche, ma anche dell’Unicum di Stirner, chiudendosi in se stesso, ma nello stesso tempo come scriveva Papini nel suo manifesto personale "Un uomo finito" il "[...] Bisogno antico e continuo di esser capo, guida, centro: ma specialmente inquietabile, in quel tempo, di salite e di voglie animose. Confesso non mi importava molto il perché ma che gli occhi di tutti fossero rivolti - almeno un momento! - su di me [...] non volevo restare a parte, in seconda o terza fila, tra le persone semplicemente interessanti, semplicemente curiose e colte e intelligenti" (p. 40) Egli come tutti i giovani dell’epoca, si scaglia contro il socialismo, l’ideologia dei padri, di quelli che erano stati giovani nella generazione precedente, considerandolo un fenomeno proprio del passatismo positivista e si dice un socialista al contrario, perché pronto a difendere la classe che i socialisti vogliono far fuori, la borghesia, nazionalista colonialista, imperialista e militarista, contro l’internazionalismo e l’antimilitarismo marxista.
L’ortodossia marxista, dunque, diventa il bersaglio preferito dai giovani intellettuali del primo Novecento, non soltanto perché esso rappresenta l’espressione fondamentale della filosofia positivista, ormai non più considerata attuale e appagante, ma anche perché, il determinismo proprio di quella dottrina finiva per tarpare ogni slancio di vitalità intellettuale. Il giovane rifiutava ciò che appariva predeterminato a prescindere dalla sua volontà e si volgeva verso nuove ideologie che soddisfacessero il suo bisogno di azione e protagonismo. In verità, già alla fine del secolo precedente, Antonio Labriola aveva intuito che l’eccessivo determinismo marxista poteva annoiare e demotivare i giovani, per tale motivo la sua traduzione italiana de "Il Capitale", era stata caratterizzata da una personale interpretazione più volontaristica, quasi più idealista della dottrina del filosofo di Treviri. Ma nemmeno tale interpretazione più "romantica" del marxismo era bastata ad arginare il moltiplicarsi delle eresie socialiste e di quelle tipicamente antisocialiste. Nel primo Novecento, tutti, da Croce a Pareto, a Corradini a Marinetti, si dichiarano antidemocratici, identificando nel sistema democratico l’appiattimento delle masse e la tirannia delle élites. Tale atteggiamento antidemocratico e antiparlamentare coinvolge la stessa sinistra, se già Lagardelle aveva parlato di "cretinismo parlamentare" e se Sorel aveva enunciato il mito dello sciopero generale per scuotere le masse dall’intorpidimento determinato dal socialismo riformista e dai sistemi democratici e condurle verso la rivoluzione, intesa come momento di catarsi generale, come fine del mondo vecchio e dell’uomo vecchio e nascita del mondo nuovo e dell’uomo nuovo.
Degl’Innocenti fa una minuziosa ed erudita carrellata su scrittori, poeti, pensatori che intuirono il ruolo determinante che nella storia del secolo avrebbe avuto l’impeto giovanile e dopo Papini, Corradini e Marinetti ci illustra il pensiero di Giuseppe Rensi. Questi interpreta magistralmente la ripugnanza che i giovani provavano nei confronti del socialismo che era ormai considerata l’ideologia dei più e che quindi doveva essere combattuta dalle minoranze rivoluzionarie: "[...] L’attrattiva che aveva allora per i giovani il socialismo la possiede ora il fascismo; mentre il socialismo ormai in panciolle, gonfio di tutti gli aderenti che si valgono del successo, che deve sbottonare la cinta perché il ventre possa contenere ciò che ingoia, sostanzialmente "arrivato", si presenta ai giovani d’oggi sotto il medesimo aspetto repugnante che suscitavano una volta le parole "grasso borghese." (p. 93)
A questo trionfo di giovanilismo, a questa ossessione di svecchiamento e di ammodernamento della società, dell’arte e della politica, non si contrappone, ma anzi si coniuga naturalmente il culto della morte, che non è la buona morte dei cristiani, ma la " bella morte" degli eroi e degli audaci, giovani dunque, ma anche meno giovani che, tuttavia, per la traccia lasciata fra i sopravvissuti, mantengono la loro presenza immanente nella società attraverso l’esempio e quindi il ricordo. Testimonianza del valore che si dà alla bella morte come esempio alle giovani generazioni, è l’usanza di rispondere presente, negli appelli, al posto dell’assente morto, cosa che acquisisce un significato ancora più mistico e simbolico, quando la parola presente viene scolpita sulle tombe degli eroi, come avviene nel sacrario di Redipuglia dove sono sepolti quasi tutti i soldati della Terza Armata, al comando, nel I conflitto mondiale, del Duca d’Aosta .
Il nazionalismo accosta al termine nazione quello di giovane, predicando il mito del diritto delle nazioni giovani ( Italia, Germania e Giappone) a conquistare il loro posto nella politica mondiale e ridimensionando il ruolo delle nazioni vecchie e bacate, quasi una nuova lotta di classe in campo internazionale tra i giovani e poveri, da una parte, i vecchi e i ricchi dall’altra.
I cattolici, invece, come Ardengo Soffici, vedono nel giovanilismo e nella religiosità insita nelle cerimonie fasciste non solo la trasfigurazione delle folle in un vero e proprio "Istrumento in mano del Dio ignoto che è sopra di loro", ma anche il rinnovarsi del "miracolo della solidarietà umana intorno a simboli austeri e magnifici" (97). Ed è proprio questo, secondo Soffici che distingue il fascismo dalle altre ideologie, poiché esso è una religione vera con la sua divinità che è L’Italia, con i suoi martiri, i combattenti e gli eroi, e i suoi ministri, i giovani che, interpreti del sentimento del divino, pur se mossi da spirito rivoluzionario, rispettano la tradizione riconoscendo l’immortalità dello spirito e dell’esempio di chi ha condiviso con essi la sacralità dell’Idea.
Interprete assoluto dell’avvento dei giovani nel teatro della rivoluzione, è proprio Mussolini che ai giovani appunto dedica l’inno del suo partito, che dei giovani fa i protagonisti del suo folklore, che ai giovani si rivolge fin dal novembre 1914 come alla generazione "cui il destino ha commesso di fare la storia". D’altra parte Mussolini poteva considerarsi per antonomasia il giovane ribelle degli anni ruggenti, l’eretico che a meno di 30 dirigeva l’organo di stampa del Partito socialista italiano e che a soli 30 anni ne aveva condizionato il Congresso a Reggio Emilia, entrando nella Direzione nazionale e che a 39 anni sarebbe diventato il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia. Imbevuto di Nietzsche e di Sorel cercava appassionatamente un’alternativa a quel marxismo che considerava troppo fatalista, troppo avulso dalle volontà individuali : "[...] ognuno è l’artefice del proprio destino - scriveva il futuro duce nel 1913 - Ora non basta che il socialismo sia, come afferma Labriola ‘storicamente condizionato’, ma bisogna dimostrare che il suo trionfo rappresenta il trionfo delle idee di Bene e di Giustizia. Entra in scena la Morale: la valutazione etica del fenomeno. [...] Il fattore economico da subordinante diventa subordinato. Passa in seconda linea. Il socialismo non è più una necessità economica, ma una necessità trascendente, metafisica: è la necessaria realizzazione dell’Idea. Il socialismo non è più solo il prodotto del gioco e del travaglio delle forze economiche, ma anche e prevalentemente il risultato di un atto di volontà" (cfr. G. Portalone Gentile "Dalla classe alla Nazione", Palermo 2003 p. 23).
Volontà e azione erano le parole d’ordine della rivoluzione fascista e non potevano essere rivolte se non ai giovani; in tal modo, secondo Bottai: "[...] L’Italia riprendeva coscienza di sé nel nome sacro della giovinezza e riannodava il filo storico ad un’altra sacra primavera. La primavera della Giovane Italia" (p. 109). Ma Degl’Innocenti sostiene che nonostante Bottai riproponga sempre il concetto del fascismo come rivoluzione dei giovani sotto la guida di Mussolini, questi si guarda bene dall’accreditare la conquista del potere da parte del fascismo come mera rivoluzione giovanile. Pur servendosi sempre della tematica giovanile come arma propagandistica, per sottolineare il carattere puro e ardente del movimento fascista, non vi si identifica mai e ben presto, per non dispiacere ai poteri forti che avevano determinato la stabilità del regime, avrebbe sostituito la dicotomia giovane - vecchio, con quella politicamente più accettabile di nuovo - vecchio.
E’ innegabile che il giovanilismo mussoliniano comportò una netta adesione della gioventù al fascismo per cui non si può parlare - secondo De Felice -, almeno per il primo decennio del regime, di opposizione giovanile. D’altra parte, proprio sulle nuove generazioni Mussolini gioca la sua carta totalitaria, egli pensa di poterle educare fascisticamente per far sorgere una nuova classe dirigente forgiata secondo i suoi criteri. Coerentemente a tali progetti viene fondata l’organizzazione dei Balilla, degli Avanguardisti, dei GUF, accanto alla Milizia del partito. In tali organizzazioni i giovani sarebbero stati plasmati secondo i criteri fascisti, abituati ad obbedire, per poi poter comandare, ad osare, a disprezzare le comodità e la vita borghese, a essere pronti a far durare la rivoluzione fascista nel futuro. Nel discorso tenuto in occasione del decennale, Mussolini punta ancora sui giovani enunciando la prospettiva fascista del ricambio generazionale "come mobilitazione generale per fascistizzare ‘gli angoli morti della vita nazionale’ e, al tempo stesso, minaccia permanente di nuove cooptazioni a danno dei gerarchi più forti. E’ la prospettiva della civiltà fascista con l’inquadramento della gioventù italiana, in cui inculcare il ‘ senso collettivo della vita’ anche a costo della soppressione della dimensione individuale, perché gli uomini sono da considerarsi in funzione dello Stato: dei giovani occorre fare dei ‘credenti’, in un’atmosfera sacrale, con ‘un’altissima tensione ideale’ per il consenso di massa irrazionale e ‘religioso’ al regime e al duce" (p. 141).
Mario Missiroli con il saggio Il fascismo e la crisi italiana del 1921 è il primo a sottolineare che elemento fondamentale del fascismo fu il giovanilismo e ritiene la rivoluzione fascista, non tanto come una semplice reazione al bolscevismo, ma soprattutto come esigenza di rinnovamento insita nei ceti medi, in procinto di sostituire, nell’immediato dopoguerra, la vecchia classe dirigente, e insoddisfatti del socialismo. Dunque, fascismo come fenomeno autonomo, tesi questa che sarà ribadita da De Felice, e come scontro non tanto fra proletariato e borghesia, ma all’interno della stessa borghesia, e qui si manifesta effettivamente lo scontro generazionale. I giovani borghesi, infatti, per lo più reduci della guerra, delusi dal socialismo che ha già conquistato la generazione dei loro padri, socialismo che dopo aver preso le distanze dalla guerra, rifiuta anche la vittoria, disconoscendo i meriti e le pretese dei combattenti, cercano altre ideologie, altri programmi e si avvicinano prima al nazionalismo e successivamente al fascismo che al patriottismo unisce la valenza rivoluzionaria e la pretesa di spazzar via un mondo ormai considerato logoro e inadatto alle esigenze delle nuove generazioni.
Compito dell’educazione fascista, nella scuola, nelle organizzazioni sociali e sportive, sarebbe stato quello di formare spiritualmente e atleticamente i giovani, sulla base del principio futurista dell’esaltazione dello sport, inteso soprattutto come competizione, per raggiungere lo scopo finale di preparare la gioventù italiana ad un destino di potenza. Tuttavia, proprio in questo sta il maggiore fallimento della politica fascista, nel non aver saputo applicare il suo presunto totalitarismo e di non aver saputo formare, quindi, una sua classe dirigente. Il regime subiva la concorrenza delle organizzazioni giovanili cattoliche a cui, sulla base dei Patti Lateranensi, doveva rispetto, e dell’aristocrazia militare e di corte che continuava ad educare i propri figli secondo la vecchia tradizione fondata sulla fedeltà, innanzi tutto, alla Monarchia. Nella seconda metà degli anni trenta, si nota , quindi, se non proprio un di-stacco, una certa indifferenza dei giovani nei confronti del fascismo, che appare sempre più ai loro occhi un qualcosa di statico, nettamente lontano dalle promesse di rivoluzione e di cambiamento. La gioventù, quindi, si divide tra gli"intransigenti", cioè coloro che davano la colpa del fallimento del fascismo ai " vecchi di spirito", e i revisionisti, il cui portavoce era Bottai. Per questi ultimi la crisi giovanile si sarebbe risolta con la ribellione ad uno Stato onnipresente e con la ricerca di nuove opportunità di rinnovamento. Ciò fa ritenere a De Felice che , malgrado le intenzioni di Mussolini di puntare sulla gioventù e sulla classe borghese in genere, il fascismo riuscì a conquistare molto più facilmente soprattutto le classi proletarie, abbagliate, per la loro semplicità, dalle fastose scenografie, dalle cerimonie e dai riti, e certo in parte appagate dalla nuova legislazione sociale e dalla Carta del Lavoro. Ciò non vuol dire, però, sottolinea Degl’Innocenti, che il fascismo non abbia inciso profondamente, comunque, sulle giovani generazioni.
E’ logico chiedersi a questo punto se anche gli antifascisti puntarono sull’elemento generazionale. Renato Treves (Sociologia e socialismo. Ricordi ed incontri, Milano 1990) risponde negativamente affermando che l’uso di tale concetto è proprio di chi si sente maggioranza e non di chi sa di appartenere ad una minoranza. Egli però non tiene conto che quelli che considera come eccezioni a tale regola, Gramsci, Gobetti e lo stesso Rosselli, sarebbero stati i pilastri dell’antifascismo militante.
Secondo Alberto Cappa, seguace di Gobetti e collaboratore de "La rivoluzione liberale", paradossalmente fu lo stesso socialismo ad educare quelle che sarebbero state le riserve politiche del regime fascista, costituendone il vivaio. Nel periodo giolittiano, infatti, i giovani per lo più erano socialisti, interpretando questa adesione come ribellione al paternalismo giolittiano ; ma nell’immediato dopoguerra il socialismo ortodosso apparve come un qualcosa di statico che non bastava più ai fermenti rinnovatori delle nuove generazioni che si sentivano, quindi, obbligati a scegliere tra bolscevismo e fascismo. Ma accanto alla generazione che visse la guerra Cappa sofferma la sua attenzione sui giovanissimi, su coloro, cioè, che pur non partecipando al conflitto ne vissero il clima, ne sopportarono le conseguenze, la fame, le privazioni, l’assenza del padre, e incanalarono, quindi, le loro insoddisfazioni nei movimenti dei reduci, nazionalisti e fascisti, diventando di tali movimenti le frange più estremiste e turbolente, cercando così di vivere politicamente e continuare quella guerra a cui non avevano partecipato.
Il giovanilismo trova la sua esaltazione in Gobetti, giovane di diciassette anni che nell’immediato dopoguerra fonda un quindicinale marcatamente giovanile "Energie nove" a cui seguirà "La Rivoluzione liberale". La sua rivista si propone a quei giovani che abbiano voglia di far qualcosa con "spirito e fede" che condividano "l’amore per le posizioni nette" e che cerchino l’alleanza con i loro coetanei per rinnovare la vita politica e civile italiana. Formatosi alla scuola di Salvemini, da cui ottiene lusinghieri elogi e incoraggiamenti, nel momento in cui cessano le pubblicazioni de "L’Unità", sembra volerne ereditare e perpetuare i valori nella sua rivista. Simpatizza anche per il nuovo movimento di Gramsci e di Bordiga che giudica positivamente, ma con un distacco che potremmo definire "aristocratico", vedendo in esso nonostante le differenze con la sua posizione, quel carattere rivoluzionario tanto atteso dalle nuove generazioni deluse dal socialismo. Sul socialismo riformista e, soprattutto su Turati, dà giudizi impietosi e perentori: "Sorto con le pretese di un partito rivoluzionario, il socialismo si esaurì nella tattica dei miglioramenti economici e del cooperativismo e finì con l’aggregare alle sue file tutti i malcontenti della media borghesia, preoccupati di formarsi, con la pratica riformista, le proprie clientele parassitarie. [...] L’antitesi con i sindacalisti e con gli anarchici significò, appunto, una pratica conservatrice. Il gradualismo attenuò ogni opposizione al potere costituito. L’idea internazionalista fu mantenuta per pregiudizi di umanitarismo e di positivismo o, nel caso Treves, per una cruda necessità messianica di razza" (p. 193-194 n.). Il giudizio di Gobetti sul socialismo riformista non è dissimile dalla condanna ad esso inflitta da tutta una generazione che in esso vedeva l’altra faccia del giolittismo e finiva così per accomunare antiliberalismo e antisocialismo, rifugiandosi o nel bolscevismo o nel fascismo. Gobetti ritiene che solo le avanguardie operaie in nome di Marx e le élites culturalmente intransigenti avrebbero potuto seppellire il fascismo e sintetizza il suo pensiero in un testo La rivoluzione liberale in cui, tuttavia, al di là di forti intuizioni e di profonde riflessioni politologiche, si evidenzia l’incredibile confusione che regnava nella mente del giovane pensatore torinese. Pur lanciandosi d’istinto contro il fascismo, infatti, si fa influenzare in maniera determinante, così come d’altra parte era anche avvenuto in Gramsci, dal filosofo fascista per antonomasia, Giovanni Gentile. La sua interpretazione del marxismo in cui l’ideologia viene in gran parte purgata dal suo originario determinismo assumendo un carattere volontarista e una spiritualità quasi religiosa, affascinano sia il politico sardo che il giovane studioso piemontese e portano quest’ultimo addirittura a valorizzare il fascismo vedendo in esso un’occasione storica per rigenerare lo spirito nazionale, assopitosi nell’età giolittiana, rafforzandolo e vivificandolo ancora di più rispetto a ciò che in tal senso aveva ottenuto l’epopea Risorgimentale. Dunque finisce per avvalorare l’interpretazione che lo stesso Mussolini aveva dato del fascismo come di un secondo Risorgimento. Negli scontri tra fascisti e comunisti egli vede il provvidenziale intervento della violenza educatrice, da cui scaturiscono "fermenti vitali, energie decise, pensieri maturi " Appunto da tali fermenti si sarebbe avviato quel processo di maturazione interna che avrebbe portato le élites, le aristocrazie, sia operaie che intellettuali a far si che il fascismo implodesse.
Al di là della confusione, l’eredità di Gobetti sta in quel liberalismo sociale, che Carlo Rosselli riprenderà con il suo socialismo liberale, che voleva essere uno sforzo di conciliazione della filosofia attivistica e quindi rivoluzionaria, propria del liberalismo e della tesi della coscienza di classe propria del marxismo.
La speranza dei vecchi socialisti era che non tutta la gioventù si facesse trasportare dalla irrazionalità e dall’istinto che l’avevano portata fra le braccia del fascismo; sicuramente esistevano anche giovani che ancora conservavano il senso della realtà e della ragione e che avrebbero, dunque, potuto dare nuovo impulso al socialismo; presto sarebbe venuto il loro turno. Alcuni intellettuali socialisti, come Mondolfo e Jannaccone intuiscono che ciò che aveva allontanato la gioventù dall’ideologia socialista avrebbe potuto essere stato l’eccessivo determinismo e razionalismo marxista, la sua netta derivazione dal positivismo che, negli anni ruggenti del nuovo secolo, appariva qualcosa di statico e sorpassato, inidoneo a saziare la sete di azione e di avventura delle giovani generazioni. Suggeriscono, perciò, una rilettura del marxismo in senso più idealistico, quasi kantiano, anche se tale proposta trova naturalmente l’opposizione dei vecchi socialisti, come per esempio Zibordi, che obietta l’incongruenza della distinzione tra un socialismo per i giovani e uno per gli adulti ! Anche il cattolico Greppi, nella comune condivisione di valori ideali con il socialismo in senso antifascista, indica i giovani come depositari della missione salvifica per l’Italia; si rivolge ai giovani che hanno sentito la guerra come "dramma dell’umanità" che li ha portati a cercare rifugio in Dio. Questi giovani potranno essere i naturali alleati dei socialisti, solo se questi ultimi abbandoneranno i loro pregiudizi anticlericali, visto che cattolicesimo e marxismo sono accomunati dalla fede.
La tesi revisionista del socialismo è sposata con entusiasmo e con grande vis polemica da Lelio Basso, collaboratore della rivista "Quarto Stato" con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo. Nel suo articolo Socialismo e idealismo, del 1926, identifica il socialismo "nella coscienza dei proletari che sentano nell’interiorità propria l’antitesi fondamentale che divide la società [...] ed abbiano la volontà di superare questa antitesi per salire più in alto" (p. 277). La tesi di Basso suscitò una infiammata polemica a cui parteciparono filosofi come Santino Caramella e De Ruggiero. Il primo sottolineava l’aspirazione della classe intellettuale a conciliare il liberalismo con il socialismo e finiva per prospettare la possibilità della nascita di un socialismo liberale nel caso in cui il socialismo rinunciasse ai suoi propositi di annientare le classi sociali diverse dal proletariato. La fusione tra le due ideologie, solo apparentemente contrapposte, come dimostrava il laburismo inglese, a cui appunto Carlo Rosselli avrebbe guardato con interesse, si sarebbe potuta attuare applicando il liberalismo alla costituzione politica e il socialismo a quella economica.
Il tentativo di idealizzare il marxismo cozza naturalmente con l’ortodossia positivista e materialista portata avanti dai vecchi riformisti. Per gettare acqua sul fuoco Rosselli richiama i giovani come Basso portati a condannare tout-court la vecchia classe dirigente riformista cancellando con un colpo di spugna trent’anni di lotte e di successi, ma chiede anche agli anziani come Zibordi di farsi da parte e di rinunziare a sentirsi come gli infallibili interpreti dei dogmi marxisti e smetterla di condannare ogni proposito volontarista come un rigurgito di fascismo intellettuale.
Nell’ottobre del 1926, in seguito alle leggi " fascistissime", i dirigenti del Partito socialista italiano decidono di trasferire i poteri alla Direzione che già risiedeva all’estero; di fatto l’attività del partito si sposta a Parigi dove si trova il maggior numero di esuli. L’anno dopo il Partito socialista italiano in esilio invita i comunisti, i repubblicani e gli anarchici a lavorare insieme in direzione antifascista, ma i comunisti rifiutano, considerando ancora i socialisti troppo borghesi ; l’anno dopo si costituisce la cosiddetta Concentrazione tra le varie frange del socialismo, i rappresentanti della Camera del lavoro e i repubblicani. Tale organismo si propone di impegnarsi al massimo, al di là dei particolarismi di partito, nella lotta antifascista per la riconquista della libertà da parte del popolo italiano e a tale scopo costituisce anche un suo organo di stampa, diretto da Treves, "La Libertà". Nenni, all’interno della Concentrazione, si fa promotore di una rigenerazione del socialismo attraverso il solenne suggello di un patto tra vecchi e giovani. Saranno i giovani a ridare nuova linfa ad un partito isterilito da decenni di politica gradualista e a far si che si superi sia il riformismo che il massimalismo per raggiungere la meta della costruzione di uno stato democratico e moderno, dopo la caduta del regime, che niente abbia a che fare con lo status quo ante, cioè con quel tipo di stato liberale di cui il fascismo è stato l’espressione più compiuta della irreversibile crisi. Tale proposta viene accolta anche dagli anziani del partito come Turati e Treves e troverà la sua consacrazione nel Congresso di Grenoble del 1930.
Nel 1933 vede la luce a Parigi un giornale "Politica socialista", interamente dedicato ai giovani, in cui il Partito fa autocritica, conscio di non aver saputo attirare le giovani generazioni, con lo sport, le parate, le organizzazioni studentesche, così come, invece, aveva saputo fare il fascismo.
Ma il vero movimento che si contrappone effettivamente al fascismo, puntando sul fattore generazionale è senza dubbio Giustizia e Libertà fondato da Carlo Rosselli nel 1929. Questi si rende perfettamente conto dell’influenza del fattore generazionale sul momento politico e giustifica l’adesione di massa dei giovani al fascismo " che urta colle più belle e secolari tradizioni della gioventù studiosa e repugna al nostro senso morale" con lo sconvolgimento immane determinato dalla guerra. "[...] Quando la pace venne - scrive nella "Inchiesta sui giovani" - anche se solo di nome, quando subentrò o minacciò di subentrare quello che ad essi sembrava il grigio, il loro spasmodico desiderio di fare, di dare, di immortalarsi in un attimo solo, li prese. Cercarono l’eroico, il sublime. E lo trovarono solo là dove lo potevano trovare. Furono fascisti in buona fede come forse sarebbero stati comunisti, se nel sovversivismo postbellico vi fosse stata una decisa volontà d’azione. E poi i socialisti erano tanti, troppi, e i fascisti pochi. Non si avvidero di essere attori e più che attori marionette, d’un secolare dramma sociale che li faceva servitori di interessi inconfessabili" (p. 244). Il giovanilismo su cui si basa il movimento fondato da Rosselli può essere analizzato sotto molteplici angolature. Come vocazione movimentista, come contrapposizione ai partiti tradizionali dell’antifascismo, bollati come "vecchi" e rinunciatari, come fattore di distinzione dagli elementi conservatori e statici. Il fondatore di Giustizia e Libertà, del resto, è la quintessenza dell’ardimento giovanile; editore e pubblicista, sempre sulla breccia, vulcano di idee e di iniziative, si avvicina molto alle figure di Gobetti e Marinetti, di cui condivide anche le notevoli possibilità economiche con cui finanzia il suo movimento. Tuttavia, a differenza di quelli, appare più politicamente preparato, più concreto e meno confuso.
Rosselli inizia l’enunciazione del suo programma politico che aveva elaborato a Lipari e che verrà poi perfezionato nell’opera Socialismo liberale, il 24 maggio del 1930 nel corso di una conferenza da lui tenuta, su invito dell’Unione socialisti italiani, alla presenza dei notabili storici del socialismo italiano, Turati, Treves, Modigliani, Buozzi e il giovane Saragat che, ormai, insieme a Nenni, era il vero portavoce del Partito. In tale conferenza Rosselli prende subito le distanze dal massimalismo socialista e pone come argomento base delle sue enunciazioni il principio di libertà: "La libertà è spirito e vita che non si soffoca mai in nessuno, senza tempesta. La libertà è idea" (p. 321). Essa è considerata un valore assoluto dell’individuo che non potrà mai essere sacrificato, per nessun motivo, nemmeno in nome dell’eguaglianza economica. Il socialismo è visto, appunto, come libertà dalla servitù economica e dallo sfruttamento capitalistico. Al marxismo è rimproverata l’assenza di spiritualismo, l’eccessiva attenzione al fattore economico che porta, comunque, ad allontanare da esso quella parte di popolo che non si identifica con il proletariato operaio.
La conferenza attira le critiche dei maggiorenti del Partito che vedono in Rosselli un eccessivo idealismo inconciliabile con i dogmi marxisti, ma ancora maggiori critiche avrebbe ricevuto, da lì a poco, il libro Socialismo liberale, stampato a Parigi nel 1930, che venne stroncato da Treves, per il suo carattere ibrido, né socialista né liberale, per l’eccessivo giovanilismo, per il "velleitarismo intellettuale delle élites". Saragat, addirittura, avrebbe accusato Rosselli di "misticismo antimarxista" e di avere una concezione troppo formalistica della libertà (p. 325. n.).
Peraltro non gli sarebbe stata facilmente perdonata un’interpretazione del fascismo non proprio ortodossa secondo la letteratura marxista. Egli riteneva che il fascismo non dovesse ritenersi una parentesi, un accidente storico, "né l’avventura di un pugno di briganti". Per Rosselli il fascismo è "un fenomeno grosso" [...] "è la forma storica che tende ad assumere la civiltà borghese capitalista in questa fase di declino". Per cui respinge l’atteggiamento socialista di fatalistica attesa, "nella certezza dell’esaurirsi prima o poi dell’incidente", del trionfo della giustizia e della società marxista. Rosselli ribadisce che la gioventù è stufa di determinismo, vuole essere protagonista della storia con la sua volontà, vuole agire e per agire e vincere il fascismo deve intimamente conoscerlo, così come deve conoscere gli errori compiuti dal Partito socialista nel passato. Nel volontarismo e nell’idealismo del fondatore di Giustizia e libertà, c’é molto del Mussolini eretico del 1914! Stessa volontà di agire e di essere protagonisti della storia!" [ ...] Noi crediamo nella volontà umana, - scrive Rosselli - almeno come in uno dei fattori essenziali della storia; essa non basta evidentemente a creare il mondo quale lo vorremmo, ma essa è la condizione per fare, è la condizione per andare controcorrente e per non impantanarci in quel determinismo puro che fa il paio con la divina provvidenza dei cattolici" (p. 285).
Nel fascismo Rosselli se non vede "l’esperienza rivelatrice" che vi avevano visto Salvemini e soprattutto Gobetti, vede, tuttavia, un’esperienza che nel bene o nel male, non è possibile trascurare. Sulla base di tale esperienza egli ritiene che i socialisti avrebbero dovuto già comprendere che il socialismo avrebbe avuto un avvenire soltanto se si fosse finalmente liberato della sua filosofia ufficiale, se si fosse aperto a tendenze, se non proprio di matrice marxista, comunque sensibili ai problemi sociali, come il mazzinianesimo, il socialismo cristiano, e, soprattutto, se avesse rinunciato al determinismo e capito di non dover agire per una sola classe ma per un intera nazione, essendo portatore di valori di carattere universale.
Dopo Mussolini, anche Rosselli, seppure dalla sponda opposta, pone, dunque, l’accento sul binomio classe - nazione e sul carattere maggiormente coinvolgente del secondo elemento rispetto al primo. Intuisce che proprio il prevalere della classe nel programma socialista, ha reso impossibile, nel dopoguerra, la vera unità fra i lavoratori, permettendo al fascismo di aprirsi un varco nel ceto medio borghese, che ne ha consentito la vittoria. Il socialismo liberale cui Rosselli guarda è indubbiamente il laburismo inglese su cui aveva espresso alla madre giudizi entusiastici al suo ritorno da Londra. E’ un tipo di socialismo il suo che paradossalmente richiama un pensatore che certamente Rosselli non conobbe; parlo di Enrico La Loggia che, nel 1895 aveva già enunciato il suo concetto di socialismo in un articolo pubblicato nella "Rivista di politica e scienze sociali" diretta da Colajanni, affermando che il socialismo avrebbe dovuto essere necessariamente liberale se avesse voluto resistere nel tempo. Egli peraltro, esponeva un programma di nazionalizzazione parziale più chiaro e preciso rispetto al francese Benoit Malon che nel 1890 con il Socialisme Intégral aveva prospettato il mantenimento della proprietà privata per i beni strettamente personali. La Loggia faceva, invece, una netta distinzione fra i beni, senza lasciar larghi margini di discrezionalità, così come aveva fatto il pensatore francese, e proponeva la socializzazione parziale relativa ai beni primari e a quelli ad essi strumentali (la terra, il mulino, il forno per la produzione del pane, le industrie che fabbricano beni primari) I beni di consumo e i beni strumentali ad essi, cioè i beni secondari (per es. i gioielli e la fabbrica che li produce, merletti, soprammobili, ecc.) sarebbero rimasti nelle mani dei privati. Tali beni avrebbero costituito la sola ricchezza nel contesto della società socialista, ricchezza intesa come frutto del lavoro e dell’iniziativa privata. La libertas possidendi e la libertas agendi, intesa come iniziativa economica, avrebbero mantenuto vivo il principio della libertà individuale che sarebbe stata, invece, completamente soppressa da un regime di socializzazione collettiva. Sembrava un’eresia, una contraddizione in termini, ma si sarebbe rivelato nell’avvenire il solo tipo di socialismo accettabile e compatibile in uno stato non autoritario (cfr. G Portalone. Il socialismo di Enrico La Loggia, Palermo 1993). E’ del resto un’idea affine a quella di Arturo Labriola, il quale, dopo essersi scagliato contro il marxismo applicato nella Russia sovietica, stato poliziesco come pochi nella storia, che aveva tolto la libertà ai cittadini senza peraltro risolvere i loro problemi economici, anzi abbandonandoli alla più terribile miseria, rigetta la tesi secondo cui il socialismo sarebbe prodotto dal capitalismo. Degl’Innocenti sottolinea che per Labriola il socialismo è conseguenza della miseria che non è prodotta dal capitalismo, ma dall’ingiusta distribuzione dei beni e delle risorse, cosa che avviene anche in uno stato marxista e anticapitalista come l’URSS. Labriola arriva alla fine a preconizzare la nascita di una sorta di capitalismo socialista che possa conciliare il problema della libertà con quella della giustizia economica e sociale: solo la socializzazione parziale, infatti, può definirsi rivoluzionaria, poiché salvaguardia la libertà cosa che non potrebbe avvenire in un regime di socializzazione universale. Ancora una volta io trovo delle analogie con l’idea socialista di Enrico La Loggia, anche se verosimilmente nemmeno Labriola conobbe gli scritti di questo geniale avvocato agrigentino.
Nel ricercare le colpe del socialismo dell’anteguerra, Rosselli arriva a criticare l’eccesso di parlamentarismo e, come bene mette in evidenza Degl’Innocenti, sembra dare una valutazione quasi negativa dei tradizionali istituti di democrazia rappresentativa, finendo così per farsi promotore di qualcosa di elitario che risente dell’influenza dei socialisti eretici francesi della fine del secolo precedente e che lo avvicina ancora una volta a molti capisaldi dello stesso fascismo. Il socialista Berth, discepolo di Sorel nel 1914 aveva dichiarato la sua posizione antidemocratica e antiparlamentare scrivendo: "[...] Se la monarchia è il martello che scaccia il popolo, la democrazia è l’ascia che lo divide. Entrambe portano ugualmente alla morte della libertà: Il suffragio universale [...] è ateismo politico nel peggiore significato della parola. Come se dalla somma di una quantità qualsiasi di suffragi potesse mai risultare un pensiero generale! [...] Il modo più sicuro per far mentire il popolo è istituire il suffragio universale" (riportato da G. Portalone Dalla classe alla Nazione, cit.). Degl’Innocenti, del resto, ci fa notare che molte sono le analogie tra il movimento di Rosselli e il primo fascismo: oltre al giovanilismo, l’indifferenza nei confronti del programma e la disponibilità a cambiare in relazione alle circostanze, il movimentismo e infine il richiamo a Mazzini ed al Risorgimento come termine di paragone per il rinnovamento ricercato.
Resosi conto, così come aveva già capito molto tempo prima Salvemini, che la Concentrazione non era nient’altro che un’associazione di avversari che nulla avevano in comune se non l’antifascismo, inadatta, quindi, a ricostruire l’Italia, una volta abbattuto il regime, Rosselli se ne allontana e nel 1934 sancisce questa sua diversità con il settimanale "Giustizia e Libertà". Attraverso le pagine del settimanale l’esule candida il suo movimento politico a riorganizzare unitariamente l’antifascismo dell’emigrazione, aggregando tutti coloro che lo combattono in modo intransigente e che non vogliano edificare un ponte tra il vecchio mondo prefacista e quello che avrebbe fatto seguito al fascismo. In tal modo non solo si sarebbe avallata la tesi del fascismo come parentesi, cose che egli escludeva, ma si sarebbero esentati i futuri ricostruttori della democrazia italiana dal fare autocritica sugli errori commessi dal socialismo, errori che avevano portata alla nascita del fascismo, come unico rifugio visto dai giovani per difendersi dalla deriva dello stato liberale. Rosselli definiva "Giustizia e Libertà" come "fronte unico di azione che raccoglie gli elementi attivi dei vecchi partiti e gruppi socialisti e repubblicani e i sempre più numerosi elementi giovani, senza tessere né precedenti politici, che in questi ultimi anni sono venuti alla lotta rivoluzionaria" (p. 345 n.). Sulla base di tali premesse Rosselli non può che rifiutare la proposta che gli proviene da Angelo Tasca di una saldatura generazionale per la rinascita del popolo italiano. "Le rivoluzioni non si determinano per via di saldature - risponderà il fondatore di "Giustizia e Libertà" - ma per via di fratture, dovesse pure la generazione rivoluzionaria riuscire ingiusta e crudele verso i predecessori, tutti i predecessori anche i più degni" (348).
Sulla scia del revisionismo socialista di Rosselli si collocherà anche una parte della giovane sinistra francese. Proprio un amico di Nello ed un seguace di Salvemini, Jean Luchaire, fonderà a Parigi nel 1927 "Notre temps". La Revue des nouvelles générations che si rivolge a tutti i giovani la cui mentalità si sia formata durante e dopo la guerra e che considerino superati i valori del periodo prebellico e improponibile un’alleanza con gli anziani. Tuttavia, gli interlocutori privilegiati dei giellini diventano i neos, ovvero i neo socialisti francesi che, pur essendo dei socialisti, non considerano il partito un valore insuperabile e che identificano i loro caposcuola in Montagnon e Deat. Montagnon pone alla base del nuovo socialismo la nuova umanità, cioè un’umanità che si forma col superamento dell’individualismo, protesa verso un futuro di collettivismo e di spirito associativo. Per ottenere ciò il socialismo dovrà considerare meno centrale il fattore economico e distinguersi nettamente dal marxismo. Solo se veicolato in tale nuova veste a forte contenuto spiritualistico, il socialismo, secondo Montagnon avrebbe potuto far presa sulle giovani generazioni. Degl’Innocenti mette in evidenza come la dottrina economica di Montagnon, fondata sulla sindacalizzazione delle industrie e sulla forte presenza dirigista dello Stato, di fatto finisca per avvicinarsi troppo al cooperativismo fascista, al quale l’ingegnere francese riconosce il merito di aver compreso, nel momento della crisi dello stato liberale, la necessità di uno Stato forte, difensore dei deboli e potente internazionalmente e sottolinea, inoltre, come il francese risenta molto del pensiero di Saint-Simon e di Proudhon che poco avevano in comune con l’ideologia marxista.
Un altro socialista francese, Deat, che con il suo "Perspectives socialistes" dà vita al manifesto del néos, cioè del neosocialismo, prospetta la creazione di uno stato dirigista e riformista che si basi sul sostegno della classe operaia e dei ceti medi e che abbia il controllo delle organizzazioni sindacali e cooperative; anche questa è una tesi molto simile al corporativismo fascista.
Seguace di Deat è Adrien Marquet a cui si attribuisce il motto "Ordine , Autorità e Nazione" che compendierebbe il pensiero dei néos. Ma i socialisti ortodossi non possono accettare i principi di autorità e ordine coniugati a quello di nazione, e rinunziare, così, di punto in bianco all’internazionalismo che è uno dei pilastri della dottrina marxista, perciò prendono immediatamente le distanze dai néos che definiscono "fascisti di sinistra". (Di fatto sia Deat, che Marquet che lo stesso Luchaire convergeranno alla fine nel sostegno al governo Laval e alla Francia di Vichy, dando ragione a chi sosteneva esserci poca o nulla differenza tra la loro concezione di stato e quella fascista) A difenderli si erge Rosselli che dedica ai nèos su "La Libertà" una serie di articoli nell’agosto del 1933, dichiarandosi d’accordo sulla definizione del fascismo come rivolta delle classi medie, sul ripiegamento delle nazioni in se stesse a causa della crisi economica, sul ripudio dell’Internazionalismo e sul legame imprenscindibile del socialismo con la nazione e con la democrazia.
A partire dal 1934 si può notare una svolta nel pensiero di Rosselli; l’auto celebrazione diventa ancora più intensa, poiché dopo la rottura con la Concentrazione, egli rivendica ogni giorno di più il ruolo primario del suo movimento nella lotta unitaria antifascista. A partire da quella data, inoltre, l’esule considera indispensabile mutare strategia e sostiene la necessità di propagandare il movimento all’interno dello Stato italiano, rivolgendosi ai giovani delusi dal fascismo e caduti nell’indifferenza che egli reputa il primo passo verso l’aperta sfiducia al regime. Tuttavia, egli sostiene che l’incontro con i giovani fascisti delusi non può avvenire sul terreno dei vecchi movimenti antifascisti, ormai sconfitti in tutta Europa, ma sulla base di un movimento nuovo, totalmente avulso da ogni esperienza politica passata, capace di una netta trasformazione a carattere rivoluzionario della vita italiana e rimane fermamente convinto che tutto ciò avrebbe potuto attuarsi solo attraverso l’impegno delle giovani generazioni. Del resto, già nel 1926, con la rivista "Quarto Stato". Rivista socialista di cultura politica dedicata ai giovani socialisti, Rosselli aveva sposato la proposta di Mondolfo di diffondere il socialismo fra i giovani secondo una veste più allettante e più adatta ai fermenti dell’età, restituendo ad esso " la natura di fede più che di scienza, di agitazione del problema economico ma anche e soprattutto di quello morale, poiché il suo fine ultimo è il perfezionamento della personalità umana, è la creazione di un ordine nuovo che assicuri al maggior numero di esseri umani la possibilità concreta, pratica, effettiva di elevarsi al più alto livello di vita materiale e spirituale" (p. 266). Rosselli intendeva procedere dalle pagine di questa Rivista alla formazione di una gioventù socialista che sostituisse la classe dirigente del partito, colpevole con il suo gradualismo, di avere intorpidito le masse e di aver allontanato i giovani da quello che a loro appariva come una specie di giolittismo. Rinnega perciò egli stesso ogni legame col passato affermando che guardandosi indietro trova affinità solo con Mazzini e con il programma di socializzazione parziale dei socialisti riformisti.
La svolta del 1934 mette in evidenza, come sottolinea Degl’Innocenti, i limiti del pensiero politico rosselliano. Pur richiamando sempre la necessità dell’azione, egli comincia a rivelarsi un utopista, privo di ogni forma di pragmatismo. Non si domanda infatti come possa penetrare la propaganda giellista in Italia, date le limitazioni imposte alla stampa, né quale valenza avrebbe potuto essa avere fra i giovani, data la fama non certo benevola di cui godevano i fuoriusciti ed, inoltre, considera dogmaticamente l’indifferenza giovanile al fascismo come preludio all’opposizione piena. Se nel 1934 aveva criticato severamente il patto tra socialisti e comunisti che anticipava la formazione dei Fronti popolari in Europa ed in Cina, dopo lo scoppio della guerra civile spagnola se ne considera entusiasta, rivalutando quel marxismo che aveva fin a quel momento vituperato e considerato la causa fondamentale dell’allontanamento dei giovani dal socialismo. Perché questo improvviso giro di boa che lo porta ad allontanarsi sempre più dai partiti socialdemocratici europei e ad avvicinarsi incredibilmente ai comunisti? Probabilmente se precedentemente aveva pensato che il patto sancito in Francia tra socialisti e comunisti avrebbe messo in ombra il suo movimento che voleva essere il vero protagonista della lotta antifascista, quando Stalin dà il via alla formazione dei fronti popolari in tutti gli stati liberi per combattere il fascismo, abbandonando la preclusione antiborghese, si rende conto che il suo movimento se isolato è destinato alla morte. Inoltre, la guerra di Spagna riaccende il suo giovanilismo, la sua voglia di azione e di ardimento, forse anche la sua voglia di eroismo se si preoccupa di celebrare con solenne retorica nel suo giornale la caduta in terra iberica dei primi martiri dell’antifascismo. Tuttavia, proprio il contatto con i comunisti, con Togliatti per la precisione, plenipotenziario di Stalin in Spagna, metterà in risalto ai loro occhi le sue diversità, il suo libertarismo che meglio si adattava ad un’alleanza con gli anarchici andalusi che con gli stalinisti. Già da allora egli verrà accusato di deviazionismo, particolarmente Togliatti non gli perdonerà di aver schierato in Spagna i suoi volontari con le divisioni anarchiche piuttosto che con quelle postesi agli ordini del Comintern. Tutto ciò farà avanzare ad uno storico come Massimo Caprara (M. Caprara Togliatti, il Comintern e il gatto selvatico) il sospetto che nel suo omicidio possa esserci stata la mano dei servizi segreti sovietici a cui la propaganda politica dei fratelli Rosselli, tutta rivolta ormai a chiedere all’URSS un maggiore coinvolgimento in senso antitedesco dava particolarmente fastidio, in un momento in cui già Stalin accarezzava l’idea di un patto di non aggressione proprio con la Germania nazista.
Al di là del particolare clima che si respirava nel dopoguerra, anche i comunisti, nel 1945, ritennero determinante contare sui giovani per il rilancio del Partito, d’altra parte Luigi Longo, già nel 1927, aveva affermato che la conquista della gioventù era da considerarsi decisiva. Togliatti, tornato in Italia, punta anch’egli sui giovani, sforzandosi di attirare nel Partito, come ha rilevato Sabbatucci, i giovani fascisti smarriti, dopo la caduta del regime, i combattenti di Salò che in quell’impresa avevano dato l’anima cercando l’onore e la "bella morte"; si rivolge a quei fascisti di sinistra anticapitalisti e sostenitori del programma sansepolcrista. In parte riesce nell’impresa, poiché il comunismo rappresenta nel secondo dopoguerra, per i giovani idealisti e delusi, quello che il fascismo aveva rappresentato nel primo: la rottura con il passato, il culto dell’azione anche violenta, l’aspirazione al rinnovamento ab imis.
Alla fine della lettura di questo libro possiamo fare una serie di considerazioni: il fenomeno che caratterizzò l’alba del novecento, il giovanilismo appunto, e che determinò la nascita di fondamentali movimenti politici e culturali, fu un movimento trasversale, comune sia alla destra alla sinistra, un movimento di protesta generalizzato, di ribellione, di aspirazione alla catarsi attraverso la rivoluzione e dunque al capovolgimento dei valori legittimati dal positivismo; il fattore generazionale fu, malgrado tutto, un ponte di collegamento tra movimenti di destra e movimenti di sinistra, basta considerare le scelte politiche che nella maturità avrebbero fatto gli esponenti dei néos, come Marquet, Deat e lo stesso Luchaire e il passaggio, nel secondo dopoguerra, dal fascismo al comunismo di molti giovani reduci della repubblica di Salò o di molti giovani fascisti smarriti alla ricerca di una nuova casa politica. Il giovanilismo fu alla base della rivoluzione culturale del ’68 e anche allora venne vissuto come una guerra contro la razionalità e la tradizione, influenzando le scelte politiche dei governanti di tutto il mondo.
Oggi non si può certo parlare di giovanilismo come celebrazione dell’azione che si spinge fino alla temerarietà e all’eroismo; tuttavia si aspira anche adesso ad uno svecchiamento della classe politica ed imprenditoriale del Paese, in cui effettivamente, nell’ultimo decennio, l’età media della classe dirigente si è abbassata di almeno dieci anni. L’era dell’informatica si affida sempre di più all’intuitività giovanile, all’adattamento delle giovani menti a tutte le forme di progresso rispetto alle quali gli anziani appaiono naturalmente più restii.
Si tratta di un giovanilismo meno passionale e più razionale, ma che porta comunque all’esaltazione delle giovani generazioni, e se non si può parlare più di conflitto generazionale è solo perché, a parer mio, sono proprio le vecchie generazioni che hanno rinunciato ad imporsi e che hanno delegato ai propri figli la gestione del futuro.
Amicizie e lotte civili è un articolo scritto dal filosofo Giovanni Gentile e pubblicato su "Il Risveglio", periodico di Castelvetrano, il 25 settembre 1904.
L’articolo assume, a sessant’anni dalla morte del filosofo, un rilievo particolare in quanto esso era rimasto ignorato, fino ad oggi, dalla critica e dagli studiosi, tanto da non essere compreso nell’Opera Omnia gentiliana.
"Il Risveglio", quindicinale a carattere politico e amministrativo, divulgato tra il 1904 e il 1905, è il risultato dell’attività politica e sociale di parte della società civile di Castelvetrano, operante nel complesso panorama della Sicilia dell’età giolittiana. Le condizioni politico-amministrative in cui versa la cittadina belicina dell’epoca, caratterizzate da un patologico accentramento del potere nelle mani della famiglia Saporito, sono il motivo scatenante, la causa causarum, della costituzione del foglio.
La feroce attività di repressione, l’intimidazione operata in città contro ogni forma di dissenso e opposizione ma anche di semplice espressione in piena libertà, elevano il lavoro di poche coraggiose menti fuori dal coro. Così pensatori e uomini impegnati nel civile mettono in piedi una rivista, data alle stampe per un ininterrotto anno, al fine di sostenere le vicissitudini e le campagne del locale partito d’opposizione. Esso è un giornale combattivo ed energico, guidato dalla carismatica figura del socialista siciliano Giovanni Bonagiuso e assurge immediatamente a luogo di dibattito continuo e consapevole, di pressione, d’azione politica e sociale. "Il Risveglio" si fa portatore di una missione forte, convincente e foriera di molti proseliti nel concitato scenario locale.
La rivista è l’espressione di una composita aggregazione di ideali e di forze, ove rimangono sempre evidenti i propositi di accreditamento delle posizioni popolari e socialisteggianti, l’impegno di un forte rigorismo etico-politico, un vigile stato d’allarme e d’onesta polemica contro istituti e prassi del canceroso governo locale e non. E proprio nell’aperto pluralismo di principi e d’interessi e nella conseguente articolata offerta editoriale si individua la forza trascinante del quindicinale castelvetranese.
Le campagne propagandistiche, i contributi dei redattori de "Il Risveglio" di Castelvetrano prendono in oggetto, al loro interno, la politica, l’economia, la cronaca, i risvolti sociali dei diversi provvedimenti amministrativi, la vita culturale locale e nazionale: si tratta di tematiche profonde come la politica e i partiti, la mafia e la corruzione, il suffragio universale, il militarismo, i diritti e i doveri dei cittadini, l’amministrazione della giustizia, l’igiene e la sanità.
Pur tuttavia tali passioni non distolgono mai "Il Risveglio" dalla sua necessaria finalità: informare e, al contempo, educare gli strati meno consapevoli della società, rievocare in essi il principio della libertà propria dell’uomo civile, sacrificare l’utile individuale al benessere collettivo, infondere nei lettori i caratteri propri di quella democraticità crescente nell’animo di politici e pensatori del tempo:
l’opera di un giornale come il "Risveglio" ispirantesi alle idealità della moderna democrazia, non può non avere che un solo obiettivo: quello, cioè, di richiamare le coscienze alle fonti di libertà e di ricostituire il sentimento del carattere, mercè l’educazione e la ragionevole censura contro i sistemi imperanti nella vita pubblica locale.(1)
Nell’azione sociale e in quella politica, nei rapporti esterni e nelle relazioni al suo interno, il lavoro de "Il Risveglio" s’informa ad un aperto anti-elitarismo sostenuto dal convincimento della reale importanza dell’uguaglianza formale e sostanziale degli individui, inserita in un necessario assetto istituzionale democratico. A questo mirano, allora, le lotte per l’acquisizione del diritto alla giustizia, alla vita, i valori del sacrificio personale, del riscatto politico e morale delle masse, i principi di verità, onestà, civiltà e libertà cui s’inspirano, ciascuno individualmente e tutti all’unisono, i compilatori del foglio di Castelvetrano.
Costoro sono consapevoli dell’apostolato etico e civile che li investe, una missione aperta alle esperienze future, ansiosa di cambiamenti; un programma che appare di rimarchevole vicinanza alle tesi riformiste volte alla trattazione di questioni concrete: dal suffragio universale alla lotta per la legislazione sociale, all’opposizione alla guerra e al nazionalismo, alla definizione del ruolo delle biblioteche nella cultura popolare. Il foglio è posto in essere con lo scopo principe della redenzione intellettuale, economica e morale delle masse e per la "moralizzazione delle pubbliche istituzioni".(2)
Principi, ideali ma di certo un modus vivendi che non possono emergere, all’interno delle colonne del foglio, se non accompagnati ed esaltati da due fondamentali e peculiari accorgimenti che si sostanziano nella rigorosità argomentativa da un lato e nell’austerità dell’esposizione dall’altro.
La pungente e profonda attività editoriale de "Il Risveglio" si chiude nel febbraio 1905 poiché l’opprimente regime saporitiano ancora ne ostacola il perdurare.
L’ora attuale volge triste per la democrazia; allo sviluppo moderno del paese fa da contrasto un Governo mafioso, fatto di reazione e di clericalismo. Ma anche quest’ora passerà, […] il sole dell’avvenire tornerà a risplendere.(3)
A fortificare l’operato della rivista in commento si accosta il contributo di Giovanni Gentile apparso sulle colonne del giornale. Il filosofo neo-idealista, ancora agli inizi del suo percorso culturale e legato ai redattori del foglio dal comune sentimento di "anti-saporitismo", si presenta ai lettori con un suo unico pezzo. Le sue considerazioni, poste in prima pagina sul dodicesimo numero de "Il Risveglio" di Castelvetrano, ben si accostano e si sposano con le idealità propugnate dal quindicinale in merito alla politica, ai partiti, alla gestione amministrativa del potere.
Amicizie e lotte civili è una riflessione appassionata e di notevole fattura incentrata sulle relazioni tra l’etica e la politica, tra il vivere civile e l’azione partitica; considerazioni che si evincono in modo quanto mai organico, diretto e sistematico all’interno dell’intervento sul giornale dell’illustre collaboratore: è questo un contributo che eleva, di certo, il livello qualitativo dei contenuti in relazione all’azione operata dal foglio rispetto alla comunità siciliana.
La trattazione di Gentile si struttura in un percorso articolato contraddistinto da tre differenti partizioni.
L’incipit è certamente rilevante in quanto il redattore, lasciando il suo contributo privo di ogni esplicazione preliminare o di formule introduttive, entra con immediatezza nell’animo del lettore attraverso l’utilizzo di parole, di locuzioni miranti a irrompere nei sentimenti. Così Gentile si abbandona a pensieri che assumono, anche oggi, nel centenario della loro pubblicazione, una peculiare rilevanza. In questo primo approccio vengono prese in considerazione attività, situazioni della vita sociale della locale comunità con il fine di iniziare il lettore e predisporlo alle successive considerazioni più marcatamente teoriche e speculative.
Amicizie e lotte civili raggiunge, nella sua seconda fase, l’apice della dissertazione in cui esso si concreta. Allontanandosi dalle iniziali spinte passionali, Gentile pone in essere tutta la sua elevata capacità di ragionamento, l’eccellenza della speculazione, volte a convincere i più con temi forti, frasi pensate, altamente incisive. È un approccio, quello ora in analisi, che si contraddistingue a sua volta per due differenti fattispecie: da un canto vi sono le teorie, un breve excursus sulla storia dell’umanità, concetti fondativi dell’indagine riflessiva che costituisce l’articolo; dall’altro esempi attuativi, scorci di vita reale, giustificazioni mirate e applicative delle precedenti teorizzazioni. Frasi, queste ultime, che permettono a Gentile di addentrarsi negli oscuri meandri della vita sociale e politica castelvetranese e isolana, al fine di mostrarne i meccanismi e guidare, con le sue parole, l’impegno futuro dei suoi conterranei.
In ultimo, l’autore ricompone il cerchio delle sue argomentazioni e spende le ultime attente considerazioni a sostegno, e lo fa in modo diretto, dell’attività editoriale e politica de "Il Risveglio". Il redattore opera, con le sue espressioni, al fine precipuo di fare apparire la rivista come meritevole di plauso anche da parte dei più scettici, di coloro i quali osteggiano, poiché contrari nell’ideale, la battaglia politica intrapresa dalla sua redazione.
La concezione della vita e l’habitus ideologico che dalle linee di questa disamina gentiliana vengono fuori possono essere direttamente rappresentate da due concetti pregnanti caratterizzanti tale riflessione: "libertà e tolleranza". Questi due valori, a parere del redattore, devono costituire la quintessenza e regolare le modalità e le attività che contraddistinguono l’agire politico e partitico. È un binomio di principi che si compone, però, solo al termine del pezzo, quando l’autore giunge alle conclusioni dopo avere condotto il lettore attraverso impervie, laboriose, misurate riflessioni, alla stessa stregua del Virgilio dantesco.
Nel suo articolo Gentile si pone in un atteggiamento di critica aspra nei confronti di un credo oramai diffuso in certi ambienti della cittadina belicina, in altre parole tra l’egemone famiglia dei Saporito, ma espansosi anche tra i meandri della scena politica nazionale: "chi non è con me, è contro di me: questa - scrive l’autore - è la formula in cui si riassume di solito il concetto delle relazioni tra i vincoli privati e i rapporti pubblici".(4) Un contegno che costituisce un’infelice "massima di condotta"(5) cui s’ispirano molti attori del panorama locale e nazionale nell’esplicitare le loro infauste azioni e perseguire illecite finalità.
In Sicilia e a Castelvetrano "non si sa concepire un amico in un avversario politico, né un avversario politico in un amico";(6) la vita pubblica, per Gentile, è caratterizzata da personalità fortemente inspirate alla realizzazione di interessi e finalità meramente materiali e unicamente personali. Il sentimento di amicizia, la cui analisi caratterizza la prima parte di Amicizie e lotte civili, è sovente subordinato a radicali trasformazioni per ciò che concerne, in particolare, il suo originale significato e valore principe: esso tende a divenire
totale consenso di anime, che, mosse dagli stessi pensieri e dagli stessi ideali, hanno identiche aspirazioni, e quasi vivono una vita sola. […] L’amicizia, da principio qual è per se stessa, di altruismo, di moralità, si trasforma, reagendo all’istinto primitivo dell’egoismo, in uno strumento immorale di questo, e in un fatto essenzialmente antisociale e incivile.(7)
Le battute iniziali lasciano presagire importanti sviluppi sia a causa della rilevanza del tema in oggetto che per il tono austero e combattivo che le contraddistingue. Si tratta di frasi, riflessioni che, oggi, risuonano da monito nei confronti di molti, impegnati nel governo delle istituzioni ma spesso colpevolmente assenti, tutt’altro che volti al miglioramento delle condizioni reali di vita dei popoli.
Ancora, opponendosi, con elevata vigoria, all’impero dell’amicizia degenerata e degenerante che deve invece essere forma pura del vincolo personale tra gli individui, Gentile scrive che questa, allo stato, si riduce
alla pretesa egoistica di avere l’amico propenso e favorevole alle proprie idee dominanti, alle aspirazioni proprie cui si annette un maggior valore, a tutto ciò che per ciascuno costituisce l’essenziale della sua vita, o a cui si sia legato di più il suo amor proprio.(8)
L’iniziale reprimenda operata dallo studioso di Castelvetrano è rivolta ai sistemi imperanti in merito alla gestione del potere istituzionale italiano: è un’avversione profonda verso ogni forma di sottomissione delle aspirazioni e degli ideali dei singoli nei confronti dell’interesse economico che scaturisce da alleanze e illecite connessioni.
Se tali sono le considerazioni esplicitate relativamente al profilo ideale dell’amicizia, il redattore procede con diverse e maggiori illustrazioni e in un senso più pragmatico. Dopo avere prevalentemente indagato in relazione alle cause dei fenomeni da lui denigrati, Gentile si porta ad esaminare i diversi effetti di tale funesta interconnessione tra amicizia e politica sulle nazioni contemporanee. Essendo il rapporto tra persone, il sentimento di reciproca devozione mutevole e sviluppandosi secondo le linee direttrici prima delineate, allora, si legge in Amicizie e lotte civili, decade la civiltà e si arresta il progresso, "giacchè non c’è sviluppo sociale, non c’è progresso civile che non importi mortificazione e sacrificio continuo e progressivo delle tendenze egoistiche originarie dell’uomo".(9)
Gentile, al tempo insegnante presso un Liceo campano, mette allora in campo tutta la sua favorevole propensione all’impero dell’eticità, dell’idealità dell’individuo piuttosto che compiacersi dell’affermarsi dell’interesse economico e della servitù dei singoli verso i simili, di quanti lasciano nell’oblio il dono del libero arbitrio. L’autore non rinuncia all’utilizzo di una terminologia forte e fortemente espressiva, più che mai volta al raggiungimento dello scopo che il suo articolo si propone:
Codeste amicizie che fanno dell’amico il servo dell’amico, sono le più forti, le più energiche, le più violente: sono infatti le più naturali e rassomigliano non di rado, a quelle devoluzioni meravigliose, di cui ci danno spettacolosi esempi gli animali domestici e gli uomini vicini all’animalità.(10)
Frammenti, gli ultimi citati, alla base di un veemente e continuo atto d’accusa alle manifestazioni di violenza o di semplice disprezzo nei confronti delle nobili e naturali opinioni di dissenso; queste, invece, nel sistema di pensiero gentiliano, non possono non caratterizzare le competizioni politiche e, in particolare, i rapporti tra le persone in politica.
Queste prime considerazioni pienamente esaustive dello stato civile dell’amministrazione, delle modalità operative di coloro i quali a Castelvetrano gestiscono la res publica, si chiudono con una semplice locuzione: "ma questa è, ripeto la forma primitiva e incivile dell’amicizia".(11) Gentile la pone anche al fine di predisporre l’approccio alla seconda fase della sua riflessione.
Il pensatore siciliano propone, di seguito, un suo sistema di pensiero da contrapporre "all’idea vigorosa, per quanto primitiva"(12) del modus operandi sopra indicato, improntato, cioè, alla chiusura più bieca contro qualsiasi genere di contrapposizione di ideali o d’azione. Una modalità d’azione definita "appunto primitiva perché vigorosa" giacché rinnega, all’interno delle contemporanee nazioni liberali, ogni principio di libera espressione o d’agire, concetto che è assolutamente incompatibile con i sani valori che l’autore propugna nella riflessione in commento.
Scagliandosi, con forza ideale e autonomia di pensiero, verso l’imperante "forma egoistica dell’intolleranza e dell’ignoranza",(13) il neo-idealista promuove il massimo dell’apertura e dell’approvazione nei confronti di tutte le molteplici concezioni politiche che ognuno può crearsi e cui credere, una condizione così espressa:
le concezioni della vita politica e quindi le forme della condotta pubblica non solo non sono, ma non possono non essere molteplici, e tutte fornite di un valore puramente relativo, e nessuna d’un valore assoluto.(14)
Non è dato come possibile, in questo frammento, il perdurare di alcun contesto politico-sociale che si caratterizzi per un unico e assoluto sistema di valori tale da surclassare, con la forza e l’inganno, ogni altro credo. Conseguenza ineluttabile delle precedenti considerazioni è, per Gentile, l’impero del "diritto imprescrittibile alla libertà del pensiero politico".(15)
Nasce da questi nobili principi un apporto, un approccio forte e coraggioso del pensatore al tema, e lo è ancora di più se si considera il prevalente e biasimevole dominio Saporito a Castelvetrano; coerentemente l’autore opera l’apologia del principio della libertà nelle sue diverse forme, ritenendolo il momento fondativo, la conditio sine qua non di ogni ambito politico ed anzitutto sociale. "Le idee, le stesse dottrine politiche – scrive – non sono né tesi scientifiche né massime morali", gli ideali sono "teorie pienamente opinabili, opinioni verso le quali il solo ignorante che ne disconosce la natura può essere intollerante".(16)
Il principio della relatività delle opinioni politiche è posto alla base delle considerazioni del filosofo di Castelvetrano ed è sentito dallo stesso come momento vitale per il processo di crescita e sviluppo per l’affermazione di nuove ed importanti scenari negli Stati del Novecento. A questo viene successivamente affiancato un concetto di reale importanza, un principio cardine che completa il pensiero e gli conferisce coerenza e ulteriore autorevolezza: la libertà di coscienza. Essa, sostiene Gentile, si è evoluta, in natura, di pari passo alla concezione del relativismo gnoseologico:
la storia della libertà coscienza è insieme la storia del cammino che ha fatto nelle menti questo concetto della impossibilità di determinare in modo assoluto, alcune forme di verità, tra cui sono appunto quelle che riteniamo tali in politica.(17)
Con grande forza linguistica e ideologica, soprattutto grazie all’utilizzo di una terminologia sempre appropriata e ideologicamente trascinante, il filosofo presenta al lettore un ulteriore aspetto della sua trattazione sulla politica. Quanto sopra esposto costituisce anche un importante e implicito appello ai popoli a sollevarsi e a difendere, dappertutto e con ogni mezzo, la liceità delle loro opinioni soprattutto se di dissenso.
Proseguendo nella sua riflessione ideale ma anche enormemente intrisa di pragmatismo, in un insieme di fitte considerazioni, Giovanni Gentile collega al fondante assunto della libertà di espressione "l’obbligo della reciproca tolleranza".(18) L’autore esclude, in questo modo, qualsiasi legittimazione di atteggiamenti di disistima, di indifferenza cui le opinioni di dissidio possono essere relegate, talvolta, da parte di chi pensa in maniera diversa o si trova, più spesso, in una posizione maggioritaria. Viene così fuori, con notevole vitalità, il binomio di valori libertà-tolleranza cui partiti politici, fazioni in lotta, maggioranza e opposizione devono necessariamente improntare i loro apparati ideologici.
Il fine unico di questa disamina è quello di evitare di cadere nella facile trappola cui sovente, soprattutto nei Paesi ove la lotta politica non è rettamente regolamentata, la competizione partitica è condotta, ovvero nella "immoralità dell’intolleranza in politica". Gentile ritiene a tal proposito che
intolleranti non si potrà essere in politica se non per amore eccessivo delle proprie convinzioni, che è come dire per amore di se stesso, per egoismo: per non saper concepire il mondo altrimenti che come girante attorno alla nostra persona.(19)
Una problematica, quella ora in oggetto, che, nel pensiero dell’uomo di cultura castelvetranese, consta in maniera diretta quanti, nelle nazioni civili, sono impegnati a stabilire le regole del gioco istituzionale e della politica come i grandi specialisti del diritto dello Stato, i leaders e i rappresentanti dei movimenti a tendenza nazionale. È un monito imprescindibilmente diretto anche ai singoli individui: costoro devono farsi portatori di una disposizione d’animo ad operare su un binario di valori propugnati in Amicizie e lotte civili, allontanandosi, in tal modo, dall’immoralità derivante dal loro disconoscimento.
Le frasi, i passaggi or ora riportati sostanziano il completamento di quel processo logico-argomentativo che conduce il filosofo Gentile alla definizione dei principi che sono alla base del suo pensiero: libertà e tolleranza. Questi due postulati, essenziali per l’autore all’interno di ogni aggregato civile e democratico, vengono così alla luce come indissolubilmente legati, vicendevolmente indispensabili.
Il pensiero gentiliano che da tali parole si evince è, però, anche corroborato da tutto un insieme di esplicazioni più concrete.
Sono passi, quelli di seguito proposti, che costituiscono il basamento, la causa ed al contempo l’effetto delle considerazioni precedenti.
Ma in politica, dentro i limiti della moralità, ossia nella vera politica, non ci sono norme assolute. Ognuno è al posto – si potrebbe dire – a cui è stato naturalmente assegnato; e nessuno potrebbe in ultima analisi dirci perché ci si trovi. […] Un perché, certo, ciascuno di essi è pronto a dirvelo.(20)
Nel contesto di vita reale e anche nelle competizioni a carattere politico non esistono, lo abbiamo visto, regole fisse e contenuti di assoluta validità; conseguentemente ciascuno può addurre alla base delle sue idealità politiche e partitiche differenti, e peraltro fondate, ragioni. Spesso, però, i cittadini rimangono interamente all’oscuro rispetto alla causa scatenante del loro agire: ognuno permane al posto cui è stato assegnato dalla natura, dal temperamento, una "molla segreta, oscura, inafferrabile, cieca".(21) Gentile, dalle pagine de "Il Risveglio", inveisce contro quel credo che, in modo volgare secondo l’autore, pone alla base dell’orientamento politico dell’uomo solo il suo interesse economico; per il pensatore di Castelvetrano, invece, causa predisponente ma non determinante.
In Amicizie e lotte civili si sostiene l’importanza di ben altri valori ai fini della determinazione dell’ideale politico individuale: tra queste, di fondamentale rilevanza, "tutta l’idiosincrasia spirituale e anche organica"(22) che caratterizza ogni singolo individuo nelle sue espressioni di vita. Sulla base di tale pensiero, si legge ancora quando il filosofo amplia i termini della sua trattazione, "l’uomo civile, convinto delle irriducibilità di certe differenze psicologiche individuali"(23) deve restare consapevole, sempre, della necessità dell’affermarsi delle "diverse tendenze umane", delle molteplici forme di attività e di condotta.
Il comportamento più corretto e idoneo al sano svolgimento del percorso politico della società è costituito, per Gentile e "Il Risveglio", dall’indispensabile partecipazione ad esso di un numero elevato di attori consci, però, di agire all’interno di "una grande concordia discors".(24)
In un ambito così particolarmente strutturato, allora,
l’uomo civile, reprime e comprime i moti primitivi dell’animo suo che si ribella alle contraddizioni, e si abitua a poco per volta a sentirsi contraddetto e a vedersi attraversato, senza volerne a chi gli si oppone.(25)
Viene in evidenza ancora una volta il leit-motiv dell’amicizia che è anche uno dei momenti fondanti di tutte la riflessione gentiliana: "l’amico civile, non chiede mai all’amico il sacrifizio delle sue opinioni, che sono la sostanza stessa della sua personalità".(26) Una pregevole espressione che si vuole qui assumere come frase di riferimento nell’esame di quei principi che, per tutti i compilatori del periodico di Castelvetrano, devono coinvolgere gli attori e la competizione politica.
Procedendo nel suo fitto argomentare, Giovanni Gentile pone in essere due diverse esemplificazioni pratiche tratte dalla vita reale, con lo scopo di confortare le frasi precedenti in relazione alla licenziosità della libertà di pensiero e, insieme, all’importanza dell’apertura verso l’altrui parere: "L’arcadia è una gran bella cosa ma è l’arcadia" si legge in primo luogo. L’autore chiude poi la sua riflessione con un riferimento alla vita coniugale:
e l’idillio, anche domestico, anche tra innamorati, finisce coll’essere mortalmente noioso.
Il marito che obbedisce all’impulsività degl’istinti bestiali, batte la moglie, che non gli riesce d’avere concorde sempre.(27)
Anche le vicissitudini coniugali, i sentimenti tra marito e moglie devono rispettare la differenza inevitabile e necessaria tra idee, principi, psiche dei due protagonisti dell’amore familiare e, quindi, mai degenerare: "l’amore, allora, è solo amore e non egoistico asservimento di un’altra persona".(28) Ancora una volta frasi, queste, che, più di tutto, lasciano il campo alla riflessione sulla necessità che, ancora oggi, ciascun uomo abbandoni i suoi pregiudizi, le idee preconcette e segua tali importanti consigli.
Se sommate alle diverse tematiche che il filosofo di Castelvetrano propone nel corso della sua riflessione, queste ultime considerazioni fanno propendere a considerare la tendenza di Gentile verso i principi liberali come assoluta, libera da condizioni. Ma così, invece, non è.
Per il periodico di Castelvetrano e per Gentile è giusto e doveroso riconoscere anche un limite ben definito a ogni forma di libertà di pensiero e ad ogni atteggiamento di tolleranza; due criteri che non rimangono, certamente, validi in assoluto. Tale sbarramento è individuato da Gentile in due differenti variabili: "la condanna dell’individualismo e dell’anarchismo", concezioni meglio definite come "la scienza determinatrice della verità" e "la coscienza determinatrice della moralità".(29) L’individualismo, visto come arroganza e presunzione di uno o di molti al fine di imporre le proprie convinzioni e l’anarchismo, ossia la volontà incontrastabile di decidere degli atteggiamenti moralmente leciti, conducono, qualora posti in essere, all’errore e alla colpa. Questi si pongono, in ultima analisi, in acceso contrasto col binomio libertà-tolleranza:
errore e colpa, che nessuno può dirsi libero di seguire e commettere; errore e colpa a cui l’uomo non ha mai dato e non darà mai, perché non può dare, quartiere, e verso di cui sarebbe assurdo invocare la tolleranza.(30)
Insistendo nella sua approfondita analisi, l’autore riconosce tutto il carattere di idealità delle fattispecie proposte e discusse all’interno di Amicizie e lotte civili; Gentile si impegna nella definizione delle condizioni reali dello status quo e con tono malinconico e rassegnato scrive: "Avviene, purtroppo, talvolta che la lotta, che si dice politica, non sia lotta vera di principii, ma di persone".(31)
Sovente l’interesse personale e meramente economico è preposto all’ideale e gli individui approdano all’immoralità. L’agone politico deve invece svilupparsi perseguendo delle linee guida diverse, individuate dallo studioso siciliano solo laddove tutti i principi e le posizioni sono rispettati nella loro dignità: l’opposizione avviene unicamente tra gli ideali messi in campo dalle diverse parti e solo ed esclusivamente a un livello meramente intellettuale giacché l’intolleranza in politica è solo "egoismo e stoltezza ridicola".(32)
Il contributo del filosofo di Castelvetrano alla causa dell’eticità, della moralità si chiude con un diktat ben preciso: "obbedire alla propria coscienza: questa è la prima condizione della vita morale".(33) Ma questo non rappresenta che il primo passo.
Giovanni Gentile giunge anche ad approvare e incoraggiare l’insurrezione civile se volta contro ogni modalità disonesta dell’amministrazione, come si evince da quanto segue: "[…] questa non è vera lotta politica, e degna di essere combattuta in un popolo civile". Gentile prosegue, avviandosi in conclusione, con un ulteriore paragone. Se gli atti di vituperio, se le iniquità debbono essere combattute, allora le amicizie nate dall’interesse sono da deplorare parimenti: "queste – scrive – o sono nate da interessi o finiscono e però sono tali da poter finire per interessi".(34)
Con i suoi ultimi passi l’articolo pone in essere un estremo e implicito appello agli individui, alle menti eccelse, ai politici e ai pensatori.
Ma ove questo non sia, ove le persone si combattono per le idee e per i sistemi, la colpa è non obbedire alla propria coscienza: non schierarsi tra gli avversari per non rompere un’amicizia, come romperla con un amico perché ci è divenuto avversario.(35)
Conservare l’amicizia, mantenere la moralità e lottare con spirito per i valori in cui si crede, è questo il messaggio che ancora oggi viene da un pensatore vicino a noi, interpretando in senso dovuto le sue parole.
NOTE
(1) La Direzione, Programma, "Il Risveglio", n. 1, 24 aprile 1904, p. 1, editoriale.
(2) G. Bonagiuso, Amici di Nasi??, "Il Risveglio", n. 3, 22 maggio 1904, p. 3
(3) La redazione e bonagiuso, s. t., "Il Risveglio", n. 23, 26 febbraio 1905, p. 1, editoriale.
(4) G. Gentile, Amicizia e lotte civili, "Il Risveglio", n. 12, 25 settembre 1904, p. 1.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Ibidem.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) Ibidem.
(19) Ibidem.
(20) Ibidem.
(21) Ibidem.
(22) Ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Ivi, p. 2.
(26) Ibidem.
(27) Ibidem.
(28) Ibidem.
(29) Ibidem.
(30) Ivi, p. 1.
(31) Ibidem.
(32) Ivi, p. 2.
(33) Ivi, p. 1.
(34) Ivi, p. 2.
(35) Ibidem.
Sono di recente usciti, con i tipi della prestigiosa Casa Editrice fiorentina Olschki e a cura di Eugenio Guccione, gli Atti del Seminario Internazionale tenutosi a Erice, dal 7 all’11 ottobre 2000 presso il Centro di Cultura Scientifica Ettore Majorana, su "Luigi Sturzo e la democrazia nella prospettiva del terzo millennio". L’opera in due volumi, inserita nella collana dell’Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", è destinata a segnare una tappa fondamentale negli studi sturziani. Dalle interessanti e originali relazioni di autorevoli studiosi italiani e stranieri emerge come Luigi Sturzo, tramite le sue diagnosi, le sue teorie e i suoi contatti, abbia contribuito in Europa e oltreoceano allo sviluppo della democrazia, divenendone anche la ‘coscienza critica’. Della democrazia egli mise sempre in evidenza gli incalcolabili pregi, ma non indugiò mai a denunciarne i sintomi e i rischi di una degenerazione, sfociante nella partitocrazia, nello statalismo e nel malcostume. L’opera, che consta di complessive 984 pagine, ha il prezzo di copertina di _ 95,00 e può essere richiesta alla Casa Editrice (fax 055-6530214). Per gentile concessione dell’Editore Olschki e del curatore riportiamo di seguito la presentazione a firma di Eugenio Guccione e il cospicuo sommario dell’opera.
È la prima volta che studiosi italiani e stranieri dalle più disparate matrici culturali e politiche si impegnano ad approfondire, nei suoi molteplici aspetti, il pensiero sociale e politico di Luigi Sturzo e a discuterne assieme, per quattro giorni, dal 7 all’11 ottobre 2000, nell’ambito di un seminario internazionale svoltosi a Erice presso l’"Ettore Majorana" Centre for Scientific Culture. In altri recenti convegni, altrettanto scientifici e autorevoli, le presenze sono state più omogenee e gli interventi più circoscritti a specifiche aree tematiche.
L’argomento su Luigi Sturzo e la democrazia nella prospettiva del terzo millennio ha offerto a tutti i partecipanti, in relazione ai loro interessi, la possibilità di cogliere nell’ampia produzione del pensatore politico siciliano momenti e spunti su cui riflettere e da cui partire per giungere a considerazioni e a comparazioni di rilievo anche in merito al processo di democratizzazione dei popoli e degli Stati. Ne sono venuti fuori risultati altamente positivi, che si traducono in un bilancio pienamente soddisfacente per gli organizzatori del seminario, il cui proposito, seppure ambizioso, era soltanto quello di sottoporre al vaglio della critica storica internazionale la dottrina sociologica e politica di uno dei maggiori protagonisti e osservatori cattolici italiani del secolo XX.
Dagli Atti emerge, con tutta chiarezza, come Luigi Sturzo, tramite le sue diagnosi, le sue teorie e i suoi contatti, abbia contribuito in Europa e oltreoceano allo sviluppo della democrazia occidentale, divenendone, come spesso è stato sottolineato, la "coscienza critica". Della democrazia egli mise sempre in evidenza gli incalcolabili pregi, ma non indugiò mai a denunciarne i sintomi e i rischi di una possibile degenerazione, sfociante nella partitocrazia, nello statalismo e nel malcostume. Di ciò si fece carico morale pure in quella corrispondenza privata che, durante il seminario, è venuta in parte alla luce e che era stata da lui tenuta con esuli antifascisti e con esponenti del popolarismo europeo.
Esiste una costante in tutte le circostanziate relazioni presentate a Erice: si tratta della generale constatazione che la professata laicità del sacerdote Sturzo in politica sarebbe stata da lui praticata con puntuale coerenza, tanto da riconoscere sempre i ruoli distinti di Chiesa e Stato e da rispettare le idee dell’avversario, ritenuto in un regime di libertà come un indispensabile, prezioso interlocutore. Egli, agendo in tal modo, sarebbe riuscito a realizzare con tutta naturalezza il suo ideale cristiano di una politica vissuta come servizio in favore del prossimo, come attività sociale protesa per intero ad attuare il bene comune. Al riguardo si può rilevare come un seminario, condotto con rigorosa metodologia scientifica, abbia indirettamente offerto anche validi elementi per una biografia spirituale del "laico Sturzo".
Non c’era certamente bisogno di questo incontro per prendere consapevolezza che Luigi Sturzo, nella sua personalità di politologo con caratterizzazioni sociologico-storiche, è figura che va oltre i confini d’Europa. A Erice, in ogni modo, è giunta piena conferma di tale valenza, sia per la particolare attenzione manifestata dagli studiosi stranieri, sia per l’interesse espresso dalla maggioranza dei partecipanti a volere proseguire negli studi di approfondimento della figura e dell’opera sturziane. Sturzo, nonostante la sua linearità di pensiero e la sua coerenza d’azione, rimane personaggio complesso e, per certi aspetti, ancora da scoprire nel contesto della fine del secolo XIX e di circa un sessantennio del secolo XX. Il seminario ericino ha dato abbastanza, ma non tutto. Ha consentito di raggiungere risultati soddisfacenti, ma non giudizi definitivi. Rimane ancora molto da fare.
Basti pensare alla miriade di carte inedite sturziane, ancora da sistemare e da interpretare, e ai nuovi, suggestivi orizzonti di studio che presto si apriranno con la preannunciata pubblicazione di alcuni volumi a cura dell’Istituto "Luigi Sturzo" di Roma, tra i quali i corposi carteggi del pensatore politico siciliano con Henry Wickham Steed (1925-1946), con Jacques Maritain e altri amici francesi (1925-1940), con Carlo Rosselli (1929-1935), con Alcide De Gasperi (1944-1951), con Gaetano Salvemini (1924-1946), con Robert Pollock (1940-1946). È soltanto una parte degli inediti in giacenza negli archivi dello stesso Istituto. E riguarda lettere contenenti, per lo più, analisi e osservazioni delicate che l’uomo "pubblico", per ovvi motivi di prudenza, riservava alle sue corrispondenze private.
Questo seminario internazionale su Luigi Sturzo in gran parte si deve a Mario d’Addio, professore emerito all’Università "La Sapienza" di Roma e autorevole studioso del pensiero sturziano, che si è generosamente prodigato in proposte, suggerimenti e interventi. Il progetto ha trovato l’immediata disponibilità dell’"Ettore Majorana" Centre for Scientific Culture di Erice e, in particolare, del direttore prof. Antonino Zichichi. In fase di realizzazione, compresa la presente pubblicazione degli Atti, è stato sostenuto dal Centro Siciliano "Luigi Sturzo", tramite l’allora presidente avv. Francesco Saverio Romano e dell’attuale prof. Gioacchino Lavanco e del direttore dott. Guglielmo Calderone, e dal Dipartimento di Studi Storici e Artistici dell’Università di Palermo, tramite il direttore prof. Salvatore Fodale.
Va segnalata, in pari tempo, l’encomiabile sensibilità manifestata dall’Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria" di Firenze, che, per intervento del presidente prof. Francesco Adorno e del socio prof. Paolo Romano Coppini, ha deliberato di inserire questi Atti nella propria prestigiosa collana editoriale. I rapporti tra il comitato scientifico del seminario e la "La Colombaria" sono stati tenuti dal prof. Paolo Pastori dell’Università degli Studi di Camerino.
Il seminario si è svolto anche sotto gli auspici del Ministero dei Beni Culturali, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, del Ministero della Pubblica Istruzione, della Regione Siciliana, dell’Università degli Studi di Palermo, del Libero Seminario Sturziano di Palermo. Hanno dato la loro adesione il Governatore della Banca d’Italia, dott. Antonio Fazio, e il Presidente dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma, prof. Gabriele De Rosa, i quali, con apposita lettera, hanno espresso agli organizzatori il rammarico di non avere potuto partecipare al seminario per sopravvenuti, improrogabili impegni.
Un convegno, ovviamente, riesce quando i relatori si impegnano ad assicurare contributi scientifici di alto livello e quando il gruppo degli organizzatori e la rete dei collaboratori garantiscono l’organico svolgimento del programma. Così è avvenuto per il seminario sturziano di Erice, al quale si è aggiunta l’eccezionale testimonianza dell’illustre vegliardo sen. avv. Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione Siciliana e allievo di Luigi Sturzo. Alla conclusione dei lavori scientifici ha fatto seguito una tavola rotonda sull’odierna importanza e validità del progetto di società e di Stato del fondatore del Partito Popolare Italiano. Vi hanno partecipato l’on. prof. Rocco Buttiglione, l’on. dott. Salvatore Cuffaro, l’on. dott. Gianfranco Micciché e l’on. prof. Vito Riggio. Ha fatto da moderatore il prof. Angelo Scivoletto dell’Università di Parma. Tra gli interlocutori è prevalsa l’opinione che molte delle proposte politiche sturziane sono non solo attuali, ma anche attuabili.
L’organizzazione delle cinque giornate di studio, prima e durante lo svolgimento, è stata puntualmente curata dalla dott.ssa Claudia Giurintano, ricercatore di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Palermo, che, con altrettanto zelo e precisione scientifica, è stata di efficace sostegno nella raccolta e nella revisione degli Atti. Ad agevolare l’attività degli organizzatori, tra i quali meritano menzione anche il dott. Enzo Scichilone e il dott. Pietro Caruana, ha contribuito, con alto senso d’ospitalità, tutto il personale del Centro Majorana. Per la preparazione definitiva degli Atti è stata apprezzabile la collaborazione del prof. Serafino Scorsone, della prof.ssa Rosanna Marsala e dei dottori Mauro Buscemi, Salvatore Muscolino e Fabrizio Simon. In tale fase si è operato da parte di tutti con la convinzione di procedere alla memorizzazione di un importante evento culturale.
Eugenio Guccione
Sommario: E. Guccione, Presentazione - F. S. Romano, Apertura dei lavori - M. Poma, Saluto - F. Sturzo, Saluto - Ettore A. Albertoni, Introduzione - M. D’Addio, Democrazia e comunità internazionale in Luigi Sturzo - C. Vasale, La "democrazia organica" di Luigi Sturzo - F. Traniello, Sturzo e il problema storico della democrazia in Italia - S. Mastelone, Il popolarismo democratico e antifascista di Sturzo (1923-1930) - A. Di Lascia, Don Luigi Sturzo: la politica come servizio del popolo - A. Scivoletto, Luigi Sturzo, classico della sociologia - A. Parisi, Sturzo e l'attualità dei classici - E. Guccione, La storia delle dottrine politiche nelle opere di Luigi Sturzo - J.M. Mayeur, Sturzo et la democratie française - J. Andres-Gallego, La democrazia cristiana en España: resumen histórico - H. H. Schwedt, Carl Sonnenschein (1876-1929), apostolo di Berlino e amico del Movimento Democratico Cristiano Italiano - C. Malandrino, L'iniziativa sturziana del People and Freedom Group of America nell'esilio di Jacksonville (1940-1944) - C. Cavallari, Luigi Sturzo: régionalisme et libéralisme - M. Buscemi, Luigi Sturzo: dal Programma municipale al Partito popolare - C. Liermann, La Germania nella visione di Luigi Sturzo - B. Cook, Luigi Sturzo's Battle from The United States - M. Tesini, Sturzo e il problema dello Stato - N. Antonetti, Luigi Sturzo e il costituzionalismo del Novecento - R. Marsala, Il sistema elettorale in Luigi Sturzo - L. M. Bassani, Luigi Sturzo: federalista impenitente - S. Delureanu, L'impegno europeistico di Luigi Sturzo e le Nouvelles Equipes Internationales - J. M. Tejedor, La presenza di don Sturzo nel cattolicesimo politico-sociale spagnolo: Severino de Aznar - É. Poulat, Crux Politica, Église, politique et démocratie - C. B. Furiozzi, Don Sturzo e il P.P.I. nel giudizio della stampa protestante italiana - M. Coreselli, Le illusioni dello Stato e lo spirito della libertà - G. Lavanco - L. Varveri, Partecipazione e bene comune - A. Morelli, Il confronto tra Sturzo e i regionalisti fiamminghi, a proposito della democrazia e della pace - G. Sturzo, Sturzo e la magistratura: indipendenza e irresponsabilità - G. Morra, I tre liberalismi di Sturzo _ G. Palladino, Il comunismo ha perso, ma il capitalismo vincerà? Risponde Luigi Sturzo - A. Efficace, Economia e società ne pensiero di don Luigi Sturzo - L. Compagna, La disciplina giuridica dei partiti politici in Luigi Sturzo - C. Giurintano, Persona, doveri e diritti in Luigi Sturzo - N. Dell’erba, Sturzo e Colaianni - G. Portalone, Sturzo e l’operazione Milazzo - C. Campanini, Luigi Sturzo e la laicità dello Stato - S. Suppa, Fra società organica e società aperta: note su fondamenti e motivazioni della risposta di Luigi Sturzo - A. Palazzo, La democrazia industriale secondo Sturzo - P. Pastori, La nozione di "società civile" in Luigi Sturzo - A. Coco, Stato e Chiesa in un "inedito" sturziano sulla storia del Mezzogiorno moderno - D. Caroniti, Chiesa, politica, popolo: Gioacchino Ventura, Luigi Sturzo - S. Cingari, Croce, i fratelli Sturzo e la crisi religiosa della società europea - S. Latora, I Popolari e il Fascismo: Sturzo, Ferrari, Donati - L. Bedeschi, Romolo Murri e Luigi Sturzo - P. Bagnoli, Piero Gobetti e Luigi Sturzo - S. Cuffaro, Autonomie e valorizzazione del capitale sociale in Luigi Sturzo - G. Alessi, Testimonianza - Indice dei nomi.
Introduzione
Le origini del processo che è alla base dell’integrazione europea, sono relativamente remote. Se ci si attiene, infatti, a una disamina tradizionale della costruzione europea, si può tranquillamente prendere, quale base di partenza temporale, la fine della seconda guerra mondiale. Una ricostruzione più approfondita, invece, potrebbe ricomprendere anche i primi progetti concreti del primo dopoguerra. Volendosi poi spingere ad analizzare le origini dell’idea d’Europa, ovvero tutta quella serie di teorie dei principali pensatori politici che, a più riprese, hanno vagheggiato l’idea dell’unificazione europea quale unica possibile soluzione dei problemi del vecchio continente, allora è chiaramente necessario fare un salto a ritroso di qualche secolo, ma ciò non è il fine della presente ricerca(1).
Ogni tappa che ha contraddistinto il processo d’integrazione europea, va collocata in un determinato quadro storico in quanto il più delle volte causata, favorita o accelerata da accadimenti contingenti. E’ in tale contesto che si situa l’idea di uno studio sulle origini del Consiglio d’Europa partendo dalle prime realizzazioni concrete di progetti di unificazione europea. Molti testi concernenti il processo d’integrazione europea dedicano poche righe all’istituzione di Strasburgo, alcuni volumi un paragrafo. La maggior parte delle opere dedicate al Consiglio d’Europa risalgono agli anni cinquanta e sessanta, quando era ancora vivo l’interesse per questa organizzazione, nata con tante aspettative poi non concretizzatesi.
Il presente lavoro è in gran parte frutto delle ricerche svolte presso gli archivi del Quai d’Orsai (Parigi), gli archivi del Public Record Office (Londra), gli archivi del Consiglio d’Europa (Strasburgo) e gli Archivi Storici delle Comunità Europee (Firenze).
I. Origini del processo d’integrazione europea
Fino agli inizi del XX secolo gli equilibri politico-economici mondiali erano ancora regolati e dominati dalle nazioni del vecchio continente, perdurava quindi una situazione di eurocentrismo. Gli Stati Uniti d’America e il Giappone, infatti, pur essendo già dei forti Stati emergenti, non avevano ancora raggiunto l’apice della loro potenza economica e militare e non potevano ancora competere con il secolare dominio esercitato dall’Europa, rappresentata da Inghilterra e Francia in particolar modo e successivamente dalla Germania.
All’indomani della rivoluzione francese e del "ciclone" napoleonico, gli Stati nazione europei si erano accordati per cercare di porre rimedio a tali sconvolgimenti. I trattati del 1815 furono il tentativo unanime di ristabilire quell’equilibrio di potenza europeo. La rivoluzione francese era riuscita a mettere in crisi tale sistema comunemente accettato con l’affermare il diritto dei popoli all’autodeterminazione quale nuovo fondamento di diritto internazionale.
Dopo il Congresso di Vienna e con l’instaurazione del "concerto europeo", furono gettate le basi per un periodo di tregua grazie al quale non ci sarebbero stati radicali conflitti sul continente europeo per circa un secolo. Tale consuetudine introdusse tra le potenze europee il principio secondo cui ci dovesse sempre essere un compenso a fronte di nuove acquisizioni fatte a spese di Stati confinanti. Attenendosi scrupolosamente a tale principio, Napoleone III riusciva ad approfittare della formazione del Regno d’Italia annettendo Nizza e Savoia alla Francia(2).
I principi alla base del "concerto europeo" erano chiaramente finalizzati alla tutela dello status quo, alla conservazione del potere e dei territori acquisiti, a discapito ovviamente degli interessi dei singoli popoli. Tali principi erano chiaramente in netta antitesi rispetto all’idea d’integrazione europea.
Tutto ciò, dunque, instaurava una fase di equilibrio e di pace apparente che si sarebbe protratta fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Anche in questo caso l’Inghilterra, dal suo splendido isolamento, sarebbe assurta a controllore dell’ordine costituito in ossequio al principio ormai consuetudinario del balance of power, limitandosi a minacciare possibili ritorsioni nel caso in cui uno Stato o una coalizione di Stati del continente europeo rischiasse di arrecare nocumento ai propri interessi o all’ordine europeo. Ma le fondamenta sui cui poggiava il castello della reazione, incominciarono a vacillare e poi a scricchiolare sempre più a causa di due importanti episodi che andarono a rompere quella atmosfera di equilibrio e di pace apparente: la nascita di due nuovi Stati, Italia e Germania.
In particolar modo la Germania, guidata dal Bismarck e dalla sua machtpolitick, intraprese una serie di iniziative sempre più decise, finalizzate a un’immediata unificazione dei vari stati tedeschi e a un altrettanto rapido accrescimento della neonata potenza tedesca al fine di recuperare nel minor tempo possibile il divario con la Francia e, soprattutto, con l’Inghilterra. Ciò contribuì a innalzare il livello di tensione in Europa e nel mondo intero, ove venivano in contrasto gli imperi coloniali confinanti. Questi episodi, inizialmente sottovalutati dall’Inghilterra, dalla Francia e dall’Impero austro-ungarico, condizionarono le sorti del continente europeo e del mondo nel corso della prima metà del secolo successivo. Dopo la morte del Bismarck, si crearono in Europa due forti coalizioni contrapposte che una volta arrivate allo scontro diretto non furono in grado di prevalere l’una sull’altra come in passato. L’insolito equilibrio delle forze schierate sul campo inaugurò una anomala guerra di trincea, una fase di stallo che fu rotta da un accadimento altrettanto straordinario: l’intervento risolutivo di una nazione extra-europea nella storia secolare dei conflitti tra gli Stati europei. L’intervento degli Stati Uniti d’America, necessario per superare l’impasse, costituì soprattutto il primo avvenimento storico che andasse a intaccare la secolare e solida struttura dell’eurocentrismo e suscitò una forte impressione tra i governanti d’Europa ma anche a Washington. Il presidente americano, Woodrow Wilson, ne rimase talmente colpito da decidere di elaborare un piano che potesse scongiurare simili conflitti per gli anni a venire, garantendo così una pace duratura. Tale Piano era costituito di 14 punti, l’ultimo dei quali prevedeva la creazione di un’organizzazione mondiale che tutelasse l’ordine e la pace nel mondo. Oltre a tale organizzazione, il Presidente americano impose l’abbandono del principio d’equilibrio tra le potenze a favore di un principio di nazionalità di difficile applicazione: fu creata un’Europa squilibrata con paesi come la Cecoslovacchia, strategicamente indifendibili e con l’azzeramento dell’Impero austro-ungarico, indispensabile argine verso le velleità tedesche. Che gli ideali di Wilson fossero in parte velleitari non fu subito chiaro ma anzi furono fatti propri universalmente e influenzarono interamente gli anni ‘20. Tra le poche voci che si levarono contro tali idee e, in particolar modo, contro la Società delle Nazioni, frutto di tali idee, merita di essere ricordato l’economista italiano Luigi Einaudi(3) che, attraverso una serie di lucidi e acuti articoli pubblicati sulle pagine del "Corriere della Sera", avrebbe bocciato senza appello tali mistificazioni della realtà, alle quali anteponeva l’idea d’integrazione europea(4).
II. Il processo d’integrazione europea durante gli anni venti
Il primo dopoguerra fu caratterizzato da una forte ondata di pacifismo che si diffuse universalmente quale estremo tentativo di superare gli orrori di una guerra che da mero episodio regionale, si era pian piano allargata a macchia d’olio fino a diventare un inedito conflitto di dimensione mondiale. Per la prima volta gli europei avevano subito sulla propria pelle le conseguenze di una grande guerra, grande in tutti i suoi numeri e che, sebbene si fosse estesa poi in tutto il mondo, aveva avuto anche in questa tragica occasione il vecchio continente come principale teatro.
Questa ondata di pacifismo contraddistinse soprattutto i rapporti fra le grandi potenze mondiali. Nel 1928 veniva firmato il Patto Briand-Kellog, dai nomi dei due ministri degli Esteri, l’uno francese, l’altro americano, sottoscritto da una sessantina di nazioni, Italia di Mussolini compresa. Tale Patto affermava solennemente la volontà delle nazioni firmatarie di voler rinunciare alla guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali(5). Apparentemente potrebbe sembrare una semplice dichiarazione d’intenti ma in quel determinato periodo storico ebbe una valenza non indifferente.
Questo periodo illuminato raggiungeva il suo apice proprio al termine del decennio quando, dalla stretta collaborazione tra i rappresentanti di Francia e Germania, paesi ex nemici dell’ultima guerra, nasceva il progetto di "Stati Uniti d’Europa", passato alla storia con il nome di Piano Briand.
La presa di posizione da parte di Aristide Briand a favore di un’unione e una collaborazione stretta fra gli Stati d’Europa, segnò una svolta poiché, per la prima volta, un uomo politico che ricopriva alte cariche istituzionali, si fece portavoce di un malessere diffuso e prese la parola interpretando dei crescenti aneliti europeisti. Il primo uomo politico a esporsi, fino a quel momento, esplicitamente a favore di un progetto europeo era stato Edouard Herriot che, il 25 gennaio del 1925, nei panni di presidente del Consiglio francese aveva così affermato "Il mio più grande desiderio è di vedere un giorno nascere gli Stati Uniti d’Europa", senza però poter dare un seguito a questa sua affermazione visto che dopo soli due mesi era stato costretto a dimettersi(6). Dopo il governo di Raymond Poincaré (1926-1929), Briand, di idee molto vicine a quelle di Herriot, ritornò a presiedere il governo francese nel 1929. Va ricordato che Briand era in stretto contatto con Kalergi e che nel 1927 aveva accettato la presidenza d’onore dell’Unione paneuropea. Il capo del governo francese, detentore anche del portafoglio degli Affari Esteri, ritenne fosse giunto il momento di rendere pubbliche le sue angosce e le certezze, conseguenza di tali angosce, che nel frattempo era andato maturando: "sono arrivato alla conclusione che non si potrà mai vivere in pace fintanto che certe questioni non saranno state chiarite, fintanto che i popoli non avranno trovato la via della collaborazione"(7). Era chiaramente un attacco frontale nei confronti della Società delle Nazioni, a soli dieci anni dalla sua creazione. Qualche settimana dopo, Briand decideva di infliggere il colpo mortale a Ginevra, proprio nella sede dell’Organizzazione internazionale. "Penso che tra dei popoli geograficamente vicini come i popoli d’Europa, debba esserci una sorta di legame federale". L’allocuzione di Briand veniva accolta positivamente e lo stesso premier francese veniva incaricato di approfondire il proprio pensiero elaborando un piano da presentare entro un anno nella stessa sede. Quando Briand rese noto il suo Piano era rimasto ben poco dello spirito che lo aveva animato l’anno precedente. Nel corso di un anno accadimenti di varia natura erano riusciti a influire negativamente i buoni propositi: secondo Edouard Bonnefous, Briand era stato infine costretto a un compromesso tra le sue opinioni personali e quelle del suo ministero(8) (va ricordato che l’omologo tedesco di Briand, Gustav Stresemann, era morto qualche mese prima ed era così venuto meno un referente privilegiato per Briand nel governo tedesco); nel frattempo le ripercussioni della caduta di Wall Street iniziavano a farsi sentire anche in Europa e, come spesso accade in questi frangenti, i governanti preferirono riporre nel cassetto i progetti ispirati a grandi ideali, rispolverando le armi affilate del nazionalismo e delle politiche autarchiche.
III. Il processo d’integrazione europea durante gli anni trenta
Durante gli anni ‘30, la maggior parte delle nazioni europee stentava a riprendersi dalla crisi economica che attanagliava le grandi potenze mondiali. Per tali motivi, durante questo decennio, i progetti di integrazione europea tornarono a essere argomento di discussione tra pochi piuttosto che arma a disposizione di uomini di governo.
Gli Stati europei andavano sempre più seguendo l’esempio dell’Italia, già da un decennio sotto un governo nazionalista e dittatoriale. Fra le grandi nazioni europee le uniche due immuni da questa ondata antidemocratica furono la Francia e l’Inghilterra. Queste due nazioni insieme agli Stati Uniti d’America, rappresenteranno durante il decennio un importante punto di riferimento per tutti coloro che non accettavano di scendere a compromessi e di rinunciare alla propria fede politica(9).
Dopo il fallimento della Conferenza di Monaco (1938), ultimo tentativo di Francia e Inghilterra di cercare un compromesso che potesse accontentare l’insaziabile Hitler, ultimo, vano tentativo di adoperare la fallimentare politica dell’appeasement(10), risultava ormai chiaro che lo scoppio della guerra sarebbe stato inevitabile. In questo momento di profondo smarrimento, veniva creata in Inghilterra Federal Union. I giovani fondatori di questo nuovo movimento ritenevano che "i governi non sapessero come costituire un ordine tale da assicurare la pace. […] la sovranità assoluta degli Stati nazionali era la causa fondamentale della guerra, quindi soltanto il governo federale poteva garantire la pace"(11). Nel giro di un anno il Movimento riscosse un significativo successo, con oltre 10.000 iscritti, riuscendo a catalizzare l’attenzione di parte dell’opinione pubblica inglese sulla necessità ormai ineluttabile, della costituzione di una libera federazione di tutti gli Stati europei. Gli artefici di questo Movimento sentivano il bisogno di un’autorità internazionale avente poteri sopranazionali, la quale fungesse da baluardo contro ogni eventuale aggressione nazista, poiché la Società delle Nazioni si era ormai rivelata un totale fallimento(12). Il successo di Federal Union in un paese come l’Inghilterra, notoriamente poco sensibile alle idee federaliste, si spiega facendo riferimento ai problemi internazionali sopra delineati, ovvero alla particolare atmosfera di generale preoccupazione per il sempre più probabile rischio di scoppio di una nuova guerra. D’altronde, parte dell’opinione pubblica inglese pareva conscia delle debolezze della nazione; nemmeno la vittoria nella grande guerra era stata sufficiente a ridare alla Gran Bretagna quella autorità di cui aveva goduto nell’ottocento. In Europa ormai regnava il caos e la Gran Bretagna non era più in grado di intervenire per ripristinare gli equilibri e scongiurare la nascita di forti Stati con tendenze egemoniche. Il vecchio continente appariva ormai un coacervo di forti nazionalismi chiusi in se stessi e pronti solo a guerreggiare nuovamente gli uni contro gli altri.
"Molti inglesi giunsero così alla conclusione che la Gran Bretagna doveva cambiare radicalmente la sua politica europea e promuovere l’unità federale del vecchio continente per arrestare la decomposizione economica e politica del mondo libero"(13). All’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale, Federal Union raggiunse il maggior grado di notorietà, ma, contemporaneamente, imboccava la via di un lento ma inesorabile declino. La sua crisi ebbe inizio con il rifiuto francese di aderire alla proposta di Churchill, ispirato da Federal Union e consigliato dal francese Jean Monnet, di unione fra il popolo francese e inglese sotto una comune cittadinanza e con un unico parlamento(14). Un altro grave colpo fu inferto al Movimento dalla disfatta francese ad opera dei nazisti, evento che costrinse gli inglesi a combattere duramente per un anno da soli: ciò radicò nelle menti di questo popolo la consapevolezza di vivere in uno Stato solido, sul quale si poteva fare affidamento anche nei momenti di maggior pericolo e, di contro, di avere a che fare con un continente europeo del quale si poteva solo diffidare(15).
Tutto ciò concorre a comprendere l’inaspettata vittoria elettorale laburista del luglio 1945 e spiega, in parte, l’atteggiamento negativo del Labour Party nei confronti dell’Europa e dei progetti di integrazione europea.
IV. Il secondo dopoguerra
All’indomani del secondo conflitto mondiale, l’Europa appariva in ginocchio, cosciente di aver ormai perso definitivamente lo scettro sulla scena mondiale: dall’eurocentrismo degli inzi del secolo si era inesorabilmente passati a un sistema bipolare con gli Stati Uniti, potenza emergente extra europea e l’Unione Sovietica, potenza solo parzialmente europea.
Gli orrori della seconda guerra mondiale, l’immediato dopoguerra con l’Europa stremata e in pieno collasso economico, tutto ciò, dunque, facilitò l’introduzione di cambiamenti radicali nel continente. Era ormai opinione condivisa da molti politici e intellettuali che in Europa ci fosse bisogno di una sostanziale misura d’integrazione, almeno in campo economico. Quasi tutti gli Stati europei avevano perso parte della propria indipendenza alla fine del conflitto mondiale; nessuna di queste nazioni avrebbe potuto sperare di condurre da sola i due compiti essenziali per uno Stato nazionale: la difesa dei propri cittadini e un’appropriata gestione dell’economia(16).
L’idea dell’unità europea trovò così il terreno fertile su cui finalmente attecchire, anche a causa del timore dell’imperialismo sovietico che si poteva tentare di arginare soltanto coalizzandosi. Né va trascurata l’azione svolta dal governo americano, ormai fattosi convinto fautore dell’inderogabilità di avviare il processo di unificazione europea.
Winston Churchill, leader dei conservatori britannici, ebbe l’occasione di rendere di pubblico dominio i nuovi orientamenti degli americani e dei sovietici nei confronti del vecchio continente. Il 5 marzo 1946, il Westminster College di Fulton (Missouri) consegnava al leader tory una laurea ad honorem. Alla presenza del presidente Truman, dopo aver ricordato alla sala gremita di parlare esclusivamente a titolo personale(17), Churchill descrisse la nuova situazione mondiale. Per evitare che un altro conflitto minacciasse nuovamente l’umanità, bisognava proteggersi da "due enormi predatori: la guerra e la tirannide"(18). Per proteggersi dalla guerra suggerì di dotare l’ONU di una forza armata internazionale. Ma un altro grande predatore, ugualmente pericoloso, la tirannide, minacciava numerosi paesi dove venivano impediti l’esercizio dei più semplici diritti e la libertà. A tal proposito Churchill affermò con vigore la sua preoccupazione per le mire espansionistiche dei sovietici e, pur ammettendo di continuare a nutrire una profonda ammirazione per il popolo russo e per Stalin, si sentì in dovere di mettere in guardia l’umanità: "da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente […]. I partiti comunisti che erano molto piccoli in questi Stati dell’Europa orientale, hanno ora raggiunto il potere […] e stanno cercando ovunque di conseguire un controllo totalitario. I governi polizieschi stanno predominando quasi sempre, e fino ad ora, lì non vi è più democrazia, tranne che in Cecoslovacchia"(19). Concludendo il suo discorso, Churchill pose in evidenza un altro importante orientamento affermando che la salvezza del mondo esigeva "una nuova unità in Europa, dalla quale nessuna nazione avrebbe dovuto essere permanentemente esclusa"; era un chiaro riferimento al pronto reinserimento della Germania(20).
Questo discorso suscitò un notevole clamore ed ebbe ampia eco. Churchill aveva avuto il coraggio di esprimere ciò che molti in occidente da tempo immaginavano ma non osavano denunciare e, così facendo, entrò in contrasto con coloro che ancora si ostinavano a pensare alla Russia come ad un alleato fidato o, quanto meno, a un possibile interlocutore. Quindi nel primo trimestre del 1946, i tempi non erano ancora maturi per simili dichiarazioni. Successivamente Churchill si addossò la totale responsabilità di quanto aveva detto e affermò di non essere stato il portavoce di alcuno(21). Il presidente Truman negò di aver precedentemente conosciuto il discorso di Fulton, giungendo perfino ad affermare che la sua presenza nella cittadina del Missouri non andava interpretata come un’accettazione e un appoggio alle "illazioni churchilliane"(22). Come ha commentato Martin Gilbert: "Ironicamente, Churchill parlò a Fulton poco più di una settimana dopo l’arrivo a Washington del telegramma di Gorge Kennan, che avrebbe avuto l’effetto di cambiare i rapporti e gli indirizzi della politica estera degli Stati Uniti esattamente nello stesso modo che aveva previsto Churchill"(23). Le dichiarazioni del leader conservatore, oltre ad indicare la pericolosità della politica sovietica, avevano individuato l’esigenza di una maggiore collaborazione tra le nazioni dell’Europa occidentale. Tale esigenza si collegava, d’altronde, al manifestarsi di un importante fenomeno. Durante la seconda guerra mondiale, si erano formati in varie nazioni europee movimenti favorevoli all’unione federale dell’Europa; questi movimenti erano ispirati in gran parte da uomini della resistenza che erano stati costretti alla clandestinità o al confino politico. Costoro spesso ignoravano che in altre nazioni europee esistevano altre personalità che si stavano prodigando per il loro stesso ideale. Ciò che accomunava questi padri del federalismo europeo, era la consapevolezza della crisi di quelle due "entità" che avevano nuovamente fatto precipitare i popoli europei in una guerra fratricida: lo Stato nazionale e il nazionalismo.
Essi immaginarono quale unico rimedio l’integrazione dei popoli europei(24). Ciò nonostante, nel dopoguerra molti progetti e molti propositi erano stati accantonati. Il ruolo di guida di questi uomini della resistenza era stato improvvisamente offuscato dal ritorno al potere dei partiti politici, i cui leader erano preoccupati più che altro di riconquistare il potere detenuto nel periodo prebellico ed erano inoltre condizionati dalle contingenti esigenze delle proprie nazioni. Ad ogni modo, questi primi movimenti, queste personalità, ebbero l’opportunità d’incontrarsi e di scambiarsi idee in attesa di momenti più favorevoli. Il discorso di Churchill sembrava ora offrire ai federalisti e agli europeisti in genere, una nuova opportunità per rilanciare i propri programmi.
V. L’azione dei movimenti europeisti
Si è constatato come, durante la seconda guerra mondiale, numerosi uomini della resistenza avessero previsto le difficoltà che l’Europa avrebbe dovuto affrontare se non avesse sviluppato formule sempre più strette di cooperazione. Fu tra questi rappresentanti della resistenza, italiani e francesi in particolar modo, che si svilupparono le prime tesi del federalismo europeo. In Italia alcuni antifascisti come Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, intrapresero la battaglia per la federazione europea fin dal 1941. Essi riuscirono a rendere note le proprie idee benché fossero al confino nell’isola di Ventotene(25). Nell’agosto del 1943, alcuni rappresentanti del federalismo italiano si riunivano segretamente a Milano dando vita al Movimento Federalista Europeo (MFE)(26). Con la liberazione dell’Italia settentrionale, ci fu un aumento dell’attività di questo Movimento che, l’anno seguente entrava a far parte dell’Unione Europea dei Federalisti (UEF), costituendone il gruppo più dinamico(27). In Francia, sempre durante la guerra, vi fu il fiorire di una notevole pubblicistica a favore della federazione europea su vari giornali clandestini con articoli firmati da personaggi della levatura di Henri Frenay, Albert Camus, Alexandre Marc e René Courtin(28).
I vari movimenti di resistenza mantennero i contatti fra loro sia sul piano nazionale, sia internazionale, tanto che riuscirono a organizzare a Ginevra, durante il 1944, cinque riunioni di resistenti provenienti da diverse nazioni europee: ogni delegazione rese noto alle altre il proprio progetto per l’Europa del dopoguerra e furono tutte concordi nel riconoscere il fallimento del vecchio ordine europeo fondato sul nazionalismo e sullo Stato nazioanle(29). In occasione dell’ultima riunione, tenutasi il 7 luglio, i delegati redassero e fecero proprio un Manifesto della resistenza europea, nel quale si proclamava che "la pace europea è la chiave di volta della pace mondiale" e che, inoltre, "la creazione di una Unione federale fra i popoli europei" avrebbe permesso di porre termine al disordine europeo ingigantito dall’esistenza di trenta Stati sovrani. In merito alla Germania affermavano che "solo una Unione federale permetterà la partecipazione del popolo tedesco alla vita europea senza che esso sia un pericolo per gli altri popoli"(30).
Con la fine delle ostilità furono create nuove organizzazioni federaliste e si tennero altri importanti incontri. Dal 15 al 22 settembre del 1946 si tenne l’incontro federalista di Hertenstein in Svizzera, la prima grande assise federalista del dopoguerra(31). Questo convegno ha un ruolo molto importante nella storia del federalismo europeo perché per la prima volta si realizzò un vero raduno di federalisti provenienti da numerosi paesi europei, giunti nella cittadina svizzera per confrontare le loro idee sul futuro dell’Europa.
Sempre in Svizzera, nel settembre del 1946, si verificò un altro avvenimento importante che legava in qualche modo l’azione dei federalisti a una concreta iniziativa politica. Winston Churchill, che si trovava in questo paese per trascorrervi le sue vacanze, colse l’occasione di un invito fattogli pervenire dall’International Committee della Croce Rossa per lanciare un nuovo appello agli europei(32). Churchill aveva capito, nei mesi seguenti il suo discorso di Fulton, che le possibilità di entente fra le due superpotenze erano sempre più remote e che l’unico modo per risolvere la "tragedy of Europe" era quello di creare "a kind of United States of Europe". Questo fu il senso del discorso tenuto da Churchill, il 19 settembre del 1946, all’Università di Zurigo.
"Il primo atto nella riedificazione della famiglia europea – affermava il leader tory – deve essere una partnership fra la Francia e la Germania. Solo così la Francia può recuperare la leadership morale sull’Europa. Non può esserci una rinascita dell’Europa senza una Francia grande spiritualmente e una Germania grande spiritualmente"(33). Ma bisognava accelerare i tempi perché vi era il pericolo che il segreto della bomba atomica non rimanesse ancora per molto di proprietà esclusiva del mondo occidentale. Perciò bisognava rafforzare l’ONU ricreando al suo interno "la famiglia europea in una struttura regionale chiamata, possibilmente, gli Stati Uniti d’Europa"(34). Questo risultato andava raggiunto per tappe, la prima delle quali, sarebbe stata la creazione di un Consiglio d’Europa. La parte conclusiva del suo discorso fece comprendere l’opinione del leader conservatore sulla posizione della Gran Bretagna: "la Francia e la Germania devono prendere insieme il comando. La Gran Bretagna, il Commonwealth, la potente America e, lo spero sinceramente, l’Unione Sovietica – poiché tutto allora sarebbe risolto – dovranno essere gli amici e i protettori della nuova Europa e dovranno difendere il suo diritto alla vita e alla prosperità"(35).
Quindi la Gran Bretagna non avrebbe dovuto essere un membro degli Stati Uniti d’Europa allo stesso titolo degli altri paesi del continente, ma sarebbe stata la garante di quest’unione insieme agli Stati Uniti e alla Russia(36). Per Churchill, dunque, l’Inghilterra restava una grande potenza di carattere globale, per quanto con responsabilità peculiari nei confronti del vecchio continente. Il discorso di Zurigo provocò giudizi contrastanti. Sia a Londra che a Parigi si levarono molte voci contro le affermazioni dell’ex premier britannico; molti biasimarono il fatto che il "vecchio leone" avesse approfittato di una tribuna pubblica per compiere affermazioni impegnative circa il ruolo di Londra, senza avere alcuna responsabilità di governo; altri sospettarono che egli avesse colto l’occasione per fare campagna elettorale(37).
Malgrado queste valutazioni negative, l’appello lanciato da Churchill ebbe reazioni positive tra i federalisti e funse da catalizzatore, dando quell’impulso e quel segnale che molti federalisti attendevano. Non fu un caso che dopo il discorso di Zurigo, vi fu il fiorire o il rinascere di molti movimenti per l’unità europea.
Il 15 dicembre 1946, a Parigi, i movimenti federalisti di otto paesi europei si federarono dando vita all’Union Européenne des Fédéralistes (UEF). Ne fu eletto presidente, all’unanimità, l’olandese Hendrik Brugmans e il francese Alexandre Marc come segretario generale(38).
Il discorso di Zurigo facilitò, in particolar modo, il progetto di Churchill per la creazione di un movimento europeista in Gran Bretagna, ben distinto da Federal Union. Agli inizi del 1947, con l’aiuto di Duncan Sandys, egli fondò l’United Europe Movement (UEM), dopo aver già creato una Commissione provvisoria britannica, aperta a tutti i partiti, per l’unità europea. L’UEM fu costituito formalmente il 14 maggio 1947 in una riunione pubblica tenuta alla Albert Hall di Londra(39). Gli obiettivi di questo movimento erano di informazione sulla campagna europeista in Gran Bretagna, di collegamento con movimenti analoghi del continente e di sensibilizzazione di importanti personaggi della vita politica, economica, culturale e intellettuale; inoltre, si contava di sollecitare il governo inglese affinché si prodigasse per la causa europea. L’UEM era un movimento "unionista" avente come fine l’unità europea, da attuarsi, però, per mezzo di una cooperazione intergovernativa; aveva un formale carattere apolitico ma era fortemente influenzato dal partito conservatore.
La Ligue Indipendente de Cooperation Economique (LICE) è coeva all’UEM. Fu creata da Paul van Zeeland, ex ministro belga degli Affari Esteri. Era un movimento con fini prevalentemente economici, formato essenzialmente da banchieri e industriali; era un movimento a livello transnazionale, diviso in commissioni nazionali. I suoi membri più rappresentativi furono quelli della commissione inglese, quali Sir H. Butler, Harold Macmillan, Lord Layton e Sir A. Salter (contemporaneamente membri dell’UEM)(40).
I socialisti europei che avevano organizzato a Montrouge, dal 21 al 22 giugno 1946, una conferenza per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, costituirono a Londra, nel febbraio del 1947, il Mouvement Socialiste pour les Etats-Unis d’Europe (MSEUE). Il suo primo presidente fu l’inglese Bob Edwards (presidente dell’Indipendent Labour Party). Contrariamente alla LICE, influenzata e ispirata dalla sua commissione britannica e da ambienti economico-finanziari del Benelux, il MSEUE fu influenzato dai socialisti francesi di sinistra, capeggiati da Marcel Pivert(41).
Nel giugno del 1947, a Chaud-Fontaine presso Liegi, i democratici cristiani europei costituirono la loro organizzazione con il nome di Nouvelles Equipes Internationales (NEI). Ne fu eletto presidente l’ex ministro francese Raymond Bichet(42).
Infine, il 1° settembre del 1947, a Gstaad in Svizzera, il conte Coudenhove-Kalergi, tornato dall’esilio americano, fondava l’Unione Parlamentare Europea (UPE). Ne fu eletto presidente il leader del partito socialista nel parlamento belga, Georges Bohy e il Kalergi si riservò la carica di segretario generale. Facevano parte di questa unione, parlamentari di tutte le tendenze politiche(43).
A questo punto risultava evidente la necessità di coordinare tutte queste anime al fine di rendere più incisiva l’azione dei vari movimenti europeisti.
VI. L’azione dei governi: prime forme di cooperazione
"L’idea dell’unificazione europea esce dalla fase puramente progettuale in concomitanza con la crisi dello Stato nazionale, di cui le due guerre mondiali segnano la più drammatica rappresentazione"(44).
Alla fine della seconda guerra mondiale, la sorte del continente europeo era nelle mani di due nuovi attori internazionali: gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica.
L’immediato dopoguerra, oltre a testimoniare una ripresa della campagna a favore dell’unità europea, rese evidente la sempre più netta divisione dell’Europa in due blocchi. Questa divisione era stata in qualche modo preparata durante la guerra dai "tre grandi". Eccezion fatta per l’inghilterra e la Russia, nessun paese europeo era riuscito a contrastare l’avanzata nazista o a liberarsi da solo di tale giogo: ciò comportava, la possibilità da parte inglese o russa di continuare ad avere una propria identità politico-economica alla fine della guerra e, di contro, il diminuire dell’influenza degli altri Stati europei e una sempre maggiore ingerenza delle due superpotenze nei loro affari interni(45).
Insieme alle due superpotenze vi era, quindi, la Gran Bretagna, forte del suo prestigio storico, rinvigorito dalla prova di strenua resistenza contro i nazisti e forte dei suoi solidi legami con il Commonwealth. Nonostante ciò, nelle prime elezioni del dopoguerra, in Inghilterra vi era stato il cambio di governo, elemento che privò Londra del suo statista più rappresentativo proprio durante la conferenza di Potsdam. Winston Churchill fu sostituito da Clement Attlee(46); va comunque sottolineato che al Foreign Office, Eden fu adeguatamente sostituito dall’energico leader laburista ed ex-esponente sindacale, Ernest Bevin.
Tale inaspettato cambio di governo fu causato da vari motivi: la Gran Bretagna, era uscita vincitrice dallo scontro titanico con la Germania nazista, ma si trovava adesso a dover fare i conti con un deficit economico tra i più alti al mondo; la nazione aveva bisogno di riprendere forza, di concentrare l’attenzione su se stessa, prima di ricominciare a guardarsi intorno. Ciò spiega il motivo per cui Churchill, eroe di guerra, leader dei conservatori, veniva sconfitto nel luglio del 1945. Gli inglesi avevano deciso di premiare le politiche di welfare State dei laburisti(47).
Così la Gran Bretagna incominciò a progettare il ritiro da alcune zone d’influenza che comportavano maggiori oneri, non più sostenibili economicamente. Si poneva, di conseguenza, il serio rischio che queste zone potessero cadere nell’orbita sovietica. Per scongiurare questo pericolo era necessario coinvolgere gli Stati Uniti nella difesa dell’occidente. Nel frattempo, però, Washington appariva tentata da spinte isolazioniste: larghi settori dell’opinione pubblica americana si mostravano poco propensi a occuparsi nuovamente dei problemi europei che erano costati agli Stati Uniti già troppi lutti(48). Allo scopo di risolvere il problema, il Foreign Office ricorse a una manovra improvvisa e clamorosa: nel febbraio del 1947 informò il Dipartimento di Stato che la Gran Bretagna non avrebbe più potuto aiutare e proteggere la Grecia ove era in corso una guerra civile tra le forze monarchiche e quelle comuniste; toccava ora agli Stati Uniti intervenire in quella zona così delicata e adempiere a quel compito(49). L’appello britannico fu prontamente accolto e Truman ne approfittò per imporre al Congresso americano, dominato dai repubblicani, una nuova politica di responsabilità globale. Così il 12 marzo 1947, il presidente Truman annunciava la sua "dottrina" con la quale dichiarava apertamente che gli Stati Uniti avrebbero protetto il Mediterraneo orientale da ogni ingerenza e avrebbero garantito tutto il mondo democratico da qualsiasi pericolo totalitario. Tale presa di posizione costituiva una netta rottura con il passato, un nuovo modo di affrontare l’URSS(50). La politica americana nei confronti di Mosca non sarebbe stata caratterizzata dalla ricerca di un accordo come durante la precedente amministrazione, bensì dalla scelta della strategia del containment. Quest’ultima "consisteva nel ‘contenimento’ di ogni iniziativa sovietica diretta a turbare l’ordine internazionale. A ogni mossa sovietica avrebbe dovuto corrispondere una contromossa americana diretta a bloccarla, evitando tuttavia di spingere la risposta al di là dei limiti di un conflitto episodico, mantenuto sul piano politico"(51). La "dottrina Truman" aprì una fase di rapporti fortemente conflittuali tra le due superpotenze e può essere considerata come la "dichiarazione di guerra" da parte americana nei confronti dei sovietici: con questi avvenimenti si entrava nel pieno della "guerra fredda".
Di fronte alla creazione di un blocco comunista che andava sempre più consolidandosi e di fronte al continuo pericolo rappresentato dai partiti comunisti operanti in Europa occidentale, il Dipartimento di Stato, con a capo il nuovo segretario, il generale George C. Marshall, decise di porre in essere più stretti rapporti con le nazioni del vecchio continente. Del resto, le economie di questi Stati avevano dimostrato di non essere riuscite a risolvere autonomamente i gravi problemi economico-sociali del secondo dopoguerra, a dispetto degli aiuti finanziari concessi da Washington nel periodo conclusivo del conflitto e al termine delle ostilità.
Nelle interpretazioni americane la crisi economica vissuta dall’Europa rappresentava "l’ideale terreno di coltura" per la strategia staliniana di penetrazione e conquista attraverso l’azione dei vari partiti comunisti. A questa politica di "disgregazione" doveva essere opposta una scelta di collaborazione, di "integrazione".
Il 5 giugno del 1947, in un discorso all’Università di Harvard, Marshall chiese al Congresso degli Stati Uniti di approvare un piano di ingenti aiuti economici per il definitivo risanamento dell’economia europea, e invitò gli stessi europei a organizzarsi per meglio poter usufruire di questi aiuti e per poterli sfruttare nel modo migliore(52).
L’invito era rivolto a tutti gli Stati europei, Unione Sovietica e Stati satelliti compresi. Probabilmente questo era un invito formale, uno strumento per meglio far comprendere agli europei e al mondo le reali intenzioni dei sovietici e lo stato di totale asservimento al quale erano costretti gli Stati dell’Europa orientale. Infatti, dopo un primo interessamento della Polonia e l’adesione della Cecoslovacchia, l’intervento di Mosca le fece recedere dall’intenzione di aderire al Piano Marshall. Quanto all’URSS, essa prese parte ai primi colloqui di Parigi con francesi e inglesi, per poi ritirarsi lanciando pesanti accuse nei confronti delle intenzioni oppressive ed espansionistiche degli Stati Uniti e dei suoi alleati europei(53). L’offerta americana, dapprima esaminata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, fu accolta e vagliata dai ministri degli Esteri di sedici paesi dell’Europa occidentale in una Conferenza aperta a Parigi il 12 luglio 1947. Il 16 aprile del 1948, infine, questi stessi Stati europei sottoscrivevano il Trattato per la cooperazione economica europea. Venne costituita in tal modo l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE) con il compito di sovrintendere alla distribuzione degli aiuti americani, coordinando le esigenze dei diversi Stati europei che ne avrebbero beneficiato(54)
L’aiuto economico del Piano Marshall e l’OECE costituirono il primo stadio verso l’integrazione economica dell’Europa. Contemporaneamente, gli americani furono spinti a interessarsi del processo di cooperazione militare fra i paesi dell’Europa occidentale. Il 4 marzo del 1947, la Gran Bretagna e la Francia siglarono il Trattato di Dunkerque. Questa tradizionale alleanza bilaterale era, però, ancora diretta contro un’improbabile rinascita militare della Germania: da parte francese, la sicurezza dei confini orientali era ancora lo scopo principale del Trattato che per la Gran Bretagna, invece, rappresentava soprattutto l’inizio di un processo di consolidamento dell’Europa occidentale nei riguardi della Russia. Successivamente, i firmatari del Trattato di Dunkerque, ispirati e guidati dal ministro degli Esteri britannico, Bevin, intrapresero dei negoziati con i tre paesi del Benelux. Questi negoziati furono facilitati e accelerati dalla crescente tensione internazionale e, in particolar modo, dagli eventi del febbraio 1948 a Praga. Il 17 marzo 1948, la Francia, la Gran Bretagna, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, firmarono il Trattato di Bruxelles, alleanza cinquantennale di collaborazione economica, sociale, culturale e, soprattutto, di autodifesa collettiva nei confronti della Germania e di qualunque altro Stato avesse posto in pericolo la loro sicurezza, in altri termini l’Unione Sovietica(55). Nel frattempo, la situazione internazionale si deteriorava sempre più ed era necessario rafforzare l’apparato difensivo occidentale. Dopo il colpo di Praga, ci fu il blocco sovietico di Berlino, nel giugno del 1948(56): il senatore americano Vandenberg presentò una risoluzione con la quale gli Stati Uniti si liberavano dal vincolo isolazionista di non poter partecipare ad alcuna alleanza militare in tempo di pace. Così il Senato americano autorizzò l’amministrazione Truman a intraprendere negoziati con gli Stati europei per rinsaldare l’apparato difensivo del vecchio continente. Il 4 aprile del 1949 veniva firmato a Washington il Trattato del Nord-Atlantico dalle cinque nazioni del Patto di Bruxelles, oltre che dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’Islanda, dalla Danimarca, dall’Italia, dalla Norvegia e dal Portogallo(57).
Era in tale contesto di crescente cooperazione economica e militare fra le nazioni dell’Europa occidentale, gli stati Uniti e il Canada che si sarebbe inserito il tentativo di dare avvio al processo d’integrazione politica del vecchio continente.
VII. L’assise generale dei movimenti europeisti: il Congresso d’Europa (l’Aja, 7-10 maggio 1948)
Si è visto come il rilancio dell’europeismo fosse stato favorito anche dagli inviti lanciati da Winston Churchill nei suoi discorsi di Fulton e Zurigo, i quali, fungendo da stimolo, avevano accelerato la nascita e il proliferare di movimenti europeisti in quasi tutte le nazioni europee a partire dal 1946 e, soprattutto, nel 1947, nel corso del quale anno, le previsioni del leader tory venivano confermate dall’effettivo e quasi inevitabile deteriorarsi dei rapporti tra Est e Ovest. Ad ogni modo, durante i primi raduni europeisti, si era potuta constatare una sostanziale omogeneità di intenti anche se non sempre vi era una precisa coincidenza di opinioni intorno alle modalità e, spesso, neppure sugli obiettivi finali da perseguire. Per tale ragione, per dirla con Walter Lipgens:
"In una situazione in cui nessun governo aveva appoggiato l’idea d’Europa era indispensabile raggiungere un coordinamento tra questi gruppi […], per scongiurare rivalità, sovrapposizioni e la confusione nell’opinione pubblica"(58).
Quest’opera di coordinamento fu intrapresa dal britannico UEM, creato da Winston Churchill e guidato dal genero, il giovane esponente conservatore Duncan Sandys(59). A partire dall’estate del 1947 Sandys, in collaborazione con il polacco Joseph Retinger, membro della LICE, iniziò a prendere contatti con le altre organizzazioni del continente europeo. Il 20 luglio 1947 si tenne a Parigi la prima riunione dei rappresentanti di alcuni fra i principali movimenti europeisti(60).
Fin dall’inizio fu chiaro che le redini del gioco le avrebbero mantenute strettamente nelle loro mani Sandys e i suoi collaboratori. Il coordinatore dell’UEM aveva un duplice obiettivo: creare una struttura che fungesse da collegamento tra i vari movimenti e organizzare una campagna propagandistica su larga scala a favore dell’unità europea; tale attività di propaganda sarebbe dovuta infine culminare con un congresso. Nel corso degli ultimi mesi del 1947 si incominciò a dare forma al progetto. Nel dicembre furono prese le prime importanti decisioni: veniva deciso che il Congresso si sarebbe tenuto all’Aja, in Olanda e avrebbe avuto la denominazione di Congress of Europe. Si procedette inoltre alla creazione del comitato di collegamento, chiamato Joint International Committee of the Movements for European Unity. Venne infine stabilito che il lavoro della Conferenza avrebbe dovuto essere diviso in tre Commissioni specializzate rispettivamente per ciò che concerneva i problemi politici, quelli economici e, infine, quelli culturali(61).
Nel volgere di pochi mesi, erano stati compiuti decisivi progressi verso l’integrazione europea. Erano sorti movimenti europeisti forti e ben organizzati, dotati soprattutto, di forti legami con il mondo politico ed economico di alcuni paesi europei. Questi movimenti, che si riconoscevano nell’organizzazione guidata da Churchill, si distinguevano nettamente dai movimenti aderenti all’UEF in quanto avevano una visione dell’integrazione più moderata, prospettando forme di cooperazione intergovernativa; gli aderenti a questi movimenti venivano definiti "unionisti". Duncan Sandys, coadiuvato da Retinger, era riuscito, in questa prima fase a imbrigliare le rivendicazioni del movimento di Brugmans e a indirizzare, secondo le proprie direttive, le prime decisioni del Comitato Congiunto.
Riprendendo alcune considerazioni di Lipgens: "Sandys, con la sua maggioranza nel Comitato, riuscì a garantire che le risoluzioni approvate dal Congresso sarebbero state così vaghe da poter essere accettate da tutti i partiti e per quanto possibile in linea con la politica britannica. Nell’elaborazione dei rapporti e nella distribuzione degli inviti, egli fece di tutto per far sì che il Congresso non proclamasse ai politici e agli altri, come i federalisti avrebbero certamente voluto fare, la verità fondamentale che la rinuncia alla sovranità fosse il sine qua non di ogni reale unificazione dell’Europa"(62).
Ad ogni modo qualcosa si stava muovendo e anche se lo svolgimento del Congresso non sarebbe stato coerente con le scelte di Sandys, il suo strenuo lavoro organizzativo fu indispensabile per la rinascita del movimento europeista e, soprattutto, il suo progetto di conferenza sarebbe riuscito a risvegliare i governi europei e a distoglierli "dalle loro politiche anacronistiche e senza fantasia" che avevano caratterizzato il periodo 1946-1947(63).
Sandys aveva dato precise indicazioni affinché venisse redatto un rapporto politico abbastanza generico, una specie di compromesso che potesse soddisfare i progetti unionisti del Joint International Committee e che non allarmasse più di tanto i governi europei. Ma, soprattutto, gli premeva riuscire a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale sul problema dell’unificazione europea. Inoltre con la politica adottata per gli inviti per il Congresso d’Europa, egli isolava e emarginava quelle nazioni europee dove era preclusa ogni più semplice forma di democrazia, facendo chiaramente intendere che il suo progetto di Europa unita era limitato alle sole nazioni democratiche dell’Europa occidentale: si restava saldamente nel contesto della "guerra fredda"(64).
Nei primi mesi del 1948 furono intensificati gli sforzi per ampliare ulteriormente il numero di delegati anche ad opera delle delegazioni di quelle nazioni che, per motivi diversi, creavano qualche problema al Comitato. Fra queste vi erano i paesi della penisola scandinava, quelli della penisola iberica, nonché l’Italia e la Germania. Inoltre si cercò di ampliare la partecipazione a tutte le forze politiche europee (comunisti esclusi, ovviamente); il maggior impegno derivò dal tentativo di convincere il Labour Party a farsi coinvolgere nell’iniziativa. Transport House, d’altronde, non aveva nascosto il proprio imbarazzo e le proprie critiche di fronte alle dichiarazioni di Churchill del 1946 visto che la propria politica estera aveva ancora quale punto di riferimento il ruolo britannico nell’ambito dei "Tre Grandi" e si fondava sulla conseguente necessità di evitare di appoggiare qualsiasi alleanza o progetto di unione regionale che potesse essere diretto contro la Russia. Con il fallimento della Conferenza Quadripartita di Mosca e più ancora con quella di Londra della fine del 1947, il governo laburista parve comprendere le reali intenzioni di Mosca e decise di assumere un ruolo attivo nell’ambito della "guerra fredda". Il 22 gennaio 1948, Bevin, in un discorso alla Camera dei Comuni rivelava il nuovo fine della politica estera britannica, cioè quello di favorire la costituzione di una "unione occidentale" per fronteggiare il crescente pericolo sovietico; questa unione avrebbe dovuto fondarsi sul rafforzamento della cooperazione politico-militare fra i paesi dell’Europa occidentale. Inoltre era ferma intenzione del governo di Londra favorire il progressivo coinvolgimento degli Stati Uniti in un futuro sistema difensivo euro-atlantico che avrebbe visto la Gran Bretagna rivestire il ruolo di raccordo indispensabile tra Washington e l’Europa. Erano, queste, le premesse della nuova politica inglese che avrebbe condotto alla firma del Patto di Bruxelles e del Trattato dell’Atlantico del Nord(65).
Proprio per non compromettere la sua aspirazione a fungere da tramite fra gli Stati Uniti e il vecchio continente, Whitehall preferiva non farsi coinvolgere in maniera troppo forte nelle vicende europee e ritenne di non dover rispondere positivamente agli inviti del Joint International Committee anche perché erano fermamente decisi a non unire le proprie forze a quelle conservatrici dell’europeismo britannico e continentale(66).
Nel mese di marzo fu completato il documento che sarebbe stato utilizzato quale base di discussione nell’ambito della Commissione politica del Congresso d’Europa e che avrebbe successivamente influenzato l’attività dell’European Movement fino alla costituzione del Consiglio d’Europa. Nella terza sezione del rapporto venivano analizzati gli "Obiettivi immediati" da conseguire, fra i quali riceveva particolare attenzione la creazione di un "Consiglio d’Europa". Questo avrebbe dovuto essere un organismo intergovernativo di natura ministeriale. Inoltre si affermava:
"Il Consiglio stesso dovrebbe decidere quali poteri dovrebbero essergli delegati dai governi partecipanti. Naturalmente il Consiglio sarebbe efficace solo se i governi fossero pronti ad accordargli ampi poteri per prendere decisioni che, in casi di necessità, potrebbero comportare qualche sacrificio di interessi nazionali e settoriali in nome del bene comune. Con il crescere della fiducia i poteri assegnati al Consiglio potrebbero essere progressivamente ampliati"(67). Nel documento veniva poi indicato quale ulteriore strumento per il raggiungimento dell’unità europea, l’istituzione di una Deliberative Assembly che in questa prima fase avrebbe dovuto limitarsi a fornire un forte sostegno e un forte sprone al Consiglio d’Europa. Nella sezione conclusiva del documento, i redattori si spingevano ben oltre e, forse, seriamente preoccupati per i recenti sviluppi in campo internazionale, suggerivano:
"una volta costituito il Consiglio d’Europa e (una volta) che questo abbia cominciato ad affrontare i pericoli che ci minacciano, sarà possibile considerare progetti di grande portata e progetti di carattere permanente per la piena integrazione politica dell’Europa. Ciò potrebbe includere:
1) una cittadinanza comune;
2) una forza di difesa europea combinata;
3) un Parlamento europeo eletto con poteri legislativi; e, infine
4) una completa federazione".
Queste "rivoluzionarie" proposte resteranno, ovviamente, sulla carta, ma esse risultavano pur sempre significative e rilevanti.
Dopo una travagliata fase preparatoria, nel pomeriggio di venerdì 7 maggio 1948, si apriva solennemente all’Aja il primo Congresso d’Europa.
Il giorno successivo iniziavano i lavori. Come ha ricordato lo stesso Brugmans:
"I lavori del Congresso si svolsero attraverso tre Commissioni: l’economica, la politica, la culturale. L’ultima attirò un’attenzione relativamente scarsa. Ciò nonostante essa avanzò suggerimenti concreti e utili […] Quanto alla Commissione economica, essa fu il teatro di dibattiti prolungati e accesi, nel cui ambito i sindacalisti francesi si distinsero per la loro combattività. […] Ad ogni modo la Commissione politica attirò l’attenzione […] molto più delle altre due"(68).
Effettivamente nell’ambito della Commissione politica si svilupparono i dibattiti più interessanti e più importanti anche perché i suoi lavori ebbero conseguenze che si manifestarono ben oltre la conclusione del Congresso. Degno di attenzione fu l’intervento dell’ex primo ministro francese, Paul Reynaud. Egli dava subito il suo appoggio all’originale stesura del Rapporto politico e affermava che, vista la manifesta incompletezza dell’azione governativa, l’unica istituzione che avrebbe potuto salvare l’Europa era unA Assemblea europea. Non si poteva perdere altro tempo prezioso, proprio nel momento in cui incombeva sull’Europa il pericolo di una nuova guerra. Fatte queste premesse, l’anziano uomo politico francese comunicava ai presenti di aver depositato, insieme all’amico Edouard Bonnefous, un emendamento per l’abrogazione del quarto articolo della Risoluzione politica e favorevole all’istituzione dell’Assemblea europea. Nelle intenzioni dei due uomini politici francesi, l’Assemblea avrebbe dovuto essere eletta dal popolo europeo a suffragio universale, avrebbe dovuto essere convocata entro la fine dell’anno e avrebbe dovuto essere composta da un deputato ogni milione d’abitanti. Va sottolineato come questo progetto venisse pienamente inserito nella situazione internazionale caratterizzata dallo scontro fra est e ovest. Reynaud così affermava:
"stiamo attenti! Jacques Bainville diceva che per realizzare una federazione vi è bisogno di uno Stato federatore. All’est esiste uno Stato federatore, all’ovest manca. Ma Jacques Bainville si sbagliava perché è capitato, nella storia, in particolare alla grande democrazia americana, di unirsi di fronte a un grande pericolo per realizzare un grande progetto, ed è ciò che noi dobbiamo fare"(69).
Nonostante cio’, le manovre degli unionisti riuscirono a far passare la versione definitiva dell’art. 4, vaga ed edulcorata, dalla quale spariva anche la parola "Deliberante". Era il trionfo della strategia di Duncan Sandys. Indubbiamente il progetto di Reynaud era di difficile realizzazione ma, per dirla con il de Rougemont, sarebbe stato preferibile ritoccarlo e migliorarlo che accantonarlo definitivamente(70).
Sulla scia dell’entusiasmo, gli unionisti tentarono di far aggiungere all’art. 4 un appendice nella quale si chiedeva la creazione di un Council of Europe da affiancare all’Assemblea europea. Era l’ennesimo tentativo di dare rilievo a una forma di cooperazione intergovernativa e di privare l’Assemblea di qualsiasi potere. Come vedremo tale progetto potrà successivamente essere realizzato l’anno successivo, grazie all’azione del governo inglese, con la creazione del Consiglio d’Europa.
VIII. Le conseguenze del Congresso d’Europa
Una volta spente le luci su questa prima grande assise europeista, restava la sensazione generale che il Congresso fosse stato un grande successo, che l’iniziativa intrapresa dai vari movimenti europeisti avrebbe assolto il suo compito e avrebbe favorito la realizzazione degli obiettivi contenuti nelle sue risoluzioni, nonostante fosse stato un unofficial Congress. Sembrava prevalere la sensazione ottimistica che "i Socialisti, i Conservatori e i Liberali avrebbero portato in patria proposte accettabili per i rispettivi Parlamenti"(71). Molti dei delegati presenti, come ci testimonia Edouard Bonnefous, "partendo dall’Aja, … erano convinti che la creazione di una concreta Europa Unita fosse vicina"(72).
Ma forse il risultato più importante del congresso fu quello di "aver reso l’idea europea familiare all’opinione pubblica" grazie "alla pubblicità che la stampa aveva dato ai suoi lavori"(73). E in effetti l’evento ebbe ampia risonanza a livello mondiale; l’idea dell’unificazione europea era finalmente balzata sulle prime pagine delle maggiori testate mondiali e non era più presentata sarcasticamente come frutto della fervida immaginazione di qualche intellettuale ma quale possibile e concreta soluzione dei problemi del vecchio continente.
Nella prefazione alla storia del Movimento Europeo, edita nel 1949 dallo stesso Movimento, Winston Churchill affermava:
"Quello storico raduno diede un nuovo impulso e una nuova ispirazione alla campagna e sarà senza dubbio riconosciuto dagli storici futuri come una pietra miliare nel cammino dell’Europa verso l’unità. Il Congresso dell’Aja lanciò un appello unanime per la creazione di un’Assemblea Europea. Nel corso di un anno quell’Assemblea è diventata un fatto compiuto"(74).
Nella stessa prefazione Spaak afferma:
"Il Congresso dell’Aja è stato un’impresa splendida e storica. Fu lì che l’idea di un’Europa unita passò dal mondo dei sogni al regno della realtà. Quando sarà scritta la storia imparziale di questi sforzi per l’unità europea si riconoscerà che il Consiglio d’Europa fu creato grazie al Congresso dell’Aja e alla successiva campagna del Movimento Europeo"(75).
Effettivamente, quasi tutti gli storici che hanno affrontato questo periodo della storia dell’integrazione europea hanno dato il giusto rilievo allo stretto legame intercorrente tra il Congresso d’Europa e la nascita dell’istituzione strasburghese. Ma quando il 5 maggio del 1949 si giunse, infine, alla firma dell’accordo istituente il Consiglio d’Europa, nessuno fra i capi delegazione presenti sentì "l’esigenza di ricordare, seppur brevemente, la manifestazione che, svoltasi l’anno prima all’Aja, aveva dato l’avvio al processo politico-diplomatico conclusosi con la creazione di uno dei primi organismi miranti allo sviluppo dell’integrazione fra i Paesi dell’Europa occidentale"(76).
È difficile credere che Churchill e Spaak fossero fortemente ottimisti all’indomani del Congresso d’Europa. Certo tutto si era svolto nel migliore dei modi, la manifestazione era stata un successo; era stata raggiunta l’unanimità nella votazione delle tre Risoluzioni e, soprattutto, si era rafforzata la volontà di proseguire nella costruzione dell’unione europea, anche in considerazione del fatto che la campagna per l’unione europea aveva goduto di una larga pubblicità e l’idea di unità d’Europa pareva essersi radicata nei popoli europei. Ma tutto ciò avrebbe potuto non risultare sufficiente perché difficilmente proposte emerse da un congresso non legato all’azione dei governi avrebbero potuto essere realizzate, senza il diretto interessamento dei governi europei. Ma per poter essere presentate ai governi le tre Risoluzioni dovevano essere tradotte in una forma più concreta e realistica. Ovviamente la proposta che premeva maggiormente agli europeisti era quella della creazione di un’assemblea europea.
Al fine di rendere i governi europei partecipi di questo progetto, fu creato un gruppo di studio incaricato di elaborare un documento che potesse fornire indicazioni precise e realistiche per la creazione di un’assemblea. Alla testa di questo gruppo veniva posto Ramadier che aveva presieduto con moderazione la Commissione politica del Congresso d’Europa e aveva messo in luce capacità di mediatore(77).
Il Joint International Committee decise di "domandare ai dirigenti di tutti i Comitati nazionali operanti a favore dell’unità europea di costituire nel minor tempo possibile qualificate delegazioni incaricate di prendere contatti con il Primo Ministro o con il Ministro degli Esteri dei loro rispettivi governi, allo scopo di attirare la loro attenzione sulle Risoluzioni del Congresso d’Europa". I dirigenti dei vari Comitati nazionali avrebbero, del resto, dovuto "insistere presso i loro governi sulla necessità forte ed imperiosa di creare, entro breve tempo, una Assemblea Europea"(78). Queste delegazioni furono effettivamente organizzate in pochissimo tempo. Esse ricevettero, nella maggior parte dei casi, una positiva accoglienza e ciò contribuì ad accrescere l’importanza della campagna a favore dell’ideale europeo.
Il 17 giugno la delegazione britannica presieduta da R.W.G. Mackay(79) e guidata da Winston Churchill(80), fu ricevuta dal Primo Ministro Attlee. Il 5 luglio la delegazione belga incontrò il Primo Ministro Spaak, mentre l’8 luglio la delegazione francese fu ricevuta dal Presidente Auriol e dal Primo Ministro Schuman(81).
IX. La proposta di Bidault del 19 luglio 1948
Il 14 maggio 1948, Jean Rivière, ambasciatore di Francia in Olanda, scriveva a Robert Schuman sul Congresso d’Europa appena concluso. "Le giornate dal 7 al 10 maggio 1948 – afferma l’Ambasciatore – costituiranno delle date a mio parere storiche. Un seme è stato pubblicamente piantato. […]. I popoli sono senza dubbio ancora troppo apatici, troppo distratti da preoccupazioni materiali quotidiane [...]. Ma comunque (il gesto è stato fatto) e la Francia può essere soddisfatta della parte avuta"(82).
Va ricordato che in questo stesso periodo, la tensione tra le due superpotenze raggiungeva per la prima volta, dalla fine della seconda guerra mondiale, una fase realmente drammatica nel contesto della "crisi di Berlino". Così come la paura generata dal "colpo di Praga" aveva, per così dire, dato un impulso al processo di unificazione europea inducendo i governi ad accelerare i tempi per la creazione delle prime organizzazioni europee (Patto di Bruxelles, OECE), allo stesso modo la "crisi di Berlino", in concomitanza con altre cause, accelerò i tempi di attuazione del processo di unificazione europea.
Il 17 luglio l’esecutivo del Joint International Committee, si riuniva a Parigi per fare il punto sull’andamento della campagna a favore dell’assemblea europea. Il giorno dopo, a conclusione della riunione, l’esecutivo decideva di inviare ai ministri degli Esteri del Patto di Bruxelles, che si sarebbero riuniti di lì a poco, un succinto quanto importante messaggio. In esso Sandys, a nome del Comitato affermava:
"Con decisione unanime, il Congresso d’Europa (riunito) all’Aja nel maggio scorso ha richiesto la creazione di un ‘Assemblea europea.
Al fine di aiutare gli sforzi dei governi per affrettare l’unificazione dell’Europa e per rafforzare la solidarietà dei suoi popoli di fronte alla crescente tensione internazionale, questo Comitato raccomanda la convocazione di tale Assemblea quale questione di estrema urgenza".
A questo appello veniva inoltre allegato un memorandum esplicativo con la speranza, da parte dell’esecutivo, che i Ministri che si sarebbero riuniti all’Aja, prestassero attenzione a tale messaggio(83).
Il governo francese e quello belga erano stati i primi a esprimere giudizi positivi nei confronti della richiesta di convocazione di un’Assemblea europea. Né l’uno né l’altro erano però parsi disposti, almeno in una prima fase, ad agire da soli in questa direzione. Il 19 luglio, durante la riunione del Consiglio consultivo del Patto di Bruxelles, riunito all’Aja, il ministro degli Esteri Bidault, membro di un governo che aveva dato le dimissioni da poche ore, coglieva l’occasione per lanciare la proposta di creazione di un’Assemblea europea e la formazione di una unione doganale tra i paesi del Patto di Bruxelles(84). Commentando l’iniziativa francese, Duroselle afferma:
"Questa data del 20 luglio(85) (sic!) 1948 deve essere considerata come una vera ‘svolta’ nella storia europea, o, se si preferisce, come un punto di partenza. Per la prima volta un governo presenta ufficialmente un progetto mirante alla costruzione dell’Europa ("fare l’Europa"). Per quanto il concetto di sopranazionalità non sia ancora chiaramente delineato, sembra che il progetto di Bidault vi tenda"(86).
Le prime reazioni dei colleghi presenti furono di stupore e di imbarazzo, se non proprio di malcelato disappunto. Tra questi il più risentito appariva Bevin. Infatti egli – come ci ricorda Massigli – "durante la dichiarazione del suo collega borbottava senza rivolgersi a nessuno in particolare: mai sentite simili sciocchezze"(87).
Nonostante le insistenze di Bidault, Bevin obiettò che un simile tema andava vagliato molto attentamente anche perché, permettendo che all’Assemblea partecipassero i rappresentanti dei vari parlamenti, vi era il rischio che essa divenisse un utile strumento di propaganda per i comunisti. Ad ogni modo Bidault e Massigli – ambasciatore di Francia a Londra – riuscirono a ottenere che le proposte avanzate dall’uomo politico francese fossero prese in esame dalle cinque nazioni del Patto di Bruxelles per essere, in seguito, discusse nel corso della successiva sessione dell’organismo dell’alleanza(88).
La Francia aveva così deciso di imprimere una svolta alla sua politica estera scegliendo l’opzione europeista. Il momento era certamente favorevole visto il crescente interesse popolare verso tali argomenti, nonché per il sempre più evidente scollamento tra la guida del movimento europeista, fino a quel momento nelle mani degli unionisti britannici, e il governo laburista che continuava a disinteressarsi di tali aspetti. Vi erano certamente altri elementi che condizionarono la scelta del Quai d’Orsay, fra i quali la delusione per le decisioni prese alla Conferenza di Londra relative alla sistemazione della Germania occidentale, l’evidente consolidarsi sia della special relationship tra Washington e Londra che della leadership inglese all’interno del Patto di Bruxelles, nonché vari problemi di politica interna connessi con la precaria stabilità dei governi(89).
"Fu così – afferma Varsori – che si pensò all’opzione europeista come ad una possibile ancora di salvezza. Sul piano interno essa avrebbe infatti contribuito a creare un consenso più ampio nei confronti dell’azione di governo e a far balenare una soluzione del problema tedesco che soddisfacesse le ansie e i timori di larghi settori dell’opinione pubblica. Sul piano internazionale la scelta europeista appariva utile per il conseguimento di numerosi obiettivi. Si offriva in primo luogo l’opportunità di contare sul plauso e sul consenso dell’amministrazione e dell’opinione pubblica americane. Inoltre, se si fosse concretizzata una struttura federale europea sotto l’egida francese, sarebbe stato possibile mutare gli equilibri all’interno del Patto di Bruxelles, si sarebbe offerta l’occasione per imprimere una svolta alla questione tedesca"(90).
Di fronte a queste aspirazioni europeiste del governo francese, l’immobilismo britannico rendeva la posizione di Londra all’interno del contesto europeo sempre meno al passo con i tempi; l’inattività di Londra avrebbe causato un lento ma inesorabile passaggio di mano dell’iniziativa dagli unionisti britannici che avevano diretto la campagna europea fino a quel momento, agli europeisti francesi che da quel momento in poi avrebbero preso le redini dell’europeismo, forti del sostegno governativo.
X. Le difficili trattative per la nascita del Consiglio d’Europa
Nel frattempo Ramadier, a capo di un Comitato di studio, stava lavorando alacremente all’elaborazione di un progetto concreto di Assemblea europea da proporre ai governi. Al contempo, egli continuava a tessere una serie di contatti con alcuni leader europei per definire una comune strategia d’azione. A tale scopo l’esponente socialista francese incontrava il 24 luglio Spaak. Discutendo della proposta di Bidault, Spaak affermò che aveva preferito non appoggiarla subito per una serie di motivi; innanzi tutto Bidault non lo aveva consultato preliminarmente; Bevin era nettamente contrario a tale proposta e Bidault – ricordava il leader belga - era un ministro dimissionario. Spaak faceva notare a Ramadier che non si poteva convocare l’Assemblea su iniziativa di privati cittadini, ma era necessario l’intervento dei governi, i soli in grado di poter conferire un valore ufficiale a questo progetto. Per il futuro conseguimento di tale obiettivo, i due uomini politici delinearono un metodo d’azione comune:
"a) preparare un memorandum sull’Assemblea europea, molto dettagliato che affronti i seguenti punti:
• sistema di designazione;
• attribuzioni;
• ordine del giorno della prima sessione,
b) nel rimettere questo memorandum ai governi (solamente ai cinque del Patto di Bruxelles, secondo Ramadier) domandare loro di prendere l’iniziativa affinché i cinque Parlamenti designino una Commissione di studio interparlamentare,
c) ottenere dai Parlamenti, attraverso un’azione preventiva, che essi diano alle loro delegazioni presso questa Commissione di studio, un mandato operativo sufficientemente esteso quanto alla competenza, e limitato quanto alla durata dei lavori"(91).
Il voler limitare, almeno in una prima fase, la partecipazione all’Assemblea europea alle sole cinque nazioni del Patto di Bruxelles costituiva un ulteriore tentativo, da parte di Ramadier, di superare l’opposizione di Bevin, fermamente contrario all’eventualità che i comunisti potessero avere rappresentanti in tale assemblea.
Ma i tempi erano ora maturi per un presa di posizione ufficiale da parte del leader belga. Era solo necessario trovare l’occasione opportuna, poiché Spaak non voleva che fosse "usato il Parlamento belga tramite una mozione". Di tale problema Spaak discuteva con il senatore belga Etienne de la Vallée-Poussin, con il quale finiva con il concordare che lo stesso de la Vallée-Poussin gli avrebbe fornito l’occasione, ponendogli una precisa interrogazione in Senato. Lo stesso senatore, informava per lettera Rebattet di tale colloquio, e gli comunicava che Spaak "accetta in linea di massima che il problema sia posto all’attenzione del Senato e conta di replicare manifestando la sua simpatia nei confronti di una Assemblea europea, con il solo obbligo che sia elaborata una proposta precisa da parte del Comitato dell’Aja che determini i metodi d’elezione e soprattutto un programma preciso". Nel concludere, il senatore belga affermava che sarebbe stato opportuno che il Joint International Committee elaborasse un progetto sulle modalità d’elezione all’Assemblea tali da poter escludere i comunisti, per far sì che anche Bevin non potesse più opporre alcuna obiezione(92).
Quindi, il 29 luglio, Spaak, invitato dal Senato belga a esprimere la sua opinione sulla proposta Bidault, affermava che l’idea di creare un’Assemblea era valida e realizzabile e invitava il Comitato di studio guidato da Ramadier a redigere progetti concreti. "Quando il Comitato del Congresso dell’Aja – continuava il leader belga – avrà elaborato il suo progetto e lo avrà messo a punto, sarà necessario che lo invii ai differenti governi. Penso di potermi impegnare, a nome del governo belga, a sostenere questo progetto e a facilitarne la realizzazione proponendolo, all’occorrenza, ai governi degli altri paesi e cercando di sostenere il progetto per via diplomatica"(93).
Nel frattempo in Francia, si era appena risolta l’ennesima crisi governativa ed era stato nominato un nuovo gabinetto guidato da André Marie. Va sottolineato come in questo governo vi fosse una forte presenza di elementi notoriamente europeisti: Robert Schuman (ministro degli Esteri), Paul Ramadier (ministro di Stato), Paul Reynaud (ministro delle Finanze e degli Affari Economici), Léon Blum (vice presidente del Consiglio) e, inoltre, François Mitterrand e P-H. Teitgen.
Il Comitato di studio completò il memorandum in agosto. In tal modo era stato conseguito un risultato importante poiché il progetto di Assemblea europea preconizzato dall’articolo 4 della Risoluzione politica del Congresso d’Europa, subiva una evoluzione sostanziale. Non ci si trovava più di fronte a uno sterile e poco realistico progetto elaborato da un Congresso non ufficiale e suffragato da organizzazioni di privati cittadini. Il memorandum dell’agosto 1948 era un progetto dettagliato, concreto, in apparenza espressione della volontà dei popoli europei ma, soprattutto, sostenuto da due governi europei, quello francese e quello belga.
Il 18 agosto il memorandum veniva inviato ai cinque governi firmatari del Patto di Bruxelles. Questa nuova proposta del Joint International Committee rivestiva alcuni caratteri di novità che rispecchiavano i suggerimenti di Ramadier e di Spaak. In esso si affermava:
"Alcuni governi hanno chiesto di porre alla loro attenzione un progetto concreto relativo al metodo di convocazione dell’Assemblea. I governi francese e belga hanno dichiarato pubblicamente il loro sostegno al progetto". Inoltre nel documento si affermava che "inizialmente sarebbe necessario limitare la rappresentanza nell’Assemblea alle sedici nazioni" aderenti all’OECE. Il testo suggeriva inoltre che, "per ragioni di fretta e di convenienza amministrativa", i cinque governi del Patto di Bruxelles avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di "convocare e organizzare l’Assemblea". Affinché i governi fossero pronti per tale incombenza, nel documento si suggeriva di istituire al più presto "una Conferenza Preparatoria" alla quale avrebbero dovuto partecipare circa settantacinque delegati, "nominati dai governi con l’approvazione dei rispettivi Parlamenti. Questa Conferenza dovrebbe elaborare una serie di proposte dirette ai cinque governi e relative alle nazioni che dovrebbero far parte dell’Assemblea, al numero e all’assegnazione dei seggi, al metodo di selezione dei delegati, alle regole procedurali, al luogo e alla data della prima sessione nonché all’ordine del giorno della prima seduta". Infine nel memorandum si auspicava che la prima seduta della "Conferenza Preparatoria" si potesse svolgere a Bruxelles non oltre il mese di novembre 1948(94). Questo memorandum fu prontamente inviato alle sedici nazioni aderenti all’OECE.
Nell’arco di un solo mese, l’obiettivo europeista aveva tratto vantaggio dall’entusiasmo popolare e dai pragmatici interessi di Stato. Il governo francese aveva deciso d’altronde che bisognava accelerare i tempi. Lo stesso 18 agosto il Consiglio dei Ministri francese analizzò il memorandum e, dopo appena quattro ore di seduta, decise di approvarlo; dopodiché fu diramato il seguente comunicato:
"Il Governo ha analizzato il memorandum inviato dal Movimento Europeo (sic!)(95) relativo alla convocazione di una conferenza preparatoria per la creazione di una Assemblea europea. Il Governo ha deciso di fornire il suo appoggio attivo a questo progetto e di intraprendere tutte le azioni necessarie"(96).
Benché la decisione francese fosse quasi scontata, nemmeno gli stessi estensori del memorandum avrebbero potuto presagire uno sviluppo positivo così rapido. Ciò si evince da una lettera di un membro del Joint International Committee (quasi sicuramente Retinger) diretta a H. Hopkinson, nella quale si afferma:
"Mi dispiace che tu sia stato tenuto all’oscuro degli ultimi sviluppi relativi all’Assemblea. La verità è che il Governo francese ha agito molto più rapidamente di quanto ci si potesse attendere, e ha preso tutti noi un po’ di sorpresa"(97). Inoltre l’autore della missiva afferma che in certi ambienti si era addirittura ipotizzato che l’azione del governo francese fosse stata ispirata dal Joint International Committee allo scopo di attuare un "ricatto politico cercando di forzare la mano a Bevin". Ad ogni modo l’estensore della lettera affermava come per il futuro fosse necessario "inviare copie del memorandum a ogni parlamentare europeo e aspettare, con interesse, le reazioni degli altri quattro Governi alla proposta francese"(98).
Nei giorni seguenti vi furono frenetiche consultazioni tra Parigi e Bruxelles. Da una parte vi era la Francia decisa a non perdere tempo, dall’altra vi era la controparte belga in notevoli difficoltà, causate probabilmente dall’interruzione estiva, anche se ci rendiamo conto che è forse riduttivo indicare quale causa del silenzio belga, il solo fatto che si fosse in agosto. I documenti a nostra disposizione mostrano d’altronde una strana atmosfera.
Il 19 agosto Schuman telegrafava all’ambasciatore a Bruxelles la volontà della Francia di far proprie le richieste del Memorandum; lo invitava, inoltre, a prendere subito contatti con Spaak e a sollecitarlo a esprimere il proprio sostegno all’iniziativa, visto che "il governo francese considera l’affare molto importante e urgente", e, concludendo, Schuman affermava: "je vous serais obligé de me faire connaître d’extrême urgence la réaction du Gouvernement belge à la proposition de démarche à deux que vous lui soumettrez"(99).
Curiosamente, nonostante l’invio di questo esplicito sollecito, trascorsero giorni preziosi; l’ultima dichiarazione di Spaak sull’argomento risaliva al 29 luglio. Il 21 agosto, l’ambasciatore di Francia a Bruxelles, Jean de Hauteclocque, comunicava che Spaak, in vacanza in Francia, non aveva lasciato istruzioni in merito ai futuri sviluppi dell’Assemblea europea(100). Spaak veniva allora prontamente contattato telefonicamente da Schuman, con il quale si accordavano per un rendez-vous a Parigi per il 31 agosto. In un altro telegramma, Hauteclocque, comunica di aver avuto l’impressione che i belgi fossero in principio favorevoli sul memorandum ma che preferissero attendere ancora qualche tempo prima di prendere un’iniziativa congiunta(101). Forse questo procrastinamento belga, era causato dal fatto che Spaak era rimasto realmente sorpreso dal rapido evolvere degli eventi. Essendo ormai stato battuto sul tempo da Schuman, probabilmente temeva che il ruolo del Belgio sarebbe stato subordinato a quello francese; inoltre non si poteva certo fare affidamento sul governo francese, in continue condizioni di equilibrio precario; forse Spaak era consapevole dell’impossibilità di riuscire a convincere Bevin e inoltre l’Olanda, troppo sensibile agli umori di Londra, non si era ancora espressa sulla questione (102).
Un’interpretazione degli eventi, ce la fornisce il Joint International Committe, attraverso i ricordi di Joseph Retinger: "Si svolse tutto in fretta e Paul-Henri Spaak, che era restato a Biarritz, non poté essere informato prontamente. Tuttavia, gli telefonammo e gli comunicammo che il Governo francese aveva intenzione di accettare le nostre proposte. Egli allora concordò di lasciare l’iniziativa a questo, poiché era più facile per la Francia che per il Belgio prendere l’iniziativa e concretizzare l’idea in un successo"(103).
Probabilmente, come spesso accade, la verità si situa a metà strada.
Il 31 agosto, infine, Schuman e Spaak si incontravano a Parigi mentre era in corso l’ennesima crisi di governo francese. Schuman era appena stato nominato presidente del Consiglio dal presidente Auriol(104). I due governi decidevano di agire congiuntamente per cercare di pervenire a un accordo con gli altri tre partner del Patto di Bruxelles.
Il 2 settembre, veniva emesso dai due governi un comunicato congiunto nel quale si dichiarava: "I rappresentanti del Belgio e della Francia nella Commissione Permanente del trattato di Bruxelles hanno rimesso all’attenzione del Consiglio le proposte preparate dal Movimento Europeo relative alla creazione di un’Assemblea europea"(105).
Il 27 agosto, il Primo ministro olandese aveva comunicato pubblicamente che la posizione olandese nei riguardi dell’iniziativa era favorevole, ma non aveva potuto ancora assicurare l’adesione dell’Aja. Egli aveva affermato che il suo governo considerava con simpatia la proposta di assemblea europea, ma prima di dichiarare ufficialmente la posizione dei Paesi Bassi, preferiva discutere più approfonditamente con i suoi colleghi dell’Unione Occidentale(106). A questo punto l’atteggiamento britannico risultava decisivo. Come ricorda Massigli, "Whitehall per far conoscere il suo punto di vista, ebbe l’idea ingegnosa di pubblicare la corrispondenza scambiata tra il Primo Ministro e Winston Churchill sul progetto di una Assemblea"(107). Questa corrispondenza apparve sul "Times" il 26 agosto. Da questo carteggio si evince che Churchill aveva compreso ancora una volta il nuovo evolversi degli avvenimenti europei. Egli aveva capito che il governo inglese doveva reagire, altrimenti avrebbe perso l’occasione di tenere sotto controllo un processo destinato ad influenzare il futuro del vecchio continente. Il 27 luglio il leader tory aveva inviato a Clement Attlee una prima lettera, nella quale aveva tra l’altro affermato:
"La creazione di un’assemblea europea rappresenterebbe un’importante e concreto passo avanti verso un’Europa unita, e sarebbe di grande aiuto per creare un senso di solidarietà tra i popoli europei di fronte ai crescenti pericoli che li minacciano. In tale ambito la guida dovrebbe essere assunta dalla Gran Bretagna. L’incoraggiante risposta all’iniziativa del Segretario di Stato dopo l’annuncio del Piano Marshall nel giugno 1947 e, più recentemente, nel contesto dei negoziati per il Trattato di Bruxelles sono la prova, se ciò fosse necessario, dell’influenza della leadership inglese"(108). Attlee aveva risposto il 30 luglio, con toni amichevoli, ma negativamente(109).
Una successiva lettera di Churchill era pervenuta a Attlee il 21 agosto, dopo che sia Spaak (29 luglio) che Ramadier (18 agosto) avevano espresso importanti prese di posizione a favore di un’Assemblea europea. Preoccupato per il rapido evolvere degli avvenimenti e profondamente rammaricato per la risposta negativa di Attlee, il leader tory così scriveva: "Ora che il signor Spaak ha rilasciato la sua importante dichiarazione e che il governo francese ha non solo adottato la politica (del Joint International Committee) ma ha anche proposto forme pratiche d’azione, mi azzardo a sperare che il governo di Sua Maestà troverà possibile porsi maggiormente in sintonia con l’opinione pubblica europea occidentale nei riguardi di un tema che lo stesso governo inglese ha fatto molto per promuovere"(110). Ma anche in questa occasione la risposta di Attlee fu negativa(111).
Pur avendo Bevin lanciato nel gennaio del 1948 l’appello per l’Unione Occidentale, aveva poi preferito seguire una politica finalizzata al consolidamento della special relationship con Washington e con il Commonwealth. Così la leadership laburista, fedele alla teoria dei "tre cerchi", preferiva concentrare la sua attenzione sui due "cerchi" che considerava più importanti, evitando di lasciarsi coinvolgere direttamente nelle questioni europee. Le sorti dell’europeismo erano, ormai, saldamente nelle mani degli europeisti continentali.
Nel frattempo, la ristrutturazione del Joint International Committee, preconizzata da Sandys durante l’ultima giornata del Congresso d’Europa, si andava completando. Nel luglio del 1947, dunque, era stato creato il Comitato di Collegamento per superare le divergenze esistenti tra le varie organizzazioni europeiste; grazie a questo coordinamento era stato possibile organizzare nel migliore dei modi il primo Congresso d’Europa. Il notevole successo riscosso dal Congresso aveva apportato una notevole risonanza alla campagna europeista e una notevole pubblicità per il Comitato e per i suoi rappresentanti. Tutto ciò rendeva ancor più pressante la necessità di poter contare su forme di cooperazione permanente tra i vari movimenti. Questa evoluzione venne descritta a distanza di pochi mesi dallo stesso Movimento Europeo, in una sua pubblicazione ufficiale: "Con l’aumentare dell’importanza della causa europea, era fondamentale che l’organizzazione che dirigeva questa importante iniziativa, traesse la sua autorità non solo da quelle organizzazioni, ma anche da strutture aventi un carattere rappresentativo più ampio in tutte le nazioni partecipanti. In conformità, fu deciso di creare in ciascuna nazione un ‘Consiglio Nazionale’ composto da delegati delle organizzazioni che in quelle nazioni lavoravano per l’unità europea, così come eminenti personalità politiche di partiti democratici e di altri aspetti importanti della vita pubblica. Nel caso di nazioni europee aventi un regime totalitario, nelle quali era impossibile costituire un Consiglio rappresentativo, furono creati Comitati Nazionali di personalità democratiche in esilio"(112).
I negoziati per giungere alla creazione di questa nuova organizzazione furono lunghi e difficili poiché ogni singolo movimento era geloso della propria indipendenza. Per tali motivi, questa nuova struttura non fu mai omogenea ma fu, piuttosto, una federazione di movimenti autonomi. Il Movimento Europeo fu creato ufficialmente a Bruxelles il 25 ottobre 1948. Furono nominati quattro presidenti d’onore: Léon Blum, Winston Churchill, Alcide de Gasperi e Paul-Henri Spaak.
Aderì a questa nuova organizzazione anche il MSEUE, mentre l’UPE di Coudenhove-Kalergi preferì mantenere la sua indipendenza e una piena libertà d’azione.
Ad ogni modo, agli inizi di settembre 1948, "United Europe aveva ormai perso definitivamente l’iniziativa a tutto vantaggio di un gruppo di europeisti francesi e belgi […]. L’azione era inoltre passata decisamente dai movimenti raggruppati nel Joint International Committee alle diplomazie e ai governi. Aveva infatti inizio quel processo politico-diplomatico che avrebbe condotto nel volgere di alcuni mesi all’istituzione del Consiglio d’Europa"(113).
XI. Le riunioni del Comitato di Studio per l’Unione europea
Il 2 settembre, durante il Consiglio consultivo del Patto di Bruxelles, l’ambasciatore francese Massigli proponeva lo studio metodico e approfondito del Memorandum dal quale doveva derivare un progetto da presentare in ottobre al Consiglio consultivo dei ministri degli affari Esteri(114). Le reazioni dei partner furono da copione: il rappresentante belga dichiarava che il suo Governo s’associava alle dichiarazioni del rappresentante francese; il rappresentante olandese premetteva che non ci sarebbero stati problemi per uno studio ma ricordava come il suo Governo avesse già comunicato di ritenere prematura, per il momento, qualsiasi attuazione delle richieste del Memorandum; anche il rappresentante del Regno Unito affermava che il suo Governo non si sarebbe opposto a uno studio approfondito del documento, anche perché l’obiettivo dell’"Unione Occidentale" era inevitabile e improcrastinabile, ma bisognava procedere per ordine, bisognava rimanere nell’ambito del Trattato di Bruxelles e proponeva lo studio del Memorandum sulla base di una lista di obiezioni, prontamente distribuita(115).
Agli inizi di ottobre del 1948 non era stato trovato ancora alcun accordo tra gli opposti schieramenti. Per i francesi l’Unione europea non doveva essere considerata una semplice estensione del Patto di Bruxelles, ma l’unica soluzione per i tanti problemi europei, compresa la questione tedesca. I britannici, al contrario, non davano alcun credito al progetto di Assemblea europea, che riscuoteva scarse simpatie in patria e che appariva in conflitto con gli interessi del Commonwealth. E’ evidente come ci fosse una sostanziale di-scordanza di vedute tra britannici da una parte, i francesi e i belgi dall’altra, sulle richieste chiare e precise del Joint International Committee. I laburisti di Bevin avevano intrapreso una tenace manovra ostruzionistica basata su argomentazioni discutibili. Il governo di Londra continuava a porre obiezioni con parole quali "Federazione europea" o "Parlamento", sorvolando sul fatto che questi erano obiettivi di lungo termine e che nel Memorandum si parlava semplicemente di istituzione di un’Assemblea europea dotata di poteri consultivi.
Di fronte a questo ostruzionismo monolitico, dinanzi a quella che pareva diventare una lunga guerra di logoramento, il governo francese preferì inaugurare un nuovo atteggiamento conciliante, una specie di appeasement post litteram. Ciò era probabilmente giustificato da contingenti fattori di politica internazionale. Non era questo il momento per la Francia di forzare la mano ai britannici, inoltre, gli Stati Uniti premevano affinché si realizzasse qualcosa, subito e comunque(116).
Il 27 gennaio si riuniva il Consiglio consultivo del Patto di Bruxelles. I lavori dei ministri degli Esteri non si aprivano sotto i migliori auspici visto che il Comitato di Studio non era riuscito ad assolvere pienamente al proprio compito. Tuttavia era chiaro come bisognasse ormai prendere una decisione definitiva sulla creazione di una nuova organizzazione, organizzazione però che avesse requisisti di novità e che non fosse la solita conferenza intergovernativa. Questo era il sentimento popolare diffuso, questo era lo spirito dell’Aja che aleggiava in quei giorni in Europa.
Il 28 gennaio 1949, i Ministri redigevano un comunicato stampa e annunciavano di aver raggiunto una decisione:
"Dopo aver preso conoscenza degli importanti lavori preparatori svolti a Parigi dal Comitato di Studio dell’Unione Europea, il Consiglio si è accordato per istituire un Consiglio d’Europa composto di un Comitato Ministeriale, che si riunirà a porte chiuse e un Corpo Consultivo, le cui riunioni saranno pubbliche. La Commissione Permanente è stata incaricata di mettere a punto le decisioni di principio, adottate dal Consiglio Consultivo. Quest’ultimo ha deciso d’invitare altri paesi a partecipare ai negoziati in vista della Costituzione del Consiglio d’Europa"(117).
Veniva inoltre preparato lo Statuto provvisorio della nuova organizzazione, composto di diciotto articoli, da inviare alla Commissione Permanente del Trattato di Bruxelles. Veniva infine decisa l’ammissione immediata alla nuova organizzazione di Italia, Irlanda, Danimarca, Svezia e Norvegia.
Questa sorta di compromesso si avvicinava alle richieste del Piano Loesch. Schuman era riuscito a recuperare qualcosa rispetto all’ultima proposta britannica, grazie all’appoggio dei Ministri del Benelux: l’Assemblea riusciva a conquistare finalmente questa denominazione e a mantenere una parvenza di indipendenza operativa; certo Schuman avrebbe voluto che la nuova organizzazione assumesse il nome di "unione europea", ma su questa apparente formalità non era riuscito a vincere l’intransigenza britannica.
Ora era il turno dei diplomatici, toccava a loro mettere nero su bianco le indicazioni ricevute dai Governi.
XII. Le Conferenze degli ambasciatori (marzo – maggio 1949)
Dalla Conferenza dei ministri degli Esteri del Patto di Bruxelles di fine gennaio alle conferenze degli ambasciatori, intercorse un periodo di circa due mesi, durante il quale furono organizzati i passi successivi e furono presi i necessari contatti con le cinque nazioni invitate a far parte della nuova organizzazione. Ovviamente l’Italia, l’Irlanda, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia erano state ben liete di aderire e non si erano certo fatte pregare. D’altronde era forte in quel momento l’esigenza di rimanere saldamente legati alle nuove organizzazioni al fine di evitare pericolose situazioni di isolamento nel contesto della nuova realtà bipolare. Ciò nonostante si cercava di approfittare del momento anche per risolvere questioni di carattere nazionale.
Il 5 febbraio Sir Victor Mallet, inviava un resoconto su una conversazione avuta con Alcide De Gasperi. Il premier italiano ne approfittava per comunicare a Bevin la propria felicità per i due inviti rivolti all’Italia affinché partecipasse al Western European Council e al Ministerial Committee dell’OECE. Ma ribadiva che le relazioni anglo-italiane avrebbero potuto andare meglio se solo fosse stata risolta quella "orribile questione" delle colonie(118).
Dopo qualche giorno giungeva al Foreign Office il resoconto di un colloquio intercorso tra Gladwin Jebb e l’ambasciatore d’Italia a Londra, Gallarati Scotti. L’ambasciatore italiano porgeva ancora ringraziamenti da parte del governo italiano per la possibilità offerta all’Italia di aderire al Consiglio d’Europa. Affermava che questo risultato avrebbe aiutato a rafforzare il Governo italiano; si dichiarava d’accordo sulla scelta di Strasburgo quale sede della nuova organizzazione perché in posizione centrale e poi perché costituiva un importante gesto verso la Germania; Parigi non avrebbe dovuto essere in nessun modo la sede del Consiglio d’Europa né della Conferenza preliminare. Gladwin Jebb riusciva ugualmente a intuire che Gallarati Scotti sarebbe stato favorevole alla candidatura di una città italiana(119).
Sempre a proposito della possibile candidatura di una città italiana, interveniva anche Paul-Henri Spaak nel corso di un colloquio avuto con l’ambasciatore inglese a Bruxelles, Montague Pollock. Quest’ultimo riferiva a Bevin di come Spaak fosse convinto che la sede dovesse essere in Italia e non a Strasburgo, che destava tristi ricordi. Secondo il premier belga, scegliere una città italiana sarebbe servito "ad ‘ancorare’ (repeat anchor) l’Italia all’Europa occidentale e annullerebbe gli effetti di possibili reazioni alla probabile esclusione dell’Italia dal Patto Atlantico"(120). L’ambasciatore britannico concludeva la sua relazione commentando:
"The communication on Spaak must be a mistake. Mr. Spaak arguments against Strasbourg don’t seem very convincing. No doubt the Italians would welcome a headquarter in Italy but it’s not very central and I suppose the Vatican’s presence might not to be an advantage". Bevin si limitava a commentare laconicamente "I agree", avallando le osservazioni dell’ambasciatore di Sua Maestà(121).
La conferenza preparatoria per la creazione del Consiglio d’Europa si riuniva a Londra il 28 marzo 1949. Gli ambasciatori del Belgio, della Danimarca, della Francia, d’Italia, della Norvegia, dei Paesi Bassi e della Svezia, l’Alto Commissario d’Irlanda e il Ministro del Lussemburgo si ritrovarono nei locali del Foreign Office.
I convenuti procedettero all’esame del progetto di creazione del Consiglio d’Europa, elaborato dalla Commissione Permanente del Trattato di Bruxelles, in seguito alle istruzioni ricevute dal Consiglio Consultivo durante la sessione di Londra del 28 gennaio. L’accordo era stato raggiunto per grandi linee, sui principi essenziali dell’organizzazione progettata. Ma restava ancora da risolvere alcuni dettagli non secondari.
Obiettivo della Conferenza era quello di raggiungere l’accordo su tutti i punti e di elaborare delle proposte comuni da proporre ai ministri degli Affari Esteri.
Nel corso delle due settimane di sessioni lo statuto del Consiglio d’Europa avrebbe preso corpo, abbandonando quella forma succinta e scarna abbozzata dalla Commissione permanente del Trattato di Bruxelles (appena diciotto articoli), per raggiungere la stesura definitiva di quarantadue articoli.
Agli inizi di maggio si giungeva alla fine di quel lungo e laborioso negoziato, contraddistinto da vari compromessi tra le opposte tesi, partito alla fine di luglio 1948 in seguito alle pressanti richieste sortite dal Congresso d’Europa.
La Conferenza degli Ambasciatori era riuscita a stilare una bozza di statuto che richiedeva ora un energico intervento di natura politica per superare le ultime divergenze.
XIII. La firma dello Statuto del Consiglio d’Europa (5 maggio 1949)
Il giovedì 5 maggio, alle quattro del pomeriggio, nella Queen Anne’s room presso St. James Palace, veniva ufficialmente aperta la cerimonia della firma dello Statuto, alla quale prendevano parte le delegazioni dei dieci paesi, in presenza della stampa(122).
Il presidente Bevin fece una breve allocuzione ricordando che la Conferenza era riunita anche per la firma dell’Accordo relativo alla creazione di una Commissione preparatoria. Successivamente invitava i rappresentanti delle delegazioni, secondo l’ordine alfabetico inglese dei paesi che rappresentavano, a recarsi presso il tavolo della presidenza per una dichiarazione ufficiale prima della firma.
Prendeva per primo la parola l’Ambasciatore belga, visconte Obert de Thieusies. Egli si rammaricava per le avverse circostanze che avevano impedito al suo Ministro degli Esteri e al suo primo Ministro di prendere parte ai lavori della Conferenza, dopo che il Belgio aveva fatto tanto per arrivare a tale risultato. Si felicitava per i primi risultati raggiunti e si dichiarava felice di poter firmare a nome del suo paese(123).
Il Ministro degli affari Esteri danese, Gustave Rasmussen, accompagnato dall’ambasciatore Reventlow, auspicava la piena riuscita di quel progetto finalizzato a forme d’integrazione sempre più strette tra le nazioni europee. Dichiarava come per lui fosse un onore firmare quello Statuto in nome del Regno di Danimarca. Si dichiarava inoltre particolarmente felice di farlo proprio il 5 maggio, giorno di festa nazionale per il suo paese, ricorrendone l’anniversario della liberazione(124).
Robert Schuman, accompagnato dall’ambasciatore Massigli, ricordava, i passi già compiuti sulla via dell’integrazione economica con il Piano Marshall e l’OECE e sul piano di una più stretta collaborazione militare con il Patto di Bruxelles e il Patto Atlantico e come l’istituzione del Consiglio d’Europa costituisse "la fondazione di una cooperazione spirituale e politica, dal quale nascerà lo spirito europeo, principio di una vasta e durevole unione sopranazionale"(125).
Il Ministro degli affari Esteri d’Irlanda, Sean MacBride, accompagnato dall’ambasciatore Dulanty, esprimeva la propria soddisfazione per i risultati raggiunti. La costituzione del Consiglio d’Europa quale primo passo verso la preservazione della pace e della sicurezza economica e sociale costituiva un primo passo d’una importanza vitale(126).
Il Conte Carlo Sforza, raggiunse il tavolo della presidenza insieme all’ambasciatore d’Italia a Londra, Tommaso Gallarati Scotti. Egli ricordava come la firma di quel trattato avvenisse sotto i migliori auspici, in quanto fatta nel mentre la tensione internazionale causata dal "blocco di Berlino", veniva meno.
"E’ nostro fermo desiderio – continuava il Ministro italiano – che l’Unione alla quale abbiamo deciso di dare il nome abbastanza semplice di ‘Consiglio d’Europa’ manifesti subito al mondo che la sua volontà di preservare la pace e di contribuire all’organizzazione del vecchio continente […]. Le nostre nazioni sono libere e forti. Meglio saremo organizzati, più saremo prosperi; più saremo prosperi, meglio comprenderemo che il nostro unico bisogno, il nostro bisogno supremo è la PACE"(127).
Il Ministro degli affari Esteri del Gran Ducato del Lussemburgo, Joseph Bech, accompagnato dall’ambasciatore André Clasen, apponeva la sua firma affermando la propria fede nell’avvenire dell’Europa, con l’intima convinzione di comportarsi da buon europeo(128).
Era ora il turno dell’olandese Stikker, Ministro degli Affari Esteri, accompagnato dall’ambasciatore E. Michiels van Verduynen. Egli affermava che anche se molti fra coloro che preconizzano l’unità europea consideravano tali progressi troppo prudenti, dovevano comprendere che ciò costituiva solo il primo stadio e che i progressi compiuti lentamente avrebbero garantito la loro possibilità di successo(129).
Toccava ora ai due rappresentanti scandinavi che avevano contribuito a mantenere alto il livello della discussione in seno alla Conferenza e che, con il loro atteggiamento da unionisti integrali, avevano creato non pochi problemi agli stessi britannici, in alcuni momenti quasi raffigurati come federalisti accaniti.
Il Ministro degli Affari Esteri norvegese, Lange, accompagnato dall’ambasciatore Prebensen, nell’apporre la sua firma rendeva omaggio alle cinque Potenze del Patto di Bruxelles per aver preso l’iniziativa destinata a porre le fondamenta di questa nuova organizzazione di cooperazione europea. Ringraziava ugualmente quei cittadini europei che, per mezzo del Movi-mento Europeo, avevano dato voce al desiderio dei popoli europei d’unirsi più saldamente e di cooperare. Continuando, il ministro norvegese ribadiva che non si stava creando una federazione, né un’unione di Stati. A costo di sembrare esageratamente prudenti agli occhi di molti fra i partigiani entusiasti del Movimento Europeo, Lange considerava il metodo più saggio quello di procedere per stadi successivi, con molta prudenza e con opportuna pazienza(130).
Osten Undén, Ministro degli Affari Esteri svedese, accompagnato dall’ambasciatore Gunnar Hagglof, affermava che il Consiglio d’Europa doveva essere un’unione di democrazie europee che accettavano i principi della preminenza del diritto, delle libertà fondamentali e dei diritti dell’uomo. Concludendo il suo intervento, Undén rendeva omaggio al progetto di Unione Occidentale lanciato da Bevin nel gennaio dell’anno precedente perché riteneva fosse, addirittura, la causa prima del processo che aveva condotto alla firma dello Statuto in questione. Fortunatamente il ministro norvegese si ricordava di rendere omaggio - last but not the least - all’opera svolta dal Governo francese. Apponendo infine la firma, si limitava a esprimere la sua ardente speranza di vedere la nuova organizzazione realizzare pienamente il suo programma(131).
Infine prendeva la parola il padrone di casa, Ernest Bevin, Segretario di Stato agli Affari Esteri del Regno Unito, accompagnato da Christopher Mayhew. Bevin ricordava il momento storico che si poneva di fronte a tutti i presenti e la loro alta responsabilità. Rendeva inoltre omaggio ai diciotto mesi di fattiva collaborazione che avevano condotto a quel risultato, al lavoro svolto dalla Commissione guidata da Edouard Herriot. Poi, rivolgendosi a Schuman, gli ricordava che il momento principale, simbolico e veramente storico non era quello presente ma sarebbe stato nel momento in cui il Consiglio d’Europa si sarebbe riunito per la prima volta sul suolo storico dell’Alsazia-Lorena. Concludeva infine ringraziando tutti i presenti, anche Spaak, a nome del Governo di Sua Maestà e si dichiarava realmente felice per essere stato designato dalla sorte per la firma di quel trattato in nome della Gran Bretagna(132).
Dopo la cerimonia, ebbe luogo la prima seduta della Commissione Preparatoria sotto la presidenza di Schuman. Durante tale riunione veniva deciso di riunire la Commissione a Parigi dall’undici maggio in poi e di nominare, su proposta di Bevin e di de Thieusies, suo Segretario esecutivo Camille Paris, già capo della Direzione Europa presso il Quai d’Orsay.
Il giorno stesso veniva diramato un succinto quanto esaustivo comunicato stampa congiunto:
"I Ministri degli Affari Esteri di Danimarca, di Francia, della Repubblica d’Irlanda, d’Italia, del Lussemburgo, dei Paesi Bassi, della Norvegia, della Svezia e del Regno Unito e l’Ambasciatore del Belgio a Londra hanno firmato oggi lo statuto del Consiglio d’Europa, oltre che l’accordo relativo alla creazione di una commissione preparatoria del Consiglio d’Europa. Questi due documenti sono dati alla Stampa per essere pubblicati venerdì 6 maggio mattina.
La caratteristica essenziale dello statuto del Consiglio d’Europa è la creazione di un comitato dei Ministri e di un’assemblea consultiva costituenti insieme il Consiglio d’Europa. Il Comitato dei Ministri avrà per fine quello di sviluppare la cooperazione tra i Governi; l’Assemblea consultiva, invece, dando corpo ed espressione alle aspirazioni dei popoli d’Europa, fornirà ai Governi lo strumento per essere costantemente in contatto con l’opinione pubblica europea.
Va notato che le problematiche relative alla difesa nazionale sono escluse dalla competenza del Consiglio d’Europa. Ciò dipende dal fatto che questa non è un’alleanza militare, ma piuttosto, così come indicato nel preambolo dello statuto, il desiderio di rinsaldare la pace e di realizzare una unione più stretta al fine di salvaguardare e di promuovere gli ideali che sono il patrimonio comune dei membri partecipanti.
La riunione inaugurale del Consiglio d’Europa si terrà a Strasburgo, probabilmente nel corso del mese di agosto. Questa prima sessione avrà un significato profondo nella storia europea.
La Conferenza ha preso coscienza delle richieste formulate dai Governi greco e turco di essere ammessi come membri del Consiglio d’Europa. E’ stato riconosciuto, unanimemente, che l’adesione di questi due stati sarà considerata favorevolmente ed è stato convenuto che la questione sarà trattata dal Comitato dei Ministri conformemente alle disposizioni dello statuto.
L’adesione eventuale di altri stati europei sarà esaminata sempre dal Comitato dei Ministri"(133).
Il 6 maggio, i commenti della stampa internazionale furono generalmente improntati a un cauto ottimismo. Si poneva in luce come l’essere riusciti a concretizzare le richieste della Risoluzione politica del Congresso d’Europa fosse un grande risultato che andava incontro alle richieste sempre più pressanti dell’opinione pubblica europea. Certo si trattava di un organizzazione bicefala, fortemente condizionata dalla presenza dei Governi che non erano stati disposti a rinunciare ad alcuna delle loro prerogative. Ma tale risultato, andava comunque considerato quale "punto di partenza di un organizzazione europea suscettibile di svilupparsi". Grazie alla creazione, per la prima volta, di un’Assemblea europea "il dibattito – continuava l’editorialista di "Le Monde" - non sarà limitato ai personaggi ufficiali, ma sarà portato davanti all’opinione pubblica"(134).
Conclusioni
Nel corso dell’anno 1952 il fallimento del progetto politico del Consiglio d’Europa, diventò una certezza. L’organizzazione di Strasburgo era stata la prima ad avere un’assemblea parlamentare. Con il Consiglio d’Europa, per la prima volta, era stata creata una organizzazione europea che non era la solita riunione di capi di governo.
Le origini di tale tentativo risalivano a quattro anni prima, al maggio 1948. La risoluzione politica del Congresso d’Europa dell’Aja auspicava la creazione di un’assemblea quale primo stadio di una futura organizzazione federale per l’Europa occidentale. Il Congresso d’Europa era stato il momento culminante dell’azione costante e volitiva di un gruppo di movimenti europeisti riuniti in un Comitato internazionale di collegamento e guidati dal britannico United Europe di Churchill-Sandys. I risultati raggiunti da tale azione erano stati sorprendenti, nel giro di pochissimi mesi si riuscì a mettere in piedi un avvenimento straordinario e unico. Mai nella storia del continente europeo vi era stata un’assise così importante e altamente rappresentativa che fosse indirizzata verso il fine comune dell’integrazione europea. Il solo immaginarlo, fino a tre anni prima, sarebbe parso un’utopia. Il merito principale della riunione dell’Aja fu quello di fungere da cassa di risonanza diffondendo il concetto che se si voleva realmente garantire un futuro ai popoli europei era necessario progettare una unione federale.
Ma tale importante Congresso era caratterizzato anche da un forte limite, quello di essere emanazione di movimenti europeisti del tutto scollegati dai governi europei. Per tale ragione, alla fine del Congresso d’Europa si poneva il problema di come superare questa deficienza, come riuscire a concretizzare le importanti risoluzioni scaturite da tale assise, in particolar modo quella contenuta nell’articolo 4 della Risoluzione politica, la quale auspicava l’immediata convocazione di un’Assemblea europea. Duncan Sandys capì che non vi erano le condizioni per presentare autonomamente tali proposte di assemblea europea attraverso la redazione di un piano da presentare ai governi del vecchio continente.
Si poneva il pressante imperativo, per il Comitato di Sandys, di prendere contatti ufficiali con i governi delle democrazie europee. Ma tale giusta iniziativa rappresenterà per il movimento europeista britannico la perdita della leadership all’interno del Joint International Committee. Fino a quel momento le redini dell’europeismo erano state saldamente nelle mani degli unionisti britannici capeggiati da Duncan Sandys. Nel momento in cui toccava ai governi prendere l’iniziativa e rispondere alle richieste dei movimenti europei, si capì che il processo per la creazione di un’assemblea europea non avrebbe potuto essere guidato dal governo di Londra. I laburisti, infatti, non avevano alcuna intenzione di lasciarsi trascinare in affari limitati al continente europeo e sponsorizzati dal partito conservatore.
La Francia, invece, nel luglio 1948, sceglieva l’opzione europeista, ritenendo che potesse fungere da panacea per tutti i propri problemi.
Il momento era certamente favorevole visto il crescente interesse popolare verso tali argomenti e per il sempre più evidente scollamento tra la guida del movimento europeista, fino a quel momento nelle mani degli unionisti britannici, e il governo laburista che continuava a disinteressarsi di tali aspetti. Vi furono certamente altri elementi che condizionarono la scelta del Quai d’Orsay. Fra questi il problema della sistemazione della Germania occidentale, il timore per il consolidarsi sia della special relationship tra Washington e Londra che della leadership inglese all’interno del Patto di Bruxelles, nonché vari problemi di politica interna connessi con la precaria stabilità dei governi.
Di fronte a queste aspirazioni europeiste del governo francese, l’immobilismo britannico rendeva la posizione di Londra all’interno del contesto europeo sempre meno al passo con i tempi; l’inattività di Londra avrebbe causato un lento ma inesorabile passaggio di mano dell’iniziativa dagli unionisti britannici che avevano diretto la campagna europea fino a quel momento, agli europeisti francesi che da quel momento in poi avrebbero preso le redini dell’europeismo, forti del sostegno governativo.
Del resto la percezione che i due principali artefici del Consiglio d’Europa avevano dell’europeismo era e restava molto differente. Per i francesi l’Unione europea non doveva essere considerata una semplice estensione del Patto di Bruxelles, ma l’unica soluzione per i tanti problemi europei, compresa la questione tedesca. I britannici, al contrario, non davano alcun credito al progetto di Assemblea europea, che riscuoteva scarse simpatie in patria e che appariva in conflitto con gli interessi del Commonwealth.
Ma la Francia della fine del 1948, non era ancora sicura dei propri mezzi per affrontare una simile avventura con il solo sostegno dei paesi del Benelux. Il Quai d’Orsay riteneva ancora indispensabile la collaborazione con Londra per la realizzazione dei propri progetti di integrazione dell’Europa occidentale. Per tale motivo Schuman, nel gennaio 1949, accettava che le trattative finalizzate alla creazione di un’Assemblea europea producessero un eclatante compromesso che avrebbe segnato ineluttabilmente le sorti del Consiglio d’Europa. Di fronte all’ostruzionismo monolitico, dinanzi a quella che pareva diventare una lunga guerra di logoramento, il governo francese preferì addivenire così a un compromesso pur di garantire la creazione di quella organizzazione verso la quale si era già abbondantemente esposto. Del resto non era certamente quello il momento più opportuno per la Francia di forzare la mano alla Gran Bretagna. E’ probabile che Schuman fosse ormai convinto del fatto che, comunque, di fronte alla ferma opposizione britannica, fosse già un successo essere riusciti a imporre la creazione di un’Assemblea europea. Certo non era ciò che gli europeisti si attendevano. L’organizzazione frutto di tale compromesso, era priva di poteri effettivi, con un Consiglio dei Ministri senza poteri esecutivi, imbrigliato dal voto all’unanimità e dal diritto di veto e con un assemblea senza poteri legislativi. L’unico barlume di speranza, almeno sulla carta, risiedeva nell’articolo 1 dello Statuto, ove erano elencati i molteplici settori sui quali l’Assemblea poteva dibattere e presentare pareri. Teoricamente, l’Assemblea avrebbe potuto indirizzare i propri dibattiti verso la richiesta di emendamenti finalizzati alla revisione dello statuto del Consiglio d’Europa, al fine di aumentare i propri poteri.
Se tale risultato costituiva apparentemente una sconfitta per la Francia, veniva invece visto dai laburisti inglesi come un grande successo, frutto delle abili arti diplomatiche britanniche le quali erano riuscite a imbrigliare e ad annullare il velleitario progetto francese.
A partire dal marzo 1949, l’atteggiamento britannico subì una netta evoluzione: dall’ostilità aperta verso ogni forma di richiesta rivolta alla creazione di un’assemblea, il Governo Britannico era assurto, successivamente, a difensore di quella nuova istituzione che iniziava a sentire propria. Londra aveva così deciso di giocare un ruolo importante anche in questo ambito. Tale cambiamento era diventato evidente nel corso dalla Conferenza degli Ambasciatori alla quale avevano partecipato, per la prima volta, anche i paesi scandinavi, l’Italia e l’Irlanda. Di fronte al tentativo ostruzionistico delle delegazioni scandinave, norvegese e svedese in particolar modo, Londra aveva deciso di reagire e di far sentire il proprio peso per annullare tali tentativi.
Il governo francese incominciò così a comprendere come non si potesse più pensare, semplicisticamente, che gli inglesi sarebbero andati a Strasburgo per fare del semplice ostruzionismo o per paralizzare lo sviluppo della costruzione europea. Intuirono che la delegazione britannica nell’Assemblea avrebbe giocato un ruolo importante e avrebbe esercitato un’influenza almeno pari a quella della delegazione francese. Non si doveva più insistere nel considerare la Gran Bretagna la principale minaccia per i progetti di costruzione europea; al contrario, bisognava farla diventare un importante alleato per sconfiggere le nuove resistenze filo governative e per cercare di far funzionare quel poco che si era riusciti a mettere in piedi.
Paga di tale risultato, la Gran Bretagna si ergeva a strenuo difensore della sua creatura, pronta a respingere qualsiasi tipo di attacco atto a minare i principi dello Statuto dell’organizzazione di Strasburgo, sia che provenisse dai reazionari unionisti del nord Europa sia che provenisse dai federalisti mediterranei.
Ad ogni modo, la concretizzazione dello Statuto di Londra rappresentò una tappa importante nel processo d’integrazione europea poiché veniva finalmente introdotta l’idea di rappresentatività parlamentare a livello internazionale con la creazione, accanto all’organo destinato a rappresentare i Governi, di un’Assemblea incaricata di rappresentare i popoli.
Nel 1950 la Francia decideva di prendere le prime contromisure per superare l’ostacolo britannico e scandinavo. I francesi avevano infine compreso che i britannici non avrebbero collaborato ma si sarebbero limitati a tutelare lo status quo. Il Consiglio d’Europa rischiava di diventare un’organizzazione troppo vasta, allargata a un numero sempre maggiore di nazioni europee. Tra l’altro, la presenza di nazioni neutrali creava grossi problemi e rischiava di compromettere ogni tentativo di integrazione militare dell’Europa occidentale.
Il 9 maggio 1950, il ministro degli Affari Esteri francese, Robert Schuman lanciò l’idea di una comunità che non fosse la solita organizzazione internazionale vincolata dal voto all’unanimità ma una comunità concreta, specializzata in un settore limitato e dotata di poteri sopranazionali. Schuman aveva così compreso che se si voleva veramente procedere sulla strada della costruzione europea bisognava rinunciare all’ingombrante presenza britannica. Sarebbero andate avanti solo quelle nazioni disposte a rinunciare gradualmente a porzioni della propria sovranità nazionale per il bene comune.
Il Piano Schuman e il successivo Piano Pleven, misero in evidenza tutti i limiti del Consiglio d’Europa, il quale continuava a essere niente altro che una sede prestigiosa, nella quale le grandi idee restavano sulla carta senza la possibilità di essere concretizzate.
La seconda sessione del Consiglio d’Europa segnò l’inesorabile declino politico di tale istituzione. A partire dal 1951, le attenzioni e le speranze delle popolazioni democratiche d’Europa e dei movimenti europeisti si indirizzarono sulle nuove istituzioni in fieri, frutto del metodo funzionalista, frutto della nuova idea vincente e pratica, nata dalla mente di Jean Monnet. Vi era ormai una netta frattura tra i delegati presenti nell’Assemblea del Consiglio d’Europa e i Governi. Si poteva riscontrare anche una diversa velocità di marcia tra il Consiglio d’Europa, alla ricerca di una più adeguata collocazione e le nuove istituzioni settoriali che andavano monopolizzando l’attenzione generale. Ma si era verificato anche un definitivo allontanamento dei movimenti europeisti, in particolar modo dei federalisti dell’UEF, che fino all’ultimo avevano creduto nella funzione catalizzatrice dell’Assemblea di Strasburgo la quale restava, comunque, la prima assemblea europea. I federalisti europei capirono che il destino del Consiglio d’Europa era segnato. Ormai era inutile sprecare ulteriori forze cercando di influenzare gli sterili e interminabili dibattiti dell’Assemblea consultiva. I federalisti decisero così di disinteressarsi definitivamente del Consiglio d’Europa e di proseguire la loro battaglia per la convocazione della Costituente europea guardando con fiducia alle nuove istituzioni settoriali. La federazione europea si sarebbe fatta al di fuori dell’organizzazione di Strasburgo.
Il Consiglio d’Europa inaugurò, conseguentemente, un lungo periodo di oblio, percorrendo una strada parallela a quella dell’Europa dei sei. Cercò una nuova identità nella protezione dei diritti dell’uomo e in molti altri settori e fungendo da anticamera per i paesi in via d’adesione nelle nuove organizzazioni europee.
Il Consiglio d’Europa è tornato a essere attivo e vitale dopo la caduta del muro di Berlino con la conseguente apertura del mondo occidentale alle nazioni dell’ex blocco sovietico. Tali nazioni sono gradualmente confluite nell’organizzazione di Strasburgo in attesa di essere sdoganate e accettate pienamente dal mondo occidentale.
NOTE
(1) Sulle origini dell’idea d’Europa cfr. F. Chabod, Storia dell’Idea d’Europa, Bari, Laterza, 1995; P. Gerbet, La construction de l’Europe, Parigi, Imprimerie National, 1983; J. B. Duroselle, Storia dell’Europa, Milano, Bompiani, 1990.
(2) Cfr. A.J.P. Taylor, The struggle for Mastery in Europe 1848-1918, Oxford, Oxford University Press, 1954; P. M. Kennedy, The rise and fall of the Great Powers, New York, 1987; P.M. Kennedy, The rise of the Anglo-German Antagonism 1860-1914, London/Boston, 1980.
(3) Futuro Presidente della Repubblica italiana.
(4) L. Einaudi, Scritti sull’unità europea, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 1995; S. Pistone (a cura di), Le critiche di Einaudi e di Agnelli e Cabiati alla Società delle Nazioni nel 1918, in L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale, Torino, Fondazione Einaudi, p. 30.
(5) Cfr. J-B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 al 1970, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1988; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, Bari, Laterza, 1994; G. Bossuat, Histoire des constructions européennes au XXe siècle, Berna, Peter Lang, 1994.
(6) P. Gerbet, La construction…, cit., p. 35.
(7) Cfr. R. H. Rainero, Storia dell’integrazione…, cit., pp. 22-23;
(8) E. Bonnefous, L’Europe en face de son destin, Parigi, edition du Grand Siècle, 1958
(9) Relativamente all’emigrazione degli antifascisti italiani, cfr. A. Varsori, Gli alleati e l’emigrazione antifascista (1940-1943), Firenze, Sansoni, 1982.
(10) Strenuo difensore di questa politica era il premier inglese Chamberlain. In nome di questa politica Francia e Inghilterra avevano preferito accontentare il più possibile Hitler pur di scongiurare lo scoppio di una guerra e quindi pur di preservare a tutti i costi la pace. Cfr. J-B. Duroselle, Storia diplomatica…, cit; E. Di Nolfo, Storia delle relazioni…, cit.
(11) J. Pinder, "Manifesta la verità ai potenti": i federalisti britannici e l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità europea, 1945-1954 – Atti del Convegno internazionale, Pavia 19-20-21 ottobre 1989. A cura di Sergio Pistone, Milano, Jaca Book, 1992, pp.113-114.
(12) W. Lipgens, A history…., cit., pp. 142-155.
(13) A. Spinelli, Sviluppo del moto per l’unità europea dopo la II guerra mondiale, in G.C. Haines (a cura di), L’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 1957, p. 69.
(14) Il governo Churchill offrì alla Francia un’unione semifederale il 16 giugno 1940, ma la Francia fu solo in grado di rispondere con l’incarico dato al maresciallo Pétain di firmare l’armistizio con la Germania di Hitler.
Cfr. P. Gerbet, La construction…., cit., pp. 40-43; J. Pinder, in AA.VV., I movimenti…, op.cit., p.114; G. BOSSUAT, Jean Monnet et l’avenir de l’Europe 1940-1948, in M. Dumoulin (ed.), Plans de temps de guerre pour l’Europe d’apres-guerre 1940-1947, Bruxelles, Bruylant, 1995, pp. 327-329.
(15) A. Spinelli, Sviluppo del…, cit.., pp. 69-70.
(16) Ibidem.
(17) M. Gilbert, Winston S. Churchill, vol. VIII, Never despair 1945-1965, London, Heinemann, 1988, pp. 195-196. Sicuramente il discorso di Churchill non fu ispirato dal Foreign Office ma è evidente che vi fosse il beneplacito del Dipartimento di Stato e dello stesso Truman che, precedentemente, lo aveva letto e approvato.
(18) W.S. Churchill, His complete speeches, 1897-1963, vol 7, 1943-1949, The sinews of peace, 05.03.1946, Edited by R. Rhodes James, New York & London, Chelsea House Publishers with R.R. Bowker Co., 1974, pp. 7285-7286.
(19) Ivi, p. 7290.
(20) Ivi, p. 7291.
(21) M. Gilbert, Never despair…, cit., p. 205.
(22) Ivi, p. 206.
(23) Ibidem.
Il Dipartimento di Stato americano, stava lavorando all’elaborazione di questa nuova politica nei confronti di Mosca già da qualche mese, vale a dire da quando era giunto a Washington il cosiddetto long telegram di Gorge Kennan. Il telegramma era stato spedito da Mosca il 22 febbraio del 1946. Kennan era incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Mosca nonché il massimo conoscitore della società e mentalità sovietica ed era solito inviare rapporti dettagliati nei quali analizzava il comunismo sovietico per poi proporre una ricetta per poterlo arginare efficacemente. Egli riteneva improbabile un attacco sovietico all’Europa occidentale, ma era convinto che il maggior pericolo per l’occidente fosse costituito dall’azione sovvertitrice e destabilizzante dei forti partiti comunisti presenti in Italia e in Francia, da egli considerati quali vera e propria "quinta colonna" di Mosca. A tal proposito cfr. P. Melandri, Les Etats-Unis face à l’unification de l’Europe 1945-1954, Parigi, Pedone, 1980; G. Mammarella, Europa-Stati Uniti, un’alleanza difficile 1945-1985, Roma/Bari, Laterza, 1996; A. Varsori Gli Stati Uniti e l’Europa (1941-1947), in M. Dumoulin (ed.), Plans de temps de guerre…, cit., pp. 385-386.
(24) W. Lipgens, Documents on the History of European Integration, vol. I, Continental Plans for European Union 1939-1945, Berlin/New York, Walter de Gruyter, 1985, pp. 1-33.
(25) Relativamente a Spinelli-Rossi e al federalismo italiano in genere, cfr. M. Albertini, A. Chiti Batelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, Torino, ERI, 1973, pp. 178-254; A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida, 1982; A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960; S. Pistone, La lotta del Movimento Federalista Europeo dalla resistenza alla caduta della Comunità Europea di Difesa nel 1954, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp. 17-18.
(26) La riunione clandestina si tenne nella casa di Mario Alberto Rollier, dal 27 al 29 agosto 1943. Cfr. C. Rognoni Vercelli, Mario Alberto Rollier, un valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991.
(27) Sulla nascita dell’UEF, cfr. C. Rognoni Vercelli, L’Unione Europea dei Federalisti, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp.183-204;
(28) I giornali clandestini della resistenza francese erano: Combat, Liberation sud e Franc-Tireur. Nel 1944, subito dopo la liberazione della Francia meridionale, fu formato il Comitato Francese per la Federazione Europea (CFFE); cfr. W. LIPGENS, History…, cit., pp. 124-131; A. Greilsammer, Les Mouvements fédéralistes en France da 1946 à 1974, Nice, Presses d’Europe, 1975, pp. 3-37; J-P Gouzy, I Movimenti per l’unità europea in Francia, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp.61-71.
(29) Le cinque riunioni si svolsero nei giorni 31 marzo, 29 aprile, 20 maggio e 6-7 luglio 1944; vi parteciparono delegazioni provenienti da Francia, Danimarca, Italia, Norvegia, Olanda, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, più alcuni antinazisti tedeschi. Cfr. W. Lipgens, History…, cit., pp. 51-58.
(30) Per il Manifesto, cfr. J-P. Gouzy, Les pionniers de l’Europe communautaire, Lausanne, Centre de recherches européenne, 1968, allegato I.
(31) Questo incontro fu organizzato dal movimento federalista tedesco Europa-Union. Vi parteciparono rappresentanti di quattordici nazioni europee. Cfr. W. Lipgens, A history…, cit., pp. 303-310; J-P. Gouzy, Les pionnier, cit., pp. 33-34; A.G. Harryven & J. van der Harst, Documents…, cit., pp. 42-43.
(32) M. Gilbert, Never despair…, cit., pp. 265-267.
(33) W. Churchill, His complete speeches…, cit., p. 7381.
(34) Ibidem.
(35) Ivi, pp. 7381-7382; cfr. inoltre, A.G. Harryvan & J. Van der Harst, Documents…, cit., pp. 38-40.
(36) Il ruolo attribuito da Churchill alla Gran Bretagna nei confronti del continente europeo è tipico della politica estera inglese che era fondata su tre principi:
• mantenere intatti i legami privilegiati con il Commonwealth;
• preservare l’alleanza con gli Stati Uniti d’America;
• difendere la sovranità nazionale.
Questi canoni sono stati a lungo giudicati sacri sia dai conservatori sia dai laburisti. Il 9 ottobre del 1948, Churchill, esplicò meglio questo principio con la "teoria dei tre cerchi". Cfr. A. Deighton, Britain and the three interlocking circles, in A. Varsori (ed. by), EUROPE 1945-1990s. The End of an Era?, London, MacMillan, 1995, pp. 155-169; W. Lipgens, Documents…, cit., vol. 3, pp. 634-635, plus doc. 214.
(37) Rassegna stampa sul discorso di Zurigo su Le Monde e su The Times.
(38) I rappresentanti dei vari movimenti convenuti a Parigi erano: H. Brugmans (Olanda) per Europeesche Actie, Miss Josephy (Gran Bretagna) per Federal Union, A. Allard (Belgio) per Union Fédérale, U. Campagnolo (Italia) per il Movimento Federalista Europeo, H. Koch (Lussemburgo) per Europa-Union. Le associazioni francesi furono rappresentate da A. Voisin (La Fédération), C.M. Hytte (La République moderne), F. Gerard (Comité International pour la fédération européenne), da J. Larmeroux (Etats-Unis du monde) e da M. Belley (Union Fédérale Mondiale). Cfr. W. Lipgens, A history…, cit., pp. 361-385; A Hick, The European Union of Federalists (EUF), in W. Lipgens e W. Loth (a cura di), Documents on the history of European Integration, vol. IV, Transnational Organizations of Political Parties and Pressure Groups in the Struggle for European Union, 1945-1950 , Berlin-New York, de Gruyter, 1991, pp. 8-111.
(39) Ivi, pp. 323-334; per il discorso alla Albert Hall , cfr. W. Lipgens, Documents…, cit., vol. 3, doc. 198; J. Pinder, I federalisti britannici…, cit., pp. 127-129.
(40) La LICE diventerà nel 1948 Lega Europea di Cooperazione Economica (LECE). Cfr. W. Lipgens, A history…, cit., pp. 334-341; M. Dumoulin, La Lega Europea di Cooperazione Economica, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp. 265-269; H. Gisch, The European League for Economic Co-operation (ELEC), in W. Lipgens-W. Loth, Documents…, vol IV, cit., pp. 186-276.
(41) W. Loth, Il Movimento Socialista per gli Stati Uniti d’Europa, in AA.VV., I Movimenti…, cit.,pp.253-264; W. Loth, The Mouvement Socialiste pour les Etats-Unis d’Europe (MSEUE) in W. Lipgens-W. Loth, Documents…, vol IV, cit, pp. 277-318.
(42) P. Chenaux, Les Nouvelles Equipes Internationales, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp.237-252; H. Gisch, The ‘Nouvelles Equipes Internationales’ (NEI) of the Christian Democrats, in W. Lipgens-W. Loth, Documents…, vol IV, cit, pp. 477-540.
(43) M. Posselt, L’Unione Parlamentare Europea, in AA.VV., I Movimenti…, cit., pp.227-236; H. Gisch, The European Parliamentary Union (EPU), in W. Lipgens-W. Loth, Documents…, vol IV, cit, pp. 112-185.
(44) G. Mammarella, Storia dell’Europa dal 1945 ad oggi, Roma/Bari, Laterza, 1980, p. 155.
(45) W. Lipgens, A history…, cit., pp. 2-18.
(46) G. Mammarella, Storia…, cit., pp. 53-57.
(47) Sull’arrivo al potere di Bevin e sulla politica estera dei laburisti, cfr. J. Becker - F. Knipping (eds), Power in Europe? Great Britain, France, Italy and Germany in a postwar world 1945-1950, Berlin/New York, de Gruyter, 1986; B. Brivati – H. Jones (eds.), From reconstruction to integration: Britain and Europe since 1945, Leicester, Leicester University Press, 1993; A. Bullock, Ernest Bevin, Foreign Secretary 1945-1951, Oxford, Oxford University Press, 1985; S. Greenwood, Britain and European Cooperation since 1945, Oxford, Blackwell, 1992.
(48) E. Aga Rossi (a cura di), Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 57-64; cfr. F.J. Harbutt, The Iron Curtain, Churchill, America and the Origins of the Cold War, Oxford, Oxford University Press, 1986; J. Harper, American visions of Europe: Roosevelt, Kennan, Acheson, Cambridge, Cambridge University Press, 1994
(49) Foreign Relations of the United States (FRUS), 1947, vol. V, pp. 35-37.
(50) P. Melandri, Les Etats-Unis…, cit., p. 68 ; cfr. R.M. Freeland, La dottrina Truman, in E. Aga Rossi, Gli Stati Uniti…, cit., pp. 215-220; V. Rothwell, Britain and the Cold War 1941-1947, London, Jonathan Cape, 1982, pp. 435-436.
(51) G. Mammarella, Storia …, cit., p. 116.
(52) Frus, 1947, Vol. V, pp. 235-239.
(53) T.G. Paterson, Il Piano Marshall in E. Aga Rossi, Il Piano Marshall e l’Europa, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1983, pp. 221-229; cfr. P. Melandri, Les Etats-Unis…, cit., pp. 88-107; R. Girault (sous la direction de), Le Plan Marshall et le rèlevement économique de l’Europe. Colloque tenu à Bercy les 21, 22 et 23 mars 1991, Paris, Comité pour l’histoire économique et financière – Ministère des Finances, 1993; M. J. Hogan, The Marshall Plan. America, Britain and the reconstruction of Western Europe 1947- 1952, Cambridge, Cambridge University Press, 1988.
(54) Durante tale Conferenza venne elaborato un programma sulla cui base il Congresso americano giunse all’approvazione, il 2 aprile 1948, dell’Economic Cooperation Act (ECA), organismo responsabile dell’organizzazione e dell’amministrazione dei fondi per l’European Recovery Program (ERP), denominazione ufficiale del Piano Marshall.
M. Beloff, The United States and the Unity of Europe, Westport, Greenwood Press, 1976, pp. 13-48; per una disamina approfondita e tecnica del Piano Marshall, cfr. A.S. Milward, The reconstruction of Western Europe 1945-1951, London, Methuen & Co., 1984, pp. 56-125; G. Bossuat, L’Europe occidentale à l’heure américaine. Le Plan Marshall et l’unité européenne 1945-1952, Bruxelles, Complexe, 1992; P. Gerbet, La construction…, cit., pp. 66-76.
(55) Questa alleanza a cinque non era più diretta contro la Germania – benché nel preambolo si continuasse a parlare di minaccia tedesca – ma contro qualsiasi aggressore europeo: il riferimento al blocco sovietico era, ora, fin troppo evidente. Cfr. A Varsori, Il Patto di Bruxelles (1948): tra integrazione europea e alleanza atlantica, Roma, Bonacci, 1988, pp. 32-132.
(56) D. Yergin, Il blocco di Berlino, in E. Aga Rossi, Gli Stati Uniti…, cit., pp. 239-258; cfr. D. Yergin, Shattered Peace, Boston, Houghton Mifflin Co., 1977; P. Melandri, Les Etats-Unis…, cit., pp. 173-175.
(57) P. Melandri, The United States and the Process of European Integration, in Europe…, cit., pp. 102-115; P. Gerbet, La construction…, cit., pp. 76-80; M. De Leonardis, Il Patto Atlantico e l’integrazione europea in R.H. Rainero, Storia dell’Integrazione…, cit., pp. 41-85.
(58) W. Lipgens, A history…, cit., p. 658.
(59) M. Di Genova, Il Congresso dell’Aja (7-10 maggio 1948): tra "guerra fredda" e integrazione europea, tesi di laurea discussa nell’a.a. 1990/1991, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri", pp. 46-49.
La tesi è stata realizzata sotto la supervisione del Prof. Ennio Di Nolfo, relatore, e del Prof. Antonio Varsori, co-relatore. Il materiale inedito è stato reperito presso il College d’Europe – Bruges (CdE), Archivi del Movimento Europeo (AME).
(60) Vi parteciparono rappresentanti della LICE (Retinger e Serruys), dell’UEF (Brugmans, Marc e Silva), dell’EPU (Maccas), dell’UEM (Lang e Sandys), del CFEU (Courtin e Noel).
M. Di Genova, Il Congresso dell’Aja…, cit., pp. 49-50; cfr. inoltre A. Varsori, Il Congresso dell’Europa dell’Aja (7-10 maggio 1948), in AA:VV., I Movimenti…, cit., pp. 311-341.
(61) Il lavoro di queste tre Commissioni sarebbe stato delineato grazie a tre rapporti preliminari. La redazione del rapporto politico veniva attribuita all’UEM e al CFEU, quella del rapporto economico alla LICE e la redazione del rapporto culturale veniva attribuita a un gruppo di persone scelte da Retinger. Anche in questo caso l’incarico più importante, la redazione del rapporto politico, era rimasta saldamente nelle mani dell’UEM, a discapito dell’UEF.
Cfr. M. Di Genova, Il Congresso dell’Aja…, cit., pp.53-65.
(62) W. Lipgens, A history…, cit., p.683.
(63) Ibidem.
(64) M. Di Genova, Il Congresso d’Europa…, cit., pp. 72-73.
(65) Relativamente al discorso di Bevin, cfr. Parliamentary Debates, House of Commons, Vol. 446, 22.01.1948, cols. 383-409; relativamente ai nuovi orientamenti della politica estera laburista, cfr. G. Warner, The Labour and the Unity of Western Europe, 1945-1951, in R. Ovendale (edited by), The Foreign Policy of the British Labour Government, 1945-1951, Leicester, Leicester University Press, 1984, pp. 61-82; J.W. Young, Britain, France and the Unity of Western Europe, 1945-1951, London, Macmillan, 1992; relativamente al Patto di Bruxelles, cfr. A. Varsori, Il Patto di Bruxelles…, cit.
(66) J.T. Grantham, British Labour and the Hague "Congress of Europe". National Sovereignty Defended, in The Historical Journal, XXIV, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 443-452; cfr. inoltre, M. DI Genova, Il Congresso d’Europa…, cit., pp. 92-103.
(67) CdE, AME, Joint International Committee of the Movements for European Unity, "Draft Political Report", (embodying results of discussions at meeting of Joint International Committee in London on March 6th and subsequent exchanges of views in Paris on March 12th).
(68) H. Brugmans, L’idée Européenne 1920-1970, Bruges, De Tempel, 1970, pp. 132-133.
(69) CdE, AME, Congress of Europe, Verbatim Report, Political Committee, Saturday 8th May, The Hague, Discorso di P. Reynaud. Sulla figura dell’uomo politico francese, cfr. E. DEMEY, Paul Reynaud, mon père, Paris, Plon, 1980; relativamente alla mozione Reynaud-Bonnefous, cfr. E. Bonnefous, L’Europe en face…, cit.
(70) D. de Rougemont, L’Europe en jeu, Neuchatel, Editions de la Baconnière, 1948, pp. 139. Anche il MFE considerò la proposta di Reynaud troppo rivoluzionaria, preferendo così un voto contrario; pare, però, che quel nobile e solitario spirito, qual era Altiero Spinelli, non seguì le indicazioni del suo Movimento e votò a favore dell’emendamento Reynaud-Bonnefous. A tal proposito, cfr. A Hick, The European Movement…, cit., p. 227 (information given to the writer by A. Spinelli, interview, Jan. 1978, Rome).
(71) "New York Times", 11.05.48, European Assembly is voted at The Hague, by David Anderson.
(72) E. Bonnefous, L’Europe…, cit., p. 100.
(73) Ibidem.
(74) W. Churchill, Foreward to The European Movement and the Council of Europe, London, Hutchinson & Co., 1949
(75) P-H. Spaak, ibidem, p.13.
(76) A. Varsori, Il Congresso dell’Europa…, cit., p. 311.
(77) Relativamente alla nomina di Ramadier alla testa del Comitato di studio, cfr. lettera di René Courtin a Duncan Sandys, 03.06.48; cfr. CdE, AME, Compte-rendu de l’appel téléphonique de Mr. Sandys à Miss Ford, 04.06.48; cfr. Compte-rendu de la comunication téléphonique de Mr. Sandys à Miss Ford le 8 Juin 1948.
(78) CdE, AME, Lettera di J.H. Retinger a Raoul Dautry, 09.06.48.
(79) CdE, AME, lettera di T.B. Martin a Raoul Dautry, 09.06.48.
(80) CdE, AME, Compte-rendu d’un appel téléphonique de Mr. SANDYS à Mr. REBATTET et Mademoiselle FORD, 10.06.48.
(81) CdE, AME, memorandum di D. Rhodes a D. Sandys, 10.07.48
(82) Ministère des Affaires Etrangères (Paris) (MAE), Archives Diplomatiques (AD), série Z Europe 1944-1960, sous-série "Question générales de politiques européenne" carton 547, dossier 5, vol. 7, "Telegramma n° 378 EU di J. Riviere a R. Schuman, 14.05.48".
(83) CdE, AME, Reunion de l’Executif, Paris 17-18 Juillet 1948, cfr. inoltre, CdE, AME, Comite International de Coordination des Mouvements pour l’Unité Européenne, To the Conference of Foreign Ministers at The Hague, 18th July 1948.
(84) A. Varsori, Il Patto di Bruxelles…, cit., p. 187; cfr. P. Gerbert, Le relèvement 1944-1949, Paris, Imprimerie Nationale, 1991, pp. 375-377; R. Massigli, Une comédie des erreurs 1943-1956. Réflexions sur une étape de la construction européenne, Paris, Plon, 1976, p. 156; M-T. Bitsch, Le rôle de la France dans la naissance du Conseil de l’Europe, in R. Poidevin, Histoire des débuts…, cit.., p. 165.
(85) È curioso come gli storici non siano concordi su una data così importante:
La documentazione da me rinvenuta negli Archivi del Ministero degli Esteri francese, fa riferimento al 19 luglio 1948 e ad essa si rifà la gran parte degli storici, cfr. MAE, AD, série Z Europe 1944-1960, sous-série "Généralites", Circulaire N° 194-IP di P. Ordioni del 22.07.48.
(86) J-B. Duroselle, 1948: Les débuts de la construction européenne, in R. Poidevin, Histoire des débuts…, cit., p. 15.
(87) L’ambasciatore Massigli, presente alla riunione, ci riporta invece la data del 18 luglio (!), cfr. R. Massigli, Une comédie…, cit., p. 156.
(88) Idem.
(89) M-T. Bitsch, Le rôle de la France..., cit., pp. 167-168; cfr. inoltre, A. Varsori, Il Congresso dell’Europa…, cit., pp. 330-331; E. du Reau, Le MRP et la naissance du Conseil de l’Europe, in S. Berstein – J-M. Mayeur – P. Milza, Le MRP et la construction de l’Europe, Bruxelles, Complexe, 1993, pp. 67-72.
(90) A. Varsori, Il Patto di Bruxelles…, cit., p. 186.
(91) CdE, AME, Indications fournies par M. Ramadier sur sa conversation avec M. Spaak et sur les conclusions qu’il en tire quant à la méthode à employer pour la convocation de l’ASSEMBLEE EUROPEENNE, très confidentiel.
(92) CdE, AME, Lettera di E. de la Vallée-Poussin a Rebattet, Bruxelles, le 24 Juillet 1948; cfr. inoltre, M-A. Engelbel, La Belgique et les débuts du Conseil de l’Europe, in M-T. Bitsch (sous la direction de), Jalons pour une histoire du Conseil de l’Europe, Actes du Colloque de Strasbourg (8-10 juin 1995), Berne, Peter Lang, 1997, pp. 55-56.
(93) Estratto del discorso di P-H. Spaak, del 29.07.48, al Senato belga in P-F. Smets, La pensée européenne et atlantique de Paul-Henri Spaak (1942-1972), Tomo 1, Bruxelles, Goemaere, 1980, p. 147, doc. 27; cfr. inoltre, M-T. Bitsch, Le rôle de la France..., cit., p. 167; cfr. M. Dumoulin, Spaak, Bruxelles, Editions Racine, 1999, p. 418.
(94) CdE, AME, European Assembly, Recommendations submitted to Governments by the International Committee of Movements for European Unity, 18.08.48.
(95) Il Joint International Committee assumerà questa nuova denominazione solo a partire dal 25 ottobre 1948. Cfr. più avanti.
(96) European Movement and the Council of Europe, cit., p. 52.
(97) CdE, AME, Lettera di J.H. Retinger (?) a H. Hopkinson, 25.08.48.
(98) Ibidem.
(99) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série "Question générales de politiques européenne - Fédéralisme" carton 547, dossier 5, vol. 7, Telegramma di R. Schuman all’Ambasciata di Francia in Belgio del 19 .08.48.
(100) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série Fédéralisme, sous-dossier Assemblée Européenne, carton 547, dossier 5, Vol. 10, Telegramma n° 524-525 del 21.08.48
(101) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série Fédéralisme, sous-dossier Assemblée Européenne, carton 547, dossier 5, Vol. 10, Telegramma n° 527-528 del 25.08.48
(102) Sulle varie chiavi di lettura del silenzio belga, cfr. M-A. Engelbel, cit., p.56-58; M-T. Bitsch, Le rôle de la France…, cit.., pp. 174-175; dissento dall’interpretazione data da Dumoulin, il quale ritiene che Schuman non avesse fretta, ma che gli unici preoccupati fossero i funzionari del Quai d’Orsay, che probabilmente avevano travisato le sue disposizioni, cfr. M. Dumoulin, Spaak , cit., pp. 418-419.
(103) J-H. Retinger, Memoirs…, cit.., p. 223.
(104) Robert Schuman resta in carica fino al 7 settembre. L’11 settembre 1948 si formerà un governo Queuille che resterà in carica fino al 6 ottobre 1949 (Schuman sarà nuovamente nominato ministro degli Esteri), cfr. M-T. Bitsch, op. cit.
(105) European Movement & the Council of Europe, cit., p. 52.
(106) M-T. Bitsch, Le rôle de la France, cit.
(107) R. Massigli, op. cit., p.158.
(108) Il testo di questa lettera e delle altre facenti parte del carteggio Churchill-Attlee, in "The Times", U.K. and European Assembly, 26.08.48. Cfr. inoltre, M. Gilbert, cit., pp. 424-425.
(109) Ibidem.
(110) CdE, AME, Lettera di W. Churchill a Clement Attlee, 21.08.48. Cfr., invece, diversa ricostruzione dell’episodio fatta dallo stesso Churchill, in Public Record Office (PRO), Foreign Office (FO) 371, Western (Z): General (72), file n° 79212, "Lettera di W. Churchill a C. Attlee" : "My Dear PM, it is necessary that the correspondence between us about the creation of the European Assembly should now be published, and I understand that the FO will take the necessary steps to give it to the Press in the next few days. In view of the recent developments in Belgium and France I feel it necessary to add a further letter, which I now endorse". I documenti del Public Record Office, soggetti a Crown copyright, appaiono con il consenso del sovrintendente del Her Majesty’s Stationery Office.
(111) Ibidem.
(112) European Movement & the Council of Europe, cit., pp. 38-39.
(113) A. Varsori Il Congresso…, cit., p. 334; sull’atteggiamento della Gran Bretagna verso l’europeismo, cfr. D.W. Ellwood, L’integrazione europea e la Gran Bretagna, 1945-57, in R.H. Rainero, cit., pp. 417-461; R. Mayne, Jean Monnet, Europe and the British: a witness account, in B. Brivati & H. Jones, cit.., pp. 18-32; J. Pinder, European Community. The building of a Union, Oxford, Oxford University Press, 1995, pp.1-22; E. Dell, The Schuman Plan and the the British abdication of leadership in Europe, Oxford, Clarendon Press, 1995; J.W. Young, Britain and European Unity, 1945-1992, London, Macmillan, 1993; W. Kaiser, Using Europe, abusing the Europeans. Britain and European integration, 1945-63, Basingstoke, Macmillan, 1996; S. George, An awkward partner. Britain in the European Community, Oxford, Oxford University Press, 1994; S. Croft, British Policy Towards Western Europe 1945-51, in P.M.R. Stirk-D. Willis (eds.), Shaping post war Europe. European Unity and Disunity 1945-1957, London, Pinter Publishers, 1991.
(114) R. Massigli, Une comédie…, cit., p. 158; cfr. MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série Fédéralisme, sous-dossier Assemblée Européenne, carton 547, dossier 5, Vol. 10, Telegramma riservato n° 3234-36 del 02.09.48 inviato dal Massigli al MAE francese.
(115) Le obiezioni del Governo britannico erano relative a tre diversi tipi di preoccupazioni: innanzi tutto, relativamente alla conferenza preparatoria, ci si chiedeva se i delegati avrebbero rappresentato i Governi o i parlamenti; la seconda preoccupazione concerneva i poteri e il funzionamento dell’Assemblea; la terza era relativa ai problemi derivanti dall’istituzione di un’Assemblea nei rapporti con il Commonwealth, l’ONU, il Patto di Bruxelles e con gli altri trattati preesistenti. Cfr. MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série Fédéralisme, sous-dossier Assemblée Européenne, carton 547, dossier 5, Vol. 10, Document A/58, Secret, Commission Permanente du Traite de Bruxelles, Extrait du procès-verbal de la 27e séance de la Commission Permanente. Lancaster House, Londres, le 2 septembre 1948; cfr. inoltre, U. Leone, Le origini diplomatiche del Consiglio d’Europa, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 32-36.
(116) Il problema che in quel momento assillava il Quai d’Orsay era l’affaire de la Ruhr; cfr. M-T. Bitsch, Le rôle de la France…, cit., p. 198, R. Massigli, op. cit., M-A. Engelbel, op. cit.; E. du Reau, Le MRP et la naissance…, cit.
(117) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1949, sous-série Généralités, carton 547, dossier 5, Vol. 12, Commission Permanente du Traité de Bruxelles, Compte rendu de la 4ème session du Conseil Consultatif, Londres, 27-28 janvier 1949, SECRET, Doc. N° A/153 ; plus doc. A/148, SECRET, Directive adresses par le Conseil Consultatif à la Commission Permanente en ce qui concerne le Conseil de l’Europe.
(118) PRO, FO, 371, Western (Z): General, 1136, "Conversazione avuta da Sir V. Mallet con De Gasperi", Cifrato, Confidential, 05.02.49.
(119) PRO, FO 371, Western (Z): General, 1231, "Colloquio tra Gladwin Jebb e Gallarati Scotti".
(120) PRO, FO 371, Western (Z): General Western 1949, 1787, Telegramma di Montague Pollock da Bruxelles al F.O., 26.02.49
(121) Ibidem
(122) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série "Généralités" carton 547, dossier 5, vol. 14, Conférence sur la création d’un Conseil de l’Europe, Compte rendu de la cérémonie de signature, jeudi 5 mai, à 16 h., Palais de Sain-James, p. 20.
(123) Ivi, annexe, Déclaration de l’Ambassadeur de Belgique, p. 22.
(124) Ibidem, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères du Danemark.
(125) Ivi, Déclaration de M. Schuman, Ministre des Affaires Etrangères de France, p. 23.
(126) Ivi, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères d’Irlande, pp. 23-24.
(127) Ivi, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères d’Italie, p. 24; cfr. stesso doc. in Archivi Ministero Affari Esteri (AMAE), AL, b. 1384, fasc. 1, cfr. inoltre, C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma, Edizioni dell’Atlante, 1952, pp. 113-117.
(128) Ivi, Déclaration de M. Joseph Bech, Ministre des Affaires Etrangères du Luxembourg, pp. 24-25.
(129) Ivi, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères des Pays-Bas, p. 25.
(130) Ibidem, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères de Norvege.
(131) Ivi, Déclaration du Ministre des Affaires Etrangères de Suède, p. 27.
(132) Ivi, Déclaration du Secrétaire d’Etat aux Affaires Etrangères du Royaume Unie, p. 27.
(133) MAE, AD, Série Z Europe 1944-1960, sous-série "Généralités" carton 547, dossier 5, vol. 14, Conférence sur la création d’un Conseil de l’Europe, Communique en date du 6 mai 1949 sur la signature du Statut du Conseil de l’Europe.
(134) "Le Monde", le 7 mai 1949, editoriale dal titolo Le Conseil de l’Europe; cfr. inoltre la rassegna stampa del 6-7 maggio 1949 su "The Times" e su "The New York Times".
Il testo che segue è una ricerca sulle teorie umanistiche e sulla difesa dell’umanesimo nella società moderna per "superare" violenza e consumismo. Il testo analizza l’opera di Erich Fromm* come uno dei riferimenti di tale problematica umanistica sia nel campo del sociale sia in campo economico. Ovviamente mi limito a una esposizione della problematica a titolo rappresentativo di questioni che ci coinvolgono e di ardua soluzione. Come riesce l’umanesimo che professa la non violenza a difendersi dalla violenza? E su che basi è possibile un umanesimo non violento? Ne è capace l’uomo?
Introduzione
La cultura tedesca, nell’ambito della cultura europea moderna e contemporanea, è certamente la più problematica e la più rilevante come capacità di modificare gli orientamenti dell’uomo nei riguardi della realtà. Noi, in fondo, pensiamo come pensiamo perché sono esistiti Hegel, Marx, Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Einstein, tutti uomini di cultura tedesca che hanno contribuito, in modo diverso, a condizionare la nostra visione della realtà. Hegel è il primo a stabilire che ciò che esiste è una realtà spirituale, globale, dinamica, drammatica, sempre in mutamento contraddittorio (dialettico), per cui non c’è una storia che abbia dei valori perenni; i valori, le concezioni mutano con il mutare dello Spirito.
Lo Spirito nega continuamente se stesso, afferma continuamente se stesso, va sempre avanti. Ogni epoca ha una sua razionalità. La razionalità di un’epoca è quella che corrisponde allo Spirito dell’epoca. Chi non riesce a vivere lo Spirito dell’epoca, si isola dal suo tempo, quindi s’isola dalla razionalità (la cosiddetta "coscienza infelice").
Marx accoglie la dialettica, ma non ritiene il mutare della storia come mutare dello Spirito nel tempo, il mutare della storia deriva dal mutare della struttura economica. Secondo Marx al mutare della struttura economica, mutano anche le ideologie degli uomini che sono strettamente dipendenti dalla struttura economica.
Su questa dipendenza della nostra ideologia dalla struttura economica, si discute molto. E’ una dipendenza determinista? Di influsso? Di condizionamento ma non determinista? A noi questo interessa relativamente. Sta di fatto che Marx non si accontentava di affermare che c’è lo Spirito nel tempo e del tempo che cambia continuamente. Secondo Marx cambiando gli strumenti di produzione cambiano i rapporti di produzione, cambiano le classi e quindi le concezioni e le ideologie delle classi (teoria detta: materialismo storico).
Contro queste concezioni, abbiamo quelle di Schopenhauer e, poi, di Nietzsche, i quali negano totalmente il processo della razionalità come l’avevano inteso Hegel e Marx. Hegel e Marx ritenevano che lo sviluppo dello Spirito, si tratti di Spirito come tale o di Spirito condizionato dalla struttura economica, era un processo razionale; una continua affermazione della Ragione.
Per Schopenhauer è impossibile che sia così. Le forze costitutive dell’uomo sono forze irrazionali, dovute alla volontà di vivere. Tutto ciò che noi pensiamo, è condizionato dalla volontà di vivere, dai desideri e dalle passioni. La ragione, quindi, è, eventualmente, una razionalizzazione, non è razionalità. Lo stesso per Nietzsche.
Nietzsche a differenza di Schopenhauer non ritiene che sia la volontà di vivere la base costitutiva dell’uomo, bensì la volontà di potenza, la quale determina una differenza radicale secondo come è posseduta da ciascun uomo. Tutti cercano d’imprimere nella realtà il loro segno (potenza), ma c’è chi lo fa in maniera vitalistica e chi invece lo fa in maniera mortuaria, afflitta: il signore ed il gregge.
Il signore crede in se stesso, crede nella sua forza vitale. Il gregge non crede nella sua forza affermativa, si afferma negando la vita. Siccome il gregge non è capace di vivere, sostiene che la vita va negata, per questo concepisce Dio, un al di là, ritiene che chi si afferma in questo mondo non vale niente; nasce il Cristianesimo, il Comunismo ecc.. Nasce la ribellione dei più deboli che da singoli nulla possono, ma organizzati sono una grande forza.
E siamo a Freud. Filosoficamente Freud deriva da Schopenhauer e da Nietzsche. L’Inconscio (l’Es) di Freud è la volontà di vivere e la volontà di potenza, le quali si biforcano in una volontà vitale, Eros, e in una mortuaria, Thanatos.
Nell’istante in cui io riduco il mondo a nulla, a stasi, c’è comunque un’affermazione di potenza. Nell’istante in cui uccido la vita intorno a me non facendo vivere né vivendo (non dico: uccidendo), compio un’affermazione negativa della vita. Nell’Eros, invece, c’è l’affermazione vitale, il gioco, il combinare sempre nuove avventure, la voglia di osare, di guardare il mondo rivestito delle sensazioni e dei colori della vita.
La Teoria Critica (Scuola di Francoforte), nasce in questo clima culturale, dobbiamo tenere in considerazione anche il momento storico in cui vissero i teorici della Scuola di Francoforte. Anche se il momento storico condiziona tutto e nulla; nello stesso momento storico ci sono uomini che la pensano nella stessa maniera, altri che la pensano in modo completamente opposto. Quindi il momento storico non può essere considerato decisivo e fondamentale. Qual è, in ogni caso, il momento storico al quale ci riferiamo? Ci riferiamo alla fase successiva alla Prima Guerra mondiale.
La Germania ha perduto la guerra, l’Austria ha perduto il suo impero; c’è la sconfitta degli Stati Centrali. Si sono avute guerre civili e tentativi di rivoluzioni sociali. La Germania è stata smembrata, vive una crisi completa dopo il 1929 (crollo di Wall Street). Il proletariato è nella massima disperazione. Assistiamo a tentativi di rivoluzione comunista e a tentativi di stato autoritario. Era già sorto il Nazionalsocialismo, razzista, dittatoriale, militarista, imperialista, revanscista..
Intellettuali ebraici, i quali di per sé hanno sempre avuto un atteggiamento critico nei riguardi del potere, per ragioni legate sovente alla loro emarginazione, si che considerano il potere come autoritario e negativo, facendoli schierare con le minoranze ed i ceti perseguitati; ebbene alcuni intellettuali ebrei decidono di formare un gruppo che analizzasse i fenomeni della società.
Nasce in questo contesto storico e culturale, dicevo, la Scuola critica di Francoforte, precisamente la Teoria critica. Il termine critica (critik) è un termine decisivo nella cultura tedesca. E’ un termine specificamente tedesco. Si usa anche in altri paesi, ma in lingua germanica assume un significato preciso e particolare.
Il termine è legato specialmente a Kant, che scrisse: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica del giudizio, tre opere che propongono un atteggiamento d’analisi pregiudiziale nei confronti della realtà e dell’uomo stesso. Critica significa valutazione, osservazione, analisi, vaglio della realtà. Non va intesa nel senso comune del termine cioè di giudizio negativo, piuttosto, ripetiamo, come analizzare, vagliare, osservare, non lasciarsi andare ad un’adesione sentimentale nei confronti della realtà. Il sentimento non deve prevalere sulla ragione.
Nasce la spaccatura tra ragione e sentimento. Il sentimento ci può fare aderire anche a situazioni errate, dannose. L’atteggiamento nei confronti della realtà deve essere razionale, da ciò il controllo sul sentimento, sull’intuizione, sull’immedesimazione. Tutta la teoria critica è basata su quest’aspetto fondamentale. Bisogna vagliare, analizzare, esaminare, mai abbandonarsi all’intuizione, al sentimento, all’irrazionalità, perché questo significa non sapere dove si va a finire. Bisogna essere critici anche verso la ragione. Questo è il punto essenzialissimo. Bisogna prendere le distanze.
Questo tipo di ragione fu messa in ridicolo da Hegel, il quale si chiede: come fa la ragione a giudicarsi con la ragione critica? Ciò costituisce una contraddizione in termini. La ragione non può dare un giudizio su di sè. La ragione è il fare della storia. Per Hegel non c’è la ragione dell’uomo bensì la ragione della storia, dello Spirito. E’ la storia che nel suo farsi che è razionale. La ragione di Hegel è oggettiva, mentre quella di Kant è soggettiva (anche se trattasi di un soggettivismo universale).
La Teoria critica s’innesta in tale problematiche. Essa ritiene che non si deve vivere di sentimenti, di passioni, d’emozioni, e questo contro Schopenhauer e Nietzsche, i quali avevano sostanzialmente negato il valore della ragione. Per Schopenhauer e Nietzsche la vita è volontà di vivere, volontà di potenza, che posto può avere la ragione in tutto questo? L’uomo vive trascinato dalla volontà, la ragione conta poco, è uno strumento della volontà di vivere o della volontà di potenza. Non costituisce la guida.
La Teoria critica nega questa posizione, secondo la Teoria critica non si può assegnare un ruolo subalterno alla ragione. Come mai questo ritorno all’atteggiamento critico? Anche se le spiegazioni storiche non bastano, non dobbiamo però dimenticare che siamo nell’epoca dei grandi capi politici, delle grandi masse. L’intellettuale aveva una posizione difficile, nell’epoca dalle masse e della politica delle masse. Fu Karl Mannheim, un sociologo, a capire questa situazione.
Per Mannheim è l’intellettuale che sa cogliere criticamente i fenomeni sociali, la base sociale delle proprie ideologie, senza aderirvi passionalmente, inconsapevolmente. La Teoria critica attualizza la posizione di Karl Mannheim: vedere i processi conoscitivi, vedere come si formano le concezioni e definirli non in maniera passiva, aderendovi, ma in modo critico, analitico, distanziato.
La Scuola di Francoforte (Teoria critica) nasce in Germania dove le istanze irrazionalistiche, sia attraverso la filosofia di Schopenhauer e di Nietzsche, sia attraverso i grandi movimenti di massa, stavano diventando predominanti. Dopo qualche anno dal suo sorgere, poiché nel 1933 sale al potere Hitler, gli intellettuali della Scuola di Francoforte, ebrei, lasciarono la Germania e si raccolsero quasi tutti negli Stati Uniti dove continuarono il lavoro iniziato in Germania. I più rappresentativi saggisti della Teoria critica furono Horkheimer, Adorno, Marcuse, Fromm.
Negli Stati Uniti inizia la seconda fase della Teoria critica; la dobbiamo tenere in considerazione come necessaria introduzione a Fromm. Il collegamento tra le concezioni di Marx, Schopenhauer, Nietzsche, Hegel con la cultura americana, rappresenta un impatto decisivo: la grande e complessa cultura europea viene in contatto con lo sviluppo avanzatissimo della società americana. Gli intellettuali tedeschi della Scuola di Francoforte, colsero una società totalmente diversa da quella in cui avevano vissuto.
Si trovarono di fronte una società di potentissime corporations, d’enormi gruppi industriali e finanziari, un proletariato non più rivoluzionario, inserito nel sistema dei consumi. Capirono che le formulazioni europee non si addicevano alla società americana.
Da quest’incontro della complessa cultura europea e della possente società produttiva americana, nascono le opere di Horkheimer e di Adorno, di Marcuse e di Fromm. Cosa nasce esattamente? Il tentativo di salvaguardare l’eredità culturale europea in una società che spazzava via quest’eredità, e che forniva il modello anche per il futuro delle società europee.
Tutto ciò rappresenta la grande avventura della Teoria critica, tenendo però conto che Horkheimer, Adorno, Marcuse, e Fromm, si differenziano notevolmente. In Adorno prevale l’aspetto critico; in Marcuse c’è un’aspetto propositivo, ma il più propositivo di tutti è senz’altro Fromm, che vuole salvare l’eredità dell’umanesimo europeo anche nel mondo della tecnologia, del consumismo e dell’integrazione del proletariato com’è proprio della società americana e, in genere, del capitalismo avanzato. Il suo tentativo di umanesimo, come vedremo, è il più insistito.
Horkheimer e Adorno, forniscono alla Teoria critica il libro più famoso e fondamentale della Teoria critica stessa: Dialettica dell’Illuminismo. Per comprendere questo libro bisogna rifarsi a Max Weber. Weber aveva teorizzato che la sociologia deve essere una scienza critica, vale a dire una scienza di comprensione critica dell’agire sociale dell’uomo, non un’immedesimazione nell’agire, ma un distacco, consapevole dei motivi dell’agire.
In fondo siamo già nella Teoria critica, la cosiddetta "Sociologia comprendente", di Weber è una sociologia che comprende i motivi dell’azione. Mentre l’uomo normale agisce senza comprendere, il sociologo comprende i motivi dell’azione. Siamo già nella Scuola critica, dicevamo.
Ma il punto basilare delle concezioni di Max Weber, per cui egli è passato alla storia del pensiero del XX secolo come uno dei padri costitutivi di esso, è nell’accentuazione di ciò che fin dall’800 era stato enunciato: che la società diventava una società razionale, e la ragione consisteva non tanto nella giustizia, nella verità vale a dire in un valore sostanziale della ragione, né in una ragione attuata nello svolgimento della storia, come per Hegel, piuttosto nell’avvento del valore strumentale della ragione, quale mezzo per il raggiungimento degli scopi.
E’ razionale il mezzo adeguato al fine. La razionalità moderna consiste nella finalità raggiunta con mezzi adeguati. Weber riteneva che la burocrazia fosse l’espressione per eccellenza di questo processo che avveniva anche nel settore industriale. Nel libro Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer ed Adorno sostengono che l’Illuminismo nel momento in cui pone la Ragione a fondamento dell’agire umano, pone la premessa del dominio razionale degli strumenti di produzione, della razionalità dei processi produttivi, i quali s’impongono all’uomo.
Pertanto la ragione si è spostata, dalla razionalità dell’uomo alla razionalità della produzione. La situazione è degradata. La razionalità risiede nelle strutture produttive che, però, strumentalizzano l’uomo, facendone uno strumento del sistema produttivo. Non è la ragione dell’uomo ad imporsi agli strumenti, bensì la ragione e la razionalità degli strumenti ad imporsi all’uomo. L’uomo è diventato una macchina tra le macchine. La dialettica dell’Illuminismo è una dialettica di asservimento dell’uomo.
In Dialettica dell’Illuminismo Horkheimer e Adorno, a loro giudizio, stabiliscono come la ragione illuminista sia diventata, trasferendosi nei sistemi produttivi una prigione per l’uomo. Nei sistemi industriali, moderni, tanto che siano capitalistici in senso proprio che socialisti, non c’è scampo e possibilità di uscire dal dominio della razionalità degli strumenti. Solo l’intellettuale comprende questi processi di asservimento e quindi li critica, cerca di denunciare la situazione.
Nasce la figura dell’intellettuale come colui che non è asservito o che è l’unico capace di far luce sull’asservimento (teoria di Mannheim). La Scuola di Francoforte porta all’estreme conseguenze questa convinzione.
Dialettica dell’Illuminismo non lascia scampo alla società moderna. I processi produttivi di razionalità coinvolgono la sfera globale della società; l’uomo non ha la capacità di modificare o guidare questi processi produttivi razionali che strumentalizzano tutto e tutti ai loro scopi (l’azione razionale rispetto allo scopo teorizzata da Weber); la produzione s’impone all’uomo e il sistema produttivo fa strumento di sé l’uomo (come aveva teorizzato Marx), coinvolgendo anche il proletariato che non ha disposizione rivoluzionaria. Siamo quindi a una totale strumentalizzazione dell’uomo. E in tal senso Marx sarebbe "superato" perché il proletariato non è più rivoluzionario.
L’Illuminismo si è capovolto, da concezione in cui l’uomo guidava se stesso con la ragione a concezione in cui la ragione è degli strumenti, è un processo razionale di mezzi e scopi non della ragione nel senso di trovare valori: giustizia, umanità e cosi via, ripeto.
Adorno accentua quest’aspetto in un’opera di ricerca su La Personalità autoritaria, precedente a Dialettica dell’illuminismo. L’opera La Personalità autoritaria cerca di dimostrare attraverso parametri (le cosiddette "scale"), sulla formazione dei ragazzi, che costoro, se hanno avuto un padre autoritario, tendono a volere anch’essi l’autorità, l’obbedienza. Chi ha avuto un padre autoritario è abituato ad obbedire e vuole che gli altri obbediscano come ha obbedito lui.
Quindi si diventa autoritari con gli altri per volerli servi come lo è stato il soggetto che ha subito l’autorità. Si spiegherebbe in tal modo la massificazione della società.
Successivamente, Adorno svolse delle analisi sulla società capitalistica avanzata; se è vera la premessa che abbiamo scritta, che la società moderna capitalistica è una società di razionalità che asservisce l’uomo, e se è vero che in una famiglia con padre autoritario nasce la tendenza all’autoritarismo, è vero anche che la società capitalistica è oltre che una società di produzione una società di consumi, il che causa quella che Adorno chiama la "cultura di massa", la società dei consumi di massa. La società in cui pure la cultura è "consumata" come una qualsiasi altra merce, anche la cultura è ridotta a merce.
Queste concezioni e questi termini furono coniati dalla scuola di Francoforte e particolarmente da Adorno. Che significa tutto questo? Che la cultura è consumata dalle masse. La cultura si adegua alle masse per essere consumata. E’ questo un importantissimo evento: anche la cultura viene adeguata alle masse perché trovi il massimo consumo come qualsiasi altra merce. La cultura è trattata con i metodi delle merci comuni.
Da ciò la reclàm, la facilitazione, la diffusione quantitativa, il primato del valore di scambio su quello d’uso, e così via. L’uomo non è soltanto strumento degli strumenti, ma diventa appendice del consumo. Non basta dire che l’uomo è strumento degli strumenti, bisogna anche dire che l’uomo, in genere, diventa un accessorio della capacità della tecnologia di produrre consumandone la produzione.
Non si produce perché l’uomo ha bisogno, ma l’uomo ha bisogno perché si produce, si suscitano bisogni condizionati. Siccome il sistema è capace di produrre occorre accrescere i bisogni. Dall’uomo strumento all’uomo consumatore. Questo il passaggio d’epoca sottolineato da Adorno. Oggi le cose stanno cambiando ma vedremo che Fromm riprende in pieno questo argomento, e giunge alla denominazione di homo consumens.
Ci sarebbe da dire che questa analisi di Adorno in questo nostro momento non è più valida perché oggi vi è la crisi dei sistemi capitalistici di consumo, il che rileva quanto siano "storiche" le analisi sociologiche. Per Adorno, in ogni caso, il proletariato vive questa integrazione sia strumentale sia consumistica, per cui non c’è da concepire che il proletariato possa fare la rivoluzione. Non solo, ma tutta l’arte è sottoposta al problema del consumo, e quindi fatta per essere consumata.
Perfino la stessa grande arte è subordinata al consumo. Per Adorno bisogna inventare un’arte non soggetta al consumo: l’arte d’avanguardia, l’arte che infrange i normali canali di comunicazione. Arte che non si fa capire, oscura, ecc.. L’unica possibilità di sottrarsi alla massificazione è l’atteggiamento critico dell’intellettuale: lo spazio critico dell’intellettuale, tenuto conto che la rivoluzione o il mutamento non è più possibile (su ciò vedremo come Fromm ha idee diverse).
In un libro ultimativo: Dialettica del negativo, Adorno ritiene che nei confronti della realtà bisogna avere un atteggiamento negativo, bisogna sempre criticarla. L’atteggiamento deve essere dialettico ma solo negativo. La dialettica della negazione. Non la dialettica hegeliana. La dialettica hegeliana era Tesi-Antitesi-Sintesi. Quella di Adorno, invece, è la dialettica della pura negazione. Adorno aveva tale diffidenza della realtà che integrava tutti, che per lui bisognava negare, criticare, stare sempre sull’avviso della negazione.
Herbert Marcuse, altra figura notevole della scuola di Francoforte, nelle sue opere fondamentali Eros e civiltà, L’uomo a una dimensione, Ragione e Rivoluzione, riprende la stessa situazione analizzata da Adorno, cioè l’integrazione che il lavoratore subisce nella società ad alta tecnologia ed avanzata produttività.
Marcuse è dell’idea che la Ragione sia Ragione in quanto critica della realtà. E quindi la Ragione è critica rivoluzionaria, essa è vista come perenne progresso dell’affermazione della razionalità nella realtà. Per Marcuse questa ragione rivoluzionaria, critica non ha più come soggetto rivoluzionario il proletariato in quanto la società capitalista lo ha integrato (in questo tutti coloro che si riconoscono nella Teoria critica sono concordi ed è un elemento cruciale).
Ma esistono ceti ancora rivoluzionari giacche non inseriti nel sistema produttivo capitalistico? Marcuse ritiene che esistano: barboni, negri, ebrei, omosessuali, studenti, extracomunitari ecc.. Coloro i quali non sono ancora integrati nel sistema del consumo possono avere margini di razionalità ossia di rivoluzione. Quindi la razionalità rivoluzionaria esiste ancora. Questa tesi Marcuse la esprime in Ragione e rivoluzione.
Nel libro Eros e civiltà, Marcuse vuole indicare quali sarebbero le conseguenze della rivoluzione razionale. Il sistema produttivo capitalistico nell’epoca del suo sviluppo tecnologico avanzato potrebbe darci una grande fase di ricchezza, potrebbe produrre incredibilmente. Invece siccome è il lavoro la base della produzione capitalistica, il capitalista non ha nessuno interesse a produrre con le macchine.
Vuole produrre (sfruttare) con il lavoro. Quindi vuole mantenere il lavoro come base della produzione. Creando delle strozzature perché nel momento in cui il lavoro non è alla base della produzione, voler produrre con il lavoro significa creare una contraddizione insanabile.
Il capitalista crea in tal modo la "repressione addizionale". La vita sociale esige la repressione (Freud), ma c’è una repressione addizionale che consiste nel fatto di voler far lavorare massimamente pur di estorcere lavoro. Bisogna invece dare vita a una società dove si lavori di meno, si produca di più dedicando il tempo all’eros, al gioco e all’amore. Marcuse, come si nota, resta nell’ambito del capitalismo modificato.
I caratteri della modifica riguardano la diminuzione del tempo del lavoro, l’aumento della produttività e una diffusione sociale della produzione.
Ne L’uomo a una dimensione, Marcuse ribadisce il rischio dell’integrazione passiva dell’uomo che avviene sia nel sistema capitalistico sia in quello comunista.
L’uomo perde la facoltà critica (l’uomo ha una sola dimensione), si integra nel sistema e quindi non ha tendenza alla ribellione. Marcuse oscilla, dunque, tra ribellione degli emarginati e l’ipotesi di una società erotico-ludica stabilita attraverso la diminuzione del tempo di lavoro e l’eliminazione della repressione addizionale e la realtà di un uomo integrato e sottoposto alla negazione di ogni facoltà critica, sia nella società capitalistica avanzata sia nella società comunista.
Adorno, Horkheimer e Marcuse certamente hanno un intento di difesa dell’uomo. Adorno cerca di difendere l’uomo dalla possente influenza dei consumi, dall’induzione agli acquisti falsificati, del farsi appendice dell’economia come consumatore più che soggetto umano, sotto il dominio dello scambio. Un uomo cui nulla interessa, un uomo che fa ciò che fa sollecitato a fare non per una stimolazione interna, piuttosto indotto dalla reclamizzazione consumistica.
L’atteggiamento d’Adorno è completamente negativo. Di fronte a questa situazione bisogna dire "no" e soprattutto creare manifestazioni che interrompono il circuito del consumo, dell’arte banalizzata e massificata, per un’arte d’avanguardia, dal linguaggio difficile, dal linguaggio frantumato, incomprensibile alle masse, sottratta alle masse.
E’ una posizione per pochi. Questa posizione non si può diffondere, sarebbe contraddittorio che le masse fruiscano dell’arte d’avanguardia. Se lo facessero vorrebbe affermare che anche l’arte d’avanguardia è divenuta consumo (com’è avvenuto, di fatto, perché anche l’avanguardia è diventata un elemento di consumo. Ma questo Adorno non l’immaginava).
Del resto il consumo ha reso merce anche la rivoluzione, si vedano la vendita delle merci con i ritratti di Mao, di Che Guevara.
Nel pensiero di Adorno la "soluzione" non c’è perché l’elemento del consumo (che è la terrificante condizione della nostra società), ha assorbito anche i suoi elementi antagonisti.
Marcuse, invece, supponeva una rivoluzione fatta dai marginali, rivoluzione che si è dimostrata impossibile, in quanto il marginale è rimasto tale e non ha portato la rivoluzione. Jurgen Habermas, da molti considerato un epigono della Scuola di Francoforte, si pone anch’egli la questione se nella società a capitalismo maturo, nella società con potenti mezzi di comunicazione etero-direttivi, nella società burocratizzata, nella società in cui è prediletta l’azione razionale volta allo scopo (Weber); si può in questo mondo della razionalità burocratica, utilitaristica, si può avere la possibilità di un dialogo umano? Si può stabilire un rapporto umano non distorto dal potere e capace di fondare l’intesa?
Habermas sposta l’interesse verso la cosiddetta azione comunicativa. Ritiene che alla base della società moderna ci sia la comunicazione. L’azione comunicativa può essere razionale rispetto a un fine e a un valore. Nell’un caso e nell’altro l’umanità dell’interazione (rapporto Ego-Alter cioè io e tu), non c’è. Perché? Perché l’azione razionale rispetto allo scopo considera l’altro uno strumento per il suo scopo. Lo stesso dicasi dell’azione razionale rispetto al valore, anche in tal caso io impongo il valore al di là e al di sopra dell’altro.
Quindi le due tipologie dell’azione, che sono le due tipologie dell’azione teorizzata da Weber (Weber ne teorizzava quattro, le prime due sono quelle riferite da Habermas), non fondano relazioni umane, non fondano intese.
Che bisogna fare, che spazio c’è per l’intesa? Habermas concepisce un’azione drammaturgica nella quale i soggetti entrano in rapporto puramente dialogico e conversativo e non si sottraggono alla conversazione anche se sono di parere diverso.
La finalità di questa azione drammaturgica comunicativa è l’intesa. E quando pure non c’è intesa gli interlocutori rimangono sul piano dell’argomentazione. Io non la penso come te però mi sforzo di dimostrarti perché ho ragione io (rapporto dialogico nel quale ciascuno fonda con argomentazioni le sue ragioni, e non esce dalle argomentazioni e tenta di pervenire all’intesa).
Lo scopo ultimo della vita è l’intesa, dice Habermas, almeno con un soggetto. Secondo Habermas è questo scopo che salva l’umanità in un’epoca di burocratizzazione, di razionalità utilitaristica, nella quale si rischia di eliminare il dialogo.
Tutte le teorie fin qui esposte devono essere considerate in rapporto alle teorie contro cui esse si scagliano che non sono soltanto il totalitarismo comunista o nazista, la società dei consumi o il capitalismo maturo monopolistico. L’avversario costitutivo della Teoria critica (a parte il totalitarismo comunista e nazista e il capitalismo maturo), è il cosiddetto "Funzionalismo". Esattamente il funzionalismo di Talcott Parsons.
Cos’è il Funzionalismo? Secondo alcuni è la tipica concezione della società americana. Società dove il problema dell’integrazione è il problema essenziale, tenuto conto che si tratta di un paese multietnico, multirazziale.
Una società, anche, ad alto tasso di razionalità, ad alto tasso di efficienza, e altissimo tasso di socializzazione, proprio perché, essendo, quella americana, una società formata da diverse etnie e culture, se non c’è una forte socializzazione unitaria, il paese resterebbe frantumato.
Ma l’integrazione può causare un fortissimo tasso di conformismo, un fortissimo tasso di ossequio e di osservanza dei valori costitutivi della società.
Da questo punto di vista, la società americana era l’esatto opposto di quello che la Scuola di Francoforte voleva: il consumismo, l’integrazione, l’ossequio alle grandi strutture monopolistiche dei mezzi di comunicazione, l’abbassamento della qualità culturale del paese, l’adeguamento di tutti all’uomo massa e la creazione dell’uomo massa creavano un circuito da cui non si usciva e che era stato denunciato anche da Charles Wright Mills e da Robert Lind e da altri.
Chi sono gli esponenti di questa scuola teorizzatrice dell’integrazione sociale come fondamento della società? Specialmente, ripetiamo, Talcott Parsons. Parsons è uno strenuo sostenitore dell’integrazione sociale. Per Parsons la società esiste in quanto ci sono dei valori diffusi e in quanto i soggetti assorbono questi valori diffusi, per cui i loro comportamenti sono regolati da precise canoni istituzionalizzati. La società crea vari sistemi per integrare l’individuo.
Il sistema politico, il sistema dell’economia, il sistema della religione, il sistema giuridico hanno lo scopo funzionale di esprimere e soddisfare dei bisogni. La società è istituzionalizzata. E le istituzioni hanno lo scopo funzionale di rendere la società efficiente e soddisfatta in ogni campo.
Perché c’è la religione? Perché l’individuo pensando all‘aldilà è meno di-sposto a soffrire le privazioni nell’aldiquà. Perché c’è la politica? Per soddisfare i bisogni dei cittadini. Perché c’è l’economia? Per elaborare modalità appropriate ai bisogni. Perché c’è il diritto? Per integrare il soggetto in delle norme precise e riconoscibili. Quindi le società forgiano sistemi ciascuno dei quali adempie ad una funzione specifica.
Funzionalismo significa che la società ha delle funzioni che nascono perché esistono dei bisogni, e le funzioni sussistono perchè soddisfano i bisogni, ripetiamo. La società è un insieme di sistemi creati dai bisogni, e i sistemi funzionano per soddisfare i bisogni.
La funzione fa il circuito di se stessa. Motivata dai bisogni, li soddisfa e, soddisfandoli, rende attiva la funzione e necessaria la funzione. Non c’è nulla di gratuito nella società, tutto ciò che esiste ha una funzione. Ogni individuo ha una funzione e le adempie secondo attese socialmente verificabili. Un individuo è studente? Quindi, ha lo status di studente ed il ruolo di studente.
Status è la condizione (studente), ruolo è l’attesa che gli altri hanno da quello status (da uno studente l’attesa sociale è che studi). Una persona si deve laureare? La società prescrive delle regole precise per laurearsi: sostenere gli esami, sviluppare una tesi ecc.. Sono tutte condizioni prescritte, istituzionalizzate.
L’azione sociale dell’uomo, è un’azione altamente istituzionalizzata. E’ come una freccia che raggiunge il bersaglio. Secondo i teorici della Scuola di Francoforte, questa concezione è una teoria del conformismo, dell’integrazione; non lascia margini all’uomo se non di integrarsi, non consente la critica.
Se l’uomo esiste per funzionare secondo i ruoli posti dalla società, non c’è spazio per la critica. Da ciò l’attacco a Parsons, come teorico di una società conformista, riproduttiva di se stessa, sostanzialmente bloccata, paralizzata nella ossequienza ai valori costituiti istituzionalizzati.
Niklas Lhumann porta a conseguenze estreme la tesi di Parsons: la società è l’insieme di funzioni istituzionalizzati e di comunicazione dei suoi sistemi. Esiste il diritto, la medicina, l’economia… Il medico, l’avvocato sono varianti soggettive e psicologiche del diritto e della medicina, come individui non rilevanti per la società.
Ogni sistema ha dei suoi valori che non possono riferirsi a un altro sistema. Non esiste un sistema dei sistemi, un valore dei valori, un giudizio supremo dei giudizi. Ogni sistema è se stesso e si manifesta nella sua differenziazione.
Tesi veramente radicale e cinica. C’è da fare tuttavia una piccola aggiunta. Il funzionalismo pone il soggetto sociale dinanzi alla responsabilità della funzione. E la responsabilità della funzione non è che si possa eliminare con il dover essere o con un’astratta rivolta. Quando Parsons afferma che una società esiste in quanto ci sono dei ruoli e delle funzioni, dice qualcosa di assai realistico. Quando Lhumann afferma che nella società l’individuo è coperto dai sistemi, i quali agiscono come sistemi, certamente pone l’individuo subalterno al sistema; però sarebbe altrettanto velleitario fare dell’uomo un soggetto che non tiene in conto la realtà strutturale dei sistemi.
Una società dove non si esercitano le funzioni, non esiste. Resta la questione di criticare e di non subire il sistema. Ci dedicheremo appunto adesso alla analisi di un tentativo di valorizzazione dell’uomo in modo critico nei confronti di sistemi che tendono, invece, alla funzionalità e a non tener conto delle esigenze umane.
Lo sforzo di Erich Fromm, di cui scriveremo, è quello di salvare l’umano in un sistema che esiste solo per se stesso e solo come funzione, indipendentemente dal valorizzare l’uomo.
L’Umanesimo e la libertà in Fromm rappresentano i due aspetti di questa lotta contro il dominio del sistema, della funzionalità, della massificazione consumistica e produttivistica, della riduzione dell’uomo a funzione dei sistemi e ad appendice consumistica della loro produzione.
Ciò che abbiamo esposto in questa "Introduzione" è un tracciato rapido delle diverse maniere di considerare e proporre la Ragione o la ragione nell’epoca moderna. Come è noto anticamente e fino al Settecento la ragione aveva un valore sostanziale nel senso che era razionale ciò che conteneva la verità, il giusto, il bene. Questa valutazione detta sostanziale della ragione si spinge fino all’Illuminismo e a Kant, sebbene in quest’ultimo la ragione assume anche, lo abbiamo detto, un significato di autoanalisi, di autovaglio per accertarne le capacità conoscitive. Con Hegel la Ragione mantiene il suo carattere sostanziale ma una sostanzialità storica. Non più il vero, il giusto, il bene in generale piuttosto ciò che è vero, giusto, bene in una determinata epoca storica. Lo stesso accade con Marx. Schopenhauer e Nietzsche ritengono che non esistano determinazioni razionali né per la vita del singolo né per la vita storica dei popoli: siamo in balia della volontà di vivere e della volontà di potenza, non vi è la benchè minima affermazione progressiva della Ragione. È con Weber che tutto questo modo di considerare la ragione o la Ragione crolla. Weber ritiene che per i moderni o per i modernissimi la ragione non presume di cogliere né il vero, né il bene, né il giusto né a carattere universale né a carattere storico progressivo. La ragione dei modernissimi è solo un accorto uso dei mezzi per i fini, chi riesce a impiegare mezzi idonei ai fini è razionale. Questa concezione appare ai teorici di Francoforte decisiva per interpretare la nostra epoca: non c’è più razionalità sostanziale che cerca e trova verità, giustizia, bene piuttosto razionalità strumentale che sa impiegare mezzi per fini, un delitto ben compiuto diventa in tal senso razionale. I teorici di Francoforte fanno risalire questa concezione della razionalità strumentale all’Illuminismo, il quale si sarebbe incarnato nella razionalità dei sistemi produttivi industriali. A tal punto l’uomo scompare, diventa meccanismo del sistema produttivo, strumento degli strumenti, funzione del "sistema" (da ciò la critica al funzionalismo) e, da ultimo, funzione consumatrice dei sistemi produttivi che riducono perfino la cultura a merce. C’è possibilità di rifondare l’uomo al di là della sua strumentalità nei sistemi produttivi e consumistici? Erich Fromm tenta questa possibilità.
I. L’alienazione in Erich Fromm
Inizieremo questa nostra esposizione trattando il tema dell’alienazione in Erich Fromm. Fromm dedicò gran parte di tutta la sua opera a questo argomento e, in contrapposizione, al tema della ricostruzione umanistica dell’uomo. Vedremo i modi diversi di alienazione, l’uomo può alienarsi o subire alienazione in vari campi. Resta, e lo anticipiamo giacchè è punto basilare, che l’alienazione, per Fromm, non è insanabile, per questo è non solo possibile ma obbligatorio volgere i nostri sforzi a salvare la società: perché è possibile salvarla.
Se l’alienazione fosse insormontabile ogni sforzo sarebbe inutile. Ma essendo risolvibile, l’alienazione, occorre impegnarsi a vincerla. Vedremo su quali dimostrazioni Fromm pone le sue opinioni. D’altro canto noi dobbiamo partire dalla alienazione e dalla opinione di Fromm che essa sia superabile. Analizzeremo, dunque, come e perché in Fromm l’uomo è alienato e l’eliminabilità, a suo giudizio, dall’alienazione.
L’alienazione è in Fromm un tema ossessivo. Egli la considera la sconfitta della civiltà. Che cosa Fromm intendesse per alienazione lo dobbiamo trarre da Marx, da Freud, che sono gli autori centrali nella ricerca di Fromm, e da tutta la cultura umanistica, anche se il termine umanistico è generico, lo intendiamo come difesa di alcuni elementi costitutivi dell’uomo, senza i quali l’uomo cade nella barbarie.
Ora, l’alienazione così come Fromm la intende è la perdita di sé, evidentemente, il termine stesso alienazione significa questo, esplicitamente, una perdita di sé dovuta a varie ragioni. C’è l’alienazione nel campo del lavoro quando il profitto diventa predominante per il proprietario, quando il lavoratore è assoggettato al capitale, quando il capitale non tiene minimamente in conto dei bisogni umani del lavoratore ma tiene esclusivamente all’utile economico anche contro l’uomo, quando il consumo costituisce lo scopo della vita.
Vi è poi l’alienazione dei sentimenti, diciamo, l’alienazione della vita affettiva, il non vivere l’amore ma piuttosto il sadismo, la distruttività che ha il suo estremo nel narcisismo necrofilo, come lo definisce Fromm.
Vi è poi l’alienazione politica, nel senso che l’individuo ha paura di essere libero venendo a mancare gli strumenti associativi intermedi poiché la società capitalistica o borghese individualizza l’uomo, lo rende isolato, uno a uno, in tal caso la mancanza di legami, di piccole associazioni capaci di rispettare la dimensione dell’individuo, rende l’individuo medesimo impotente, in balia del potere totalitario al quale spesso il soggetto si lega, si stringe, si consegna per paura della solitudine e della libertà.
In linea di massima l’alienazione è la "caduta", diciamo, della società moderna ed è la "caduta" della società moderna o perché in essa non vi sono degli organismi intermedi, o perchè l’economico prevale su tutto, o perchè i rapporti umani sono annullati dall’interesse, dalle rivalità, o perchè la frustrazione genera il sadismo…
Occorre precisare che l’alienazione per Fromm non è soltanto alienazione dei ceti sottomessi, dei lavoratori, se esiste un’alienazione della povertà e del lavoro sfruttato esiste anche un’alienazione di chi sfrutta il lavoro, della di-sumanizzazione di chi sfrutta e non sa fare altro e non sa costituire rapporti umani, questa la concezione ripresa da Marx. Quindi, lo si diceva, l’alienazione, nella società moderna, è completa ed onnipervadente.
Come accennato tra le forme di alienazione la peggiore, per Fromm, è la distruttività. Alla distruttività Fromm ha dedicato non soltanto un libro: "Anatomia della distruttività umana", ma pressoché in ogni suo testo qualche considerazione è rivolta alla distruttività. Vi è anche una motivazione storica per questa persistente attenzione di Fromm verso la distruttività.
II. L’alienazione psicologica: la distruttività
Fromm era dovuto andare via dalla Germania per questioni razziali, iniziava la persecuzione degli Ebrei per opera dei nazisti e segnatamente dell’uomo che a suo giudizio incarnava l’alienazione più completa ossia Adolf Hitler. In Hitler – e in Stalin, come diremo Fromm – coglierà il fenomeno più radicale dell’alienazione distruttiva contemporanea.
Fromm eseguì una minuziosa ricostruzione della vita di Hitler per mostrare come egli fosse divenuto una personalità distruttiva, un narcisista necrofilo, un narcisista distruttivo legato al territorio, alla razza, al sangue, incapace di uscire da siffatti elementi costitutivi per vivere la mobilità dell’Eros che rende normale, per così dire, la persona. Quando nell’individuo si instaura un blocco di elementi, quando l’individuo rimane inchiodato a taluni elementi, quali, ripetiamo, la razza, il sangue, il territorio, la terra natale abbiamo le caratteristiche del narcisismo vale a dire della staticità psicologica insormontabilmente contraria a tutto ciò che è esterno, altro, diverso.
Fromm non coglie caratteristiche patologiche nella madre e nel padre di Hitler, due persone in fondo comuni, nulla più che un padre abbastanza autoritario e una madre abbastanza affettuosa, emotiva.
Più che altro, in Hitler gli elementi di narcisismo distruttivo e necrofilo si presentano nel momento in cui le sue ambizioni vengono in contatto con la realtà e sono colpite a morte. Hitler è un artista mancato, non riesce ad accedere all’Accademia d’Arte, vive di accorgimenti e per di più ha l’amarissima delusione della sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale.
Scrive Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana, (Milano, Mondadori, p. 487), riferendosi alla giovinezza di Hitler: "Ora non tentava nemmeno più di diventare autosufficiente. Come scrive Smith, il suo ingresso nel rifugio dei senzatetto "fu una dichiarazione di sconfitta totale". Questa sconfitta non investiva soltanto Hitler l’artista, ma anche Hitler il borghese orgoglioso e ben vestito, che provava soltanto disprezzo per le classi inferiori, ed era diventato un "barbone", un escluso, appartenente alla feccia della società. Sarebbe stata una umiliazione intensa anche per un qualsiasi altro esponente meno narcisista delle classi medie. Ma poichè era abbastanza stabile da non cadere a pezzi, tale situazione deve averlo rafforzato. Era accaduto il peggio, e lui ne era emerso indurito, col suo narcisismo intatto. Ora l’importante era cancellare l’umiliazione, vendicarsi di tutti i "nemici", e dedicare la propria vita all’obiettivo di dimostrare che l’immagine narcisista di sé non era stata una fantasia, ma una realtà".
L’insieme di negazioni, di fallimenti rendono Hitler ferocemente ostile e lo chiudono in un sogno di vittoria quanto più in concreto è sconfitto. Questo radicarsi nei propri sogni, in alcuni punti fermi dei propri sogni, la razza, il sangue, il popolo, la terra, e la conseguente avversione rabbiosa nei confronti di coloro che egli ritiene causa della sua sconfitta, formano il carattere narcisistico necrofilo di Hitler. E formano anche il grado massimo di alienazione. La disumanizzazione più totale. La perdita di ogni senso dell’altro. Hitler ama soltanto se stesso, o, meglio, vuole la distruzione di tutto, anche al prezzo della distruzione di sè.
Scrive ancora Erich Fromm sempre in: Anatomia della distruttività umana, (Ivi, p. 499): "Generalmente si trascura questo dato di fatto; si sottolinea esclusivamente il genocidio degli Ebrei, dimenticando che gli Ebrei furono una fra le molte vittime che Hitler voleva annientare. Certo è esatto dire che Hitler odiava gli Ebrei, ma è altrettanto corretto affermare che egli odiava i tedeschi. Egli odiava tutta l’umanità, e la vita stessa. Questo diventerà anche più chiaro quando studieremo il personaggio dal punto di vista di altre manifestazioni necrofile, di cui ci siamo occupati in termini generali nella precedente discussione sulla necrofilia".
Non è il caso di valutare adesso la concezione che Fromm si fa della distruttività, basti dire che egli non la considera connaturata all’uomo e ritiene che in Freud non vi sia una chiara definizione di distruttività connaturata ed immutabile, e si oppone anche alle concezioni di Konrad Lorenz, per negare l’irreparabilità della distruttività. Non è il caso di valutare adesso, ripetiamo, la fondatezza di questa concezione, ci limitiamo a qualche notazione.
Scrive Fromm con riguardo a Freud sul tema della distruttività sempre in Anatomia della distruttività umana, (Ivi, p. 564): "In Introduzione alla psicoanalisi (nuove serie di lezioni) definisce l’autodistruttività come espressione di una "pulsione di morte", che non può mancare in alcun processo vitale (il corsivo è mio). Nella stessa opera, Freud esprime ancor più esplicitamente il suo pensiero: "Il masochismo è più antico del sadismo, e il sadismo è la pulsione distruttiva rivolta verso l’esterno, la quale acquisisce così il carattere di aggressività" (S. Freud,1933). La parte dell’istinto distruttivo rimane all’interno "con le pulsioni erotiche a formare il masochismo, o si rivolge contro il mondo esterno in forma di aggressività, con una più o meno grande aggiunta di erotismo" (S. Freud, 1933). Ma, prosegue Freud, se l’aggressività diretta verso l’esterno incontra ostacoli troppo forti, si volge verso l’interno, aumentando l’auto-distruttività. Questo sviluppo teorico e piuttosto contraddittorio si conclude negli ultimi due scritti di Freud. Nel Sommario egli afferma che, all’interno dell’Es, "operano gli istinti organici; essi stessi composti da miscele di due forze originali (Eros e Distruzione) in misure alternanti…" (S. Freud, 1938: il corsivo è mio). In Analisi terminabile e interminabile, Freud parla ancora dell’istinto di morte e dell’eros come di due "istinti originari" (S. Freud, 1937). Con una stupefacente, impressionante fermezza, Freud restò attaccato al suo concetto dell’istinto di morte, nonostante le grandi difficoltà teoriche che cercò duramente - e a mio avviso inutilmente - di superare".
In Fromm la distruttività, ne riparleremo perché è il tema crucialissimo della nostra tesi, non è inguaribile, non fa parte del patrimonio dell’inconscio umano o del patrimonio genetico. Vi sono circostanze storiche che la sostentano. Quindi, tutto sommato, è un’alienazione eliminabile. E qui siamo al centro dell’analisi di Fromm sull’alienazione. L’alienazione psicologica, come ogni altra alienazione, per Fromm è eliminabile. Non si nasce, insomma, distruttivi. Nemmeno Hitler è nato distruttivo.
Dichiara Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana, (Milano, Mondadori, p. 494): "Per essere più specifici: il nostro problema non è appurare se Hitler si sia comportato distruttivamente, ma se fosse motivato da un’intensa passione distruttiva, una passione per la distruzione che era parte del suo carattere. Questo non è scontato, ma deve anzi essere dimostrato".
E in un altro testo, Socialismo Umanistico, (Milano, Mondadori, p. 159): "Non esiste pulsione distruttiva la quale debba essere di continuo controllata, ma solo una predisposizione alla distruttività sempre pronta a reagire a determinati stimoli. E quali sono questi stimoli? Da un punto di vista generale può dirsi che essi sostanzialmente si manifestino laddove interessi vitali dell’animale come dell’uomo vengano minacciati. Nell’animale, interessi vitali sono la sopravvivenza, quella del singolo e della specie, le cure dei piccoli, l’accesso a individui dell’altro sesso e alle fonti di alimentazione. (In un’accezione più ampia, anche l’accesso a un determinato territorio, che da molti punti di vista è collegato con l’alimentazione, la protezione dei piccoli, e via dicendo). Qualora tali interessi vitali siano minacciati, si manifesta una reazione fisiologicamente predisposta, che porta all’attacco. Qualora gli interessi stessi non siano minacciati, è impossibile parlare di una pulsione distruttiva che spontaneamente si manifesterebbe come tale".
E veniamo al sadismo di Stalin. Anche in tal caso non vi è una "natura" distruttiva, per Fromm. Fromm nel tentativo di definire il sadismo, le variabili del sadismo, cerca di coglierlo differenziandosi da Freud. In proposito citiamo esattamente quel che dice Fromm (p. 363 del testo Anatomia della distruttività umana): "Nella seconda fase della sua elaborazione teorica Freud asserì che il sadismo era un miscuglio di Eros (sessualità) e di istinto di morte, proiettati fuori di sé, mentre il masochismo è un miscuglio di Eros e di istinto di morte verso se stessi. Io propongo invece la tesi che il nucleo del sadismo, comune a tutte le sue manifestazioni, sia la passione di esercitare un controllo assoluto e illimitato su un essere vivente, sia esso animale o bambino, uomo o donna. Costringere qualcuno a sopportare pene o umiliazioni senza avere nemmeno la possibilità di difendersi è una delle manifestazioni di controllo assoluto, ma non è certo l’unica. Chi esercita il controllo assoluto su un altro essere trasforma quest’ultimo in un suo oggetto, in una sua proprietà, di cui diventa il dio. Talvolta il controllo può persino essere benefico, e in tal caso potremo parlare di sadismo benevolo, come in tutti i casi in cui una persona domina l’altra per il suo bene, incoraggiandone, di fatto, lo sviluppo sotto diversi aspetti, ma tenendola in catene. Quasi sempre, però, il sadismo è malevolo. Controllare completamente un altro essere vivente significa mutilarlo, soffocarlo, frustrarlo. Tale controllo presenta tutta una gamma di forme e livelli". Come si coglie l’aggressività è uno dei temi basilari della concezione di Fromm. Se, infatti, ed è il punto determinantissimo, l’uomo agisse sotto l’impulso di un’aggressività irrimediabile, tutte le concezioni, che vedremo, di Fromm, riguardanti la possibilità di una pacificazione, di un’educazione all’"essere", crollerebbero. In un’ampia sezione del volume già citato: Anatomia della distruttività umana, Fromm non può negare che l’aggressività esiste, ma egli tiene alla distinzione della aggressività dalla distruttività, ritiene anche positiva un tipo di aggressività, che egli chiama: aggressività benigna.
Sono i casi dell’aggressività concorrenziale la quale può favorire l’eventualità di risultati positivi, ad esempio nello sport, ad esempio nelle forme difensive. Ma esiste quella che egli denomina aggressività maligna e tale aggressività maligna evidentemente non è accettabile: essa porta alla distruzione. Fromm ritiene che neanche la guerra, e veniamo ad uno dei temi basilari della sua ricerca, sia legata ad aggressività connaturata. Egli cerca di dimostrare che la guerra è dovuta a motivi molto precisi e molto razionali. Non è connaturata in una sorta di tendenza o istinto umano. Fa degli esempi a questo riguardo e tali esempi dovrebbero palesare quanto la guerra sia motivata assai specificamente e non dovuta a un istinto pervadente e generale. Addirittura egli ritiene che la guerra possa venire ridotta da alcune attività soddisfattive dell’uomo e, questo è un’aspetto piuttosto interessante, da una vita avventurosa che elimini la noia. In realtà Fromm percepisce che talvolta la guerra non ha motivi economici, ma motivi vitalistici. Una generazione inerte che non trova sfogo attivo, che non sa perché vivere o con quale animazione vivere, può anche scaricare sulla guerra i motivi di questa caduta vitale. Quindi una vita soddisfatta ma attiva, soddisfatta ma vitale potrebbe eliminare le ragioni della guerra, a suo giudizio.
Nel momento in cui Fromm analizza la distruttività maligna, abbiamo considerato il caso per eccellenza di aggressività maligna, quello di Adolf Hitler. Un caso analogo, che Fromm sviluppa molto meno ma che serve a farci cogliere tale aggressività maligna è quello di Joseph Stalin, al quale ho accennato. Nel caso di Stalin l’analisi di Fromm è abbastanza delimitata. Fromm ritiene che in Stalin l’aggressività maligna si eserciti nelle forme del sadismo. Il sadismo di Stalin non è però sadismo sessuale ma più che altro un sadismo mentale: Stalin avrebbe avuto piacere ad affermare la sua capacità di disporre dell’esistenza degli altri. A tal fine egli giocava in un certo senso con gli altri, come nel caso di una promessa di amicizia che poi il giorno dopo finiva nell’arresto o nella fucilazione, come nel coinvolgere i familiari contro i familiari, nel mantenere in vita o nello stabilire la morte a proprio piacimento. Per Fromm è il capriccio base e fondamento della psicologia sadica di Stalin. Non si tratta di sadismo sessuale o di una distruttività come tale, piuttosto di un esercizio di onnipotenza e della convinzione e volontà di poter disporre effettivamente degli altri nel modo più totale.
Quando pure, dunque, l’uomo rasentasse, raggiungesse o oltrapassasse i limiti estremi della distruttività e dell’alienazione, per Fromm tutto ciò non significa minimamente che vi sia una costituzione naturale, insormontabile, invincibile alla distruttività. Su quali basi Fromm regge il suo argomento critico nei confronti di Freud che Freud non ha saputo fondare la distruttività o meglio ancora che non esiste una pulsione di morte come tale? Fromm critica anche Konrad Lorenz, lo dicevo, a questo riguardo. Quali sono, dunque, gli argomenti che inducono Fromm a non ritenere possibile un fondamento costitutivo ineliminabile della distruttività?
La critica a Freud e a Lorenz, Fromm la diffonde in vari testi e particolarmente in: Anatomia della distruttività umana, in La disubbidienza e in Scritti su Freud. Evidentemente ci sono altri testi a proposito ma non possiamo dilungare la nostra analisi. Abbiamo già accennato alle critiche che Fromm svolge a Freud e al fatto che accusa Freud di non avere un orientamento certo nei confronti della distruttività. Decisivo notare come, e lo abbiamo detto ripetutamente, l’individuo per Fromm è formato socialmente. E così come è formato socialmente può essere socialmente riformato, modificato.
Per Fromm, ribadisco, non vi è un fondamento alla costituzione immodificabile dell’uomo, una disposizione dell’uomo immodificabile alla distruttività, al massimo possiamo accettare che vi è nell’uomo l’aggressività che si trasforma in distruttività esclusivamente esistendo stimoli efficaci a questo riguardo, frustrazioni individuali, nazionali, collettive. Ma come si forma questa caratterizzazione sociale dell’individuo?
Nello scritto La disobbedienza Fromm ritiene che: "Il carattere sociale si riferisce alla matrice della struttura caratteriale comune a un gruppo. Esso muove dal presupposto che il fattore fondamentale alla formazione del carattere sociale è costituito dalla prassi di vita posta in essere dalla modalità di produzione e dalla stratificazione sociale che ne deriva. Il carattere sociale è la particolare struttura di energia psichica che viene plasmata da una data società, perché risulti utile al funzionamento di quella particolare società" (Milano, Mondadori, p.25).
Come si vede esisterebbe un carattere sociale comune a un gruppo che ha ripercussione sugli individui. Scrive nella stessa opera Fromm: "Il primo problema da prendere in considerazione è quello del "carattere sociale", vale a dire della matrice caratteriale comune ad un gruppo (per esempio Nazione o Classe), che effettivamente determina i pensieri dei membri del gruppo stesso". Qui abbiamo una precisazione. La precisazione consiste nel ritenere esplicitamente che il carattere sociale influenza pienamente i singoli individui.
Fromm insiste su questa determinazione sociale del carattere individuale. Addirittura egli suppone un inconscio che non è l’inconscio al modo di Freud, ma è un inconscio socialmente determinato o condizionato. Scrive Fromm: "Al pari della coscienza, anche l’inconscio è un fenomeno sociale prodotto dal "filtro sociale" che impedisce che gran parte delle effettive esperienze umane ascendano dall’inconscio alla consapevolezza, e il filtro sociale in questione consiste soprattutto di tabù linguistici, logici e sociali. Esso è mascherato da ideologia (razionalizzazioni) soggettivamente sperimentate come vere, laddove in realtà si tratta soltanto di funzione socialmente prodotte e condivise. Un approccio del genere alla coscienza e alla repressione può empiricamente comprovare la validità dell’affermazione di Marx che "l’esistenza sociale determina la coscienza" (opera citata p. 37).
Qui andiamo ben oltre la teoria che esiste un carattere sociale. Addirittura esiste un inconscio sociale, un inconscio socialmente determinato. Il quale vale da un lato come filtro alla coscienza nel senso che non permette agli individui di esprimere se stessi se non condizionati dalla società ma in un certo senso determina la coscienza giacchè la espressione di Marx ha questo significato, l’individuo è formato dalla struttura sociale, dall’esistenza sociale, dal modo di essere della società nel suo inconscio, poi questo inconscio determina la coscienza.
Abbiamo quindi due elementi essenziali nella teorizzazione di Fromm: il carattere individuale è connesso al carattere sociale, l’inconscio individuale è connesso alla società la quale pone nell’individuo dei valori e impedisce, condiziona, suggerisce con le sue strutturazioni, le sue ideologie, le sue concezioni la formazione dell’individuo al punto poi che questa formazione diventa inconscia nell’individuo, viene recepita nell’individuo. Questa influenza della società sull’individuo si svolge soprattutto mediante i genitori. I genitori sono, scrive Fromm, gli agenti della società. Cito dall’opera La disobbedienza: "A rinforzare il carattere sociale concorrono tutti gli strumenti e l’influenza di cui dispongono le società: il suo sistema pedagogico, la sua religione, la sua letteratura, i suoi canti, i suoi scherzi, le sue costumanze e, soprattutto, [...] i mezzi impiegati dai genitori che ne fanno parte per educare i figli. Se quest’ultimo elemento è così importante, ciò accade perché la struttura caratteriale degli individui viene formata, in misura notevole, nei primi cinque o sei anni della loro vita. Ma l’influenza dei genitori non è essenzialmente individuale o accidentale come invece ritengono gli psicoanalisti classici. I genitori sono in primo luogo gli agenti della società, tali per il proprio carattere e per i metodi educativi cui fanno ricorso; essi differiscono l’uno dall’altro soltanto in misura assai limitata a queste disparità, di solito, non diminuiscono il loro ruolo di partecipanti alla creazione della matrice, socialmente desiderabile, dal carattere sociale" (Milano, Mondadori, p. 26).
Tenuto conto che la famiglia incide sul bambino la formazione è appunto formazione dell’inconscio. L’individuo si trova valori acquisiti inconsapevolmente per l’educazione infantile. Non sono concezioni nuove. Provengono dalla ricerca di Adorno sull’autorità, provengono da teorie di Wilhelm Reich e da quella compromissione tra Psicoanalisi e Marxismo a cui Fromm si riferisce ampiamente.
Da queste analisi di Fromm possiamo trarre alcune sue opinioni basilari: non esiste una distruttività congenita, non esiste una alienazione costitutiva, tutto ciò che l’individuo fa è condizionato socialmente, se condizionato socialmente basta cambiare la società perché l’individuo cambi, addirittura cambiando la società cambia perfino l’inconscio dell’individuo, inconscio che è socialmente determinato specialmente nell’infanzia e da parte dei genitori. L’uomo ha tendenze aggressive ma l’aggressività né è destinata ad essere un’aggressività negativa né è destinata ad essere un’aggressività distruttiva. L’aggressività può esercitarsi positivamente come autoperfezionamento o concorrenza positiva per il miglioramento. E su queste premesse di una perfettibilità o modificabilità dell’uomo verso il bene e verso il male che Fromm traccerà tutto il suo programma umanistico.
E insisto perché il dato e essenzialissimo: ciò è possibile solo ritenendo che non vi sia una costituzione malvagia dell’uomo, che è possibile la redenzione dell’uomo.
Con l’analisi della alienazione psicologica vale a dire con l’analisi della distruttività, con la trattazione di personalità basilari a testimoniare la distruttività, con la trattazione di personalità basilari a testimoniare la distruttività, Hitler e Stalin, Fromm credeva di aver scardinato un punto essenziale delle tesi di Freud e delle tesi che egli, Fromm, giudicava antiumanistiche: non vi è uomo, anche il più diabolico, che non sia frutto di una educazione o di vicende rovinose e frustranti. Se invece di un’educazione repressiva e di esperienze frustranti l’uomo, da bambino potesse esprimersi favorevolmente, non avrebbe bisogno di ricorrere alla violenza per risarcirsi dalle umiliazioni. E questo, vale specialmente per i milioni e milioni di infimi Hitler e Stalin che popolano il mondo e cercano di angariarsi vicendevolmente per vendicarsi delle assillanti sconfitte quotidianamente ingoiate. Un mondo del genere è un mondo di scorpioni. C’è via d’uscita?
III. L’alienazione politica: Il totalitarismo
Erich Fromm dedicò molta attenzione, l’abbiamo appena visto, all’alienazione, e pertanto si interessò del Fascismo, del Nazismo, del Comunismo, come società alienanti per eccellenza, dedicò anche attenzione ai loro capi, specialmente a Stalin e a Hitler, rappresentativi della alienazione di tale società. Ma occupandosi del fascismo, del Nazismo, del Comunismo Fromm dedicò attenzione anche a come l’uomo perde la sua individualità, divenendo preda della alienazione politica dei sistemi totalitari non solo dell’alienazione psicologica. Molta sua produzione è proprio rivolta a un fenomeno sorprendente: l’individuo spesso addirittura volontariamente e con adesione, accetta di essere sottoposto al dominio di un uomo. La situazione era già stato vagliata da Freud nel testo: Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, del 1921. Freud aveva notato che in innumerevoli individui rimane presente la figura del padre dalla quale non riescono a staccarsi. E dunque il capo politico, il capo religioso non sono altro che figure paterne alle quali ci si sente inevitabilmente sottoposti e alle quali si ubbidisce con forme d’appassionamento erotico, omoerotico, il capo rappresenta l’ideale dell’Io, come dice Freud, colui al quale si intende somigliare, colui con il quale ci si identifica per affermare se stessi attraverso l’affermazione del capo.
Per Freud, al dunque, la società è spiegabile perché gli uomini hanno un rapporto erotico, evidentemente indiretto, nei confronti del capo. E’ un rapporto che non fa maturare gli uomini, è, appunto, un rapporto tra figlio e padre, da dominato a capo. In una società matura l’individuo sarebbe autonomo dal padre o dal capo. Il rapporto di sudditanza si mantiene nell’esercito, nella chiesa, in quegli istituti in cui non vi è un’autoregolazione degli uomini. Questo rapporto di conservazione della sudditanza verso il padre trasferito in forme sociali può spiegare le dittature e l’assoggettamento al capo, non dimenticando che l’assoggettamento al capo è anche un tentativo di affermarsi mediante il capo.
Da queste premesse trassero concezioni per la loro valutazione della "alienazione" totalitaria, Annah Arendt, Theodor W. Adorno, Erich Fromm. La Arendt vede il totalitarismo, nel suo testo: Il totalitarismo, come la conseguenza della sparizione degli elementi d’intermediazione sociale, la famiglia, i piccoli gruppi. Per la Arendt l’individuo nella società moderna ha perso questi riferimenti di raggruppamenti medi, la famiglia, il partito politico, questi organismi medi sono entrati in dissoluzione. L’individuo si sente ed è solo e sentendosi ed essendo solo diventa massa. Tanti individui soli costituiscono massa non gruppo. Il totalitarismo trovando un individuo in difficoltà, isolato, senza la difesa e senza la cementazione dei piccoli gruppi, lo assorbe nella massa nella quale l’individuo crede di trovare forza, fiducia e compagnia.
Il totalitarismo risulta dunque dalla combinazione di individualismo e di massa e dall’illusione dell’individuo isolato di sentirsi forte nella massa ed eventualmente nell’ubbidienza ad un capo. Più o meno uguale, la teoria di Fromm in Fuga dalla Libertà del 1941. Anche per Fromm nei sistemi liberali capitalistici i piccoli gruppi sono dissolti. Imperversa la legge del mercato, quindi l’individualismo, i singoli sono l’uno in concorrenza con l’altro, l’uomo si sente debole e pertanto si aggrega nelle masse. Il successo del Fascismo, secondo Fromm, è appunto in questo sentirsi forte dell’individuo fragile nella massa, nella partecipazione accomunata e massificata. Fromm dedica soprattutto la sua attenzione alla Germania e si chiede come sia potuto accadere che un popolo moderno si sottometta ad un maniaco della distruzione quale fu, secondo Fromm, Hitler. Appunto, come dicevamo, la spiegazione che ne dà Fromm è grosso modo quella della Arendt, vale a dire che i singoli si sentono deboli ed hanno bisogno di una personalità autoritaria per sentirsi forti attraverso la forza del capo. Anche Adorno si era dedicato all’argomento dell’affermazione dell’autoritarismo. E la spiegazione che egli ne dà nel volume: La personalità autoritaria, un insieme di studi fatti da vari autori ma ordinati da Adorno, riprende le tesi di Freud. Adorno accetta le tesi di Freud che la società è il risultato della psicologia individuale e familiare. Ora nella famiglia - secondo Freud e a parere di Adorno - la figura del padre è fondamentale. Egli incarna il super-io, la severità, la legge, il divieto, i valori. Il figlio educato ad una mentalità di autorepressione non ha altra concezione che quella della negazione del piacere e della libertà. Formato in tale maniera egli vorrà una società repressiva e odierà chi vuole la libertà e il piacere di vivere. Da ciò una propagazione della personale repressione a repressione sociale, a modalità di comportamento collettivo. Quindi la personalità autoritaria è quella che avendo subito l’autoritarismo non concepisce altra società diversa da una società in cui domina l’autoritarismo, è una personalità autoritaria contro se stessa e contro gli altri. Le forme di potere autoritario quindi si affermano sul modello di una figura paterna che ha educato il figlio a non concepire un modo di vivere diverso, lo ripetiamo, dal modo di vivere autorepressivo e repressivo. Indubbiamente queste concezioni hanno aspetti veritieri. La Arendt e Fromm hanno colto appropriatamente che il dramma dell’individuo senza appoggi dei piccoli gruppi può costituire ragione di immersione nella totalità sociale e quindi ragione del totalitarismo. Tuttavia queste concezioni restano ipotetiche giacche la libera concorrenza, il mercato, la rivalità tra gli individui furono presenti anche in paesi che non conobbero il totalitarismo, anzi la società più competitiva, ossia quella Americana, fu esattamente l’opposto di una società totalitaria, a meno che non la si voglia considerare totalitaria, nel qual caso il totalitarismo perderebbe ogni specificità.
Per capire il totalitarismo bisogna rifarsi anche alle grandi crisi economiche, alle frustrazioni della sconfitta bellica, alla necessità di convogliare gli sforzi in un’unica direzione, alle incertezze e difficoltà dei sistemi di governo liberali di assicurare stabilità politica e a tante altre ragioni…
Così anche la spiegazione di Adorno che il totalitarismo o comunque l’autoritarismo siano frutto del passaggio della mentalità oppressiva dal padre al figlio, non spiega da che venga la mentalità autoritaria del padre e non spiega che di sicuro non tutti i figli di personalità autoritaria sono a loro volta devoti all’autoritarismo: possono addirittura essere ribelli all’autoritarismo. In ogni caso, almeno per quel che riguarda Fromm, egli in tal modo ribadiva la sua netta convinzione che l’uomo deve autodeterminarsi e evitare una competitività aggressiva che lo renda solitario e privo di legami sociali e quindi, impaurito dalla solitudine, dalla libertà della sua solitudine, incline a fuggire dalla libertà che è responsabilità, disposto, pertanto, a diventare massa pur di non avere la responsabilità della solitudine e della libertà. Per Fromm, in sostanza soltanto un individuo legato agli altri da vincoli sociali positivi non ha paura della libertà che comporta solitudine e responsabilità. La libertà, se crea rapporti sociali positivi, non ha paura della responsabilità. La libertà, se crea rapporti sociali armoniosi assunti responsabilmente, non appare nel suo aspetto di isolamento e di rivalità, e, di conseguenza, di fuga e di soluzione nella massa. Come che sia Fromm poneva un elemento aggiuntivo alla riconduzione umanistica dell’uomo: occorrono rapporti tra individui costruttivi e non impauriti della responsabilità di decidere la propria esistenza liberamente. Se l’individuo ha paura di dover decidere autonomamente la propria vita relazionale si aliena nella massa, nel capo, nell’insieme totalitario facendosi trarre.
IV. L’alienazione economica: l’avere e il consumo
Come appare evidente Fromm ritiene l’alienazione, nelle sue varie forme, alla base della rovinosa condizione negativa dell’uomo moderno. L’alienazione politica, si manifesta con il totalitarismo, l’abbiamo visto; è psicologica, e si manifesta con la distruttività in varie forme di cui noi abbiamo analizzata quella sadica (Stalin) e quella di narcisismo necrofilo (Hitler); ma vi è anche l’alienazione economica, la quale non si manifesta tanto o esclusivamente con la povertà o con la perdita di dominio da parte di chi lavora sui prodotti che egli forgia, questa alienazione di estirpazione del lavoro e di anonimità del lavoro era stata ampiamente analizzata da Marx, e Fromm la dà per acquisita. L’alienazione moderna si manifesta piuttosto con la presenza di bisogni innaturali che danno luogo all’ homo consumens e con l’esasperazione dell’avere cupido e passivo contemporaneamente. Al dunque, non solo le società totalitarie ma anche le società liberiste democratiche sono alienate, per Fromm.
L’avere Fromm lo intende come possesso, quale ansia dell’accumulo e passività che guarda compiaciuta, ripeto, quel che possiede e che non sa prendere in conto le cose se non le possiede. Questo tipo di avere per Fromm è una delle forme più orribili dell’alienazione. Scrive Fromm in: Avere o Essere (Milano, Mondadori, p. 127): "Che la modalità dell’avere e la cupidigia che ne è il risultato, necessariamente portino all’antagonismo e allo scontro, è valido per gli individui ma anche per le nazioni. Infatti, finchè queste sono composte da gente la cui motivazione principale è l’avere e la cupidigia, non possono fare a meno di scendere in guerra; per forza di cose aspirano a ciò che altre nazioni hanno, e tentano di ottenere ciò che desiderano per mezzo della guerra, di pressione economica o di minaccia; prassi di cui si servono innanzitutto nei confronti di nazioni più deboli e formando alleanze più forti delle nazioni che intendono attaccare. Anche qualora abbia solo qualche probabilità di vittoria, uno stato scenderà in guerra non già perché si trovi in una condizione di disagio economico, ma perché l’ispirazione ad avere di più e a conquistare è profondamente radicata nel carattere sociale".
Come si vede Fromm addirittura lega la guerra e il conflitto tra gli stati al sentimento, come egli dice, dell’avere. L’avere è cupidigia, è desiderio di ottenere quello dell’altro, è desiderio di accumulazione. Questo vale evidentemente anche per gli individui. Sicchè pure questo tipo di alienazione porta alla distruttività. Del resto ogni alienazione porta alla distruttività. Non bisogna dimenticare che Fromm è uno psicoanalista, essenzialmente. Pertanto quando noi parliamo di alienazione economica, psicologica, politica, non dimentichiamo, ripeto, che ogni alienazione è valutata da Fromm in termini sociologici o se vogliamo sociali ma anche e fondamentalmente in termini psicologici o precisamente psicoanalitici.
Ora, psicoanaliticamente vagliato l’elemento cruciale della distruttività risulta essere la costituzione anale o diciamo la formazione anale della costituzione psichica dell’uomo. In pressoché tutti i casi basilari della distruttività l’uomo è anale. L’analisi dell’analità in Fromm è debitrice essenzialmente a Sigmund Freud. Nel caratterizzare i tipi psichici in: tipologia orale, tipologia anale e tipologia fallica e genitale, Freud caratterizza nella tipologia anale il soggetto essenzialmente sadico e dominato da mania di potenza.
Le analisi di Freud, assai minuziose, si diffondono sulla capacità dell’individuo di controllare la propria evacuazione e poi lasciarla andare o di limitarla in maniera da controllare quel che c’è nel proprio corpo o di esploderlo, in certo senso, fuori di sé. Questo controllo della propria evacuazione, quale accumulazione o fuoriuscita potente, è alla base costitutiva dell’analità. Che è il segno dell’autocontrollo, dell’accumulazione, del dominio su di sé, ma anche del lasciarsi andare al massimo di potenza, al massimo di evacuazione.
C’è dunque una doppia situazione nel tipo anale, c’è l’accumulo e c’è la spinta grandiosa all’evacuazione e tutta una serie di controlli di queste operazioni come esercizio di dominio. Dominio che può anche essere non solo su se stessi ma anche sull’altro. Si controlla la propria attività anale come si controlla l’altro. In questo senso Stalin rappresenta il tipo quasi perfetto dell’analità sadica che cerca di disporre degli altri come si dispone dei propri sfinteri. Così come l’accumulo del capitalista è una forma di ritenzione della propria evacuazione, o in Hitler abbiamo un sadismo esplosivo che quasi sommerge l’intero mondo nella distruzione, nella propria evacuazione.
Si può discutere quanto si vuole su questa presunta analità dei processi psichici del tipo alienato nel possesso o nella distruzione, non è ora il caso di farlo nè compete a noi farlo. Noi accettiamo come data questa interpretazione della distruttività legandola alla analità. E segnatamente evidenziamo la caratteristica anale del soggetto che tende all’avere, all’accumulo, a non perdere niente di sè ma anzi ad avere il più possibile.
Il volume: Avere o essere, con un’alternativa radicale, è il testo nel quale, l’abbiamo accennato, Fromm tenta una vera e propria filosofia riguardante il superamento del consumo e della proprietà cupida e passiva. Questa contrapposizione del mondo spirituale con il mondo materialistico, è antica quanto l’uomo stesso.
Ma in Fromm più che cercare l’originalità, bisogna sottolineare l’ostinata volontà di difendere i valori a cui egli tiene. Fromm non ha la preoccupazione di un pensiero innovativo. Egli cerca di ribadire, anzi, una tradizione umanistica; e la sua originalità consiste appunto in questo sentirsi erede di una cultura che a suo giudizio sta per morire o è già morta o potrebbe morire, dati i colpi violentissimi inferti dal materialismo capitalistico e dal totalitarismo comunista, altrettanto materialistico, e dalla cultura della morte dei vari fascismi.
Avere o essere, in certe sue pagine ci fornisce la nozione di essere, in altre cerca di darci la nozione di avere, quindi si dirama in varie considerazioni sul mondo moderno e sulla perdita del concetto di essere nel mondo moderno e sulla necessità di ritrovarlo. Che cosa sia essere è facile capirlo per Fromm, Essere è il dinamismo dell’esistenza che non si appaga, il dinamismo della conoscenza, trovare , cercando la nostra essenza, chi siamo nella nostra natura specifica. Diamo la definizione che Fromm ci fornisce con riguardo all’essere: "Essere, per Eckhart, significa essere attivi nella classica accezione di espressione produttiva dei propri poteri umani, non già nell’accezione moderna dell’essere indaffarato. L’attività ai suoi occhi significa "uscire da sé" (Quint, D.P.T., 6; mia traduzione), concetto che Eckhart esprime mediante una folla di immagini: definisce essere un processo di "bollitura", di "partorire" qualcosa che "fluisce e fluisce in sé e oltre se stesso" (E. Benz e altri, cit. in Quint, D.P.T., p.35; mia traduzione)".
Ed ecco la definizione di avere in Fromm: "Acquisire, possedere e realizzare un profitto, costituiscono, nella società industriale, i sacri e inalienabili diritti dell’individuo: quali siano le fonti della proprietà è cosa priva d’importanza, né il possesso impone obblighi di sorta a chi possiede beni. Il principio suona: "Dove e come la mia proprietà sia stata acquisita e quel che io ne faccio, non riguarda nessun altro all’infuori di me; finché io non violo la legge, il mio diritto è illimitato e assoluto. Questo tipo di proprietà può essere definito privato (dal latino privare, portar via ad altri), perché la persona o le persone che ne sono i titolari ne sono anche gli unici padroni, investiti della piena facoltà di privare altri del suo uso o godimento. La proprietà privata è considerata alla stregua di una categoria naturale e universale, ma in effetti costituisce un’eccezione anziché la regola".
La concezione di essere Fromm la deriva da Buddha, Cristo, Spinosa, Aristotele, Mastro Eckhart, dall’Esodo ebraico, citiamo senza rispetto cronologico per segnalare la totalità onnipresente della presenza dell’essere. Questa ansia di fondamento dell’uomo è stata continua fino a giungere all’umanesimo dell’essere in Marx e in Freud. Sono i consueti autori coltivati da Fromm, gli autori che a Fromm appaiono gli indicatori moderni dell’umanesimo dell’essere.
Come elemento indicativo dell’essere Fromm si riferisce al sabato ebraico, non come giorno del non lavoro, ma più che altro come giorno dell’intimità, del ritrovamento di se stessi. E’ da sottolineare ancora il suo riferimento al mistico Eckhart, il quale fa dell’uomo colui che spazia continuamente se stesso, si riempie continuamente, si svuota continuamente non accettando di rappresentare un’entità piena, possessiva, appagata dal possesso. Fromm riporta un ulteriore brano di Eckhart: "Che cosa significa che un uomo non dovrebbe avere nulla? Presta ora attenta attenzione a questo: ho detto sovente, e grandi autori concordano, che per essere un’appropriata dimora per Dio, adatta perché Dio in essa agisca, l’uomo dovrebbe anche essere libero di tutte le cose sue proprie e di tutte le azioni sue proprie, vuoi interiormente come esteriormente. E qui diremo qualcosa d’altro. Se si verifica il caso di un uomo vuoto di cose, di creature, di se stesso e di Dio, e se tuttavia Dio possa trovare in lui un luogo dove agire, allora noi diciamo: finché un tal luogo esiste, quest’uomo non è povero della più interiore povertà. Ché Dio non desidera che l’uomo abbia un luogo riservato a Dio per agirvi, dal momento che la vera povertà di spirito esige che l’uomo sia vuoto di Dio e di tutte le sue opere, sicché, se Dio desidera agire nell’anima, egli stesso sia il luogo in cui agisce e ciò che vorrebbe compiere… Noi diciamo pertanto che un uomo dovrebbe essere così povero da non essere e da non avere un luogo in cui Dio agisca. Riservare un luogo equivarrebbe a mantenere distinzioni. Per tale motivo, io prego Dio che mi liberi di dio" (Blakney, pp. 230-231).
Se è comprensibile questo svuotarsi e non sentirsi mai colmato, da discutere, invece, l’interpretazione che Fromm dà di un celebre passo di Marx, nel quale Marx riteneva che l’uomo borghese valuta le cose soltanto se le possiede, apprezza soltanto le cose che possiede e nella misura in cui le possiede. E’ un passo in cui Marx fa capire come questo sentimento del possesso sia stato storicamente necessario per affermare lo spirito produttivo borghese. Fromm non dà la stessa interpretazione o comunque trascura che per Marx la proprietà, sebbene alienasse l’uomo, era comunque una tappa indispensabile per il progresso umano. Quest’aspetto in Fromm non è presente o non è valutato alla stessa maniera di Marx, egli invece interpreta Marx alla sua maniera: il possesso come alienazione definitiva.
Per tornare al concetto di essere appare chiaro come l’essere per Fromm è il non appagarsi del possesso, il ricercare continuo, il processo della mente, l’attività mentale. In ciò egli si rifà ad Aristotele e a Spinoza come autori che considerano essenziale per l’uomo l’aspirazione ad un’attività mentale, ad una vita contemplativa che non è una vita statica, anzi l’opposto, è proprio il dinamismo della mente.
E’ questa la vera e propria contrapposizione che Fromm fa nei confronti dell’avere. L’avere si contrappone all’essere in quanto l’avere è il culto anale del possesso, l’appagamento statico; è il sentimento dell’accumulazione fine a sé. L’avere dunque non ha il dinamismo dell’assere. Fromm non è contro l’avere, ma contro questo tipo di avere.
La diversificazione dell’avere in un avere statico e in un avere dinamico crea qualche problema nell’àmbito della differenziazione che Fromm fa dell’essere con l’avere. E, infatti, egli non sottolinea sufficientemente la differenza tra l’avere possessivo statico e l’avere dinamico come bisogno necessario per l’uomo di possedere qualcosa o, se pone la differenza, essa è discutibile.
Citiamo da p.117, op. cit.: "Per apprezzare compiutamente la modalità dell’avere di cui stiamo parlando, ci sembra necessario un altro chiarimento, riguardante la funzione dell’avere esistenziale; l’esistenza umana esige che si abbiano, si conservino, si usino e ci si curi di certe cose allo scopo di sopravvivere. Questo vale per il nostro corpo, il cibo, la dimora, gli abiti, gli strumenti necessari a soddisfare i nostri bisogni. E’ una forma dell’avere che può essere definita esistenziale poiché è radicata nell’esistenza umana; e si tratta di un impulso razionalmente indirizzato allo scopo di restare in vita, in pieno contrasto con l’avere caratterologico di cui ci siamo fin qui occupati, con la sua appassionata aspirazione al detenere e al conservare, la quale non è innata, ma si è sviluppata come conseguenza dell’impatto di condizioni sociali sulla specie umana quale è biologicamente costituita. L’avere esistenziale non è in conflitto con l’essere; lo è invece, e necessariamente, l’avere caratterologico".
Ma porre la differenza di un avere cupido e passivo e di un avere attivo non significa in realtà esaltare lo spirito borghese? Il che non sarebbe negli scopi di Fromm. Eppure non esiste uomo che sia indirizzato all’attività, al dinamismo dell’avere, all’avere dinamico più del borghese. E’ vero che tale attività può anche definirsi indaffaramento. Ma ciò complica ulteriormente la definizione. Il fatto è che Fromm non è contro il possesso ma contro la proprietà "passiva", dicevo, contro l’avere caratterologico. E passività equivale non già a non attività, bensì anche a una attività indaffarata, oltre al compiacimento dell’accumulazione. Ma di ciò riparleremo.
L’opera di Fromm, assillante, ripetitiva, onesta risolve e suggerisce innumerevoli quesiti, il primo dei quali è la convinta opinione, l’abbiamo detto, che non esiste un male, una malvagità radicale nell’essere umano, e che l’educazione, la conoscenza, meglio ancora, possono esercitare un effetto di sanatoria, se non assoluta certamente sostanziale. La base del pensiero di Fromm deriva dalla sua negazione di un’inconscio e un conscio che sussistano nell’uomo indipendenti dai condizionamenti sociali. Per Fromm, l’abbiamo ribadito, l’inconscio e il conscio sono frutto dell’inculturazione che il soggetto ha degli elementi sociali del suo tempo e della sua situazione sociale specifica. In questo senso l’uomo, così come viene formato dalla società, può essere modificato dalla società nel momento in cui l’individuo prende coscienza della situazione in cui la sua personalità si è formata, della situazione in cui si è formato il carattere sociale dell’individuo. Evidentemente anche e soprattutto il cambiamento della società cambia l’individuo. È questa un’opinione la cui base scientifica, la cui probabilità dimostrativa è assolutamente indefinibile o non accertabile. Noi non sapremo mai, ad esempio, quanto il nostro inconscio sia dovuto all’accumulo dentro di noi delle circostanze sociali in cui viviamo, quanto alle forze originarie che sussistono già in sé stesse, quantunque poi, di sicuro, le circostanze esterne permettano una loro configurazione, in più o in meno, in un senso o in un altro senso.
Il presupposto di Fromm che l’individuo sia formato dalla società e che quindi la psicoanalisi andrebbe interpretata socialmente, come formazione sociale dei processi psicologici individuali, non ha più fondamento accertabile della teoria che è la personalità individuale a formare, per sommatoria, la situazione sociale. Non perché la società sia non influente sull’individuo ma perché di sicuro l’individuo non è esclusivamente un prodotto sociale, altrimenti non sarebbe un individuo.
Comunque, resta il dubbio se in noi sussista una disposizione distruttiva o se la cultura, la conoscenza, il predominio del senso critico possano attenuare la nostra distruttività e, quindi, stabilire una filosofia umanistica idonea a elevare la morale degli uomini e a volgerla all’essere e non all’avere, per usare la definizione cruciale di tutta la concezione di Fromm.
Detto questo, la concezione di Fromm ne risulta, se non vulnerata, ipotetica. Ma è bene ripeterlo: noi non sappiamo quanto la conoscenza e la cultura materiata di valori umanistici possano migliorare e volgere al bene l’umanità, noi non sappiamo quanto questo tipo di cultura possa difendere i valori che essa propugna. In verità la difesa dei valori umanistici del XX secolo poniamo, ha dovuto affrontare guerre, violenze, compiere atti terrificantemente distruttivi, e questo proprio in difesa dei valori umanistici! Il che significa che i valori umanistici sono anch’essi valori che per sussistere devono ricorrere a quegli elementi che sono da considerare propri dell’antiumanesimo: la guerra, l’odio, la violenza, lo sterminio. Ed allora c’è da dubitare che l’umanesimo possa difendersi in quanto tale. C’è da dubitare che la libertà possa difendersi solo con la proclamazione della libertà. La difesa dell’umanesimo e della libertà rischia di avere bisogno di quei valori o non valori di violenza, di guerra, di lotta che vengono considerati del tutto, lo si diceva, antiumanistici? Il confine tra umanesimo e antiumanesimo rischia di diventare così incerto da confondersi e perdere qualsiasi realtà orientativa? Ciò significa che umanesimo e libertà equivalgono ad antiumanesimo e illibertà? O significa che la difesa dell’umanesimo e della libertà non passa soltanto per l’umanesimo e la libertà, ma anche per la guerra e per la violenza? L’umanesimo e la libertà sarebbero capaci di difendersi soltanto con la proclamazione dell’umanesimo e della libertà? Le analisi sul pensiero di Fromm che faremo cercherà di dare risposta a tali domande.
Altra questione, non meno grave, è quella riguardante la proclamata teoria dell’essere in contrapposizione al primato dell’avere che dominerebbe specialmente la nostra società. Anche in tal caso Fromm è troppo netto nella contrapposizione. In verità, noi non sappiamo quanto l’avere serva all’essere. Chi accumula ricchezze ma con questa accumulazione di ricchezze favorisce la creazione di musei, di fondazioni, al mantenimento di artisti va considerato nel campo dell’avere o dell’essere? Fromm ritiene l’avere criticabile soltanto per l’accumulo passivo della ricchezza. Ma in realtà questo accumulo passivo della ricchezza non esiste o esiste rarissimamente. La ricchezza ha un suo estremo dinamismo, e proprio l’accumulazione esige che vi sia attività. Quindi, la contrapposizione tra essere, che consiste nel fare, e avere che consiste nell’accumulare passivo, è, nella concreta situazione della vita, rara. Di solito l’avere è un avere attivo, anzi fin troppo attivo.
Nella realtà della vita noi abbiamo un’intreccio continuo di essere e di avere, per cui l’avere serve all’essere anche quando non vuole o non lo fa direttamente, è il caso dichiarato del mecenatismo compiuto per la vanità di chi ha ma che poi si risolve nell’esaltazione dell’opera creativa. Senza questo scambio la società si inaridirebbe in un buddismo contemplativo fine a se stesso che non darebbe nessun risultato di essere, ossia di quel fare che Fromm ritiene essenziale.
Se guardiamo dunque i due aspetti cruciali dell’opera di Fromm: l’idea che esistano un’inconscio e un conscio personali che possono essere modificati con la cultura umanistica e con l’umanesimo socialista; se consideriamo la concezione di Fromm dell’ essere del tutto svincolato dall’avere; se consideriamo queste due concezioni non possiamo non ritenerle concezioni opinabili e troppo radicalmente dissociative dalla complessità della vita. Ci rendiamo conto che tutta la concezione di Fromm si basa su una difesa dell’umanesimo e della libertà che nella concretezza non si esprimono né vengono tutelati nelle forme in cui Fromm vorrebbe.
Abbiamo un umanesimo e una libertà che, come abbiamo detto, ricorrono spesso alla violenza, per difendersi, e abbiamo un essere che ha bisogno spessissimo dell’avere per esistere. Ciò significa che l’umanesimo non può essere considerato immune da tutti gli elementi negativi che sono propri della vita, e ineliminabili.
La difesa dell’uomo non passa dunque per una spaccatura della realtà, ma per una difesa dell’uomo tenuto conto di quanto di negativo vi è in noi, e di quanto sia complesso l’intreccio delle vicende per affermare con sicurezza che l’esistenza di una cosa può fare a meno dell’esistenza dell’altra.
Ma queste sono obiezioni che Fromm potrebbe respingere facilmente. Anche se l’avere è congiunto all’essere, anche se la violenza non può essere separabile dall’umanesimo o può costituirne una difesa, quantunque Fromm esplicitamente neghi questa ipotesi, in ogni caso l’essere e l’umanesimo sono i valori finali dell’esistenza umana, i valori a cui tutti gli altri sono asserviti o dovrebbero esserlo.
Dunque, quale che sia l’intreccio delle forze indispensabili alla vita o per la vita, i valori finali, i valori che danno nobiltà all’uomo e ne difendono l’essenzialità, sono l’essere e l’educazione all’umanesimo. Fromm insomma potrebbe replicare che l’avere e la forza non possono costituire i valori definitivi ed ultimi dell’uomo e che invece le ragioni dell’uomo sono quelle della difesa dell’umano dell’uomo. A questa difesa egli ha consacrato tutta la sua opera, che ora è dunque necessario vagliare analiticamente poiché non lo possiamo considerare utopismo umanistico.
Le idee di Fromm sulla realizzazione dell’uomo sono molto concrete, a tal punto concrete che egli disegna riforme indispensabili e diffuse perché questo umanesimo socialista si compia.
Alcuni aspetti di queste idee, soprattutto nel campo economico, quali la pianificazione, un certo intervento dello stato nell’economia sono comuni in tempi in cui le idee socialiste, affermate in maniera totalitaria nell’Unione Sovietica, avevano in ogni caso influenzato anche pensatori ostili al totalitarismo. D’altro canto tali pensatori erano ostili o critici verso il capitalismo e quindi era facile cercare una soluzione che acquisisse alcune critiche socialiste al capitalismo. In Fromm è costante un elemento, quello del controllo o dell’intervento della base sociale sul sistema produttivo. Fromm, in ciò prendendo dall’opera di Burnham riguardante la rivoluzione dei manager, aveva creduto, e con lui molti, che ormai la proprietà privata non avesse più consistenza essendo avvenuta una divaricazione dei proprietari dai gestori, dai manager.
Burnham, e Fromm lo seguiva, non era contro la proprietà privata, ma riteneva possibile un controllo di essa proprio perché la gestione non era più affidata ai proprietari. Quest’aspetto aveva anche un lato pericoloso, quello della burocratizzazione del sistema produttivo giacché non esisteva più il capitalista avventuroso, dinamico, creativo ma il tecnico gestore o anche il burocrate gestore, si aprivano tuttavia campi di controllo sociale alla produzione visto che la proprietà non gestiva l’impresa e la gestione era affidata ad altri. Al modo in cui poteva essere o era affidata ai manager la gestione essa poteva anche essere affidata all’insieme dei produttori, compresi gli operai; è questo un punto fondamentalissimo che Fromm traeva dall’ipotesi di Burnham.
Fromm non attacca la proprietà privata, attacca più che altro il controllo di essa, la gestione di essa, e ritiene che sia indispensabile, lo dicevamo, appunto, la partecipazione degli operai, in varie maniere, agli utili e alla stessa proprietà.
Quando egli cerca di precisare questa partecipazione ai processi produttivi, alla direzione, alle mete, alle varie attività non è che sia del tutto chiaro, ma insiste nel caratterizzare le nuove forme produttive come forme partecipative in cui i lavoratori abbiano coscienza dei metodi produttivi, e possano mettere parola in tali processi e quindi appropriarsi della gestione e non essere strumenti del profitto.
La riconduzione della gestione dell’impresa non al profitto ma ai bisogni sociali, è una delle caratteristiche cruciali del pensiero di Fromm. L’aspetto essenziale dell’umanesimo di Erich Fromm, consiste proprio nel capovolgimento della produzione: dalla produzione avente per scopo il profitto alla produzione che soddisfa i bisogni.
Certo, il concetto di bisogno è assai problematico. Di sicuro, Fromm si rifà alla teorizzazione di Marx il quale riteneva che nella fase finale comunista a ciascuno sarebbe dato secondo i bisogni e da ciascuno si sarebbe ottenuto in ragione della capacità di lavoro. Una società in cui la gestione produttiva, la produzione fosse volta al soddisfacimento dei bisogni sociali è indubbiamente una società che soddisfa se medesima. Fromm è sufficientemente ottimistico nel considerare la società come capace di autorealizzare i propri bisogni. Egli sostiene che ad una possibilità iniziale di soddisfazione esagitata, sarebbe succeduta una fase di controllo dei bisogni, giacché sarebbe stato del tutto inutile avere più di quanto si può consumare.
L’aspetto della regolazione dei bisogni rientra nella più generale concezione di Fromm di un’educabilità del genere umano e di una possibile positiva risultanza del processo educativo. Il socialismo umanistico di Fromm si basa sul controllo sociale della produzione e sul volgimento della produzione ai bisogni sociali e, in ultima analisi, sulla autoregolamentazione di tali bisogni in maniera che nessuno avrebbe richiesto più di quanto bisognava, e i bisogni non sarebbero stati più bisogni vani, sollecitati dal processo di consumo. Tutto questo per contrastare il capitalismo volto al profitto e soltanto al profitto e per eliminare quell’homo consumens che non è il consumatore, ma, diremmo, colui che è costretto a consumare, colui che nell’esistenza non ha altro valore che il consumo, colui che riduce la vita a consumo e nello stesso tempo è obbligato o indotto al consumo in quanto la società non ha altro scopo che il consumo e la produzione non ha altro scopo che far consumare affinché crescano i profitti.
Contro quest’homo consumens, Fromm concepisce l’uomo non già non consumatore, ripeto, ma l’uomo consumatore per veri e propri bisogni necessari, non per bisogni costrittivi ai fini del profitto. E’ una delle posizioni più insistite di Fromm e direi quella che continua a costituire una delle basi essenziali dell’umanesimo ancora oggi, quando si sostiene che l’economia non debba asservire l’uomo, ma l’uomo deve tenere in pugno l’economia per condurla a finalità umane.
Tutto sommato è una versione umanistica del marxismo giacché è di Marx questa preoccupazione cruciale di passare dall’epoca in cui l’economia dominava l’uomo e l’uomo ne diventava mezzo, ad un’economia che l’uomo domina rendendola strumento per i bisogni dell’uomo.
Le posizioni più rappresentative di questa costruttività dell’uomo, dell’uomo nuovo, per usare specificamente i termini di Fromm, si trovano specialmente nella parte finale di Avere o Essere e in gran parte del Socialismo umanistico. Cercheremo di confrontare e di compendiare queste due opere le quali sono significative non soltanto come opere di Fromm, ma come il massimo sforzo, valido a tutt’oggi, di stabilire una via d’uscita alle difficoltà del capitalismo assoluto e dello statalismo assoluto.Ovviamente nel tracciare la ricostruzione Fromm riprende i temi della alienazione e della distruttività.
Nell’opera Avere o Essere Fromm puntualizza le caratteristiche dell’ipotetico uomo nuovo. L’ideale dell’uomo nuovo fu l’ossessione di gran parte del ‘900, uomo nuovo era quello fascista, uomo nuovo era quello nazista, uomo nuovo era quello del comunismo sovietico, quello cinese e successivamente quello del comunismo cambogiano. Quale era o poteva essere o doveva essere l’uomo nuovo a giudizio di Erich Fromm? Traiamo sue considerazioni dall’ultima parte del volume Avere o Essere.
Da p. 221 del testo, Fromm dichiara che lo scopo della società è quello di favorire la creazione dell’uomo nuovo. L’uomo nuovo dovrebbe avere tali qualità: rinunciare all’avere per l’essere; privilegiare l’essere, i rapporti, la solidarietà, non il possesso; mantenere un sentimento di distacco dalle cose, dai pensieri materiali, dare valore a se stessi; dare e condividere più che accumulare e sfruttare; amare la vita in tutte le manifestazioni; rinunciare per quanto possibile al narcisismo; accettare le limitazioni implicate nell’esistenza umana per quanto tragiche possano essere, evidentemente Fromm si riferisce al dolore e alla morte; sviluppare la fantasia non come fuga dalla realtà ma come capacità di superare le circostanze avverse; non ingannare gli altri; rendersi conto che il male e la distruttività sono conseguenze necessarie del fallimento del proposito di crescere: queste ultime parole, esplicite e letterali di Fromm, rientrano nella sua convinzione che la distruttività è legata a forme di fallimento, di frustrazione; trovare la felicità nel processo di crescita continua; andare oltre la società burocratica e cibernetica…
Fromm delinea le caratteristiche della nuova società e, nelle pagine successive a quelle che abbiamo riassunto, sottolinea come creare questa nuova società e sostiene che la nuova società non ha nulla di utopistico. In ogni caso, anche se dichiara che non stiamo nell’utopia, egli stesso sottolinea le difficoltà che esisterebbero nel creare la nuova società.
Fromm sottolinea particolarmente queste difficoltà: innanzitutto evitare, per dirla con le sue parole, un fascismo tecnologico dal volto sorridente. Tenuto conto che Avere o Essere fu pubblicato nel 1976, almeno nella sua edizione in lingua inglese e tradotto in Italia nel 1977, bisogna riconoscere che Fromm anticipava di molti anni l’idea di una società affidata più che alla politica all’efficienza tecnologica. Tema, del resto, l’abbiamo visto nell’Introduzione, specifico della Scuola di Francoforte.
Altra difficoltà da superare è quella di coniugare la pianificazione con la decentralizzazione, rinunciando per dirla alle sue parole all’economia del mercato libero che Fromm ritiene nei fatti largamente fittizia. Ma su questo argomento svilupperemo ampiamente la questione quando parleremo del socialismo umanistico. Altra idea specifica di Fromm, che avrà successivo sviluppo, è impedire la crescita illimitata, cercando invece una crescita selettiva; stabilire condizioni di lavoro in maniera che non si badi soltanto ai guadagni materiali ma alle soddisfazioni psicologiche; favorire lo sviluppo scientifico però non in modo da far si che le applicazioni dello sviluppo scientifico siano dannose per l’umanità ossia non sviluppando quella parte della scienza che potrebbe essere dannosa; limitare i piaceri; garantire la sicurezza degli individui ma non in maniera da renderli dipendenti dalla burocrazia; dare estremo incentivo all’iniziativa individuale che Fromm non intende soltanto come iniziativa economica ma iniziativa in tutto ciò che è creativo. Se riusciamo a evitare queste difficoltà perverremmo all’uomo nuovo e alla nuova società.
Fromm ritiene che il male essenziale si ha quando l’uomo resta imprigionato nel consumo o non sa affidarsi ad un consumo che egli definisce sano. Egli scrive anche sulla necessità della partecipazione all’attività economica che sarebbe una maniera per rendere concreta la democrazia, ma anche di questo parleremo successivamente; si oppone alla propaganda e alla reclamizzazione che considera una forma di instupidimento dei cervelli e di totalitarismo, in questo del tutto simile alle preoccupazioni della Scuola di Francoforte, si schiera per il reddito minimo garantito e per l’affrancamento della donna dal dominio dell’uomo. Vorrebbe che la società avesse un sistema di diffusione di informazioni che siano utili e vorrebbe che la ricerca scientifica non fosse soprattutto applicata all’industria e alle scoperte militari. Queste dovrebbero essere ulteriori aspetti della nuova società. Fromm sostiene continuamente che non si tratta di un’utopia ma di una delle possibilità concesse all’uomo, una sorta di città terrena del progresso, la definisce. Egli chiama questa futura società, città dell’essere.
Non dissimile sostanzialmente quanto in maniera più ampia Fromm scrive nell’opera più costruttiva della sua produzione: Umanesimo socialista. Ma a tal punto, bisogna definire l’umanesimo. E’ l’elemento cruciale di tutta la ricerca di Erich Fromm. Abbiamo già accennato che in fondo il concetto di "essere" è un concetto umanistico, l’uomo vale in quanto uomo non in quanto possessore di qualcosa fuori di lui.
Nel volume appena menzionato, tradotto in Italia per la Biblioteca Universale Rizzoli nel 1975, il concetto di umanesimo è collegato a vari orientamenti, quello buddistico, quello ebraico, quello cristiano, quello umanistico e rinascimentale, a Goethe e ad altri pensatori.
Si tratta, lo sappiamo, di affrancarsi dallo spirito dell’ avere, dallo spirito di possessività. E’ interessante, almeno per la nostra tesi, il fatto che Marx venga considerato all’interno dell’umanesimo. E’ una problematica che avremo modo di definire meglio. Che cosa s’intende per umanesimo socialista? Fromm nel cap. V affronta aspetti specifici della possibilità di fondare un umanesimo socialista, un socialismo umanistico, nella società moderna. E lo fa tenendo in conto di alcuni risultati effettivamente ottenuti nella società, anche nella società capitalistica. Ciò va sottolineato. In realtà, come già affermato da Marx, l’umanesimo socialista è possibile una volta che il capitalismo si è sviluppato. Umanesimo e socialismo sono la stessa cosa per Fromm, come in Marx. Non è il caso d’indagare la questione ma in Fromm questo è un aspetto cruciale così come in tutta la Scuola di Francoforte. O almeno, in chi, nella Scuola di Francoforte, aveva ipotesi positive e non solo negative sulla società futura, ad esempio Herbert Marcuse, pur dovendo considerare che gli scopi umanistici in altri teorici della Scuola di Francoforte non si collegarono al socialismo.
Fromm parte dalla constatazione che la quantità di lavoro è diminuita, che l’automazione è aumentata, che la giornata d’impiego è più corta, sottolinea inoltre che l’istruzione primaria è assicurata pressoché a tutti e che un gran numero di studenti partecipa anche alla scuola superiore. Ritiene inoltre che la quantità di divertimento è diffusa ampiamente e che gli uomini non si dedicano più esclusivamente alla lotta per la sopravvivenza ma anche alla possibilità di godersi la vita Questo ovviamente nelle società avanzate, nelle società del benessere. Nasce per questo il rovello di tutta la Scuola di Francoforte e segnatamente di Erich Fromm, direi di tutta la cultura critica del secolo scorso: se vi è tempo libero e possibilità di godimento e se l’ansia della sopravvivenza non schiaccia l’uomo e lo affatica, vi è, a tal punto, il rischio di un’alienazione da benessere?
Torniamo al solito tema di Fromm, e quando diciamo "solito", non lo diciamo in senso negativo, ma piuttosto per rilevare l’insistente ricerca che caratterizza la sua opera. Fromm, nell’opera citata, compie ancora una volta un’analisi dettagliatissima e assai anticipatrice, bisogna riconoscere, delle condizioni negative e del bisogno di uscire da tali condizioni negative dovute all’avvento della società del benessere. Egli sostiene che operai e impiegati diventano ingranaggi della macchina produttiva, e le loro funzioni di attività sono stabilite dall’intera struttura dell’organizzazione in cui operano.
Scrive Fromm: "Nelle grandi aziende, la proprietà legale dei mezzi di produzione si è andata separando dal management e ha perduto importanza. Le grandi aziende sono guidate da manager burocratici che non possiedono legalmente l’azienda, ma la possiedono socialmente. Questi dirigenti mancano delle qualità dei vecchi proprietari - iniziativa individuale, audacia, amore del rischio - ed hanno invece le qualità del burocrate: mancanza d’individualità, impersonalità potenza, scarsa immaginazione".
Non è una polemica nuova, del resto ne avevamo parlato. Era stato già Weber a sottolineare la rilevanza della burocrazia nell’epoca moderna, mentre Joseph Shumpeter aveva appunto affermato quel che Fromm riprende: che la produzione diventa sempre più socialistica in senso burocratico e perde quegli elementi di capitalismo d’avventura e di rischio che aveva avuto al suo sorgere. Fromm insiste su questo elemento burocratico. La burocrazia per Fromm rappresenta una variante del tipo anale, e il tipo anale, lo si è detto, a sua volta rappresenta per Fromm l’essenza stessa del sadismo e della negatività. Sulla burocratizzazione delle società moderne dopo Weber l’intera Scuola di Francoforte aveva affermato convinzioni altamente sfavorevoli. Per Fromm le burocrazie industriali, militari e governative diventano sempre più intersecate e milioni e milioni di individui ne sono regolati.
Anche le aziende e perfino le stesse organizzazioni sindacali vengono burocratizzate e il singolo perde importanza. Ribadiamo che questa è una problematica vastamente conosciuta. Negli anni ’50 Charles Wrigth Mills aveva, nel volume l’Elite del potere, definito questo controllo della società compiuto dai grandi gruppi militari politici e finanziari. E decenni prima Robert Michels aveva ampiamente dimostrato quanto le organizzazioni sindacali si burocraticizzino. Non diciamo questo per togliere a Fromm originalità, piuttosto per dire che egli riassumendo una grande elaborazione tenta di trovare una via d’uscita. Scommessa tanto necessaria quanto ardua. Continuando nell’analisi del sistema capitalistico-burocratico, Fromm nota un punto rilevante che merita un’ampia analisi. Si tratta del fatto che: "La produzione è guidata dal principio che l’investimento di capitali deve essere apportatore di profitti, anziché dal principio che a determinare che cosa si debba produrre siano i reali bisogni della gente. Dal momento che ogni cosa, compresa radio, televisione, libri e medicinali, è soggetta al principio del profitto, i cittadini vengono indotti mediante manipolazione al tipo di consumo che spesso risulta velenoso per lo spirito, a volte anche per il corpo" (p. 87 opera citata).
La distinzione tra bisogni veri e bisogni falsi, bisogni naturali e bisogni provocati, di cui abbiamo scritto, è una reminiscenza profondamente umanistica. E’ noto che Epicuro l’aveva affermata in maniera perfettamente limpida e in certo senso tutta la filosofia greca si basa sulla convinzione della possibilità di distinguere bisogni naturali da bisogni provocati e falsificati.
E’ con l’epoca moderna, esattamente con il capitalismo, che nasce invece l’idea opposta, che i bisogni secondari, superflui, di vanità, di stato sociale sono indispensabili all’uomo, addirittura muovono la macchina economica. Da Bernard de Mandeville a Voltaire, nel ‘700, l’affermazione che il superfluo rende attiva la produzione in quantochè la vastità dei bisogni suscita la produzione divenne un luogo comune dell’economia capitalistica. L’econo-mia capitalistica si fonda sul consumo e sulla immensa diversificazione ed amplificazione del consumo.
In concomitanza con queste concezioni sorgono le concezioni moralistiche contro il consumo già all’inizio del capitalismo. Fromm s’inserisce in questa disputa e condanna l’economia capitalistica dei consumi artificiali, più o meno come fa la Scuola di Francoforte. Indipendentemente dalla capacità di distinguere bisogni naturali e bisogni artificiali o provocati, cosa tutt’altro che semplice, è vero che l’economia capitalistica non potrebbe esistere privata dei bisogni accresciuti, provocati.
Ne viene dunque la necessità di modificare il capitalismo e di creare un capitalismo sottomesso alla volontà umanistica dell’uomo. Il socialismo umanistico nasce nel momento in cui negli uomini vi è la consapevolezza che il capitalismo badando al profitto suscita bisogni inutili e addirittura pericolosi ed in ogni caso inconsistenti. Rifondando i bisogni dell’uomo, individuando i bisogni necessari e utili all’umanesimo si ripristina un’economia umanistica, appunto. Lo scopo essenziale dunque dell’economia umanistica è quella di non fondarsi sul profitto e di non essere gestita da soggetti burocratici, da comitati di azionisti interessati esclusivamente al profitto.
E’ palesissimo che il socialismo che Fromm indica non è il socialismo sovietico. E’ una precisazione evidente ma indispensabile. Non bisogna dimenticare che Fromm scrive nel momento in cui il socialismo di tipo sovietico o comunismo ancora imperversava e sembrava poter dominare nei futuri secoli la società. Il socialismo umanistico nulla ha a che vedere con il socialismo statalistico e burocratico o comunismo. Fromm ci tiene a precisarlo: "Quale è l’odierna situazione del socialismo? Esso è stato sopraffatto dallo spirito del capitalismo al quale voleva sostituirsi. Anziché intenderlo come un movimento per la liberazione dell’uomo, molti suoi seguaci, al pari dei suoi avversari, l’hanno interpretato come null’altro che un movimento inteso al miglioramento della classe operaia. Gli scopi umanistici del socialismo sono stati dimenticati, tutto al più si rende un omaggio formale, mentre, come nel caso del capitalismo, l’accento veniva posto esclusivamente sugli obiettivi del vantaggio economico. Come gli ideali della democrazia hanno perduto le loro radici spirituali, così l’ideale del socialismo ha perduto la sua radice più profonda, vale a dire la fede profetico-messianica nella pace, nella giustizia e nella fratellanza umana" (p. 90, opera citata).
Ed aggiunge un’ulteriore precisazione su questa vicinanza del capitalismo e del socialismo statalistico o comunismo sovietico: "Il capitalismo e un socialismo volgarizzato e deformato, hanno portato l’uomo al punto da essere esposto al pericolo di trasformarsi in automa disumanizzato. L’uomo sta perdendo il proprio equilibrio mentale, ed è sull’orlo della totale autodistruzione. Soltanto la consapevolezza di questa situazione e del rischio che comporta, unita ad una nuova visione dell’esistenza tale da realizzare gli obiettivi di umana libertà, dignità, creatività, ragione, giustizia e solidarietà, possono salvarci da un quasi certo decadimento, dalla perdita della libertà e dalla distruzione. Non siamo obbligati a scegliere tra un sistema manageriale di libera iniziativa e un sistema manageriale comunista. Esiste una terza via, quella del socialismo democratico umanistico che, basandosi sui principi originari del socialismo, offre la visione di una società nuova, davvero umana" (p. 93 opera citata).
E veniamo alla costruzione del socialismo umanistico, com’è la dicitura del capitolo VI, che dovrebbe superare l’economia del semplice profitto, la riduzione dell’uomo a homo consumens, il sentimento dell’avere, l’aggressività che deriva dal sentimento dell’avere, l’economia gestita burocraticamente e cagionatrice di bisogni alterati sostituendovi un’economia presa in pugno da un uomo rinnovato che indirizza il percorso produttivo ai bisogni umani, al sano benessere.
Alla p. 97 dell’opera, Fromm delinea nitidamente lo scopo del socialismo umanistico: "Il socialismo umanistico è per la pace, è per la libertà dalla paura, dal bisogno, dall’oppressione, dalla violenza. Ma la libertà non è solo da qualcosa, è anche per qualcosa: libertà di partecipare attivamente e responsabilmente a tutte le decisioni riguardanti i cittadini, libertà di sviluppare il potenziale umano individuale nella massima misura possibile. Produzione e consumo devono essere subordinati ai bisogni della crescita dell’essere umano, e non deve accadere il contrario. Di conseguenza, la produzione tutta deve rispondere al principio dell’utilità sociale, e non a quella del profitto materiale per certi individui e organizzazioni economiche. Sicché, se si dovesse imporre la scelta tra maggior produzione da un lato, e maggior libertà e crescita umana dall’altro, si dovrà optare per il valore umano di contro al materiale". E Fromm aggiunge, per essere massimamente esplicito: "Se, per poter vivere in maniera umana, devono essere soddisfatti i basilari bisogni materiali, il consumo però non deve diventare fine a se stesso. Tutti i tentativi volti a stimolare artificialmente i bisogni materiali nell’interesse del profitto, devono essere impediti. Lo spreco di risorse materiali ed il consumo insensato, fine a se stesso, sono distruttivi per il pieno sviluppo umano".
Come attuare questa conversione dell’economia del profitto che stimola bisogni inutili o dannosi e porre un’economia che stabilisce la soddisfazione di bisogni effettivamente necessari e non distruttivi per lo sviluppo umano? Con la democrazia economica. La democrazia economica o partecipazione, è l’elemento cruciale dell’elaborazione umanistica di Erich Fromm. Il controllo democratico sulle attività economiche, viene ritenuto da Fromm indispensabile per convertire l’economia dall’economia del superfluo all’economia del necessario ed esclusivamente dei bisogni che fanno sviluppare l’umanità dell’uomo.
Scrive Fromm: "L’estensione della democrazia nella sfera economica significa controllo democratico di tutte le attività economiche ad opera dei partecipanti: lavoratori manuali, tecnici, amministratori, e via dicendo. Il socialismo umanistico non si occupa selettivamente di questioni di proprietà legale, bensì del controllo sociale di grandi e forti industrie. Un controllo irresponsabile in rappresentanza degli interessi di profitto del capitale, deve essere sostituito da un’amministrazione che agisca a profitto di coloro che producono e consumano, e con il loro controllo. La meta del socialismo umanistico può essere raggiunta soltanto a patto che s’introduca il massimo di decentralizzazione compatibile con il minimo di centralizzazione necessario al funzionamento omogeneo di una società industriale. Le funzioni dello stato centralizzato devono essere ridotte al minimo, e deve essere l’attività volontaria dei cittadini liberamente cooperanti a costituire il meccanismo centrale della vita sociale" (p. 98, opera citata).
Fromm condivide l’idea specifica del suo tempo, di cui abbiamo vistosissime tracce anche oggi, che il decentramento sia necessario per avvicinare la democrazia ai cittadini, per rendere la società democratica. Un’altra concezione diffusa al suo tempo e a quanto sembra ripresa oggi, pure se con finalità del tutto diverse, come diremo, è l’opinione che gli uomini i quali gestiscono democraticamente l’impresa, possono convertirla a bisogni necessari e opportuni per l’accrescimento umano. Vi è in Fromm una convinzione, che proviene sicuramente da Marx, la quale suppone i lavoratori più idonei a stabilire un’amministrazione a favore dell’uomo che non il management devoto al profitto. Questa concezione proviene dal socialismo dell’ ‘800, non necessariamente marxista, anche se in Marx la concezione assume forme gigantesche. Sono concezioni le quali ritengono che sicuramente i lavoratori saprebbero diffondere a tutta la società i vantaggi della produzione altamente produttiva, non tanto e non solo favorire l’accumulazione del profitto, piuttosto, i lavoratori, sarebbero capaci, ripeto, di orientare la produzione alla soddisfazione dei bisogni necessari per i più gran numero di soggetti.
Fromm si rende conto che ipotizza ai limiti dell’astrazione, dell’improbabile o del non sperimentato, sicché si premura di stabilire che questo tipo di economia democratica e di socialismo umanistico intanto è possibile in quanto vi è nell’uomo l’aspirazione ad una vita più umana. E precisa che il socialismo umanistico: "Si basa sulla fede nella nostra capacità di costruire un mondo che sia veramente umano e nel quale l’arricchimento della vita e lo sviluppo dell’individuo siano gli obiettivi primi della società, mentre l’economia sia ridotta al ruolo che le si addice, quello di mezzo per raggiungere una vita umanamente più ricca".
Abbiamo già scritto che Erich Fromm, ma in genere tutta la Scuola di Francoforte, non è contro la proprietà privata. Resta il dilemma di come possa conciliarsi proprietà privata con democrazia economica. Fromm ritiene di poter superare l’ostacolo distinguendo il possesso legale dal controllo del possesso e della proprietà. Ecco come definisce l’eventualità: "Secondo il principio che per il socialismo è essenziale il controllo sociale e non già la proprietà legale, primo compito sarà la riforma di tutte le grandi aziende in modo che i loro amministratori siano nominati e pienamente controllati da tutti gli interessati, operai, impiegati, tecnici, con la partecipazione dei sindacati rappresentanti dei consumatori. Tali gruppi costituiranno la massima autorità in ogni grande azienda; saranno essi a decidere in merito a tutte le questioni fondamentali riguardanti produzione, prezzi, utilizzazione, fitti, ecc." (p. 103, opera citata).
A questo punto Fromm ritiene di poter stabilire le varie modalità di questa presunta gestione sociale dell’impresa. Gli azionisti, nella sostanza i proprietari, possono ricevere un compenso per l’uso del loro capitale; essi però non devono controllare l’impresa e l’amministrazione. Come e perché i proprietari consentiranno che il loro capitale sia gestito da altri rientra nella prospettiva dovuta alle tesi di Burnham che scindeva proprietà da gestione e si riteneva che ormai fossero i manager non più i proprietari a gestire l’impresa.
Ma Fromm compie un passo in avanti, decisivo. Dalla possibilità che l’impresa venga gestita non dai proprietari del capitale, Fromm trae l’idea della possibilità della gestione dell’impresa da parte dei sindacati, dei tecnici, direi : da parte della società in genere, per interessi sociali. E i capitalisti, ossia i proprietari? Avrebbero avuto soltanto e niente più che una remunerazione opportuna ma non esorbitante del loro capitale. Scrive Fromm: "L’autonomia dell’azienda sarà limitata dalla pianificazione centrale, nella misura in cui è necessario far si che la produzione serva a fini sociali. Le piccole aziende dovrebbero operare su base cooperativistica, ed andranno incoraggiate mediante provvedimenti fiscali ed altri mezzi. Qualora non operino su base cooperativistica, gli appartenenti all’azienda stessa dovranno partecipare ai profitti e controllare l’amministrazione nella stessa misura del proprietario" (p. 104, opera citata).
Fromm accoglie tra le idee della sua epoca quella di una pianificazione democratica, tesi già prospettata da Karl Mannheim negli anni ’30, quando le concezioni socialistiche dominavano. Ma risulta interessante e tutt’altro che da scartare l’idea di imprese di piccole dimensioni su base cooperativistiche. Fromm non va oltre questa ipotesi del cooperativismo. È, però, un elemento utile per una prospettiva di economia che non sia né capitalistica né socialistica in senso comunista.
Anche l’idea della nazionalizzazione come controllo totale sui mezzi fondamentali per la società, è un’idea tipica dell’epoca. Fromm sostiene che l’industria petrolifera, le banche, la televisione, la radio, l’industria farmaceutica e quella dei trasporti devono essere nazionalizzate. Evidentemente la nazionalizzazione viene intesa al modo partecipativo, vale a dire la gestione è attivata dai sindacati, dai consumatori e da parte di coloro che operano nelle aziende.
Fromm aggiunge, ed è un’altra considerazione importante, che per quel che riguarda i settori in cui la società ha dei bisogni per il soddisfacimento dei quali non vi è una produzione adeguata, deve essere la società medesima ad occuparsi di quella sfera produttiva ed incrementarla. Egli ribadisce di continuo che il socialismo non è contro la proprietà individuale d’uso, nè vuole il livellamento dei redditi, ma piuttosto che i redditi siano dati in proporzione allo sforzo e all’abilità degli individui. Tuttavia aggiunge che le differenze di reddito non dovrebbero essere tali da impedire che il modo di vivere dell’uno sia del tutto estraneo a quello dell’altro, in sostanza i dislivelli sociali non dovrebbero essere tali da creare una forma di separazione e di esclusivismo. Per quel che riguarda le articolazioni politiche e rappresentative che Fromm ipotizza, esse sono piuttosto vaghe. Vi è la decentralizzazione, la burocrazia dovrebbe essere ampiamente diminuita, vi dovrebbe essere un continuo esame critico dei rappresentanti eletti e addirittura essi potrebbero venire revocati.
Detto questo, entriamo, in questa ricostruzione umanistica, in un terreno dalle conseguenze assolute, di enorme rilievo. Si tratta della pace, della guerra, delle attività culturali. Da p. 109 del volume Umanesimo socialista a seguire Fromm cerca addirittura di stabilire quale potrebbe essere la politica estera di questa futura società dell’uomo nuovo. Talvolta egli rasenta la circolarità, ad esempio quando afferma che la guerra può essere scongiurata soltanto se i due blocchi (bisogna tener conto che l’opera è stata scritta quando esisteva anche il blocco comunista) se i due blocchi, ripeto, accettano le attuali, per quel tempo, posizioni economiche e politiche, e rinunciano ad ogni tentativo di mutarle con la forza. È ovvio che se non si vuole mutare la situazione con la forza la guerra viene scongiurata. Più di rilievo quel che Fromm scrive con riguardo agli armamenti. A tale proposito è addirittura per un disarmo unilaterale. Egli, inoltre, anticipa la politica odierna sugli aiuti ai paesi sottosviluppati e vorrebbe che esistesse divieto alla possibilità che i capitali degli Stati Uniti vengano collocati in altri paesi interferendo con l’indipendenza di tali paesi; vorrebbe un rafforzamento delle Nazioni Unite; vorrebbe che fosse sostenuto l’aumento generale del tenore di vita; sostiene la decentralizzazione; vorrebbe eliminare quanto più possibile la miseria, la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia e stabilire una più ampia assistenza sanitaria; propone una commissione economica composta dai consumatori, e ciò non è da sottovalutare; investimenti governativi per la costruzione di case ed ospedali, per attività culturali come musica, teatro, danza, arte figurative; vorrebbe specialmente che gli Stati Uniti sperimentassero i lavoratori come partecipanti alla direzione dell’impresa e che lo stato, egli esattamente dice il governo, organizzasse delle aziende che competano con l’industria privata, nei campi fondamentali in cui i privati non hanno convenienza a produrre, l’ho accennato; insiste sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa, sull’accrescimento dell’importanza dei sindacati e sulla eliminazione quanto più possibile della propaganda politica e commerciale.
Conclusione
Possiamo concludere quest’analisi che abbiamo cercato di svolgere nel modo più esauriente possibile tenuto conto della vastità delle problematiche e della ampiezza dell’opera di Fromm e in certo senso di tutta la Scuola di Francoforte, salendo fino a Marx, e a Freud. Il punto essenziale della concezione di Fromm è la volontarietà dei comportamenti umani. Se noi togliamo questa premessa, la concezione di Fromm crolla. Quando diciamo volontarietà non intendiamo "libero arbitrio" ma intendiamo che non vi è nell’uomo qualcosa di talmente connaturato che non possa essere modificato dall’educazione e dalla società. In questo senso la volontarietà non consiste nella libertà del volere, consiste piuttosto nella formazione non deterministica nè interiormente nè biologicamente dell’uomo.
L’uomo è libero in quanto lo si può costruire in vari modi senza che il determinismo psicologico o biologico conti fondamentalmente. Non che Fromm esclude l’elemento biologico psicologico intrinseco all’uomo, ma nega che siano forze tali da sottrarsi alla plasmabilità dell’educazione e della società. L’individuo è, per dirla sociologicamente, soprattutto una costruzione sociale. Perfino l’inconscio deriva dalle esperienze e dalla formazione educativa. L’inconscio è dunque anch’esso o soprattutto esso sociale, poi lo ritroviamo nell’individuo ma in quanto elaborato socialmente.
Restano in questa concezione delle discutibilissime conseguenze. Se in realtà la violenza dell’uomo, per concretizzare, è dovuta a frustrazioni bisognerebbe spiegare come la frustrazione non crei sadismo distruttivo in tutte le persone che sono frustate. Quello che risulta discutibile, in sostanza, è che la teoria di Fromm di un’inconscio socialmente formato, come personalità che noi ritroviamo in noi, frutto non di elementi inconsci strutturali, ma di elementi inconsci nel senso che vengono ricevuti dall’infanzia e dalla formazione infantile, questa concezione, ripeto, non coglie che dei soggetti sottoposti alla frustrazione, non sviluppano egualmente tendenze ad esempio sadiche, come sembra affermare Fromm. Ci vorrebbe forse più cautela su quel mistero che è l’individuo. Quando si da troppa importanza agli aspetti sociali della nostra formazione poi si perde l’elemento individuale. Il che significa di dover essere più scettici sui rimedi alla distruttività umana. O, meglio, si stabiliscano rapporti di causa ed effetti non comprovabili. Noi non sappiamo se il sadismo è derivato dalle frustrazioni.
Il che significa anche, posto che non esiste un rapporto di causa ed effetto della frustrazione con il sadismo, che una società dove l’aggressività potesse manifestarsi in forme competitive benigne, per dirla con Fromm, non necessariamente attenuerebbe la carica di aggressività malvagia. Del resto è la teoria della sublimazione di Freud, ma Freud non riteneva che sempre la sublimazione elimina la violenza. L’umanesimo di Fromm consiste nello spostamento dell’energia dell’uomo da attività distruttive in attività aggressive ma positive. Resta il fatto che è difficilissimo condizionare la psiche umana e stabilire una relazione di causa effetto tra condizioni negative e distruttività e condizioni positive e positività di comportamento.
Ma non vorremmo aggiungere altro. Giacchè se poi ritenessimo che l’uomo è un ente inestricabile in cui l’avere e l’essere, la distruttività e la positività s’intersecano senza possibilità di distinzione, allora ogni umanesimo sarebbe infondabile ed esso nascerebbe casualmente e non programmabile da nessun’educazione del genere umano.
A conclusione, dicevo, di questa analisi del pensiero di Erich Fromm, non possiamo, anzi dobbiamo fare delle considerazioni. La prima considerazione è che non esiste forse nel ‘900, un saggista più ostinatamente difensore dell’umanesimo e della libertà, che ne è la condizione e, anche, l’espressione, di Erich Fromm.
L’opera di Fromm, tanto assillante, ripetitiva, onesta lascia tuttavia innumerevoli quesiti, il primo dei quali è la convinta opinione di Fromm che non esiste un male, una malvagità radicale nell’essere umano, e che l’educazione, la conoscenza, meglio ancora, possono esercitare un effetto di sanatoria, se non assoluto certamente sostanziale. Tutta la base del pensiero di Fromm deriva dalla sua negazione di un inconscio che sussiste nell’uomo indipendentemente dai condizionamenti sociali. Per Fromm, l’abbiamo detto, l’inconscio è frutto dell’inculturazione che il soggetto ha degli elementi sociali del suo tempo e della sua situazione sociale specifica. In questo senso l’inconscio, così come viene formato dalla società, può essere modificato dalla società, o può essere modificato dall’individuo nel momento in cui egli prende coscienza della situazione in cui la sua personalità si è formata, della situazione in cui si è formato il carattere sociale dell’individuo. E’ questa un’opinione la cui base scientifica, la cui probabilità dimostrativa è assolutamente indefinibile o non accertabile. Noi non sapremo mai quanto il nostro inconscio sia dovuto all’accumulo dentro di noi delle circostanze sociali in cui viviamo, quanto dalle forze originarie che sussistono già in sé stesse, quantunque poi, di sicuro, le circostanze esterne permettono una loro configurazione, più o meno, in un senso o un altro senso.
In realtà, il presupposto di Fromm che l’individuo è formato dalla società e che quindi la psicoanalisi andrebbe interpretata socialmente, come formazione sociale dei processi psicologici individuali, non ha più fondamento accertabile della teoria che è la personalità individuale a formare, per sommatoria, la situazione sociale. Non perché la società sia non influente sull’individuo ma perché l’individuo non è esclusivamente un prodotto sociale.
Comunque, resta il dubbio se in noi sussista o no una disposizione distruttiva o se la cultura, la conoscenza, il predominio del senso critico possano attenuare questa nostra distruttività e, quindi, una filosofia umanistica potrebbe riuscire ad elevare la morale degli uomini e volgerla all’essere e non all’avere, per usare la definizione cruciale di tutta la concezione di Fromm.
Detto questo, tutta la concezione di Fromm risulta, se non vulnerata, ipotetica. E’ giusto ripeterlo: noi non sappiamo minimamente quanto la conoscenza e la cultura materiata di valori umanistici possano migliorare e volgere al bene l’umanità. Inoltre, noi non sappiamo quanto questo tipo di cultura possa difendere i valori che essa propugna. In verità la difesa dei valori umanistici del XX secolo ha dovuto affrontare delle guerre, delle violenze, degli atti terrificantemente distruttivi, e questo proprio in difesa dei valori umanistici! Il che significa che i valori umanistici sono anch’essi valori che per sussistere devono ricorrere a quegli elementi che sono da considerare propri dell’antiumanesimo: la guerra, l’odio, la violenza, lo sterminio. Ed allora c’è da dubitare che l’umanesimo possa difendersi in quanto tale. C’è da dubitare altrettanto che la libertà possa difendersi solo con la proclamazione della libertà.
La difesa dell’umanesimo e della libertà rischia di avere bisogno di quei valori o non valori di violenza, di guerra, di lotta che vengono considerati del tutto, lo si diceva, antiumanistici. In tal senso, il confine tra umanesimo e antiumanesimo rischia di diventare così incerto da confondersi e perdere qualsiasi realtà orientativa. Ciò non significa minimamente che umanesimo e libertà equivalgono ad antiumanesimo e illibertà. Ciò significa soltanto che la difesa dell’umanesimo e della libertà non passa soltanto per l’umanesimo e la libertà, ma anche per la guerra e per la violenza. Ed è dubbio che l’umanesimo e la libertà sarebbero capaci di difendersi soltanto con la proclamazione dell’umanesimo e della libertà.
Altra questione, non meno grave, è quella riguardante la proclamata teoria dell’essere in contrapposizione al primato dell’avere che dominerebbe specialmente la nostra società. Anche in tal caso Fromm è troppo netto nella contrapposizione. In verità, noi non sappiamo quanto l’avere serva all’essere. Chi accumula ricchezze ma con questa accumulazione di ricchezze favorisce la creazione di musei, di fondazioni, il mantenimento di artisti va considerato nel campo dell’avere o dell’essere? Fromm ritiene l’avere criticabile soltanto per l’accumulo passivo della ricchezza. Ma questo accumulo passivo della ricchezza non esiste o esiste rarissimamente. La ricchezza ha un suo estremo dinamismo, e proprio l’accumulazione esige che vi sia attività. Quindi, la contrapposizione tra essere, che consiste nel fare, e avere che consiste nell’accumulare passivo, è, nelle concrete situazioni della vita, raro. Di solito l’avere è un avere attivo, anzi fin troppo attivo.
Nella realtà della vita noi abbiamo un intreccio continuo di essere e di avere, per cui l’avere serve all’essere anche quando non vuole o non lo fa direttamente, è il caso dichiarato del mecenatismo compiuto per la vanità di chi ha ma che poi si risolve in opportunità per l’arte. Senza questo scambio la società si inaridirebbe e non darebbe nessun risultato di essere, ossia di quel fare, che Fromm ritiene essenziale.
Se guardiamo dunque i due aspetti cruciali dell’opera di Fromm: l’idea che non esiste un inconscio personale agitato di distruttività e di erotismo, ma esiste un inconscio sociale che può essere modificato con la cultura umanistica e con l’umanesimo socialista; se consideriamo la concezione di Fromm di un essere del tutto svincolato dall’avere; se consideriamo queste due concezioni non possiamo non ritenerle concezioni opinabili e troppo radicalmente dissociative dalla complessità della vita. Ci rendiamo conto che tutta la concezione di Fromm si basa su una difesa dell’umanesimo e della libertà che nella concretezza non si esprimono né vengono tutelate nelle forme in cui Fromm vorrebbe.
Abbiamo un umanesimo e una libertà che, come abbiamo detto, ricorrono spesso alla violenza, per difendersi, e abbiamo un essere che ha bisogno spessissimo dell’avere per esistere. Ciò significa che l’umanesimo non può essere considerato immune da tutti gli elementi negativi che sono propri della vita e ineliminabili.
La difesa dell’uomo non passa dunque per una spaccatura della realtà, ma per una difesa dell’uomo tenuto conto di quanto inevitabilmente negativo vi è in noi, e di quanto sia complesso l’intreccio delle vicende per affermare con sicurezza che l’esistenza di una cosa può fare a meno dell’esistenza dell’altra.
Ma queste sono obiezioni che Fromm potrebbe respingere facilmente. Anche se l’avere è congiunto all’essere, anche se la violenza non può essere separabile dall’umanesimo o può costituirne una difesa, quantunque Fromm non sottolinei questa ipotesi, in ogni caso l’essere e l’umanesimo sono i valori finali dell’esistenza umana, i valori a cui tutti gli altri sono asserviti o dovrebbero esserlo.
Dunque, quale che sia l’intreccio delle forze indispensabili alla vita o per la vita, i valori finali, i valori che danno nobiltà all’uomo e ne difendono l’essenzialità, sono l’essere e l’educazione all’umanesimo. Fromm insomma potrebbe replicare che l’avere e la violenza non possono costituire i valori definitivi ed ultimi dell’uomo e che invece le ragioni dell’uomo sono quelle della difesa dell’umano dell’uomo, arte, filosofia,relazioni non oppressive e a questi valori finali egli ha consacrato tutta la sua opera.
L’umanesimo e la libertà in Erich Fromm consentono di cogliere la drammatica situazione in cui si trovò e si trova l’Europa, specialmente, e anche il mondo, nel secolo scorso e oggi. Diciamo "specialmente" l’Europa giacchè l’elaborazione dell’umanesimo è tipicamente europea. Non è facile ne immediato cogliere che significhi umanesimo, e tuttavia bisogna tornare a definirlo per capire le preoccupazioni di Erich Fromm e di moltissimi intellettuali, filosofi, uomini politici, artisti, a riguardo.
L’umanesimo, dicevo, è un’elaborazione specificatamente e peculiarmente europea. Si tratta di considerare l’uomo un’entità primaria rispetto all’ordine della natura. Primaria perché dotata di ragione, primaria perché consapevole, primaria perché laboriosa nell’arte, nella scienza, nella filosofia, nella politica, in tutto un insieme di attività che lo rendono particolarissimo nei confronti di tutto il genere animale e naturale.
L’uomo è individuo o, meglio, persona relazionata, che ha l’orgoglio dell’indipendenza e la necessità della libertà per esprimere le sue qualità. L’umanesimo consiste nel riconoscere la dignità dell’uomo nell’insieme della natura e la necessità di avere rispetto per le caratteristiche sopra menzionate dell’uomo facilitandone l’espressione.
Ogni volta che è conculcata, attenuata, svilita la possibilità dell’uomo di esprimersi nell’arte, nella filosofia, nelle scienze, nella politica e quant’altro, è svilita l’umanità dell’uomo. Certo non basta qualsiasi espressione dell’umanità, l’umanesimo reputa che l’uomo debba esprimersi nella qualità delle sue facoltà, in maniera che in ogni sua espressione sia rinvigorita la sua capacità umanistica, in qualche modo. Quindi l’umanesimo rafforza l’umanità dell’uomo e l’umanità dell’uomo rafforza l’umanesimo, la libertà rafforza l’umanesimo e l’umanità ed è libertà solo ed esclusivamente quando rafforza l’umanesimo e l’umanità.
E, torno a dire, umanesimo ed umanità significano esprimersi nell’arte, nella filosofia, nella scienza, nella politica quale "arte" direzionale della società e capacità strumentale di consentire all’uomo di esprimersi nell’arte, nella filosofia e nelle scienze. Umanesimo è lo spazio dell’uomo, la distanza dall’altro e la relazione che colma questa distanza ma nello stesso tempo la riafferma. L’umanesimo è contro gli agglomerati, le masse, l’indistinto della persona, la persona indistinta.
D’altro canto non può esserci persona indistinta. Ed è in ciò la grande conquista dell’umanesimo, quella della persona distinta e relazionata, distinta con un suo spazio di autonomia e di libertà e di dipendenza relazionata nella capacità di costituire società, associazione, nazione, stato. Sono conquiste tipiche dell’Europa e sebbene noi possiamo considerarle conquiste liberali, tuttavia sarebbe assurdo ritenere che solo il liberalismo abbia consentito tali conquiste.
A tali conquiste hanno contribuito il mondo greco, mondo razionale per eccellenza, mondo della capacità dell’uomo di autodefinire le proprie regole di autocomportamento, di analizzare, di vagliare, di affidarsi alla razionalità; il mondo ebraico, con l’estrema disposizione della discussione, della interpretazione, della volontà di capire, di criticare anche; e il mondo cristiano che certamente ha fatto dell’individuo in relazione all’altro individuo e nel rispetto reciproco, ossia della persona, la base della società.
L’umanesimo è fondamentalmente mondano e terrestre, risolve l’uomo in se stesso e nell’altro. Nel ventesimo secolo l’umanesimo fu schiantato dall’irrazionalismo totalitario che consisteva specialmente nel negare il primato della persona e della sua libertà di espressione nell’arte, nella filosofia, nella scienza e nella politica.
Era come se l’individuo o la persona, meglio ancora, non valessero alcunché e dovessero essere guidati dal partito, dallo stato, secondo criteri di classe o di razza, criteri che non erano più quelli della ragione e del giudizio personale ma dall’appartenenza ad una classe, ad una razza, ad uno stato. Il totalitarismo nazista e il totalitarismo comunista meno il totalitarismo o autoritarismo fascista, ebbene il totali tarismo nazista ed il totalitarismo comunista annientarono la persona.
La persona in quanto tale non contava più nulla. Contava il proletariato o contava la razza ariana. L’individuo non aveva più alcun diritto nè alcun motivo per affidarsi alla propria razionalità. Doveva subire o accettare ideologie imposte o proposte da poteri superiori. Contro questa possibilità insorsero moltissimi intellettuali, uomini consapevoli che al contrario bisognava ancora ancorare l’uomo all’umanesimo come l’abbiamo definito. Tra questi Erich Fromm. Il quale però visse sufficientemente per combattere l’altro aspetto dell’antiumanesimo ossia l’aspetto dell’assorbimento dell’individuo nel circuito dei consumi e della produzione, nel quale circuito il soggetto diventava un ingranaggio della possibilità di consumare per far produrre e di far produrre per consumare, nel quale circuito l’arte, la filosofia, la scienza e la stessa politica diventavano mezzi per il fine del consumo.
Anche questo aspetto è antiumanistico e se l’antiumanesimo totalitario annientava il diritto dell’individuo, ed anche l’esigenza, di fondarsi sulla propria autodeterminazione razionale, l’antiumanesimo produttivistico e consumistico annientava addirittura il bisogno che l’uomo si esprimesse e non si limitasse a consumare.
Abbiamo visto durante l’analisi dell’opera di Fromm le difficoltà della rifondazione dell’umanesimo e certe specifiche difficoltà della rifondazione come la propone Fromm. Perché Fromm non si limita alla riproposizione dell’umanesimo come lo abbiamo accennato e in un certo qual modo definito, egli cerca di accompagnare alla rifondazione dell’umanesimo anche la non violenza, l’avversione alla guerra, la prevalenza dell’essere sull’avere… Indubbiamente Fromm condusse una battaglia che va ancora condotta. Perché non è cessata la lotta contro l’antiumanesimo. Anzi, bisogna dirlo, se c’è epoca antiumanistica è proprio la nostra, a tal punto antiumanistica che sembra quasi estinta la velleità di combattere l’antiumanesimo e ci si rassegna senza alternativa.
Ma questo è un discorso di altra natura e costituirebbe oggetto di altre analisi. Quello che ci preme dire è come Erich Fromm ha lottato contro il doppio antiumanesimo del ventesimo secolo, quello totalitario e quello produttivistico consumista.
Marx, Freud e Fromm
Appendice
E’ assolutamente necessario un chiarimento sull’insistenza, perfino ossessiva, che Fromm rivolge, nella sua amplissima opera, alle teorie di Karl Marx e di Sigmund Freud, ritenendole fondamentali per l’umanesimo. In realtà Fromm può compiere quest’operazione, può assimilare le tesi di Marx e le tesi di Freud all’umanesimo e precisamente al suo umanesimo, in quantochè tiene in conto aspetti di Marx e aspetti di Freud che a Fromm convengono e, con un metodo discutibile, elimina le tesi di Marx e le tesi di Freud che sono di tutt’altra convinzione e che susciterebbero ardui problemi d’integrazione nell’àmbito dell’umanesimo come lo intende Fromm.
In realtà tutto il pensiero rivoluzionario di Marx, la concezione della dittatura del proletariato come mezzo necessario alla rieducazione del genere umano perché sia tolta la passione della proprietà, le concezioni di Marx che fanno dell’abolizione della proprietà privata lo strumento essenziale per riacquistare la proprietà di se medesimi, come uomini non alienati nella proprietà, appunto, ebbene tutte queste concezioni di Marx sono escluse dalla valutazione di Fromm; ecco perchè Fromm può con facilità, dunque, con troppa facilità, assimilare le teorie di Marx all’umanesimo.
Infatti, che umanesimo, nel senso di Fromm, sarebbe mai, che umanesimo è mai quello di un autore, quale è Marx, ritiene necessaria la dittatura? E che umanesimo è mai quello di un autore, ancora Marx, il quale ritiene indispensabile storicamente il superamento della proprietà privata e non si accontenta certo della partecipazione degli operai all’impresa o della, piuttosto vaga, distinzione tra proprietà e direzione manageriale?
E per venire a Freud, che umanesimo è mai, umanesimo inteso alla maniera di Fromm, quello di un autore, quale Freud, il quale considera la civiltà inevitabilmente repressiva, indomabile ed insopprimibile l’inconscio individuale, laddove Fromm fa dell’integrazione dell’inconscio sociale al conscio la base essenziale del suo umanesimo, e nega l’esistenza di elementi insopprimibili, ineducabili nell’uomo?
La maniera con cui Fromm nel saggio Marx e Freud, tratta il pensiero di Marx e Freud è ampiamente unilaterale, o troppo circoscritto. È pur vero che Marx esalta la coscienza, la consapevolezza ed è pur vero che anche Freud esalta la coscienza e la consapevolezza.
Marx però ritiene trasparente l’agire umano, non più dominato dalla falsa coscienza e dall’ideologia, solo dopo la fase della dittatura del proletariato e l’abolizione della proprietà; laddove in Freud, pur essendoci la fiducia nella scienza psicoanalitica e nella possibilità di rendere l’uomo più cosciente dei motivi del proprio agire e quindi sempre più consapevole, vi è però convinzione che l’inconscio medesimo sfuggirà sempre ad una radicale consapevolezza e ad un’integrazione nel conscio.
La psicoanalisi di Freud non è la teoria che propugna un finale congiungimento dell’inconscio nel conscio il superamento dell’inconscio nel conscio. L’originalità di Freud sta, all’opposto, nel negare radicalmente la possibilità dell’integrazione dell’inconscio nel conscio.
Risulta pertanto difficile e perfino talvolta non corretto questo voler fare di Marx e Freud dei sostenitori dell’umanesimo. Non perché Marx e Freud non possano essere considerati dei difensori dell’uomo, ma perché non lo furono certamente nel modo che riteneva Fromm, e certo non lo furono soltanto inspirandosi alla semplice consapevolezza dei valori dell’essere rispetto all’avere, del bene rispetto al male, quasi che ciò bastasse a risolvere il male nell’uomo e il male tra gli uomini.
Ben altro concepirono Marx e Freud e le loro teorie non possono venire spazzate traendone parti e oltretutto traendole in maniera, diremmo, filologicamente alterata. In sostanza, l’uomo integrale, l’uomo non alienato, dovrà passare o no per la rivoluzione socialista e la dittatura del proletariato? Al dunque, l’uomo nevrotico rimarrà sempre tale o riuscirà a sanare la nevrosi? E come? Soltanto con la consapevolezza di essere nevrotico, di essere sadico, necrofilo e lottando per i buoni valori umani? E basta la lotta per i buoni valori umani per rendere umano l’uomo?
Sembrerebbe che Fromm si riduca a questa concezione: battersi per i buoni valori dell’umanità significa rendere l’uomo più buono e più umano. Ma è proprio questo che negarono tanto Marx che Freud. Quindi, l’assimilazione di Marx e di Freud al pensiero umanistico della buona volontà, è estranea al pensiero di Marx e Freud.
Tutta la concezione di Fromm, lo dobbiamo ripetere, ha come fondamento che l’uomo non è malvagio per natura o meglio non è malvagio definitivamente e degli accorgimenti sociali, dei cambiamenti nei sistemi sociali, possono favorire una personalità meno disposta alla sopraffazione e al dominio, rispetto alle società che non educano l’uomo. Una tra le insistenze, tra le molte insistenze di Fromm, è appunto quella di negare la costitutività della violenza nelle sue varie forme dentro l’individuo.
E una delle insistenze è quella di ritenere che in un certo senso la violenza, nelle sue varie forme, è determinata o sollecitata da particolari strutture sociali. Ma ritenere che l’organizzazione industriale capitalistica sia fomentatrice di violenza è azzardato. È difficile dimostrare che la violenza nelle società industriali sia accresciuta rispetto alle società precedenti.
Stermini, massacri, rivalità individuali, pericolosità della vita, incertezza ve ne sono stati da sempre e che il capitalismo li abbia accentuati, ribadiamo, non è facile dimostrarlo. E’ un’idea diffusa quella che il male, per usare questa parola impegnativa, sia accresciuto o specifico di alcune epoche e di alcune strutture sociali. Ma nella concretezza storica, senza negare che certe forme sociali possono attenuare la violenza, sembra difficilissimo trovare rimedio al male.
Dicevo che la concezione di Fromm è di tutt’altro genere. Fromm ritiene che alcuni provvedimenti possono giovare all’eliminazione o perfino alla sparizione del male. Questi otterrebbero certe forme attenuate o partecipative di proprietà, così il salario di sussistenza che eliminerebbe l’affanno della vita e l’obbligazione a provvedere al necessario, così le varie lotte per evitare le discriminazioni, così la battaglia contro gli armamenti ed il riarmo, che addirittura Fromm ipotizza da una sola parte, giacché nega la teoria di una possibilità di far pausa all’avversario con il proprio riarmo, in quanto questo supporrebbe una corsa all’infinito.
Sono alcuni suggerimenti che Fromm sottolinea. Si rimane perplessi nel ritenere possibili queste misure come idonee alla statuizione dell’umanesimo e al superamento del male. Particolare significato in questa concezione di Fromm è l’idea di un poter evitare la guerra o di poter combattere la guerra, diciamo, non armandosi. Questa è una concezione davvero opinabile e che in un certo senso fa dubitare dell’intera struttura umanistica di Fromm.
E’ veramente arduo immaginare che a base di una struttura, di una tensione umanistica, vi sia la non difesa di se stessi. Si pone l’ardua questione: che fare contro il violento che non si cura minimamente della nostra volontà umanistica e ci aggredisce? A quest’ipotesi Fromm non dà risposta. Egli dà per scontato che per difendersi non è necessario impaurire l’avversario con i propri armamenti.
E tuttavia non è che convinca inevitabilmente che per affermare la pace è opportuno non armarsi, o armarsi di meno, o cominciare a ridurre gli armamenti da una sola parte senza che gli altri lo facciano. Si potrebbe dire lo stesso della partecipazione, del controllo sull’economia da parte della base sociale.
Quando Fromm afferma che sono i bisogni sociali che devono essere soddisfatti, anche in tal caso dà per scontato che i bisogni sociali siano bisogni migliori di quelli presumibilmente suscitati dall’industria del consumo. Ma non abbiamo la minima prova che la società gestita dai lavoratori vorrebbe dei consumi migliori e meno dissolutori dei consumi sollecitati dall’industria.
E in quanto al salario minimo accertato per tutti, anche in tal caso noi non sappiamo se questo gioverebbe all’attività degli individui o non susciterebbe inerzia poiché, bene o male, la sopravvivenza è assicurata.
È vero che l’uomo rassicurato nella sopravvivenza potrebbe dedicarsi ad attività più sentite e meno costrette dal bisogno, meno alienate, ma non si deve escludere una certa ignavia, sollecitata dall’appagamento dei bisogni indispensabili di sopravvivenza.
E tuttavia alla resa dei conti è indispensabile essere umanisti, essere umani, difendere l’umanesimo. La questione è come farlo e fino a che punto non può accadere che la difesa dell’umanesimo provochi effetti assolutamente contrari a quelli della difesa dei diritti dell’uomo.
Purtroppo non sempre né l’uomo buono, né l’uomo umano, né l’uomo retto hanno sopravvissuto contro l’uomo malvagio, prepotente e distruttivo. La vera questione, e Fromm pur con il suo bagaglio psicoanalitico non è che sia chiaro al riguardo, è su che cosa avverrebbe in uno scontro tra l’essere e l’avere, tra distruttività e umanesimo. E inoltre, e in ciò Fromm è abbastanza reticente, possiamo realmente separare l’essere dall’avere, l’umanesimo dalla distruttività?
Possiamo separare gli elementi interni all’uomo e non cogliere l’inestricabile intersecazione delle forze, per cui una forza si giova dell’altra per scopi diversi da quelli specificamente perseguiti? La teoria di Freud dimostra l’intersecazione oscura e necessaria delle forze. Indubbiamente meglio la sublimazione che il sadismo, meglio un sadismo sublimato che un sadismo esercitato come tale.
Ma difficile davvero supporre una società in cui domini esclusivamente l’essere, una società che elimini del tutto il sadismo necrofilo. Difficile supporlo perché i rimedi adottati e concepiti da Fromm non ci danno, ripetiamo, questa certezza. E d’altro canto non esiste in Fromm la visione e la valutazione della diversità umana che è di per se fonte di conflitto.
Fromm trascura che gli uomini essendo diversi per gusti, qualità mentali, qualità morali, caratteristiche psicologiche tendono ad affermare ciò che sono sugli altri e contro gli altri e che la vera ragione della lotta umana è proprio dovuta alla differenziazione degli individui. Ma questa differenziazione come ragione di conflitto in Fromm non sussiste.
Indubbiamente bisogna cercare di regolamentare il conflitto. O che il conflitto non sfoci nella distruzione. Ma ancora una volta vi sono delle differenziazioni che portano alla lotta per il solo fatto di sussistere come tali. E’ nell’affermazione della propria identità la base del conflitto. Ribadiamo: anche in tal caso bisogna tentare di evitare che l’affermazione della propria individualità avvenga con la distruzione degli altri.
Ma che fare, e torna la domanda essenziale, se dobbiamo difendere la nostra identità, il nostro diritto ad essere chi siamo? Bastano la professione di tolleranza, di pace, basta la devozione all’essere?