I. Il recupero di prospettive etico-politiche roussoviane nel confronto fra Stato, ‘volontà della nazione’ ed individuo (1931).
Nel 1931, non ultimo in concomitanza con l’assidua partecipazione a ‘Lo Stato’, di Costamagna - , si avverte una sensibile attenuazione della sua collaborazione alla ‘RIFD’, sulla quale comunque appare il fondamentale saggio intitolato Pluralismo giuridico e unità dello Stato(1). Qui, Curcio riprende adesso quanto aveva ‘da sempre’ affermato Panunzio(2) a proposito della sorta di ‘circolarità’, cioè di una reciproca ‘distinzione-interazione’, fra autonomia delle associazioni professionali e la necessaria mediazione da parte dello Stato. In siffatta ‘circolarità’ - secondo Curcio per niente scontata dal Regime (ed anzi palesemente contraddetta dalle sue statuizioni) -, le associazioni avrebbero dovuto ricevere dallo Stato il riconoscimento giuridico della loro funzione rappresentativa. E, viceversa, quest’ultimo avrebbe dovuto recepire proprio da quelle l’imprescindibile apporto di vitalità, di spirito creativo, di progettualità ‘rivoluzionaria’. Una progettualità nel senso di un vero rinnovamento sociale, politico ed alla fine istituzionale, che solo questo tipo di organismi professionali poteva assicurare all’ordinamento statuale, rendendone possibile la sostanziale unitarietà politico-giuridica nella molteplicità dei loro diversi apporti e delle loro distinte funzioni.
Sullo sfondo di questo problema del ‘corporativismo’, in realtà si stagliava - come è intuibile - una questione insolubile. Quanto Curcio ora rivendicava erano i motivi stessi della sua iniziale adesione al fascismo. Del resto, per lui come per Panunzio ed altri fascisti della prima ora, la questione fondamentale era stata quella di concretare a fronte dello Stato un ruolo sostanziale delle organizzazioni professionali. Allora si era in effetti trattato di dar corpo a quelle istanze di individualità, di élitismo, di libertà organizzativa e di una loro rappresentatività politica, che il ‘fascismo-movimento’ aveva inteso sì combattere nell’interpretazione estremistica, sovversiva, dei socialisti, ma certamente non negarne in linea di principio la loro sostanziale validità, ed anzi rivendicarne una più veridica interpretazione.
Qui potremmo dire che il primo Curcio, quello liberale - non diversamente dal primo Panunzio, socialista, e più in generale non diversamente da tutto il sindacalismo fascista, nato dal ceppo del socialista sindacalismo rivoluzionario - si era trovato avviluppato nell’eterna contraddizione di ogni prospettiva rivoluzionaria, che sorge per la rivendicazione di maggiore libertà e rappresentanza politica, per poi contraddittoriamente realizzarsi in una metamorfosi dittatoriale. E si tratta sempre di una dittatura che non lascia mai più alcuno spazio a nessuna autonomia. Una dittatura di ‘salute pubblica’ che talora, se non sempre, ‘divora i suoi figli’ (come accadde nel 1789-99), o quanto meno li marginalizza. Come appunto questi ‘fascisti delusi’ di cui stiamo trattando, i quali alla fine si ritrovarono costretti a celarsi nelle pieghe di una cultura alternativa (quella della ‘RIFD’, nella fattispecie di Curcio), mentre nella pubblicistica di più ampia ed ufficiale diffusione ritennero di dover continuare a professarsi aderenti all’ortodossia del ‘Partito unico’.
Tutto questo spiega per un verso il ‘ritorno di fiamma’ liberale di questi saggi di Curcio apparsi sulla ‘RIFD’, sia - anzitutto, e specialmente - quelli del 1930 che si sono prima visti, nel precedente paragrafo, sia anche questo dell’autunno-inverno del 1931, Pluralismo giuridico e unità dello Stato. Per altro verso si spiega anche il lungo silenzio sulle pagine della ‘RIFD’ nei precedenti tre quarti di quell’anno. E non ultimo il silenzio degli anni seguenti, in cui sulla ‘RIFD’ Curcio pubblica quasi esclusivamente recensioni, eccetto l’ampio studio intitolato Machiavelli nel Risorgimento, sul fascicolo di gennaio-febbraio 1934(3). Una collaborazione ‘a intermittenza’, dunque, a confermare, in certo senso l’ alfa e l’omega del decennio 1924-34.
Sul momento, infatti, Curcio si dedica soprattutto alla rivista di Costamagna, quantunque nel 1931 la sua riflessione non si differenzi molto dalla suddetta impostazione peculiare del 1930 sulla ‘RIFD’, che evidentemente ha lasciato una traccia indelebile. Infatti, da un lato, troviamo anche qui, su ‘Lo Stato’, la stessa miriade di scritti meramente occasionali(4), fra cui si distingue solo, all’inizio dell’anno, una pur retorica panoramica sulla diffusione planetaria del fascismo (La marcia sul mondo)(5). E d’altra parte, a luglio, nella rubrica Note e discussioni, compaiono sia un’importante riflessione sulle componenti filosofico-rivoluzionarie del pensiero roussoviano (Anti-Rousseau?)(6), sia due altre significative analisi, nella rubrica Rassegna di dottrina e di giurisprudenza. Si tratta precisamente sia - in ottobre - di un’ampia disamina dal titolo Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana(7); sia - in dicembre - di un significativo ripensamento intitolato Liberalismo e politica antica (8).
Con lo scritto intitolato Anti-Rousseau? siamo in presenza - lo si avverte subito - di un’ulteriore svolta nella complessiva riflessione storica, filosofica e politica di Curcio, il quale si conferma sostanzialmente ben al di là dell’ideologia fascista. Adesso - dopo l’afflato etico-religioso del saggio del 1930 sulla ‘RIFD’ - anche sul piano prettamente filosofico-politico si annuncia in lui quella rivalutazione del pensiero illuministico e della stessa Rivoluzione che - se sul momento segna la sua distanza dall’ideologia fascista ed annuncia le più ampie riflessioni dell’immediato secondo-dopoguerra(9) - prefigura già il carattere della sua conclusiva teoria politica(10).
In effetti a queste conclusioni non può che indurci la lettura di queste brevi e dense pagine dell’Anti-Rousseau?, nelle quali fra l’altro si può cogliere un’ampiezza di concetti che solo in Cassirer e, molto più tardi, in Fetscher è dato ritrovare riguardo al Ginevrino(11). Nell’ Anti-Rousseau?, Curcio inizia con una lunga disamina della pregiudiziale avversione che, particolarmente negli storici francesi (e con immediati riflessi fra gli italiani), si è venuta manifestando fra Otto-novecento, in un rifiuto totale della Rivoluzione francese in cui si è giunti a coinvolgere anche lo scrittore ginevrino, nei cui confronti ora gli stessi intellettuali fascisti palesano una preconcetta avversione(12).
Non che non ve ne sia un motivo anche filosofico, - continua Curcio - date non tanto le pur gravi contraddizioni morali della sua vita, quanto soprattutto le antinomie del suo pensiero(13). E qui, rielaborando una categoria schmittiana, considerata però in senso non totalmente svalutativo, Curcio afferma che il pensiero roussoviano è una "forma tipica del romanticismo politico"(14). Ossia è un’espressione di quell’utopia che comunque non è del tutto negativa, in quanto rende possibile immaginare il futuro, per poi plasmarlo sulla base dei nostri ideali rivoluzionari.
Il riflesso di questo ‘romanticismo politico’ sul piano della teoria della genesi dello Stato induce sì Rousseau ad un’incessante, inarrestabile ricerca di un modello di perfezione, ma è un’utopia che evoca costantemente un ‘ordine nuovo’ da creare in forme dinamiche. Così del resto - osserva in sostanza Curcio, anticipando alcune implicazioni sulla distinzione, che prenderà corpo nel 1940, fra l’utopia ed il mito politico(15) - si svolge la storia umana(16).
"Allora, è tutto caduco in Rousseau? Non resta proprio nulla di lui?"- si chiede Curcio, e risponde: "Dal punto di vista costruttivo, sì", non resta niente della sua speculazione politica, "ma da un punto di vista ideale, no": non è affatto vero che non ci abbia lasciato nulla di valido(17). Dobbiamo a lui l’intuizione della necessità di fondare la politica sulla morale, e quindi di costruire lo Stato su una base etica, con il contributo attivo di tutti i componenti del corpo sociale, senza deleghe incondizionate, senza una rappresentanza che sia rinuncia ad una partecipazione attiva alla politica.
"L’ideale di Stato, lo Stato postulato nei suoi termini estremi, è perciò, in lui, un vero e proprio Stato etico, uno Stato nel quale tutti sono, tutti agiscono, tutti sono presenti"(18). Nonostante tutte le critiche che si sono fatte o che si possano ancor oggi fare alla democrazia come amorfa somma di individui, l’idea di Rousseau era invece quella di una ‘democrazia non di massa’, ma costituita dalla compresenza attiva di tutti i membri del corpo sociale(19). Da qui una democrazia eticamente fondata sull’individuo e quindi distinta dal liberismo individualistico, dall’egoismo insociale, come pure dagli utopici livellamenti egalitario-comunistici(20).
Tuttavia, se questi sono gli apporti positivi che Rousseau ha dato all’elaborazione dello ‘Stato etico’, d’altra parte - continua Curcio - mancava alla sua teoria un fattore che potesse tradurre in un modello politico efficace la sua visione, che pertanto resta utopica. Gli mancava una considerazione della forza politica che potesse realizzare il suo ideale, il quale perciò rimane astratto, senza nesso con le istituzioni storiche e l’azione politica(21).
Restando mera utopia, astrazione, la sua filosofia politica fatalmente alimenterà poi il Terrore, la necessità di usare in maniera radicale, assoluta, la forza per costringere nel quadro utopico dell’ordine politico astrattamente concepito una realtà non considerata e capita nelle sue concrete dimensioni storiche(22).
Ed allora, si chiede di nuovo Curcio, "tutto da gettar via Rousseau?"(23). E di nuovo, in apparenza contraddittoriamente, risponde che sì, ma fino ad un certo punto. "Bisogna saper leggere bene nelle pagine della storia del pensiero, le quali contengono sempre una dolorosa esperienza dello spirito umano"(24). Certo, il Rousseau di maniera, l’idolo di "una certa democrazia", di coloro che non hanno capito nulla della politica, è da rimuovere, da dimenticare. Ma non quello che appare da tante pagine della sua vita e dei suoi scritti, protagonista di una drammatica, disperata, ricerca etica di un ordine migliore, di una perfezione esistenziale, peraltro irraggiungibile. Se il suo ‘perfettismo’ etico ha pur prodotto Robespierre, che percorse la terribile via per raggiungere questa perfezione impossibile, tuttavia in sé l’idea di un primato dell’etica sulla politica è il debito che nell’epoca moderna abbiamo con il Ginevrino.
Dunque, la ricerca di Rousseau non è priva di un suo fondamentale valore, pur smarrito nell’astratta visione razionalistica. Malgrado i suddetti limiti, vi sono nelle sue formulazioni imprescindibili insegnamenti, e non soltanto di errori da non ripetere, ma di uno stadio forse necessario per l’umanità, oggi forse superato ma proprio grazie anche all’individuazione roussoviana di antinomie e contraddizioni che lui non seppe risolvere, ma che ancora potremmo a nostra volta trovarci di fronte alla necessità di affrontarle e superarle(25).
Non poteva essere più esplicito il richiamo di Curcio al Regime, in queste pagine posto di fronte alla drammaticità implicita al configurasi, per giunta solo formalmente, come l’ideale di Stato, come lo "Stato postulato nei suoi termini estremi", uno "Stato etico, uno Stato nel quale tutti sono, tutti agiscono, tutti sono presenti"(26).
Denuncia dunque di una tragica inadempienza del Regime. Inadempienza del resto implicita, inevitabile in ogni troppo ambiziosa costruzione storica, che si incammina lungo una via in cui si dovrebbe riuscire ad evitare due scogli che alla fine si rivelano insuperabili. Da un lato, ogni progettualità ‘totalizzante’, in questa ricerca di perfezione scade nel formalismo giuridico, nell’imposizione di molto di più di quanto potrebbe trovare consenso, e quindi di un ordine che rasenta l’abisso di risolversi in mero strumento per ogni abuso di legalità, del tutto inconciliabile con la legittimità politica.
Dall’altro, tale progettualità si fonda presuntivamente su di un’eticità troppo perfetta, troppo astratta rispetto alle effettive situazioni storiche e condizioni umane, e motivo di imposizioni che nei loro effetti risultano sempre dispotiche e socialmente coercitive e dilaceranti.
Dopo questa riflessione su Rousseau, che rappresenta proprio sulle pagine di ‘Lo Stato’ forse il punto più alto di questo suo ulteriore avanzamento verso l’abbandono dell’ideologia, Curcio continuò nella sua attività di tono minore, con contributi di non eccelsa rilevanza su questa stessa rivista di Costamagna. E cioè, sia nelle rubriche(27), sia con recensioni(28). E fra queste un certo rilievo ebbero soltanto i temi affrontati in Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana, nel fascicolo del novembre 1931(29), sul quale del resto vennero pubblicati altri suoi scritti sia nelle stesse rubriche(30), sia con una recensione relativa all’accennata pregiudiziale anti-roussoviana dominante in quel momento in Francia(31).
Sul fascicolo di dicembre, assieme alle solite brevi note sui problemi di immediata attualità - nella rubrica Rassegna delle riviste, con Guerra e liberalismo(32) e Politica, diritto e Stato(33) -, Curcio riconverte l’attenzione sul significato dell’idea liberale nell’epoca contemporanea. Non è certo un ritorno puro e semplice alla sua iniziale fede liberale (per la quale si era comunque rivolto al fascismo, riconoscendovi allora, negli anni Venti, una più sicura egida contro i pericoli incombenti sia da parte del ‘formalismo giuridico borghese’, sia da parte degli eccessi del radicalismo socialista). Adesso, nel progressivo attenuarsi delle motivazioni ideologiche che lo avevano sospinto alla militanza fascista, Curcio sente venuto il momento di ripercorrere tutta quanta la storia dell’ideale liberale.
In tal senso va visto infatti il suddetto scritto intitolato Liberalismo e politica antica(34), in cui si ha un’altra testimonianza di come, accanto al ripensamento sulla democrazia e sulle idee illuministe, egli stia recuperando un più vasto orizzonte sui problemi fondamentali della politica. Se comunque si tratta di una rivalutazione parziale, nondimeno ha chiaramente un suo significato questa attenta riflessione sui momenti e processi per i quali nella storia occidentale l’idea liberale ha rappresentato, e rappresenta, un’occasione perduta, precisamente in quanto l’indiscutibile valore della libertà subisce fatalmente un travisamento, scadendo nell’individualismo, nella prevalenza di interessi egoistici, materialisti, economici e non più politici.
In sostanza, - argomenta qui Curcio - l’idea di libertà ha avuto una sua insostituibile valenza, fondamentale per la politica, fino a che è stato un sentimento di forti personalità, di temperamenti eroici, capaci cioè di realizzare il proprio interesse sublimandolo sul piano politico, facendone una componente essenziale della politica e dei fini della comunità. È un convincimento di cui qui Curcio cerca conferma nella storia greca, romana e contemporanea. Il suo ragionamento inizia dalla distinzione di Benjamin Constant fra la libertà degli antichi e dei moderni, confutando però i termini della sua asserzione dell’improponibilità di una composizione fra l’antica subordinazione della libertà individuale rispetto al primato della comunità (la polis, la respublica) e l’attuale primato del liberismo, del mero interesse economico, egemone rispetto alla società(35).
Oggi sarebbe dunque sbagliato concepire il liberalismo non soltanto nei tratti di uno ‘Stato di diritto’ che fornisca garanzie puramente formali (come finiscono per essere le cosiddette "libertà politiche e civili"), ma anche nella fattispecie di un individualismo fonte di egemonie e di particolarismi economici incompatibili con la politica(36). Del tutto valida risulta invece l’idea liberale, quando sia correttamente intesa, ossia inserita armonicamente nel complesso di altri elementi fondamentali della politica. Libertà politiche e civili, individualismo ed interessi particolari, "sono, senza dubbio, caratteri essenziali del liberalismo; ma, connessi ad essi altri ve ne sono, oltrecché politici e giuridici, [anche quelli] economici, morali e spirituali"(37). Tutto sta nel definire una composizione equilibrata fra questi diversi contesti. Una mediazione certo difficile. Anzi impossibile da conseguire in questa come nelle epoche che ci hanno preceduto, ma proprio perché si è sempre finito per assolutizzare la libertà, ed ancora la si assolutizza, sia decisamente negandola che acriticamente esaltandola.
Ma tutto questo non significa affatto che la libertà non sia di per sé un valore, quantunque resti sempre problematico riconfrontarla e renderla compatibile con l’ordine politico. Non ci riuscì, qui ha ragione Constant, l’idea di libertà che nacque nel contesto arcaico della polis, originariamente "composta da una possente organizzazione di famiglie", ove l’individuo era solo soggetto, e di fatto annullato(38). Qui certo ben poca era la libertà, come del resto nelle epoche successive. Però nell’ulteriore sviluppo della polis, nelle guerre e nell’antagonismo con altre poleis, le famiglie gentilizie diventarono a loro volta soggette, subordinate allo Stato, mentre l’individuo finì per acquistare una sua piena autonomia. Allora proprio le forti personalità furono protagoniste dell’espansione territoriale e del commercio(39).
Analogo il processo dell’idea di libertà nel mondo romano, nel quale solo nella fase decadente si venne perdendo un originario senso della libertà individuale contestuale all’eguaglianza politica. Se è innegabile che il diritto romano ha un suo fondamento nel diritto civile, nella tutela della propria autonomia giuridica ed economica, in seguito poi questo "atteggiamento praticistico", non più "permeato da spirito eroico", ebbe l’effetto di snaturare il diritto, liberandolo gradualmente dal contesto politico, per cui si ridusse "a forma pura", perdendo "la sua forza organizzatrice e difensiva dell’ordine"(40).
Svuotato da ogni sostanziale individualità politica, allora come adesso il diritto diventa qualcosa di astratto, di solo formalisticamente universale. In tal modo finisce la grande stagione della politica romana. Allora le lotte sociali fanno desiderare l’allontanarsi dalla politica. "La libertà eccede e trionfa. La disciplina scema e decade"(41). Poi le legioni si ribellano. Gli operai si organizzano. Non sono più schiavi, ma masse di liberti, di stranieri cui viene concessa la cittadinanza. Eppure restano turbolenti ed intemperanti. Aumenta il caos con altre guerre. Ci vuole un ritorno all’ordine. Si inquadrano queste masse nelle corporazioni, ma ormai è scomparsa ogni possibilità di instaurare una libertà sostanziale, al tempo stesso individuale e politica. "Dopo il III secolo le corporazioni diventano obbligatorie, elementi dello Stato. Il liberalismo si é suicidato. L’eccesso di libertà fa rimpiangere l’ordine, la gerarchia, l’accentramento"(42).
Parole in cui certamente Curcio produce un chiaro riferimento non solo all’Italia post-unitaria, al sistema ideologico e normativo ‘borghese’, bensì allo stesso Regime, al sistema totalitario, come risultante dell’occasione mancata di recuperare contro tale formalismo economico una libertà politica sostanziale. Pertanto, una conclusione come questa, se non è un pieno recupero dell’idea liberale comunque testimonia non tanto la legittimazione della dittatura, quanto il rimpianto per qualcosa di essenziale per la politica, la perdita della stessa libertà. Una perdita antica, pregressa, certamente, ma che surrettiziamente il Regime riconferma e rende definitiva, con il pretesto di riaffermare l’ordine autoritario contro i suoi veri e pretesi eccessi.
II. Oltre l’economicismo sindacalista, le suggestioni universalistiche e le ideologie etnico-naturaliste : il problematico riconoscimento della nazione come ‘comunità etica’ (febbraio-aprile 1932).
Nell’anno successivo, il 1932, la collaborazione di Curcio a ‘Lo Stato’ riprende nel gennaio nelle rubriche(43) e recensioni(44). Maggiori implicazioni, in riferimento alla questione corporativa-sindacalista, ha lo scritto che apparve in febbraio, con il titolo La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone(45). Qui Curcio sviluppa il tema del recupero dell’idea di libertà, sin lì (con Liberalismo e politica antica) argomentato nei confronti del Regime, nel richiamo ai presupposti stessi del confronto con il ‘sovversivismo socialista’, accentuando peraltro le implicazioni di una critica di fondo allo stesso capitalismo borghese. Con La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone infatti Curcio indica nel sindacalismo l’ elemento vitale delle originarie implicazioni della rivoluzione fascista. Un elemento che peraltro a Curcio appare sempre più formalmente surrogato dal ‘corporativismo di Stato’.
Questa recensione al libro di Leone, intitolato appunto La teoria della politica(46), pone l’accento sui principali aspetti del sindacalismo nell’arco di tempo compreso fra il 1891 ed il 1901(47). Quantunque risalente a tempi così relativamente lontani, in questo lavoro Curcio scorge infatti l’opportunità di ripercorrere la vicenda stessa dell’insanabile divaricazione prodottasi dapprima fra il sindacalismo socialista ed il sindacalismo fascista, e successivamente fra quest’ultimo e le posizioni teoriche e normative relative alle ‘corporazioni di Stato’(48).
Una teoria, questa di Leone, che appare a Curcio come la vera e propria "reazione allo schematismo astratto de’ teorici della Politica degli ultimi tempi", i quali l’hanno "resa tisica", riducendola a mero "formalismo etico-giuridico, che è pura astrazione"(49). Un discorso che si riferisce anche qui evidentemente allo stesso Regime. Sulla base di questo convincimento, in effetti, Curcio ascrive a grande merito di Leone il fatto di presentare ora la sua interpretazione del sindacalismo come una riflessione critica sulla "esasperata teoria politica del Fascismo"(50).
Un " volo d’aquila" dunque che questo vecchio sindacalista compie nella ricostruzione della vicenda perduta del sindacalismo, allo scopo - sottolinea Curcio - di "tentare una costruzione integrale, geniale, ciclopica della nuova Politica, intesa in tutta la sua estensione ideologica e umana, concepita in tutto il dramma del suo sorgere, del suo svolgersi, del suo effettuarsi nella storia del mondo"(51).
A parte una forte impostazione positivista(52), quanto resta valido nelle tesi di Leone, formulate da alcuni decenni, è la consapevolezza che lo Stato "non è un’ideologia astratta, una formula, un mannequin dell’immaginazione", bensì "un fatto di esperienza, una realtà vivente, operante nella storia, negli uomini"(53). Lo Stato non è "un edificio che una volta eretto sfida i secoli", ma un ordine che "viene riedificato perpetuamente attraverso la storia"(54). Malgrado dunque i palesi convincimenti positivisti di Leone (che a tratti lo inducono a identificare lo Stato con i governanti, a patto che siano i più forti, i più capaci, i più razionali), tuttavia - osserva Curcio - il vecchio sindacalista ha ragione quando coglie l’elemento vitale, dinamico, dello Stato, al di là di qualsiasi formalismo, di qualsiasi staticizzazione del fenomeno istituzionale(55).
Nondimeno, - rileva Curcio - non è tutta qui la concezione politica di Leone. Tutt’altro. È un "semenzaio di idee, di concetti, di teorie, che s’accavallano, si sommano, qualche volta s’elidono anche", e tuttavia sono sempre convergenti verso quello che è il nucleo del suo discorso, ed assumono cioè il significato di una ricerca della più vera valutazione ed interpretazione di taluni concetti politici fondamentali(56).
In tale prospettiva vanno in realtà considerate tante altre sue formulazioni. Le teorie sulla guerra, sulla rivoluzione, "intesa non già come vizio dello Stato, ma esprimente invece l’adattamento di nuovi rapporti alla vita d’insieme"(57). E poi la nozione di libertà, concepita come "illusione creata dalla Politica", nel senso che può aver realtà effettuale solo in un ordine sostanzialmente e formalmente politico(58). Infine, la critica del parlamentarismo, "illusione anch’esso creata dalla Politica, ‘pianeta della potenza’, che lo fa vivere", e la critica della stessa democrazia(59).
Su quest’ultima sembra comunque a Curcio che Leone abbia insistito criticamente in maniera troppo "violenta, acuta, acre, […] com’è logico, del resto, intuire da quello che s’è detto, perché questa politica essendo politica di potenza, di autorità, è antidemocratica per natura, per principio, per istinto"(60).
In tali tratti - non senza una qualche confusione argomentativa fra quello che sostiene Leone ed i suoi propri convincimenti - Curcio indica poi altri aspetti rilevanti di questa teoria sindacalista. Anzitutto, l’impostazione positivista di una tale analisi della politica come scienza, come ‘scienza politica’, secondo cioè una concezione di impronta razionalista, che comunque coglie molto spesso nel segno(61).
Dopo questa recensione, né nel rimanente di questo fascicolo di febbraio di ‘Lo Stato’, né in quello di marzo, Curcio va oltre alcune rassegne(62) e recensioni(63). Ad aprile, si percepisce invece qualcosa di nuovo con Concludere(64). Qualcosa di più dei soliti contributi di immediata attualità(65). Così anche nel fascicolo di maggio, dove viene ripresa la questione del liberalismo (con Il liberalismo e l’esperienza europea, sorta di recensione, senza un significativo commento, alla Storia d’Europa nel secolo decimono di Croce)(66). Per il resto, ancora una profluvie di scritti minori(67). Così pure nel fascicolo di giugno(68).
Sempre nel 1932, attenuata sensibilmente la collaborazione a ‘Critica fascista’ , e nella continuazione nei suddetti termini quella su ‘Lo Stato’, - d’altra parte Curcio non solo pubblica due importanti monografie (La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese(69), e L’Italia e l’Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana(70)), ma soprattutto intensifica la sua presenza sulla ‘RIFD’.
Sulla rivista di Del Vecchio infatti Curcio produce - oltre alla solita copia di recensioni(71) - un fondamentale saggio, apparso sul fascicolo del marzo-aprile, intitolato La coscienza dello Stato(72). Qui ora Curcio sviluppa anzitutto un’approfondita riflessione sulla nozione di ‘nazione’, che gli appare troppo a lungo fraintesa nel passato, sia quando veniva identificata totalmente con un’etnia, sia quando venne poi annientata appunto in un universalismo utopico, astratto(73).
La nazione - si chiede Curcio - è davvero una "realtà viva, pulsante, operante nel pensiero e nella storia, nello spirito e nello svolgimento dei fatti politici; o è assai meno, anzi nulla", come diceva Proudhon, definendola una pura "illusione, un mito?"(74).
Quesito di cui la risposta, secondo Curcio, va ricercata, prima di altro, nella complessa storia di questa idea ‘nazionalitaria’. Un’indagine che però va svolta non sul piano della ‘scienza politica’, ma su quello della storia delle idee, delle dottrine politiche’, in quanto la nazione non è un dato oggettivo, scientificamente valutabile, bensì un’ entità intimamente connessa con il variare delle "esigenze della vita sociale e politica", in stretta correlazione dunque con sempre nuovi "valori che parevano", prima, del tutto "inammissibili"(75).
Precisato questo, nei primi due paragrafi di La coscienza dello Stato, Curcio considera poi attentamente le principali interpretazioni dell’idea di nazione nell’antichità. Ad iniziare da quella che appare la sua prima effettiva formulazione, cioè nel contesto culturale del Vecchio testamento. In effetti, - asserisce Curcio (quasi in un’eco del soreliano Étude sur l’histoire profane de la Bible, del 1889) - la Bibbia è il vero e proprio "vangelo della nazionalità"(76), il luogo dove il concetto di nazione appare "considerato come un’unità non solo etnica, ma spirituale e storica, etico-politica e pregiuridica"(77).
Nel prosieguo della vicenda dell’idea di nazione si sviluppa un processo articolato in due momenti. Dapprima, da questa fase iniziale, nella cultura ebraica, si passa alla versione greca del Vecchio testamento (nel testo cosiddetto dei Settanta, fra III-II secolo a.C.), che segna nell’ellenismo il superamento dell’idea di nazione che aveva avuto corso nella Grecia classica(78). In un secondo momento, mezzo millennio dopo, con la traduzione in latino (nella Vulgata, prodotta attorno al 405-406 d. C. da San Girolamo), tale processo sfocia finalmente in una puntuale corrispondenza con il significato che si dava all’idea di nazione nel mondo romano, nel senso di riconoscervi "come un’entità separata almeno dal concetto di Stato"(79).
Soprattutto a Roma, la formulazione di princìpi e di valori nazionalitari recepita dalla Bibbia ha trovato un’armonica composizione sul piano dell’universalismo cristiano. Avvenne allora un ‘superamento dialettico’, nel senso di un processo ulteriore, inteso ad inglobare, senza disperderne integralmente le distinzioni culturali, qualsiasi esclusivismo etnico. Una sintesi, dunque, che si è poi codificata in idee e concetti veicolati infine grazie alle strutture amministrative dell’Impero romano(80). È pertanto più propriamente con il pensiero politico romano che appare la sostanziale novità rispetto a tutte queste precedenti incertezze, confusioni ed antinomie(81). Nasce allora l’idea di Stato come entità irriducibile alle singole comunità etniche, da cui però tale idea trae vita ed alimento, in ragione di specifiche diversità che nello Stato stesso trovano un significato superiore(82).
Si deve però comprendere il postulato culturale, etico-politico, di una tale entità statuale, che si fonda sostanzialmente su delle molteplicità. Per cui non se ne possono trascurarne, unificandole nella loro distinzione, le diverse peculiarità e le interazioni vicendevoli che sussistono fra di esse, per il tramite dello Stato, e con lo Stato stesso(83). Dunque un’entità statuale - ripete qui (con le stesse parole di Cicerone) Curcio, ed ancora in funzione critica verso lo ‘Stato-Regime’ - che non può mai credersi impersonata assolutamente in un un’unica entità, né nella nazione-etnia, né nella persona di un solo principe o sovrano(84).
Una precisazione, quest’ultima, più eloquente di ogni altro discorso a dimostrare una profonda critica al Regime che qui sulle pagine della ‘RIFD’, in questo 1932, prende corpo più chiaramente che non nel saggio del 1930 (L’ostetrica del diritto).
Una critica che del resto prefigura la successiva presa di distanza di Curcio dallo stesso totalitarismo ‘nazional-socialista’, sulla base appunto di un’inaccettabilità del criterio ‘etno-centrico’. Qui il discorso di Curcio si fa dunque più preciso, andando oltre la precedente argomentazione, sul sindacalismo e sul corporativismo. Al di là dell’insoluto confronto fra la ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ e l’ ‘unità dello Stato’, adesso sembra a Curcio che la rivendicazione di un ruolo delle individualità concrete, quelle effettualmente operanti sulla base di motivazioni etico-politiche, possa realizzarsi più convincentemente attraverso la distinzione di differenti livelli dell’esperienza istituzionale e normativa.
Del resto, qui una simile complessità viene considerata da Curcio sulla base di una prospettiva intesa a superare lo stesso contesto dello Stato nazionale. Sulla base del riferimento all’esperienza imperiale romana, adesso Curcio intende chiarire come l’asserito primato dello Stato totalitario debba essere relativizzato sui due versanti sia dei rapporti con la ‘società civile’ (cioè sul piano del confronto fra il ‘diritto positivo’ e lo ‘ius civile’), sia delle relazioni internazionali, adesso ormai da considerare secondo le implicazioni del ‘diritto delle genti’ (lo ius gentium).
Si tratta comunque di una relativizzazione che richiede di porsi concettualmente al di là della dimensione storica attuale. Si tratta infatti di capire come l’essenza di questo ridimensionamento del primato dello Stato, vada colta lungo le diverse fasi di un processo storico articolato in singoli momenti e differenti tipologie di motivazione etica e di aggregazione politica. Una complessità di implicazioni, dunque, che ora Curcio cerca di chiarire attraverso una spiegazione incentrata su di una molteplicità di fattori e di individualità politicamente operanti nella storia. Si tratta pertanto di una spiegazione che insiste sull’interazione vicendevole fra contesti, esperienze, acquisizioni storiche che sono al tempo stesso irriducibili reciprocamente gli uni agli altri, e vicendevolmente interattivi e complementari nell’ordinamento istituzionale che da loro stessi risulta(85).
"In sostanza lo jus civile - che è particolare a ciascuna città, relativo, cioè alla tradizione, alle abitudini, alla origo del gruppo etnico - non è negato; ma è superato dall’esigenza storica ed etica dell’Impero"(86). Siamo peraltro in presenza di un’ interpretazione che si riconnette ad un suo precedente lavoro, del 1928, di cui qui sopra abbiamo fatto cenno, intitolato L’eredità romana nel pensiero politico italiano nel Medio Evo (sempre sulla ‘RIFD’)(87). E comunque, quanto qui va rilevato è che Curcio insiste sul fatto che l’Imperium, per quanto espressione di un processo di interazione fra molteplici elementi sociali e fattori storici, si identifica inevitabilmente in una nazione, che fatalmente assume il primato sulle altre, ponendosi alla loro guida verso un destino comune.
L’ Imperium - precisa qui Curcio - "rivendica altresì la legittimità della supremazia morale di una nazione - quella romana - sulle altre, in nome della civiltà, della cultura, della pace"(88). Nell’Imperium si delinea la realtà fattuale che ogni idea cosmopolitica - al di là di ogni astrazione in cui è sempre incorsa - "cela un carattere, un valore, un’impronta imperialistica, ove l’universalità non è astratta ma concretizzata dall’idea di un predominio di un popolo sugli altri"(89).
Una tale eredità romana impronta di sé tutto il processo storico fra medioevo ed età moderna(90), e caratterizza la stessa transizione rivoluzionaria verso l’epoca contemporanea, ponendo le basi di quella piena valorizzazione dell’idea di nazione che si produce nel XVIII secolo. Allora tale idea "diventa una molla potente per gli orientamenti politici e sociali dello spirito umano"(91). Allora, nazione e popolo si impongono come i temi centrali della riflessione filosofico-politica europea nel Settecento.
Al concetto tradizionale di ‘popolo’, è Rousseau che apporta il decisivo perfezionamento, quantunque non riesca ad esaurientemente distinguere quello di ‘nazione’. D’altro canto, - sottolinea Curcio (reiterando implicitamente il richiamo critico al personalismo del Regime) - il Ginevrino ha ragione nell’individuare la sovranità nel popolo, "vero creatore della volontà politica"92).
Con la dichiarazione dei diritti del 1789, la nazione è il popolo, "non ancora organizzato giuridicamente, ma in funzione di potere costituente", però – sottolinea Curcio - tutto il popolo, e non solo una parte di esso, come invece avverrà con l’ideologia giacobina(93). Da allora, la nazione è vista come l’elemento sostanziale, anteriore ad ogni ordinamento concreto, quindi elemento fondante, costituente, rispetto al quale lo Stato è solo una forma giuridica.
Il fatto problematico è però che la rivoluzione francese si basava sulla rivendicazione di un diritto naturale astratto. Era cioè espressione di una visione razionalistica, che ignorando l’effettiva dimensione storica, i veri fattori umani e la continuità della loro concretizzazione istituzionale, operava una cesura radicale con tutto il passato, non solo con quello che pure andava emendato da insopportabili staticizzazioni conservatrici. E pertanto, questo razionalismo finì per sfociare nel suo contrario, in uno scatenamento di irrazionalità. Da allora, a lungo, "i concetti di nazione e popolo, di nazione e Stato restano scissi, mai fusi o coordinati logicamente e storicamente"(94).
Isolato in tutto il Settecento, soltanto il nostro Vico, "profeta solitario", tenta una mirabile "interpretazione dialettica della storia, la sintesi dei concetti di nazione e popolo, di popolo e Stato", dal momento che per lui la "nazione è in tutta la sua complessità", è la ‘materia, la ‘sostanza’, "su cui lo Stato sorge e si forma"(95). Una ‘materia’, pertanto, non data in natura, "ma fatta dagli uomini, voluta, sentita, attuata da essi"(96). In questo senso la nazione - e non lo Stato - "è atto, volontà, storicità, giacché la Politica vien dopo la Morale e ne costituisce un perfezionamento"(97).
Successivamente, - prosegue Curcio - di reazione a questo razionalismo distruttivo, le correnti idealistiche dell’Ottocento introdurranno una suggestiva visione del mondo, nella quale, "spostato del tutto il centro della realtà dalla natura allo spirito, il concetto di nazione si risolve in una possente creazione, che l’attività spirituale dell’uomo pone in netto contrasto con la natura stessa"(98).
Venendo infine all’epoca contemporanea, Curcio sottolinea il fatto che nel corso della prima parte del XX secolo la nazione si è venuta connotando come "ideologia nazionalitaria", nella ripresa di quei princìpi che nell’Ottocento avevano animato le popolazioni europee nella ricerca di una loro identità come entità "etnicamente omogenea’(99). Da qui la Grande Guerra, frutto di questi nazionalismi esasperati ed a sua volta causa della polarizzazione di due posizioni che ancora tengono il campo. Secondo una prima enfatizzazione nazionalitaria si ha in effetti la riproposizione delle teorie giusnaturaliste, ora in chiave ‘libertarie-egalitarie’, per le quali si asserisce che tutti i popoli hanno il diritto di scegliersi una loro personalità nazionale, così come gli individui hanno diritto alla propria identità. E qui l’esito di tale interpretazione è il sistema statuale democratico(100).
L’altra enfatizzazione è quella invece di coloro che, con un qualche maggior fondamento, intendono la nazione "come spirito, come cultura, come volontà espansiva" : e qui è del tutto logico che accentuando consimile impostazione si giunga a teorie imperialistiche, aristocratiche, tendenti a legittimare la conquista di nuovi spazi(101).
Se si riflette bene, - osserva Curcio - si tratta di due posizioni tra le quali ondeggia il quesito dell’identità nazionale da secoli, anzi da sempre, nel senso di un antagonismo fra queste due interpretazioni della politica (appunto egalitario-democratica e, l’altra, aristocratico-capacitaria), che si complica anche per l’influsso di altri fattori. Ad esempio la considerazione da un punto di vista prettamente giuridico, in termini di filosofia del diritto. Oppure in termini di ‘scienza politica’, di storia politica. E non ultimo anche in termini di ‘scienze naturali’(102).
Al fondo della questione, - piuttosto che il giudizio di valore ‘democratico’ o ‘aristocratico’, il vero fattore sostanziale nel qualificare la ‘nazione’ è il suo rapporto di distinzione e di interazione rispetto allo ‘Stato’. Ed a tal proposito le recenti teorie - afferma qui Curcio - sono anch’esse straordinariamente antitetiche. Qualcuno postula che sia lo Stato che crea la nazione, per un verso ampliandone le dimensioni (e quindi attraverso l’imperialismo) e per l’altro verso connotandola unicamente come lo spazio su cui si esercita la potestà politica dello Stato. In entrambi i casi si nega ogni autonoma vita alla nazione. Altre teorie contrarie sostengono invece che la nazione crea lo Stato, ipotesi che a sua volta non spiega in alcun modo la specificità della funzione statuale, che è invece instaurativa di un ordinamento coerente ed unitario.
Fra queste polarità (e tante altre spiegazioni unilaterali che si sono date al problema) si sta facendo strada, ormai "prevalentemente accettata, la concezione della Nazione come formazione storica e morale"(103). Concezione "non giuridica o pregiuridica, ma inserita in una più vasta interpretazione del processo storico delle attività dello spirito"(104). Solamente in tale prospettiva di un processo complesso di vicendevoli interazioni fra queste due entità storiche distinte, la Nazione e lo Stato, è possibile risolvere l’apparente loro antitesi, in quanto si tratta semplicemente di concetti "logicamente distinti, ma in realtà coordinati da una superiore valutazione unitaria della Politica e del Diritto"(105).
A questo punto, nella penultima pagina di questo lungo saggio, emerge comunque nuovamente il dissidio che in questi anni sta lacerando profondamente la riflessione filosofico-politica di Curcio, nel senso che si dimostra da un lato seriamente teso ad un costante avvicinamento alle teorie filosofico-giuridiche di Giorgio Del Vecchio. E d’altra parte si palesa ancora evidentemente coinvolto in una non del tutto superata ottemperanza formale all’ortodossia del Regime. Infatti, nella parte che definirei ambigua di questa conclusione del saggio, nel periodo che segue quanto sopra si è visto, Curcio imprime una torsione argomentativa a questa sua storia dell’idea di nazione. Anche se per un breve attimo, qui è il momento in cui Curcio si abbandona di nuovo all’enfasi retorica per il Regime, celebrandone i fasti nella Carta del Lavoro(106).
Qui è innegabile che Curcio sottoscrive l’esatto contrario di quanto è venuto sin qui argomentando – e non sempre fra le righe – con i richiami alla roussoviana ‘volontà generale’, alla ‘volontà della nazione’. Qui, cioè, Curcio si ritrae in maniera evidente dalla critica, per quanto cauta, all’identificazione della nazione nello Stato, e quindi (tout-court, dato l’immediato referente allo Stato totalitario) con la ‘volontà personale’ del Capo del Governo(107).
Non è mia intenzione sottovalutare questo atteggiamento problematico, che resta innegabilmente presente, e sempre più incoerente con le suddette formulazioni di maggior respiro. Peraltro, è sull’aspetto critico che ritengo si debba soffermare l’attenzione, riconoscendovi, malgrado tante oscillazioni, quella che con maggior coerenza va intesa come la conclusione logica e morale del saggio. La nazione - precisa infatti Curcio nelle ultime righe - deve esprimere la ‘volontà del popolo’, ed in tutta la varietà di diverse interpretazioni del modo di partecipare alla politica(108). Così concepita, la nazione rappresenta - sono ancora le parole di Del Vecchio, che qui Curcio riporta - "la sintesi del lavoro e dei sacrifici delle generazioni anteriori, nella loro ideale e reale unità"(109). La nazione, dunque, come risultante da un "patto morale, fondato sul sentimento di una comune missione civile da adempiere e sulla incrollabile volontà di collaborarvi"(110).
III. La critica dell’organicismo tedesco pre-nazionalsocialista, il primato della teoria politica italiana e la prefigurazione del futuro dell’ Europa (luglio-dicembre 1932).
Riguardo alla collaborazione a ‘Lo Stato’, nel 1932, - dopo i suddetti precedenti contributi – nei fascicoli successivi Curcio affronta nuovamente e con una qualche ampiezza temi a lui cari. Appaiono così in rapida successione: Stato universale-organico e Stato fascista(111), quindi Oltre il diritto(112), poi Lo Stato, la guerra e la pace(113), ed infine Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’)(114). Vediamone alcuni aspetti salienti, a conferma di quanto siamo venuti sin qui esponendo. Nel fascicolo di luglio, appunto con Stato universale-organico e Stato fascista (nella rubrica Note e discussioni), Curcio segue una doppia linea interpretativa. Da un lato, formula una rilevante distinzione fra il fascismo come si era configurato nella fase pre-totalitaria e le concezioni organicistiche che si stavano affermando in Germania (lì, sinora, nella reinterpretazione delle teorie di Ottmar Spann in chiave di un naturalismo estremo, che prefigurava già l’avvicinamento ai presupposti ideologici del nazionalsocialismo).
Dall’altro lato, Curcio raffronta alla struttura monolitica del Regime fascista quella ricerca di autonomia (di individui, corpi ed organi) che, di contro al formalismo borghese ottocentesco, era stata fra le rivendicazioni di fondo del sindacalismo fascista. Il tema si svolge qui nella ripresa della tradizione italiana risalente alle organizzative delle corporazioni comunali.
L’occasione di questo duplice confronto, volutamente polemico (sul doppio fronte dell’anti-totalitarismo fascista e della contestazione delle concezioni deterministico-biologiche del suddetto organicismo tedesco), è l’articolo che Walther Heinrich aveva pubblicato sul fascicolo di maggio della stessa rivista di Costamagna, intitolato appunto Dottrina fascista e dottrina universale-organica(115), nel quale venivano anticipate alcune posizioni contenute nel libro dello stesso autore tedesco (Die Staats-und Wirtschaftsverfassung des Fascismus) che sarebbe apparso di lì a poco in seconda edizione. Opera che sin dal titolo si annunciava come un’interpretazione del ‘fascismo italiano’ quale sistema costituzionale meramente economico-statuale. A tali posizioni palesate dallo studioso tedesco, aveva obiettato subito con una breve nota, alla fine dello stesso articolo, la Direzione de ‘Lo Stato’, presuntivamente Costamagna, il quale prometteva una più ampia risposta da parte della rivista, come farà appunto Curcio nel fascicolo di luglio(116).
Contrasti ideologici, come si vede, che fra l’altro annunciavano l’atteggiamento di questo ambiente fascista che ruotava attorno alla rivista di Costamagna, inizialmente non favorevole all’incontro con l’ideologia razzista e pan-germanista del nazionalsocialismo. Da parte sua, Curcio diede appunto un rilevante contributo non soltanto con un attento esame del particolare tipo di ‘organicismo’ di Spann enfatizzato ideologicamente dall’Heinrich(117), ma soprattutto con la rivendicazione delle suddette autonomie corporative sia nei confronti di un tale inquietante organicismo, sia nei riguardi stessi del Regime totalitario fascista.
Si capisce che posizioni come queste aprono un serio quesito sulla posizione ideologica di Curcio in questi anni, particolarmente in relazione a quella che va considerata(118) come una sua sostanziale ‘fuoruscita dal fascismo’ a partire dal 1930, sulle pagine della ‘RIFD’ e particolarmente con il saggio L’ostetrica del diritto. D’altro canto, ancora nel 1932, e del resto più avanti nel tempo, Curcio continua a parlare di un sostrato etico del fascismo, reiteratamente contrapponendo - a prezzo di una certa ambiguità argomentativa - una simile implicazione ‘movimentista’ agli esiti totalitari del Regime.
C’è dunque contraddizione fra queste posizioni e l’interpretazione che ne ho dato sugli Annali dell’Università cattolica di Milano? Ritengo di no. Nel senso che penso ancora che Curcio continuasse anche dopo il 1930 a professare una sua visione ideale del fascismo, quella per cui si era mosso dal suo iniziale liberalismo verso una tale ideologia. Visione che del resto già qui ora gli appare sempre più antinomica rispetto al Regime ed ai suoi esiti totalitari.
Per un verso, in effetti, si conferma che in Curcio la concezione ‘corporativa’ si è già stemperata nella rivalutazione del pensiero religioso vetero-neotestamentario (e per certi aspetti diciamo pure delle origini ‘ebraiche dell’idea di ‘nazione’), sino a riproporre concezioni di tipo ‘solidarista’ cattolico. Ma, per altro verso, questo suo fascismo ideale, contrapposto al fascismo-Regime, in un contrasto che lo assilla in tale intorno di anni, viene incessantemente evocato sul piano di una netta e reiterata contrapposizione fra lo statalismo centralizzatore del Regime ed un’ istanza etica, pluralista, argomentata persino con qualcosa di più di semplici venature di una rivalutazione della stessa democrazia, come appare dall’evocazione di nozioni come la ‘volontà generale’, il ‘popolo’, la ‘rappresentanza parlamentare’.
Oggetto della sua critica è lo Stato totalitario, ormai da lui stesso riconosciuto come una programmatica metodologia livellante, dietro la facciata di un residuo rispetto formale delle garanzie di autonomia ‘concessa’ alle organizzazioni professionali, contrabbandando le corporazioni per una risposta coerente alle antiche istanze del sindacalismo fascista(119).
Sintomatico è anche il fatto che Curcio senta il bisogno di precisare i contenuti pluralistici di una potenziale eticità dello Stato, che dovrebbe essere fondata sulla molteplicità di entità sociali dotate di sostanziale autonomia(120). Di più, secondo Curcio, si dovrebbe trattare di un’eticità fondata sulla libertà. E proprio perché fondato su questa eticità, lo Stato che egli adesso concepisce (sbagliando ovviamente a continuare a professarne anche solo surrettiziamente la potenziale personificazione nel fascismo-Regime) "implica libertà, la quale è sempre disciplina, metodo, limite"(121). Dunque, se lo Stato deve essere strumento di attuazione giuridica di questa autonomia dei corpi sociali, proprio per questo non va confuso in alcun modo con le funzioni organizzative del potere esecutivo, e tanto meno con i poteri attualmente conferiti al Capo del Governo.
E qui, quantunque in un puntuale ossequio formale alla ‘grandezza politica’ di Mussolini, il discorso di Curcio è palesemente critico nei confronti della confusione-subordinazione all’esecutivo totalitario sia di tutto lo Stato, come organismo giuridico, che di tutta la società, come complesso di molteplici corpi ed enti dotati di una effettiva autonomia, pur nella necessaria unità statuale. "Pertanto associazioni professionali, enti, istituzioni sono [ma leggi: dovrebbero essere] elementi integranti della funzionalità dello Stato; ma non per questo sono strumenti di governo"(122).
La teorizzazione della pluralità e dell’autonomia degli ordinamenti all’interno dello Stato, in un rapporto di distinzione ed interazione vicendevole, ha nello stesso 1932 qualcosa di più di un riflesso nella monografia intitolata La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese(123), dove ha luogo in effetti un’ampia ricostruzione storica e filosofico-politica che suscitò ancora nel dopoguerra l’ammirazione degli studiosi stranieri per i criteri innovativi posti nell’indagine(124). Poche righe di questo testo bastano del resto a farci comprendere la prospettiva da cui Curcio si muove per tracciare il quadro di una continuità capace di illuminare l’epoca presente(125), sia sul significato della struttura complessa dell’ordinamento politico-istituzionale, sia sul ruolo instaurativo-restaurativo della rivoluzione(126).
Nel fascicolo di agosto di ‘Lo Stato’, con un brevissimo scritto, dal titolo Oltre il diritto(127), nel riferimento ad Alfredo Rocco e ad altri recenti lavori(128), e nell’intento di evidenziare la differenza di qualità e di metodo fra lo studio della politica e quello del sistema giuridico, - Curcio insiste sul sostanziale fondamento etico della politica, costantemente da ritrovare, da reintrodurre, attraverso rivoluzioni intese a superare ogni formalismo giuridico ed ogni altra staticizzazione conservatrice.
Di una simile sostanzialità invece è sempre carente un ordinamento che sia stato ridotto a mere garanzie formali, in cui cioè si sia attuato un consapevole svuotamento del sistema normativo da ogni originaria motivazione etica, rendendo pertanto impossibile la ricerca di un più alto livello di vita comune. Una simile impossibilità di porsi e di attuare dei fini sostanzialmente politici priva la società di qualsiasi possibilità di sublimare sul piano comunitario e politico le pulsioni vitali, le ambizioni, l’azione degli individui e l’attività dei gruppi e corpi sociali(129).
Pertanto, ritengo che anche qui, leggendo fra le righe, si delinei la non tanto larvata accusa al Regime di essere ormai scaduto in una tipologia di formalismo giuridico, smarrendo ogni sostanziale eticità delle origini della rivoluzione(130).
Nel fascicolo di ottobre 1932 della rivista di Costamagna, con lo scritto intitolato Lo Stato, la guerra e la pace, Curcio d’altra parte dimostra ora di subire una più forte attrazione verso una delle due polarità con cui aveva concluso L’ostetrica del diritto, nel 1930. Opera nella quale confermo il mio convincimento(131) che vada riconosciuta la prima formulazione della sostanziale svolta di Curcio fuori dall’ideologia fascista. E questo, quali che siano poi stati i suoi successivi ossequi formali all’attualità, al sempre più, del resto, diffuso consenso al Regime da parte degli intellettuali.
In realtà con L’ostetrica del diritto Curcio aveva posto un’alternativa di fondo fra Machiavelli (la politica come ‘potenza’) o Cristo (la politica come ‘redenzione’, come riscatto di tutto il genere umano, finalmente orientato ad un’universale pacificazione). Una mèta, questa annunciata dal cristianesimo, che sin da allora Curcio considerava del tutto auspicabile, ancorché non raggiungibile attraverso una visione irenistica della società e della storia, bensì attraverso l’antagonismo morale, la lotta eticamente motivata, il conflitto con le forze negative, latenti in ognuno e tali da richiedere addirittura l’originario e ricorrente ‘sacrificio dell’innocente’ per riscattare le colpe di tutti.
In questo autunno 1932 è del resto su di un diverso versante antagonistico - quello della machiavelliana politica ‘effettuale’, o politica come ‘potenza’ - che la situazione internazionale riconduce Curcio a riconoscere come unica soluzione prevedibile quella della contesa, della guerra, della rivoluzione, alla fine rivelatesi come i veri motivi universali, perenni della politica. Tale è il sostanziale carattere della storia scoperto da Machiavelli, - ripete Curcio - "che ha costruito la sua politica sull’etica ed ha tratto da una interpretazione viva e reale dell’umanità leggi eterne di politica"(132).
Pertanto, malgrado l’accostamento all’etica cristiana, adesso Curcio insiste troppo ‘machiavellianamente’ sul fatto che l’esperienza storica e politica non possa essere afferrata ‘scientificamente’, nella sua intima sostanza, senza cogliere questo elemento vitale, questa pulsione all’eroismo antagonistico, al confronto, alla creazione di un ordine superiore di esistenza individuale e collettiva. Pertanto, Curcio qui afferma che le attuali pretese di una scientifizzazione dell’analisi politica, che l’ambizione dello ‘scienziato politico’ di enucleare le costanti del comportamento sociale, le uniformità, le leggi generali, potrebbero non essere una comprensione superficiale, alla fine formale, se questa ‘scienza politica’ non trascurasse, ma anzi valorizzasse pienamente il ruolo che nell’agire politico hanno la sostanziale dinamicità delle scelte politiche, l’essenza etica delle decisioni(133).
Ma non è questo il punto che va qui evidenziato di una tale pur rilevante enunciazione dei caratteri e dei fini della ‘scienza politica’. Il punto saliente è proprio questa unilaterale considerazione da parte di Curcio di uno dei due suddetti poli su cui si era definita la sua svolta del 1930. Qui ora Curcio dimentica la ‘via di Cristo’ e circoscrive la sua riflessione sulla ‘via di Machiavelli’, insistendo sulla centralità della lotta, dell’antagonismo, in termini non più di rivoluzione morale, ma apertis verbis in termini di rivoluzione politica e di guerra.
Da qui lodi poi le rituali al genio di Mussolini, che - esperite le vie della pace, in un decennale ruolo di mediazione da lui dato all’Italia - adesso non può che rifiutare le "utopie pacifiste, tutti i sogni e gl’inganni della pace perpetua, tutti i falsi miti del pacifismo"(134). Un rifiuto motivato - dice adesso Curcio - sia dalla constatazione che la storia si è sempre svolta attraverso colossali conflitti, sia dalla realtà di fatto che attualmente, mentre si fa un gran parlare di pace universale, mai come ora gli Stati hanno perseguito una politica di armamenti(135).
Da qui anche una ricostruzione dei momenti salienti della storia contemporanea in chiave ‘bellicista’. Una storia che - insiste Curcio - ha visto, da parte dei principali filosofi, un’esaltazione della lotta e della guerra. Da Fichte ad Hegel, da De Maistre a Proudhon e Nietzsche. E poi, da Trendelenburg a Treitschke. Senza però dimenticare Darwin, Lapouge, Ammon, e via dicendo. In questa troppo recisa e rapida sequenza, qui Curcio dichiara che "senza lo spirito guerriero uno Stato non è […]"(136). E cioè mancherebbe "di vita, di forza, di senso di potenza e di sviluppo"(137). Pertanto, ben vide, nella sua Scienza delle costituzioni ("prima fra le teorie modernissime"), il nostro Romagnosi, quando pose "direttamente la guerra alla base, non solo storica, ma etica e spirituale, dello Stato"(138).
Ne consegue, nella prospettiva della nostra ricerca, nuovamente la domanda di quale sia il senso di un tale atteggiamento di Curcio. Si tratta davvero di una marcata involuzione della suddetta svolta? Oppure siamo in presenza di una contingente analisi sulla situazione internazionale, tale da riportare d’attualità l’idea del probabile scatenamento di una guerra più la speranza di un ristabilirsi della pace?
Risposta non facile, né comunque univoca. Intanto, in linea teorica, nulla vi sarebbe da eccepire - nella contingente situazione internazionale - riguardo ad una simile contrapposizione fra diritto e guerra, con la quale Curcio ribadisce la distanza fra formalismo giuridico nei rapporti interni ed internazionali e sostanziale adesione ai valori e principi di convivenza e collaborazione.
In altre parole, in termini di filosofia del diritto vanno certamente sempre considerare non solo le forme istituzionali e giuridiche acquisite (nella fattispecie sia del diritto ‘interno’ che di quello internazionale) ma quello che di queste formalizzazioni è stato il fondamento, la capacità di lottare, di contendere per realizzare un ordine migliore (all’interno dello Stato e nei rapporti fra i singoli Stati).
Un sistema giuridico nasce in una nazione come nei rapporti internazionali solo da una tale tensione etica. Ma può conservarsi sostanzialmente attraverso mille vicende e rivoluzioni solo a patto cioè di non dimenticare questo eroismo etico(139), ossia di non perdere di vista che ogni lotta, ogni antagonismo devono aver per scopo l’instaurazione di un migliore e più giusto ordine di cose, a livello nazionale ed internazionale.
Ragionare altrimenti vorrebbe dire riferirsi ad un mero ordinamento formale,che non saprebbe resistere né ad un’aggressione bellica, né ad una rivoluzione(140). D’altronde, c’è anche da considerare che qui, nel 1932, alla possibilità di una pace vera (sostanziale, fondata sulla condivisione di princìpi di equità e di giustizia fra le nazioni) Curcio non mostra affatto di voler rinunciare.
Nel fascicolo di novembre-dicembre, con Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’)(141), in riferimento appunto al convegno sui problemi europei che si tenne a Roma(142), Curcio contrappone due diverse prospettive a fronte della crisi in atto. Per un verso, considera questa crisi riconducibile ad un fattore problematico della complessiva vicenda umana e storica, sempre drammaticamente segnata dalle fasi di passaggio da una civiltà all’altra, dai "problemi eterni del conflitto dei popoli"(143).
Per altro verso va poi compreso che a ben vedere l’Europa non rappresenta un’unità propriamente politica, oppure economica o anche religiosa. E nemmeno geografica o storica. Quello che aveva dato all’Europa una sua fisionomia comune era il fatto di rappresentare un certo tipo di civiltà rispetto agli altri continenti. E precisamente una certa personificazione in termini validi universalmente di un ‘canone’, di un modo particolare, originale, sin lì inesperito, "di concepire il mondo, l’esistenza, la vita individuale e collettiva"(144). La civiltà romana aveva profondamente influito su questa "formazione spirituale, etica, intuitiva della civiltà europea"(145). Ecco un punto - osserva Curcio - riconosciuto un po’ da tutti i convenuti al congresso romano(146). Riguardo poi alle ragioni di questa crisi del modello di civiltà di Roma, indubbiamente vi hanno contribuito gli sconvolgimenti del secolo XIX, specialmente negli ultimi decenni, quando il primato della scienza parve accantonare ogni altra preoccupazione.
Per un certo periodo si è caduti un po’ tutti in Europa nell’abbaglio di credere che tutto fosse irreversibilmente avviato ad un costante, inarrestabile progresso. Poi, nel secolo nuovo, nel Novecento, la Grande guerra rimise in discussione tanti ottimismi ed utopie. Adesso si tratta di ricostruire, e spetta a Roma ed all’Italia questo immane compito. Al quesito che qui conclusivamente si pone - se cioè si salverà l’Europa - Curcio risponde in maniera condizionale, dichiarando che, "se Roma non verrà sopraffatta", la civiltà europea "si salverà"(147). Un condizionale premonitore e profetico. Temi peraltro destinati a ricollegarsi ad una delle principali tematiche della parte conclusiva della riflessione di Curcio, appunto sull’idea di Europa, alla quale anche in questo 1932, egli dedica non soltanto questa breve riflessione a margine del ‘Convegno Volta’, ma anche una delle due monografie di cui prima abbiamo fatto cenno, intitolata L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana(148).
IV. Dalla denuncia del nazional-socialista ‘germanesimo antiromano’ al fallimento delle speranze di pacificazione internazionale: il ritorno alla storia del pensiero politico italiano (fra 1933-1934).
Nel 1933, mentre continua solo con alcune recensioni la collaborazione alla ‘RIFD’(149), ed anche il contributo alla rivista di Costamagna segna un’attenuazione -, invece sul primo fascicolo di ‘Lo Stato’, con lo scritto intitolato Problemi della politica(150) si ha ulteriore conferma dell’intenzionalità di Curcio di protendersi ormai al di là dibattito ideologico, sin qui peraltro affrontando il quesito del significato della politica attraverso un’indagine ampliata ai diversi livelli sia di una ‘scienza politica’ che della filosofia politica e delle dottrine politiche. All’inizio di questa breve composizione infatti troviamo una rapida sintesi di come il significato della politica si sia venuto modificando nella storia, tanto che oggi è diventato estremamente difficile capire quante implicazioni le si attribuiscano, al confronto di quell’univocità che questa esperienza aveva avuto per il mondo greco, dove il termine stesso nacque dalla realtà dopotutto omogenea della polis(151). La conclusione di Curcio è peraltro, anche qui, palesemente anti-totalitaria. O quanto meno intesa a confutare che nello Stato si riduca legittimamente tutta la ‘politica’, la quale ha invece caratteri e leggi sue proprie, che appunto attengono - sia pure distinguendosene in una reciproca interazione - alle discipline storiche, alla filosofia ed alla stessa ‘scienza politica’(152).
Sullo stesso fascicolo del gennaio 1933, apparve poi un’importante recensione(153), seguita da altre tre su quello di febbraio(154), ma precedute da Il Gran Consiglio e la rivoluzione, nella rubrica Note e discussioni(155). A partire dal fascicolo di marzo, fino a quello di agosto-settembre, Curcio si limita poi a recensire una quantità di novità librarie(156) ed a contribuire con numerosi scritti alla suddetta rubrica Note e discussioni(157). Qualcosa sta cambiando nei rapporti fra Curcio e la rivista di Costamagna. Infatti, il tema della politica come attività dello spirito, come volontà di ordinare gli uomini in una società comune (in vista del miglioramento e del raggiungimento di sempre nuovi perfezionamenti di questo fine politico), viene ripreso nel luglio 1933(158), con un breve saggio intitolato significativamente Stato e rivoluzione(159), apparso sul primo numero della rivista ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, diretta da N.F. Cimmino (vice-direttore è Marcello Capurso, allievo di Curcio).
In questo saggio si raffronta all’ordinamento statuale la ‘rivoluzione’, indicando nel processo rivoluzionario il momento genetico dello ‘Stato’, come ordinamento giuridico formale, che richiede incessantemente l’apporto vitale di una primigenia sostanza etica comunitaria. Ciò che implica, fra l’altro, il primato del fine politico su ogni particolarismo. Temi che, come si vede, si ricollegano a quanto Curcio è venuto precisando sin dal 1930 con L’ostetrica del diritto.
Malgrado la prima impressione, in Stato e rivoluzione l’evocazione dell’eticità della politica non approda ad una concezione nel senso del gentiliano ‘Stato etico’. Al contrario, qui si reitera ancora una volta (e si svolge ulteriormente) la critica allo Stato come ‘potestà assoluta’, come ‘imperio’, come ‘sovranità’ cercando il rimedio alla sua tendenziale assolutizzazione non nel diritto(160), inteso come ordine giuridico meramente formale, ma in un processo che possa reintrodurre di continuo la legittimità sostanziale, l’essenza dello spirito politico (l’originaria volontà fondatrice, i valori primari accomunanti) nelle forme istituzionali e nelle norme che altrimenti sarebbero inanimate, inerti, statiche, come appunto si verifica in un sistema puramente formale(161).
Nella formazione, nelle modificazioni e nelle trasformazioni degli Stati, - asserisce qui Curcio - sono da sempre le rivoluzioni, come del resto le guerre, il vero impulso ai grandi movimenti di popoli che aspirano a nuove conquiste. Nondimeno, rispetto alle rivoluzioni antiche (che partivano sempre dall’alto e non veicolavano quasi mai ideali nuovi), quelle moderne invece - sottolinea Curcio - si ricollegano a quella "coscienza di massa" che si desta nell’XI-XII secolo, portando alle estreme conseguenze un desiderio di libertà contro l’Impero e ogni "autorità trascendentale" rispetto alla politica(162).
La rivoluzione dunque, come fenomeno storico, ha in sé non solo negatività, violenza distruttrice, ma - ribadisce Curcio - può avere (ed anzi, il più delle volte ha) un ruolo positivo, quello appunto di rivitalizzare un sistema istituzionale scaduto nella coercitività del diritto positivo, cioè puramente formale, legalitario, ma proprio per questo insensibile ad ogni esigenza di legittimità sostanziale(163), che implicherebbe il divenire delle forme e l’ampliamento delle istituzioni.
Discorsi come questi - in pieno Regime totalitario - non potevano da parte di Curcio non essere espressione consapevole di un invito a riprendere lo spirito rivoluzionario delle origini, quale esigenza improcrastinabile di recuperare una legittimità sostanziale. E questa da ritrovare nella ‘volontà della nazione’, dando risposta al desiderio di ‘libertà delle masse’, di contro alla ‘legalità formale’, alle norme positive in cui lo Stato totalitario si arroccava sempre più. Qui, del resto, c’è anche un momento di evocazione del ruolo di garante della legittimità rivolto alla monarchia sabauda, e non solo - o non tanto - sulla base dello Statuto albertino, quanto con l’invocare una più generale legge storica sulla genesi rivoluzionaria di questo come di ogni sistema monarchico, definito alla fin fine l’unico storicamente capace di contemperare tradizione e progresso(164).
A questo punto Curcio elabora una teoria costituzionale per cui essendo ogni ordinamento sostanzialmente legittimo l’espressione della volontà costitutiva del ‘popolo’, tutti i cittadini devono, a diverso livello, esercitare una funzione di ‘difesa della costituzione’ contro gli attentati che venissero mossi non tanto da forze ostili, esterne al sistema istituzionale, ma proprio dal prevaricare di determinate finalità particolari, personalistiche, all’interno degli stessi organi statuali. Nell’urgenza del pericolo che qualcuno attenti alla costituzione, e siccome questa è espressione della ‘volontà generale’, si impone il dovere, da parte di tutti, di operare per conservarla. E tanto tale dovere incombe su "storici, filosofi, politici" che prima ancora che uomini di cultura, "in quanto cittadini, devono essere i più rigidi custodi e difensori degli ordinamenti stabiliti"(165).
In definitiva, per queste vie, lo Stato, "una volta costituito, deve mantenere attive le garanzie della propria conservazione"(166). Se l’autorità statuale non riesce più ad alimentare queste garanzie, si è giunti ad un punto tale che non è più possibile restaurarne la funzione di garante (della necessaria armonia fra la volontà della nazione e le forme istituzionali in cui potesse esprimersi), ed è allora che la rivoluzione si pone come una necessità improcrastinabile(167).
Parole ancora una volta estremamente eloquenti nei confronti dello Stato totalitario, vera e propria accusa al Regime di avere ‘staticizzato’ il movimento rivoluzionario, ignorando e cercando di soffocare le vitali istanze di libertà e di ordine sostanziale delle masse popolari e della nazione in generale. La via che qui Curcio indica senza mezzi termini per uscire da questa crisi dello Stato non può dunque essere altra che, appunto, quella di una rivoluzione come ‘recupero’ dello slancio vitale delle origini, come ‘restaurazione’ di una vera sostanzialità della politica, come ‘riaffermazione’ di un’universale partecipazione, come soddisfacimento delle istanze delle masse, del popolo italiano. Infine, una rivoluzione che coinvolga tutti coloro che hanno creduto nel fascismo come un ‘processo di riscatto’ della ‘volontà nazionale’, la quale - dopo l’Unità - è stata irretita nel formalismo del diritto di proprietà borghese(168).
Lungo questa linea, la rivoluzione non si esaurisce tutta nella prima fase, - anche qui precisa Curcio, in un’evidente riferimento al Regime che pretende di aver esaurito e soddisfatto ormai tutte le nuove istanze. La rivoluzione non consiste solo nella presa del potere, ma "anzi è costituita proprio da questa seconda e più difficile fase, durante la quale si vogliono proprio instaurare saldamente - e cioè in concrete forme giuridiche - nella vita della nazione quegli ideali, che sono stati i motivi eroici e drammatici della rivoluzione"(169). Non bastano infatti le leggi a sostenere quel possente organismo che è lo Stato, "occorre che si creda in esso, che si voglia, che si ami", e quando questi sentimenti mancano, gli Stati sono inesorabilmente condannati a morire(170).
Nella momentanea ripresa della collaborazione a ‘Lo Stato’, nell’agosto-settembre 1933, con l’articolo intitolato Verso la nuova Europa(171), per quanto con una troppo breve sintesi, Curcio reitera ed amplia quanto ha definito sin dall’anno precedente sul tema, annunciando quello che sarà, soprattutto molti anni dopo, uno dei più importanti motivi della sua produzione. L’argomentazione di Curcio inizia dalla constatazione che ormai il problema europeo sembra definitivamente sortito da ogni possibile prospettiva precedente, con cui si era cioè preteso di risolverlo sul piano di concezioni utopiche, quando non addirittura demagogiche, puramente strumentali, o con progetti caratterizzati dall’astrattezza rispetto ad ogni concreta valutazione della realtà storica(172).
Oggi finalmente il problema europeo appare nella sua vera luce, ossia "relativo alla instaurazione di un sistema politico di collaborazione effettiva e pratica tra le Nazioni europee"(173). Peraltro grandi ostacoli si frappongono ancora a questa nascita di una comune coscienza europea. Intanto la trasformazione in corso nelle diverse civiltà, per cui quelle dell’Asia e dell’Africa, che con la colonizzazione erano apparse come un ampliamento della civiltà europea, ora tendono invece a distaccarsene, con evidenti riflessi di instabilità e di pericolo di conflitti internazionali(174). C’è poi la crisi che travaglia l’America, che pone fine alle illusioni che sin qui si potevano avere di una collaborazione con l’Europa. Le due civiltà sono ormai in un crescendo di differenze non solo politiche ma soprattutto spirituali(175).
Vi sono poi altri fattori di diversa natura che incidono negativamente sulla situazione: le ingiustizie dei trattati di pace, con conseguenti attriti fra le nazioni limitrofe; il disagio economico e finanziario, alimentato da errate scelte politiche. E soprattutto la crisi morale(176).
Sussistono comunque anche fattori positivi, che fanno bene sperare per l’avvenire dell’Europa. Anzitutto, l’innegabile progresso, pur lento e graduale, della cultura, della mentalità politica e giuridica dei popoli europei. C’è una tendenza diffusa nelle principali culture europee a considerare in maniera affine la logica giuridica. E questo può determinare quanto meno una "tendenza all’unificazione del diritto", nella quale va riconosciuto il ruolo di ceti intellettuali che vanno operando con grande alacrità in una collaborazione di cui sono espressione i risultati in tutti i campi della cultura(177). E qui c’è soprattutto il ruolo che l’Italia sta svolgendo in questo processo, come si è visto dalla stipulazione, il 7 giugno 1933, del Patto a quattro(178).
Tuttavia, è riguardo all’aspetto morale del problema europeo che Curcio insiste, precisando che ogni risoluzione in proposito deve distinguersi anzitutto "da quei falsi miti umanitari e pacifisti agitati […] ancora oggi dai cattivi profeti dell’europeismo integrale"(179). Pertanto l’aspetto morale del problema diventa politico. Non fosse altro che per il fatto che la civiltà europea è sempre stata - e qui Curcio ripete quanto aveva detto precedentemente - un modo di concepire la vita, un’unità di concezione civile, germinata nella storia, nell’ordinamento politico-istituzionale e giuridico romano(180).
Ora, - sostiene Curcio - questa coscienza comune europea può essere rianimata dal fascismo, che (presentandosi come sentimento totalmente differente, nelle sue vere motivazioni, dalle passate tendenze di certo "nazionalismo esclusivo, imperialista in senso materiale, guerrafondaio")(181) oggi si configura come ideale di vita civile, come esperienza sostanzialmente etica, suscettibile di porsi quale modello a tutti gli altri Stati europei, almeno a quelli che intendano fondarsi su di un medesimo sentimento della comunità politica, in un consesso di interessi materiali distinti ma non esclusivi(182).
Nell’immediato, fecero comunque seguito a questo scritto, sullo stesso fascicolo dell’agosto-settembre 1933, altri contributi di Curcio, di minore rilevanza, sia nelle Note e discussioni(183), che con alcune recensioni(184). Infatti, il vero sviluppo tematico delle sopradette questioni si ebbe sul fascicolo di ottobre della stessa rivista ‘Lo Stato’, dove - oltre alle solite recensioni(185) - nella rubrica Note e discussioni, apparve lo scritto molto veemente, intitolato Germanesimo antiromano?(186), nel quale con decisione Curcio prendeva posizione contro l’ideologia nazional-socialista tedesca.
"Che avviene in Germania? Parrebbe che, rinsaldatasi la rivoluzione nazista, si voglia dare a questa ed al nuovo movimento culturale e politico che da esso viene sorgendo una impronta antiromana […], come nei tempi andati, con maggior rigore"(187). A questa corrente pare che vogliano "di nuovo congiungersi i corifei della rivoluzione nazionalsocialista"(188), con un prevedibile esito nefasto per le sorti dell’Europa e della stessa Germania(189). Niente di nuovo, peraltro, - conclude Curcio - in questo prorompente sentimento iper-nazionalistico tedesco, che fatalmente sfocia nel razzismo e nell’anti-ebraismo(190).
Per il rimanente, né in questo fascicolo di ottobre, dove comparve nella stessa rubrica Note e discussioni un suo commento all’intervento di Rossoni ad un convegno internazionale a Venezia(191), né nei successivi fascicoli niente di particolare rilevanza, se non - anche qui - altre numerose recensioni(192). Sugli altri periodici a cui normalmente collaborava, Curcio - in questo scorcio del fatale 1933- pubblicò poco o niente, se si escludono sulla ‘RIFD’ le sopra ricordate recensioni, che anch’esse comunque testimoniano quale fosse la sua condizione di spirito, da un lato in una confortante riconsiderazione del disegno europeista di Saint-Simon(193), dall’altro in una crescente inquietudine per lo spirito anti-europeo, contrabbandato dietro l’astratta enunciazione dei diritti dell’uomo(194).
Riprendendo questi temi sul fascicolo di dicembre 1933 della citata rivista ‘Fascismo’, nell’articolo Politica e razionalizzazione(195), adesso Curcio si pone decisamente nella prospettiva di una razionalizzazione della politica, di una vera e propria ‘scienza politica’, formulando il quesito di quali siano i termini di validità di un tale postulato di interpretazione razionale, scientifica, riferito all’esperienza storica e sociale. Anzitutto, - osserva - ci si dovrebbe guardare dall’errore di ridurre la politica a scienza dell’organizzazione, in definitiva ad uno "schematismo astrattistico", che si rivela del tutto "apolitico", come dimostrano le teorie ispirate a queste suggestioni di sistemi sociali totalmente razionali. Sistemi che, così fraintesi, sono alla base di due esiti parimente negativi per la teoria politica, ossia le utopie di Platone e di Campanella e, su di un altro versante, il razionalismo di Cartesio e l’egalitarismo di Rousseau(196).
Comunque sia, in entrambi i casi si giunge ad una ‘democrazia livellante’ o al ‘comunismo’, quali risultanze che possiamo definire una fattispecie del sogno di razionalizzazione integrale, e cioè della ‘democrazia pura’. Ma con questo - precisa - non si deve negare la validità di "una razionalizzazione intesa come partecipazione di tutti alla vita politica, come immissione del popolo nello Stato"(197).
A fronte del Regime che tende a livellare e tecnicizzare tutto sul piano dei rapporti economici e della più totale obbedienza politica - , Curcio sembra pensare che serva davvero esorcizzare qualsiasi pretestuale tecnicismo e ‘razionalizzazione’. Intanto, contrapponendogli la distanza da una vera analisi scientifica della politica, e nel contempo evocando il mito della ‘rivoluzione fascista’, intesa al recupero di un ordine di cose migliore, promessa implicita all’originario movimento ed elusa poi dal Regime(198).
Definendo quindi il mito come qualcosa al tempo stesso di ‘umano e divino’, qui comunque Curcio tradisce un qualche cedimento ‘attivistico’, o quanto meno una confusione argomentativa, che complica il suo discorso e lo rende sì denso di intuizioni, di suggestioni soreliane, ma logicamente irrisolvente i complessi problemi evocati(199).
Eppure, entro questi suoi limiti (non irrilevanti), anche qui - con maggior cautela elusiva che nelle occasioni che si sono considerate - Curcio non manca di reiterare, a suo modo, una critica alle pretese del Regime di razionalizzare la politica, riducendola a tecnica di governo, a scienza dell’economia, a ‘scienza politica’(200).
Retorica, si dirà. Certo, ma non solo questo. Qui, c’è infatti anche la sempre più ossessiva critica (pur se sempre più fievole nel suo esternarsi, e meno incisiva) ad un Regime verso cui ancora in questi anni Curcio ritiene di dover professare formalmente fiducia. E forse questo cedimento trae motivo dalla incerta situazione internazionale, cioè della preoccupante crescita - anche per un fascista come lui (ed anzi proprio per questo suo fascismo d’opposizione al Regime fascista) - del nazional-socialismo tedesco, e delle altrettanto incombenti minacce di guerra. Timori che del resto, ancora fra 1933-34, anche lui continuava malgrado tutto a credere potessero essere dissolti se non dal Regime, almeno dall’abilità diplomatica mussoliniana, capace di imporre a livello internazionale una soluzione compromissoria, pacifica, inserendosi nelle trattative internazionali in un ruolo di mediazione.
L’anno seguente, il 1934, coincide con una sensibile attenuazione dell’attenzione di Curcio per le vicende ideologiche e politico-istituzionali del Regime. È comunque l’anno in cui pubblica alcuni importanti lavori, a cominciare da Machiavelli nel Risorgimento, apparso sul primo fascicolo della ‘RIFD’(201), sulla quale del resto - in questo e nei successivi numeri - pubblica numerose altre recensioni(202) ed un intervento nella rubrica Notizie(203).
D’altra parte, non diverso è il tipo di collaborazione(204) che in questo anno egli continua a dare a ‘Lo Stato’, in quello che peraltro si rivela - come si è accennato - un suo graduale distacco(205) da questa rivista in cui inarrestabilmente ci si stava avviando a formulare giudizi meno severi, di quelli che si è visto animavano Curcio, relativamente al nazional-socialismo tedesco.
È comunque su due libri che videro la luce in questo anno 1934 che dobbiamo qui concludere questa sorta di saggio di bibliografia ragionata sulla produzione di Carlo Curcio negli anni centrali della sua appartenenza alla Facoltà di Scienze Politiche di Perugia. E cioè - tralasciando la prefazione ad una sua edizione di scritti vichiani(206) - la raccolta che integra precedenti articoli sotto il titolo Verso la nuova Europa(207), e la monografia intitolata Dal Rinascimento alla Controriforma. Nella suddetta raccolta, Curcio ripubblica anzitutto l’omonimo scritto (già apparso l’anno prima sul fascicolo dell’agosto-settembre di ‘Lo Stato’)(208), sul quale ci siamo soffermati nel precedente paragrafo. Vi aggiunge qualche altra riflessione di più antica data (fra cui Europa ed Antieuropa, del 1927), ma nulla di più.
Invece è nella suddetta monografia che egli pronuncia la parola conclusiva su questo periodo della sua riflessione. In Dal Rinascimento alla Controriforma(209), Curcio infatti compie l’intero percorso che si è iniziato nel 1933, con la denuncia dell’incompatibilità fra fascismo e nazional-socialismo tedesco (come si è visto, interpretando quest’ultimo come nuova facies di un reiterato ‘germanesimo antiromano’) e qui si conclude con l’aperta ammissione del fallimento di ogni residua speranza di pacificazione internazionale.
Da qui in poi, Curcio riconverte la sua riflessione sulla storia del pensiero politico italiano, in un intento che appunto risulta espresso nelle stesse conclusioni di Dal Rinascimento alla Controriforma. Una riconversione che ripete in qualche misura quanto del resto Curcio aveva asserito, negli anni 1926-29, circa la presenza di una ‘tradizione politica italiana’(210).
Una riscoperta allora contestuale alla ricerca di antefatti ed implicazioni del corporativismo, fra 1929-30 - soprattutto con gli scritti sulla questione sindacale-corporativa(211) - finalmente libera da implicazioni ideologiche (e con il saggio L’ostetrica del diritto). Pertanto, nel 1934 possono prendere corpo più coerentemente, appunto nel superamento dell’ideologia statalista, sia la rivalutazione del pluralismo sociale di contro alla monolitica struttura totalitaria, sia lo stesso significato ‘metapolitico’ della rivoluzione. Una rivalutazione intanto nel senso di una considerazione del processo storico di formazione di un ordinamento pluralista non più identificabile con lo Stato fascista. Ora, nel 1934, svincolatosi sostanzialmente da ogni impaccio ideologico, Curcio può riprendere e sviluppare quelle suggestioni roussoviane che si erano manifestate nel 1930-31 (particolarmente con l’Anti-Rousseau?, del 1931), nel senso del recupero di un confronto etico-politico fra Stato, ‘volontà della nazione’ ed ‘individuo’.
E proprio da questo inizio degli anni Trenta, Curcio proietta la sua attenzione oltre l’ideologia corporativa e la stessa ‘nostalgia’ sindacalista, per riconsiderare la nazione nella sua complessità e nella sua unità, come comunità etica, contestualmente distinta sia dalle suggestioni universalistiche che da drammatiche teorie etno-centriche.
Da qui sia la sua critica, nel 1932, dell’organicismo tedesco ‘pre-nazionalsocialista’ (a cui contrappone il primato della teoria politica italiana nel contesto della prefigurazione di un’Europa futura); sia, nel 1933, appunto la sua denuncia del nazional-socialista ‘germanesimo antiromano’ e il proposito di un ritorno alla storia del pensiero politico italiano, quale risulta appunto a partire dalla pagine di Dal Rinascimento alla Controriforma.
Qui infatti Curcio delinea i tratti dello Stato ideale in quelli di un ‘sistema complesso’, secondo cioè la tradizione aristotelico-polibiana (poi ripresa da Machiavelli e da Vico, rinnovatori della ‘tradizione politica italiana’ sorta fra medioevo ed epoca moderna) del ‘governo misto’, nel quale individui, corpi intermedi, governo ed istituzioni possono rendersi complementari ed interagenti in una distinzione di funzioni incardinata in un ordinamento fondato sulla giustizia, sul sostanziale rispetto dei diritti e dei doveri.
Un discorso, questo di Curcio, che evidentemente vuol essere una definitiva critica al monolitico Stato totalitario, a partire dalle connotazioni complesse del ‘governo misto’(212), sino a ritrovarne le implicazioni rivoluzionarie nel senso del recupero dei momenti originari, della fase genetica di un modello istituzionale complesso. Da qui la riproposta dell’ideale della repubblica, secondo il sistema istituzionale di Venezia (vero "mito politico, non solo per i sostenitori dello Stato misto")(213) e secondo altri esempi teorizzati dagli scrittori politici italiani del XVII secolo(214). Un ideale comunque contrapposto al ‘cesarismo’ dominante nel Seicento. Un ideale che così come è espresso non può non implicare un reciso e definitivo rifiuto da parte di Curcio, sin dal 1934, degli approdi totalitari e personalistici del fascismo.
V. L’onda lunga del naufragio: dalla seconda Guerra mondiale alla ricostruzione di speranze e di propositi.
Nel decennio 1934-44, nel quale si compiono le sorti del Regime, giunto all’apice del consenso di massa e poi incamminatosi sulla china che conduce al baratro della seconda Guerra mondiale, in un crescendo di delusioni ideologiche, Curcio trova rifugio nella storia del pensiero politico. Le estreme speranze, le prospettive di ripetere ideali e propositi vanno ormai ripensati nel più lontano passato. Del resto, pare proprio questo graduale estinguersi di convincimenti fascisti lo sfondo su cui si colloca, nel 1934, il suo Machiavelli nel Risorgimento, estremo tentativo di riallacciarsi alla prospettiva speculativa ripresa dal Vico e da altri evocatori di una ‘tradizione italiana’ di pensiero politico. Ne abbiamo una conferma nell’autunno del 1936, non soltanto con il suo Giordano Bruno visto oggi, ma anche con la trilogia di articoli apparsi su ‘Lo Stato’, nei fascicoli di agosto e novembre, sotto il titolo La politica dei Romani.
Nel 1937 appaiono altrettanto importanti scritti: sia La politica di Baldo, sia Il patriottismo di Baldo, sia Motivi sociali nel pensiero italiano del secolo decimottavo. In quest’ultimo si staglia il nuovo itinerario che Curcio seguirà soprattutto alla fine della guerra. Frattanto, però, nel 1940, Curcio elabora alcune voci sul Dizionario di politica. In quella intitolata alla Rivoluzione fascista, si coglie un’intenzione di evasività riguardo alla definizione della nozione stessa di rivoluzione. A questo proposito si potrebbe addirittura parlare di una certa voluta ambiguità rispetto alle precedenti analisi concettuali ed alle definizione teoretiche da lui date alla nozione. Qui, nella voce Rivoluzione fascista, dove ci si sarebbe potuti aspettare quanto meno una codificazione ideologica della rivoluzione da cui era scaturito il Regime, invece Curcio definisce semplicemente questo fenomeno alla stregua di una categoria molto generica di rivoluzione, peraltro qui identificata con una cesura più apparente che sostanziale rispetto ai precedenti periodi storici.
La rivoluzione fascista - si limita a dire adesso Curcio - per quanto si contrapponga alle epoche precedenti, "dalle quali è separata da una frattura che segna di essa il sorgere", tuttavia "non si distacca […] in una valutazione unitaria e complessiva della storia d’Italia"(215).
In questa luce di superficiale evocazione delle implicazioni concettuali del termine, pertanto eludendo qualsiasi referente alla presenza o meno di una sostanziale creatività etico-istituzionale del Regime, va visto il richiamo di Curcio a non considerare questa rivoluzione come una vera creazione di un ‘ordine nuovo’. Piuttosto - significativamente dichiara qui Curcio (ed a livello ufficiale, nel Dizionario voluto dal Regime) - è semmai vero il contrario, ossia che la rivoluzione si riconduce più o meno consapevolmente a quello che appare lo spirito della nazione, il suo costume, le sue collaudate tradizioni(216).
D’altra parte - insiste Curcio - anche questa rivoluzione fascista non poteva consistere solo ed unicamente in pur drastiche trasformazioni dell’ordinamento istituzionale e sociale(217). Doveva essere formazione di coscienze, rafforzamento del carattere della nazione, innovazione nel modo stesso di concepire la vita, e cioè una vera e propria trasformazione di una civiltà(218).
E qui l’uso dell’imperfetto storico assume i contorni di una nemmeno tanto larvata accusa alla negatività degli esiti totalitari del fascismo. Pertanto, se qui è pur percepibile una sorta di compendiosa adeguazione formale alla retorica dominante, si avverte dietro questo schermo ideologico un’inequivocabile ridefinizione della rivoluzione, in termini tali che ne escludono qualsiasi identificabilità con il Regime.
La rivoluzione è tale solo se dà luogo alla creazione di un vero nuovo ordine di cose, eticamente fondato. Solo ed unicamente se è veicolo di questa idealità, di fattori trascendenti la politica, quindi riconducibili ad un contesto non immediatamente comprensibile attraverso la sola razionalità, né esauribili nella semplicistica ‘ragion di Stato’, e nemmeno nella logica di un sistema di leggi positive volute dal Regime: solo in questo caso si può parlare di vera ‘rivoluzione’, cioè come riconversione vero i ‘primi principi.
"D’altro lato la rivoluzione, anche nelle sue origini, non aveva mai tradito, nonostante talune sue apparenze pragmatistiche, un intimo contenuto tutto ideale, una sua fede, che si richiamava alle coscienze degli Italiani; e che nelle stesse sue manifestazioni tipiche rivelava motivi quasi trascendenti o mitici, che tuttavia non s’esaurivano nel richiamo di valori tradizionali, ma s’esprimevano come mentalità di quegli Italiani e soprattutto delle nuove generazioni"(219).
Parole eloquenti quanto altre mai, che confermano l’avvenuto distacco dell’ideologia fascista quale si chiarisce senza alcuna possibile ombra di dubbio in un’altra opera del 1940, Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti moderni ed una conclusione sull’utopia. Quanto va rilevato a tal proposito è ora, enumerando i miti politici suscettibili di innescare l’azione intesa a creare un nuovo ordine politico, Curcio non indichi più il fascismo, ma la democrazia, il socialismo ed il liberalismo.
Un simile atteggiamento di silenzioso distacco dal presente si riconferma nell’impegno che ancora egli profonde nel dimostrare malgrado tutto la persistente validità di un referente alla tradizione di pensiero italiano. Da qui scritti come: Ideali mediterranei nel Risorgimento, del 1941; L’italianità di Marsilio, del 1942; Il pensiero politico italiano contemporaneo, del 1943.
Innegabile è però che adesso egli rivolga lo sguardo più compiutamente all’epoca contemporanea, a problemi e questioni che del resto aveva già intensamente studiato. Nascono così scritti come Il pensiero sociale di un riformatore italiano del settecento, del 1942, e Le origini del sindacalismo rivoluzionario in Italia, del 1943.
Alla fine della guerra ritorna ancora a quei motivi etici che aveva già reiteratamente chiamato in causa durante il Regime, appunto in quanto trascendenti la mera logica politica. Motivi che ora si ripropongono ancor più marcatamente nel naufragio dell’esasperata politica autoritaria ed imperialistica del fascismo. Poi gli anni di scoramento, di inquietudine, di spasmodica ricerca di certezze ormai reperibili nel più lontano passato. Se negli anni della fine tragica del Regime, nel 1943-44, in un crescendo di delusioni ideologiche, Curcio trova rifugio nella storia del pensiero politico, tuttavia non rinuncia del tutto a far sentire la sua voce nelle grandi questioni.
Ridefinendo tante implicazioni morali della sua analisi, quasi a risolvere una profonda crisi interiore, si prefigura in lui la forte ripresa della prospettiva europeista, lungo tutto il periodo della sua riflessione fra questa imminente fine della guerra e la sua morte, nel 1971. Sotto questo profilo va vista anzitutto l’antologia che pubblica nel 1944, intitolata Utopisti italiani del Cinquecento (edita a Roma, per i tipi di Colombo), nella quale egli ritorna sulla contrapposizione fra utopia e mito politico. Ora, diversamente che nel 1940, precisa che talvolta l’utopia incide positivamente nella politica, perché può essere il rifugio di ideali che diverranno poi dominanti, rivoluzionari, quando i limiti posti dall’avversa contingenza storica si saranno allentati. Nell’utopismo italiano del XVI secolo - asserisce adesso Curcio - vi sono già in nuce i fermenti rivoluzionari del XVIII secolo.
Tali sono quei "primi germi" di rivendicazioni umanitarie ("o letterariamente sentimentali o filosoficamente sociali"), nelle quali si possono riconoscere le "scaturigini del pensiero illuministico, riformatore, prerivoluzionario"(220). Nel secolo XVI ritroviamo questo insieme di idee, che in apparenza sono sintomo di delusione, di stanchezza, ma in realtà sono indice "di rinnovamento e di riforma"(221). Ora, quindi, l’utopia è vista da Curcio dietro l’apparente sfinimento di speranze di libertà, di indipendenza nazionale, dietro la creduta adattabilità allo status quo. Il vero volto di queste utopie è la funzione veicolare che esse ebbero nel preparare la via di futuri, grandi cambiamenti, e cioè "contenere in potenza ideali di capovolgimento politico e sociale"(222).
Ed a queste potenzialità dell’utopia ora Curcio riconduce tutti quei progetti di pace universale che presero corpo nel XVIII secolo. Sotto questo profilo, vedono la luce, rispettivamente nel 1945 e nel 1946, due antologie. La prima è quella che raccoglie di scritti di Saint-Simon, sotto il titolo di Sogno d’una felice Europa, e l’altra gli scritti di Saint-Pierre, Rousseau, Kant (223), intitolata Progetti per la pace perpetua. Ad entrambe, da lui curate, Curcio premette articolate introduzioni e commenti alle diverse sezioni. Riguardo al contenuto, se ormai il suo sguardo si amplia al di là del nazionalismo, egli comunque non rinuncia ad indagare il ruolo che autori italiani hanno avuto nelle vicende internazionali fra Settecento e Novecento(224). Tuttavia il suo sguardo si rivolge non solo a ripensare itinerari purtroppo fraintesi e smarriti (e fra questi l’ideale nazionalitario). In realtà, ora Curcio riprende ad indagare contesti di idee e nozioni cui pure da tanto tempo aveva dedicato attento studio. E non solo i problemi del mondo sociale, della famiglia(225) e del lavoro, bensì l’approfondimento stesso delle già precedentemente affrontate questioni metodologiche(226).
Tuttavia, in lui domina su tutti questi altri il tema dell’Europa. Un interesse che dal 1948 si viene accentuando sino al culmine del 1958. Del 1948, è infatti la Formazione e sviluppo dell’idea di Europa(227). Del 1953, è Sulla fortuna di due giudizi di Aristotele intorno a Europa e Asia(228). Del 1950, è il volume Nazione, Europa, Umanità. Saggi sulla storia dell’idea di nazione e del principio di nazionalità in Italia (Milano, Giuffrè). Un’opera rilevante per la definizione di alcuni capisaldi di interpretazione di tali nozioni e delle loro reciproche correlazioni(229).
Si ha così, nel 1957, a testimoniare un persistente crescendo di interesse per questo argomento, la creazione di una nuova rivista (bimestrale) intitolata ‘Europa’. È diretta dallo stesso Curcio, che sin dal primo numero vi pubblica diversi scritti, sia articoli (Considerazioni sul Mercato Comune e sull’ Euratom; Sentimenti di patrie), che recensioni. E su questo primo numero le parole programmatiche vengono affidate a Giorgio Del Vecchio, con il titolo significativo di Ideale cosmopolitico e unificazione europea(230).
Del resto, è il clima culturale dell’Europa delle nazioni, del Vecchio continente che aspira ad avere ancora un ruolo storico, e di nuovo a livello internazionale, se non cosmopolitico. Nondimeno, come si è anticipato, il culmine di questa attenzione di Curcio per la civiltà europea si ha nel 1958, con la pubblicazione dei due volumi editi da Vallecchi, intitolati: Europa. Storia di un’idea(231).
Rilevante è il giudizio positivo che su questa opera venne dato da attenti studiosi della storia dell’idea europea in quegli anni(232), del resto a conferma di un interesse di Curcio palesato in precedenti e successive ricerche, nelle quali prende forma il raffronto fra l’idea di Europa e le istanze nazionalitarie (infine distinte dal nazionalismo estremo)(233) ed universalistiche.
Nello stesso anno 1958, Curcio riprende l’altra delle principali tematiche del dopoguerra, quella del lavoro(234), al cui svolgimento vengono dedicati altri scritti negli anni successivi. Nel complesso l’argomento concerne la suddetta prospettiva etico-politica, intesa al superamento delle interpretazioni economiciste. Eccone la sequenza : Interessi e problemi sociali nel pensiero italiano della Restaurazione (1815-1830)(235); Problemi del lavoro nel pensiero italiano del primo ottocento(236), Lavoro e non lavoro(237); Profilo storico sulla socialità del lavoro (relazione per il secondo Convegno nazionale della Civiltà del lavoro, Roma, ottobre 1959).
A partire dal 1959 - d’altra parte - Curcio affronta più volte il tema, strettamente connesso con il mondo del lavoro e le istanze di solidarismo, della previdenza sociale e dell’assistenza. Vengono così alla luce i seguenti scritti: Il Muratori e le origini dell’idea di assistenza(238); Sulle origini dell’idea di sicurezza sociale(239); Riposa, non disperare!(240); Idee e discussioni intorno alla previdenza nel Risorgimento e dopo(241); I primi passi dell’assicurazione infortuni in Italia(242), La previdenza sociale nel Risorgimento e dopo(243).
Contestualmente alla trattazione di queste tematiche, Curcio prosegue dal 1960 su alcune delle sue specifiche direzioni di indagine. Intanto, vi sono le sue ricerche sia sulla storia del pensiero politico (considerata attraverso alcuni dei maggiori interpreti)(244), sia sulla sua metodologia(245), ricostruita attraverso la stessa storia e le finalità della Facoltà di Scienze politiche di Firenze (la ‘Cesare Alfieri’, allora fra le prime d’Italia)(246).
Ma si hanno anche numerosi altri suoi saggi. E non soltanto quelli intesi a ripercorrere molti dei temi da sempre trattati. Oltre al tema del lavoro(247), l’ideale nazionalitario(248) e, ancora, il pensiero utopico(249). In questo suo ultimo periodo Curcio sviluppa le sue indagini anche in altri campi: sul significato del metodo e dell’interpretazione storica(250), sulla sociologia(251), sulla filosofia politica(252), sulla dottrina dello Stato(253) e sulla filosofia del diritto(254). Del resto, sin dal 1963, le ricerche di Curcio ampliano una sua antica attenzione per il pensiero politico dell’illuminismo e della Rivoluzione francese(255).
Infine, nel 1977, esce postuma l’ultima opera di Curcio, intitolata Nazione e autodecisione dei popoli. Due idee nella storia(256). È il terminus ad quem di quella riflessione iniziata nel 1950 (con Nazione, Europa, umanità. Saggi sulla storia dell’idea di nazione e del principio di nazionalità in Italia) che ha avuto il suo vertice speculativo con Europa: Storia di un’idea, per poi aprirsi alla considerazione della portata universale-cosmopolitica del messaggio culturale e civilizzatore dell’antico continente, in una funzione di guida in cui Curcio credette sino all’ultimo.
Se un’immagine potesse riassumere tutta quanta la sua riflessione, forse nessun’altra come la seguente, relativa alla complessa fisionomia dell’Europa, acquista per noi un carattere conclusivo, al di là cioè di qualsiasi tipologia di inconsistenti interpretazioni unilaterali.
"Lo spirito classico e il Cristianesimo, l’idea liberale e quella democratica, il cesarismo e l’idea sociale, la Chiesa di Roma e le altre chiese cristiane, le sinagoghe e il libero pensiero, il romanticismo e il neoclassicismo, il luteranesimo, il calvinismo e il neotomismo, la scienza e la letteratura, la giurisprudenza e la poesia, lo spirito dogmatico e quello critico, tutto quanto ha costituito espressione del pensiero, della fede, della capacità creativa e fattiva degli Europei ha contribuito a dare un poco o molto di sé dell’idea d’Europa, formula complessa eppure non ambigua ed astrusa"(257).
Dunque, opera ‘sinfonica’, a tratti ‘rapsodia’ scandita a più mani, struttura pluridimensionale e complessa, l’Europa. Opera creata nel corso di due millenni, con vicende e modelli diversi, con idee e programmi talvolta di segno opposto. "Tutte le idee, tutte le grandi correnti del pensiero e della scienza, della fede e dell’arte hanno contribuito a dar vita all’idea d’Europa [...]. È opera di cristiani, ma anche di spiriti liberi e di menti esaltate, di rivoluzionari e di conservatori, di viaggiatori e di sedentari, di volteriani e di eclettici, di scienziati e di poeti, di utopisti e di storici, quelli con il pensiero al futuro, questi con la mente al passato"(258).
Anche in queste sue ultime formulazioni si delinea quello che in sostanza era sempre stato il criterio ispiratore della ricerca di Carlo Curcio. Da un lato il riconoscimento della realtà fattuale, della dimensione concreta dei fatti storici in cui l’uomo politico si trova in ogni tempo ad operare, dovendo fuggire qualsiasi suggestione irrazionale di utopiche proiezioni che sanno di fuga dalla realtà. Dall’altro lato, l’impegno etico a non rinunciare affatto a trasformare questa complessa oggettività storica, imprimendogli quei caratteri di razionalità, di ordine morale e di giuridicità che non sono affatto il dato immediato di una natura istintiva, ma semmai il sintomo di uno stato di superiore natura che in ognuno può essere ricercato e da ognuno ripetibile, ma con sforzi intellettuali e fatica morale e non con abbandoni naturalistici ad utopie libertine.
NOTE
(1) ‘RIFD’, XI (1931), fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 656-662.
(2) È quanto sostiene: F. Perfetti, Op.cit., pp. 119-120.
(3) Appunto della ‘RIFD’, XIV (1934), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 12-48.
(4) Si vedano, in questo senso, a parte la polemica con le dichiarazioni di Croce sul fascismo, sotto il titolo di La Rivoluzione e la cultura (ibid., II [1931], pp. 52-55), le seguenti tematiche, nella rubrica: Rassegna delle riviste: Democrazia e dittatura (ibid., p. 63); Pluralismo e unità (ibid., pp. 63-64); Sul parlamentarismo (ibid., pp. 64-65). E le recensioni a: Robert Michels, Italien von Heute. Politische und wirtschaftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930. Zurich-Leipzig, Orell Füssli Verlag, 1930 (ibid., pp. 73-75); Francesco Centonze, La pubblicazione del contratto collettivo di lavoro. Bari, Soc. Ed. Tipografica, 1930 (ibid., p. 76); Sergio Panunzio, Il diritto sindacale e corporativo. Programma, concetto, metodo. Perugia, La Nuova Italia, 1930 (ibid., p. 79). Si succedettero poi, ancora nella rubrica: Rassegna delle riviste: Corporativismo cattolico (ibid., fasc. II, febbraio, p. 139); Intorno alla dittatura (ibid., pp. 139-140); Le forme organizzative della società (ibid., pp. 140-141); La crisi dello Stato e la sociologia (ibid., p. 141). Dopo l’articolo Compromessi impossibili (ibid., fasc. III, marzo, pp. 216-218), ancora nella rubrica: Rassegna delle riviste comparvero: La decomposizione storica del liberalismo (ibid., pp. 223-225); La politica sociale ( ibid., p. 225): E quindi alcune altre recensioni, a: P.C. Solberg-G.C. Cros, Le droit et la doctrine de la justice. Paris, Alcan, 1930 (ibid., pp. 233-236); P.S. Leicht, Il diritto romano nell’Alto Adige durante il Medio Evo. Modena, Facoltà di Giurisprudenza, 1930 (ibid., p. 236); Arrigo Solmi, Storia del diritto italiano. Milano, Soc. Ed. Libraria, 1930 (ibid., pp. 236-237).
Poi, di nuovo, in successione cronologica, sia nella rubrica Note e discussioni: Per la ‘Rerum novarum’, (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 285-287); La crisi della sovranità? (ibid., pp. 306-307.); sia nella rubrica Rassegna delle riviste: Oltre i confini, (ibid., pp. 308-309; La democrazia e la crisi della fede politica (ibid., pp. 309-310); sia , ancora, nella rubrica Note e discussioni: Federazione di Stati e Stato corporativo (ibid., fasc. V, maggio, pp. 365-368); sia nella rubrica: Rassegna delle riviste: La formazione dei concetti nel diritto pubblico (ibid., pp. 376-377); La tendenza oligarchica nei partiti (ibid., pp. 377-378); Il concetto di nazione e quello di rappresentanza (ibid., p. 378); Il Fascismo come rivoluzione integrale (ibid., p. 379); Una profezia di Nietzsche (ibid., pp. 379-380). Dopo questo fascicolo di maggio, su cui Curcio pubblica la recenzione a Gustave Le Bon, Bases scientifiques d’une philosophie de l’histoire, Paris, Flammarion, 1931 (ibid., pp. 385-388), - su quello di giugno, si ebbero, sia, nella rubrica Note e discussioni, La ‘Quadragesimo anno’ e l’ordinamento corporativo fascista (ibid., fasc. VI, pp. 442-444); sia, nella rubrica Rassegna delle riviste i seguenti contributi: Libertà e gerarchia (ibid., p. 451); - Un programma di restaurazione dello Stato (ibid., pp. 451-452); I nuovi principii del diritto ecclesiastico (ibid., pp. 452-453); Sociologia e Nazione (ibid., p. 453). A seguire vennero poi altre recensioni, a: I. Seipel, Wesen und Aufgaben der Politik, Wien, Tyrolia, 1930 (ibid., pp. 469-471); Gabriele D’Annunzio, Il sudore di sangue. Dalla frode di Versaglia alla Marcia di Ronchi (21 aprile-11 settembre 1919), Roma, La Fionda, 1930 (ibid., p. 475); Emilio Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, Perugia-Venezia, La Nuova Italia, 1930 (ibid., pp. 479-480).
(5) ‘Lo Stato’, II, 1931, fasc. I (gennaio), pp. 19-30.
(6) Ibidem, fasc. VII (luglio), pp. 530-534.
(7) Ibidem, fasc. X (ottobre), pp. 818-832.
(8) Ibidem, fasc. XII (dicembre), pp. 858-873.
(9) Nelle citate antologie degli scritti di: C.H. de Saint-Simon, Sogno d’una felice Europa; e di: C.I.C. de Saint-Pierre - J.J. Rousseau - I. Kant, Progetti per la pace perpetua.
(10) Come si vedrà con Prospettive e problemi del pensiero politico dell’illuminismo, ‘Cultura e scuola’, 1963, n. 7 (marzo-maggio), pp. 120-126, e soprattutto con le Idee politiche della rivoluzione francese, ’Storia e politica’, IV, 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 169-215).
(11) E del resto, sul tema Curcio ritornerà già nel 1925, con due recensioni a: C. A. FUSIL, Rousseau juge de Jean-Jacques ou la comédie de l’orgueil et du coeur. Paris, Librairie Plon, 1923; ID., L’anti-Rousseau ou les égarements du coeur et de l’esprit. Paris, Librairie Plon, 1929], ‘RIFD’, XIV (1934), fasc. 1I, gennaio-febbraio, pp. 12-48.
(12) "Un po’ sotto queste suggestioni d’oltre Alpi, un po’ per l’istintiva avversione dello spirito italiano a certe costruzioni astratte […], un po’, infine, sotto la spinta della battaglia antidemocratica combattuta dal Fascismo, anche in Italia è venuto di moda parlar male di Rousseau" (‘Lo Stato’., fasc. VII, luglio, p. 530).
(13) "[…] Odia la rivoluzione […] e finisce per essere il teorico della Rivoluzione; esalta l’ottimismo […] e finisce nel pessimismo […]; adora la libertà e finisce col costringerla nella legge, onde, poi, il Terrore potrà benissimo appellarsi, di fronte alla storia, a lui; postula la democrazia e, in linea di principio la nega (con quella pagina del Contratto, nella quale fornisce agli antidemocratici di tutti i tempi un’arma decisiva, che può persino sembrare ironica); esalta l’individuo e finisce per annullarlo, di fatto, nello Stato. […] Così il problema filosofico, quello morale, quello politico restano insoluti. Le premesse sono sempre annientate dalle conclusioni. Al teorico che crede tutto buono in natura si sovrappone, infine, l’uomo che vede tutto da sottoporre a regole inflessibili […]; al naturalista ottimista cede il passo, spesso, il politico (sembrerebbe impossibile) realista. È la riscossa di Machiavelli" (Ibid., p. 531).
(14) Ibidem, l.c.
(15) Si veda: ID., Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti ed una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonesi, 1940.
(16) "La storia non è mai presente; ma è il passato che vuol farsi futuro. Così si spiega il rivoluzionarismo sempre in atto; la rivoluzione sempre insoddisfatta. La frattura tra il passato – la storia dell’uomo – e l’avvenire non è mai suturata. L’ideale resta utopico, impossibile. Onde, poi, il vero carattere utopistico della politica roussoviana" (ID., Anti-Rousseau?, cit., p. 532).
(17) Ibidem, l.c.
(18) Ibidem, p. 533.
(19) "Quella ‘volontà generale’ che supera la volontà di tutti, la volontà etica che aborrisce la volontà come somma, è la vera via allo Stato di diritto prima, allo Stato etico dopo. Nonostante tutte le accuse, la democrazia di Rousseau è una democrazia non numerica, ma etica, non di massa, ma ove il popolo è inteso nel suo valore universale, morale, che si fa Stato e s’identifica nello Stato" (Ibidem, l.c.).
(20) Ibidem, l.c.
(21) "Moralista fino all’eccesso, Rousseau odiava la forza. La sua sublimazione della legge lo portava a divinizzare la legge come una realtà trascendentale. Lo stesso Stato assoluto, conclusione della sua formulazione teorica della legge, è una affermazione ideale, manca di un fondamento realistico" (Ibide., l.c.).
(22) Ibidem, l.c.
(23) Ibidem, l.c.
(24) Ibidem, pp. 533-534.
(25) "La storia può apparire talvolta come una catena; e un anello aggancia l’altro. Gian Giacomo può ricordarci, non foss’altro, lo sforzo disperato di un’anima per raggiungere la perfezione. Una perfezione assurda, sicuro; una perfezione terribile, se Robespierre è stato l’erede diretto di quell’ideale. Ma, infine, proprio per questo la storia rivela sempre la sua capacità di insegnamento" (Ibid., p. 534).
(26) Ibidem, p. 533.
(27) Nella rubrica Note e discussioni: Razionalismo… ‘et ultra’ (ibid., ancora sul fascicolo di luglio, pp. 588-590); nella rubrica: Rassegna delle riviste: Socialismo e miseria (ibid., p. 604); La guerra e la vita (ibid., pp. 604-605); Le premesse storiche della legislazione fascista (ibid., pp. 605-607); Per la vita dello Stato (ibid., pp. 607-608); L’unità dello Stato e l’esempio fascista (ibid., pp. 608-609); Tecnica e spirito nello Stato, (ibid., fasc. IX, settembre, pp. 670-671); Lo Stato per lo Stato (ibid., pp. 671-672); Le nuove costituzioni e la crisi politica, ibid., pp. 672-673. Nel successivo fascicolo, nella rubrica: Note e discussioni : Direttive politiche e orientamenti ideali (ibid., fasc. X, ottobre, pp. 736-738); e nella rubrica Rassegna delle riviste : Liberalismo, borghesia e capitalismo (ibid., pp. 752-753); Il Corporativismo e l’iniziativa individuale (ibid., pp. 753-754); La politica e la storia delle teorie (ibid., pp. 754-755).
(28) Quelle a: Riforme fasciste del Diritto pubblico. Conferenze [al] Circolo giuridico di Milano, Milano, Giuffrè, 1930 (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 619-620); Giuseppe TREVES, Figura giuridica del Sindacato fascista [estratto dalla "Rivista di Politica economica"], Roma, Tip. Delle terme, 1931 (ibid., p. 620); Renato TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto giuridico della R. Università, 1931; C. Sebastian, Histoire du saint-simonisme (1825-1864). Paris, Hartmann, 1931 (ibid., fasc. IX, settembre, pp. 678-682). Alle precedenti Curcio aggiunse, sul fascicolo, le recensioni a: ‘Rivista Internazionale di Filosofia del diritto’, Indice generale dei volumi I-X (anni 1921-1930). Roma, presso l’amministrazione della Rivista, 1931 (ibid., fasc., X, ottobre, pp. 766-767);
(29) Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana, [nella rubrica: Rassegna di dottrina e di giurisprudenza], ibid., fasc. XI, novembre, pp. 818-832.
(30) Nella rubrica Note e discussioni: Il centenario di Hegel, (Ibid., p. 802); e nella rubrica Rassegna delle riviste: Psicoanalisi, economia e politica (Ibid., pp. 833-834); Fascismo, germanesimo e crisi dello Stato (Ibid., pp. 834-836).
(31) a M. de La Bigne De Villeneuve, Traité général de l’État. Essai d’une théorie réaliste du droit politique. Paris, Recueil Sirey, 1931 (ibid., pp. 838-839).
(32) Ibidem, fasc. XII (dicembre), p. 912.
(33) Ibidem, pp. 912-914.
(34) Ibidem, , pp. 858-873.
(35) Ibidem, pp. 859-860.
(36) Ibidem, p. 862.
(37) Ibidem, l.c.
(38) Ibidem, pp. 863-864.
(39) "È in quest’ambiente che l’individualismo economico, filosofico, politico e, in parte, giuridico prende un profilo abbastanza preciso. […] La filosofia sofistica è la giustificazione teorica di questo individualismo sfrenato. […] Finisce l’epoca della trascendenza, dei misteri, dei miti, delle certezze assolute. […] Col V secolo, insomma, la libertà filosofica, politica, economica, civile, tocca l’apogeo dello sviluppo. Ma in questo trionfo è già la decadenza. La libertà non è più limite, ma sfrenatezza; non più eguaglianza, ma diseguaglianza" (Ibid., pp. 864-866).
(40) Ibidem, p. 871.
(41) Ibidem, p. 872.
(42) Ibidem, l.c.
(43) Nella rubrica Rassegna delle riviste, appaiono: Per un Patriziato del Regime (Ibid., III, 1932, fasc.I, gennaio, pp. 52-53); La politica ‘more geometrico’ (ibid., pp. 53-54); Esperienze sindacaliste (ibid., p. 54); I partiti, le dottrine e la storia (ibid., pp. 55-56).
(44) E precisamente, a: Ugo Redanò, Storia delle dottrine politiche. Bologna, Cappelli, 1931 (ibid., pp. 68-70); Nicola Martinelli, Procedura individuale del lavoro. Genova, Ed. giuridiche Marsano. Sd. [ma: 1931] (ibid., p. 74); Rosario Labadessa, La cooperativa. Idee e realtà. Roma, Cooperativa Ape, 1931 (ibid., pp. 74-75); Giuseppe Chiarelli, La personalità giuridica delle associazioni professionali. Padova, A. Milani, 1931 (ibid., pp. 78-79).
(45) Ibidem, III, 1932, fasc. II, febbraio, nella rubrica Note e discussioni, pp. 119-125..
(46) E. Leone, La teoria della politica. Con presentazione di Paolo Orano. Torino, Bocca, 1931, in due volumi.
(47) ID., La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone, cit., p. 124
(48) "In sostanza […] Enrico Leone tenta comporre la catena, già spezzata in più parti, che congiunge il pensiero e la tradizione politica italiana al nostro tempo, che vuol essere tempo di restaurazione politica" (Ibid., p. 125).
(49) Ibidem, l.c.
(50) Ibidem, p. 119.
(51) Ibidem, l.c.
(52) Una storia, pertanto, che qui serve ancora di referente polemico al formalismo con cui il Regime ha ridotto il fulcro rivoluzionario della tradizione italiana. Una storia che va attentamente ripensata, da comprendere come "l’eterna conquista de’ forti, come la divina imposizione de’ potenti, come la logica realizzazione della storia nella sua tragica vicenda, che pur risponde ad una legge" (Ibidem, l.c.). Di quale legge storica Leone abbia inteso - secondo Curcio - tracciare gli aspetti essenziali è poi chiarito nel senso che la naturale tendenza degli uomini ad associarsi è intesa in una prospettiva evidentemente positivista (per cui natura, razionalità e politica possano coincidere). Qui, cioè, l’impianto scientista-positivista di Leone postula una naturale tendenza degli uomini a riconoscere che nella società "il prius è l’ordine, l’ordinamento, la gerarchia, il comandare e l’ubbidire" (Ibidem, p. 120). Per questo, - conclude Curcio - prima di ogni interpretazione della società come luogo dei bisogni economici e delle garanzie giuridiche al diritto di proprietà, giustamente Leone afferma che ci si deve rendere conto di quanto la compagine sociale sia fondata su un fatto politico sostanziale, ossia su delle forze concretamente operanti nella storia e su degli strumenti istituzionali grazie ai quali si è potuto ridurre ad un paradigma comune l’infinita "eterogeneità degli uomini", per cui ora la politica è anzitutto studio di questa eterogeneità, è una "scienza antropologica" (Ibidem, p. 121).
(53) Ibidem, p. 119.
(54) Ibidem, p. 122.
(55) Ibidem, p. 123.
(56) Ibidem, p. 123.
(57) Ibidem, l.c.
(58) Ibidem, l.c.
(59) Ibidem, p. 124.
(60) Ibidem, p. 124. È comunque, questo di Leone, un richiamo al nostro tempo. Un monito che – sia pure espresso in modo contraddittorio – significa tuttavia una palese esortazione a superare tutti gli attuali schematismi di teorie politologiche ed i formalismi istituzionali. Seppure senza fornire soluzioni concrete, ed a tratti configurandosi come un atteggiamento culturale di un trentennio fa, sorpassato, invecchiato; e per giunta sottacendo volutamente certi aspetti delle teorie sindacaliste e dello stesso Sorel, che pure potrebbero essere ancor oggi un utile punto di riferimento, - nondimeno c’è del valido nella teoria politica di Leone, proprio in questa intenzionalità, peraltro irrisolta, di andare al di là di teorie astratte, di schemi senza nesso con la realtà, di formalismi giuridici e politici (Ibid., pp. 124-125).
(61) Anche se, ripete anche qui Curcio, qualche contraddizione sussiste in Leone, laddove ad esempio crede di rivalutare la nazione, ma poi ne fa una creazione dello Stato (il che, peraltro, contrasterebbe con il suo postulato naturalistico-positivista cui si riferisce lo stesso Leone). E poi la sua idea di patria, evocata come un "mito, meraviglioso mito", senza spiegarne affatto la sostanza e le implicazioni. Ma anche taluni concetti economici lasciano in Leone molto da desiderare, soprattutto in relazione alla necessaria distinzione fra economia e politica (Ibid., p. 124).
(62) Nella Rassegna delle riviste: Il regime politico sud-americano (ibid., pp. 140-141); Una nobile concezione del Fascismo (ibid., pp. 141-143); Il Fascismo e il problema spirituale della Politica (ibid., pp. 143-144); A proposito del giuramento dei professori universitari (ibid., pp. 144-145); Nuove interpretazioni straniere del Fascismo, (ibid., fasc. III, marzo, pp. 227-228; Hegel e la sociologia (ibid., p. 229); Stato, diritto e materialismo storico (ibid., pp. 229-230); Il problema dello Stato moderno (ibid., pp. 230-231).
(63) E cioè quelle a: Vincenzo Mangano, Il pensiero sociale e politico di Leone XIII (ibid., fascicolo II, febbraio, p.159); Arrigo Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno italico nell’alto medio evo. Pavia, Tip. Cooperativa, 1932 (ibid., fasc. III, marzo, pp. 234-235); Francesco Ercole, Da Bartolo all’Althusio. Firenze, Vallecchi, 1932 (ibid., pp. 235-236); Walter Heinrich, Das Ständewesen, mit besonderer Berücksichtigung der Selbstverwaltung der Wirtschaft. Jena, Fischer, 1932 (ibid., pp. 236-237); a Stefano Raguso, La Nazione e il progresso della filosofia politica. Firenze, Le Monnier, 1931 (ibid., pp. 237- 238); Santi NAVA, Il problema dell’espansione italiana ed il Levante islamico. Padova, Milani, 1931 (ibid., p. 238).
(64) Nella rubrica: Note e discussioni (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 297-300)
(65) Quali appunto furono, sia nella rubrica Rassegna delle riviste: La crisi della dogmatica (ibid., pp. 310); Le associazioni professionali e l’organizzazione amministrativa dello Stato (ibid., pp. 310-311); Politica sociale e politica generale (ibid., p. 311); Politica, economia e morale (ibid., p. 312); La rivoluzione tedesca (ibid., pp. 312-313); sia le recensioni a: Michele Schiavone, Scadenze. Istantanee della crisi mondiale. Milano, Stampa commerciale, 1931 (Ibid., pp. 319-320); Annuaire de l’Institut internationale du Droit public. Paris, Puf, 1931, voll. 2 (ibid., p. 320).
(66) Il liberalismo e l’esperienza europea, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 364-366.
(67) E cioè, nell’ordine, dapprima le recensioni, a: Carlo Schanzer, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932 (ibid., pp. 397-398); Costantino Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931 (ibid., p. 398); Edmond Vermeil, L’Allemagne et les Démocraties occidentales. Les conditions générales des relations franco-allemandes. Paris, Publications de la Conciliation internationale, 1931 (ibid., p. 399); Agostino Gemelli, L’ora storica e la funzione dell’Università. Milano, Ed. Vita e Pensiero, 1932 (ibid., pp. 399-400).
(68) Nella rubrica Rassegna delle riviste: La grande borghese, ibid., fasc. VI (giugno), p. 462; Due politiche (ibid., pp. 462-463); Demagogia e logica politica (ibid., pp. 463-465); e con due recensioni, a: Daniel Halévy, Décadence de la liberté. Paris, Grasset, 1931 (ibid., p. 471); Franco Guidotti, Dalla democrazia alla corporazione. Pistoia, Arte della Stampa, s.d. [ma: 1932] (ibid., p. 472); Giuseppe Cavaciocchi, Mussolini. Sintesi critiche. Firenze, Vallecchi, 1932 (ibid., pp. 472-473).
(69) ID., La politica italiana del ‘400. Firenze, Novissima editrice, 1932.
(70) ID., L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana. Roma, Edizioni de ‘Il Primato’, 1932.
(71) Si tratta di: Renato Treves, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto Giuridico della R. Università, 1931], RIFD, XII (1932), fasc. I (gennaio-febbraio), pp.142-143; C. Costamagna, Corso di lezioni di storia delle dottrine dello Stato, politiche ed economiche. Padova, Cedam, 1931], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 462-463; John Charpentier, Jean-Jacques Rousseau ou la démocratie par dépit. Paris, Librairie accademique Perrin, 1931], ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 685; Armand Le Hénaff, Le pouvoir politique et les forces sociales. Paris, Librairie du Recueil Sirey], ibid., pp. 685-686 ; Daniel HALÉVY, Décadence de la liberté. Paris, Editions Grasset, 1931], ibid., pp. 686-687; Giuseppe Chiarelli, Il Diritto corporativo e le sue fonti. Peugia, La Nuova Italia, 1930], ibid., p. 687; Giuseppe D’Eufemia, Le fonti del Diritto corporativo. Napoli, Libreria Detken e Rocholl, 1931], ibid., l.c.; C. Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931], ibid., p. 688; Alessandro Levi, Il pensiero politico di Giuseppe Ferrari, "Nuova Rivista Storica", 1931], ibid., p. 696; Carlo Schanzer, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 837-839; Vincenzo Zangara, Saggio sulla sovranità. I., Roma, Il Primato, 1932], ibid., pp. 839-840.
(72) La coscienza dello Stato. Note per la storia del concetto di nazione, ibid., XII, 1932, fasc. II (marzo-aprile), pp. 201-234. Lavoro, quest’ultimo, che non solo segna effettivamente un ulteriore allontanamento, anche qui sostanziale se non formale, dall’ideologia del Regime, ma rappresenta, ancor prima, un indubbio perfezionamento del metodo di indagine storico-politologica, applicato su decisive questioni. In tal senso, qui Curcio recupera del resto molti frammenti della sua precedente riflessione, ora insistendo particolarmente sul nesso fra religione e politica e sul concetto di nazione. Argomento, peraltro, già affrontato nella ricostruzione storica del significato del ‘lavoro’, questo del rapporto fra religione e politica si svolge qui riprendendo alcuni spunti relativi all’etica sociale, ora ricollegandosi alle origini vetero-testamentarie ed al cristianesimo. E quest’ultimo è qui visto come matrice di quell’universalismo di valori etico-politici che sarà storicamente veicolato dell’Impero romano, dunque al di là di astrazioni cosmopolitiche, che terranno poi il campo di utopie di varia connotazione.
(73) Vale la pena, qui, soffermarci su queste importanti formulazioni che Curcio sviluppa lungo le seguenti articolazioni argomentative. Intanto delinea la complessità del quesito sul significato da dare a questo concetto di nazione. "[…] Insomma […] è un concetto falso, uno pseudo-concetto? […] O va ridotto a concetti diversi sebbene analoghi, come quelli di razza, di popolo, di patria, di stato o addirittura a quello di storia?" (Ibid., p. 201).
(74) Ibidem, l.c.
(75) Ibidem, pp. 203-204. E comunque, è un’analisi da sviluppare, data la sua complessità, secondo tre diversi criteri metodologici, ossia: sul piano filologico (indagando appunto sull’uso della parola nazione e sul suo valore nella storia delle dottrine politiche); sul piano dell’attribuzione di valori’ (decidendosi a prendere finalmente partito per una data interpretazione del suo significato); sul piano di una considerazione globale, cominciando a distinguere una per una "tutte quante le soluzioni cui si è sforzata di giungere almeno la cultura contemporanea" (Ibidem, p. 204). Data la gran quantità di diverse interpretazioni, procedere altrimenti nell’indagine, concludendo per una sola interpretazione si farebbe solo dell’ideologia. E qui Curcio ribadisce l’impossibilità di analizzare sul piano della ‘scienza politica’ questa idea di nazione, perché così facendo non saremmo immuni da un’attribuzione di valore. Si farebbe, cioè, una sua storia "partigiana", poiché "non v’è storico, di fatti come di teorie, che non abbia un suo pregiudiziale modo di intendere quei fatti e quelle teorie" (Ibidem, l.c.). Dunque, non la ‘scienza politica’, ma solo la ‘storia delle dottrine politiche", la storia di tutte quante le interpretazioni che dell’idea di nazione si sono date può aiutarci a capirne il significato complessivo.
(76) Ibidem, p. 205.
(77) Ibidem, l.c.
(78) In una ricostruzione retrospettiva della nozione, Curcio osserva che nel mondo greco l’idea di nazione venne intesa come ‘linguaggio comune’, come contrapposizione della patria, della cultura, della tradizione greche contro i barbari. Da qui, poi, un’identificazione fra nazione, linguaggio, cultura non molto diverso nella sua essenza etnico-nazionale dall’idea vetero-testamentaria di un legame comunitario corroborato dalla religione, come nella biblica ‘vocazione’ di Abramo, per cui "la tradizione […] ha carattere religioso e nazionale insieme"(Ibidem, pp. 206-207). Qui, anzi, nella tradizione ebraica, l’idea di nazione risulta un concetto "indipendente dalla considerazione del territorio e dall’idea di Stato": è un’idea che peraltro accomuna anche il pensiero greco in quella "diffusa concezione antica […] tramandata poi da molti pensatori del Rinascimento" nel senso di un’universalità della patria (Ibid., p. 208). Si trattava dunque di una proiezione sul piano universalistico dell’idea di nazione, sulla base della stessa "eterogeneità di quegli elementi (linguaggio, religione, spirito dei padri", che emancipa il concetto di nazione "dall’idea del territorio e, infine, dello Stato"(Ibidem, l.c.). Qui pertanto si delinea senza esitazioni la presenza nella successiva cultura ellenistica di un’antitesi fra le concezioni cosmopolitiche, variamente argomentate, e le estremizzazioni dello ‘Stato nazionale’, nel senso che ci si potè convincere di una grande verità, ossia che la nazione era "eterna e lo Stato transeunte", per cui "anche fuori della patria i cittadini erano quasi un o Stato, nel senso che potevano sempre ricostituirlo […] se fosse stato distrutto" (Ibidem, l.c.). E qui per inciso, va rilevato che questa contrapposizione fra nazione e Stato – che nell’immediato suona come una reiterazione, in funzione critica dello stesso Regime, del contrasto fra ‘nazione’ e ‘Stato’ – è idea che Curcio sembra aver recepito dal Rousseau (dove appunto il Ginevrino, nel Contrat social, rilevava la persistenza della nazione ebraica, malgrado duemila anni senza Stato, grazie appunto al forte legame etico-religioso.
(79) Ibidem, p. 204
(80) Ibidem, p. 205.
(81) Dapprima, anche qui la nazione ha una configurazione etnica. "[…] Natio vale la gens, l’unità etnica", ma poi, con Numa si opera una voluta ristrutturazione della nazione in classi, per cancellare le originarie diversità etniche di Sabini, Latini, Etruschi e Romani, come narra Plutarco, nel parallelo fra vita di Numa e quella di Licurgo (Ibidem, p. 206n). Da qui la compiuta espressione della sublimazione dell’idea di ‘nazione’ in quell’entità politica ‘sovra-nazionale’ che è al fondo del concetto di respublica elaborato da Marco Tullio Cicerone, per il quale le comunità etniche (fondate sul diritto naturale, sullo jus naturale) si elevano ad un livello superiore di rapporti etico-politici grazie all’organismo etico-istituzione della respublica, la quale si amplia ed entra in contatto con altre culture, recependo la necessità di uno jus gentium.
(82) Ibidem, p. 209.
(83) Qui, pertanto, emerge indubbiamente un voluto referente di Curcio all’irriducibilità che nei confronti dello stesso Regime totalitario adesso gli sembra sussistere fra la ‘nazione’ e lo ‘Stato’. Si tratta di un ulteriore avanzamento nella graduale presa di distanza dalle sue stesse precedenti posizioni ufficiali di adesione formale al Regime. Si è qui in presenza del terminus a quo del saggio, che troverà una coerente conclusione nel terminus ad quem dell’asserzione di un’irrinunciabile esigenza di considerare i rapporti fra ‘nazione’ e ‘Stato’ sul piano di quella che qui potremmo definire una crociana ‘dialettica fra distinti’, fra diversi contesti che si interano reciprocamente. Nel contesto del saggio, nella considerazione di tali contesti storici distinti in cui si è vissuta in maniera diversa l’idea di nazione, Curcio ne ripercorre le varie formulazioni che si ebbero sia prima, durante e dopo la codificazione che nel mondo romano si produsse recependo e rielaborando la tradizione ‘vetero-neotestamentaria’.
(84) "Cicerone in un famoso passo del De republica [II, 1-2] esprime perfettamente questo processo etico-storico dello Stato romano, quando dice: Nostra… respublica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot costituta saeculis et aetatibus. Nam neque ullum ingenio tantum extitisset […], neque cuncta ingenia collata in unum tantum posse uno tempore providere ut omnia complecterentur sine rerum usu ac vetustate"(Ibid., l.c.).
(85) Sotto questo profilo l’ Imperium si configura come la sintesi ultima di una tale sequenza evolutiva, dalla società naturale alla società civile, e da questa allo Stato, alla società politica. E per converso, si tratta di un processo dialettico in cui vengano ricompresi come ambiti distinti ed interattivi tutti i singoli momenti dell’evoluzione dallo ius naturale allo ius civile, poi da questo allo ius publicum, o ius positivum, statuale, per giungere infine a raffrontare lo ius publicum (o statuale) allo ius gentium.
(86) Ibidem, l.c.
(87) Ibidem, VIII, 1928, fasc. II, capitolo I [fasc. 2 (marzo-aprile), pp. 179-224].
(88) ID., La coscienza dello Stato…, cit., p. 209.
(89) Ibidem, p. 210. Una verità riferibile anche al cristianesimo, alla nuova religione, che - sottolinea Curcio - per quanto avesse proclamata "l’indifferenza di fronte ai popoli come tali", presentandosi come non legata "all’idea di una nazione"; e malgrado si volesse configurare come cosmopolitica ed universale, tuttavia reca "le tracce nazionalistiche che sono visibili nei testi di origine giudaica del Nuovo testamento", riconfermando che il cosmopolitismo non può prender vigore se non in relazione all’idea che un popolo privilegiato dovrà dar luce al mondo"(Ibidem, l.c.). Da consimile sottofondo ideologico poi trasse origine "quella specie di imperialismo cristiano che si diffonderà da Roma su tutto il mondo"(Ibidem, l.c.). Comunque sia, - questo è il punto conclusivo su cui Curcio richiama l’attenzione - già nel mondo antico si delineano due diverse tendenze ad interpretare l’idea di nazione. La prima - si è visto - considera la nazione come unità di "lingua, religione, costume", e si rivela pertanto naturalistica, conservatrice (Ibidem, l.c.). L’altra, invece, è "spiritualistica […], imperialistica […], proclamante il diritto della supremazia in nome della civiltà, della cultura, del bene universale" (Ibidem, l.c.). Solo quest’ultima idea di nazione è veicolo di "luci da Dio date ad una nazione perché illumini le altre diseredate, ma in attesa di essere illuminate"(Ibidem, l.c.). Definita in questi tratti, in Curcio l’idea di nazione nell’immediato manifesta, intanto, alcune suggestioni settecentesche, quale il riferimento al primato di una nazione, legittimato dalla funzione universalistica del suo magistero di civiltà, analogamente a come la Francia venne considerata dalla stessa cultura illuministica europea. Però è soprattutto riguardo alla transizione fra mondo classico e Rinascimento che Curcio indica le origini dell’idea moderna di nazione, a partire cioè dalla fine del medioevo, quando in Italia scrittori politici (Marsilio da Padova) e giuristi (Baldo e Bartolo da Sassoferrato) confutarono la legittimità del dualismo fra Impero e Chiesa, rivendicando l’autonomia delle entità minori, pur nella necessaria unitarietà dello Stato, e cioè una qualche libertà delle nazioni dall’Impero (Ibidem, p. 211). Soprattutto da questi giuristi dell’età di mezzo fino a quelli del Rinascimento, una tale autonomia non venne mai, comunque, intesa secondo un concetto totalmente naturalistico di libertà, ossia come libertà assoluta, come pulsione istintuale, individualistica, anarchica, bensì nel contesto di precisi limiti etici, giuridici, sociali, appunto in quanto ‘legge di natura’ che si realizza pienamente solo in un ordinamento statuale. Per questi autori, "il diritto naturale è libertà, è etica, è principio fondamentale dello Stato e del diritto, che rappresentano il momento terminale del processo rivoluzionario" (Ibidem, p. 212).
(90) "Ecco il concetto di nazione resuscitare ed affermarsi" fra medioevo ed epoca moderna (Ibid., l.c.). Ecco lo Stato sorgere dalle rovine dell’Impero", ma non come "mera organizzazione giuridica autonoma", bensì come "volontà di gruppi, che si sentono uniti, fusi, volenti la propria libertà politica e la loro unità giuridica"(Ibid., l.c.). Fra medioevo ed epoca moderna riappaiono le teorie giusnaturalistiche che oppongo al diritto statuale dell’Impero le autonomie e le istanze di uguagliamento di individui, gruppi e nazioni. E proprio "l’idea di natura restituisce agli uomini il senso di fraternità, di uguaglianza, di libertà"(Ibid., p. 214). In un’accurata ricostruzione delle vicende dell’idea di nazione fra medioevo ed epoca moderna, Curcio descrivea anzituttol’eccessiva enfasi posta sull’idea di nazione si ebbe proprio nel XVI-XVII secolo, per effetto di concause e processi diversi che si intersecarono in questo senso di una piena autonomia Nazionale. Ideologie in apparenza diverse, unite a sentimenti, impulsi, bisogni della vita civile, determinano non solo l’affermazione della borghesia, quale forza nuova che alimenta non solo la Riforma, ma anche – con l’affermarsi del realismo politico (che peraltro ebbe come effetto la ‘ragion di stato’) - la ripresa dell’idea di un diritto naturale dei popoli,delle nazioni, alla libertà ed alla giustizia. Nel XVII secolo, le grandi scuole dei giusnaturalisti come Grozio e come Pufendorf risolvono, "sia pure in maniera del tutto naturalistica, le grandi antitesi lasciate incompiute" nel passato dei commentatori e glossatori medievali del diritto romano, ossia la loro irrisolta giustapposizio di jus naturale, jus gentium, jus civile (Ibid., l.c.).
(91) Ibidem, p. 215.
(92) Ibidem, p. 216. "Senza dubbio Rousseau, superando le concezioni contrattualistiche di Hobbes e di Locke, dà al concetto di popolo un significato concreto e vitale; e il popolo resta certamente definito come unità formidabile, fondata sulla volontà generale, che non è somma, ma fusione organica, etica delle coscienze particolari; onde la sovranità insita nel popolo, vero creatore della volontà politica"(Ibidem, l.c.).
(93) Ibidem, p. 217. "In sostanza tutta l’esperienza del secolo XVIII può ridursi a questo: la nazione esiste, vanta diritti, è una persona giuridica di diritto naturale, un prius di fronte allo Stato, un’entità pregiuridica, insomma" (Ibid., l.c.).
(94) Ibidem, p. 218.
(95) Ibidem, l.c.
(96) Ibidem, l.c. Qui Curcio si riferisce al suo precedente lavoro: La politica di Vico e i tempi nostri, cap. III, ‘Il Giornale della cultura italiana’, I, 1925, n. 6, pp. 1-8.
(97) Curcio, La coscienza dello Stato…, cit., p. 218.
(98) Ibidem, p. 219. Tuttavia, superate contestualmente - grazie alla scuola storica tedesca (con il Savigny) - sia le tendenze panlogistiche hegeliane che, ancor prima, l’astratta identità roussoviana di popolo e nazione (su cui si era basata la Rivoluzione), riprende spazio il convincimento che anima Humboldt, Novalis, Müller, Gneisenau, Fichte, nelle diverse interpretazioni di un medesimo convincimento che "la nazione è interiorità, forza morale che vince, crea, trasforma la natura stessa"(Ibidem, pp. 219-222). Poi la nostra scuola, con i due Spaventa, che "furono tra i più strenui sostenitori di quelle teorie, rivissute all’italiana, secondo cioè le esigenze e i modi della cultura italiana" (Ibidem, p. 223). E soprattutto Gian Domenico Romagnosi, il quale vide nella nazione "una unità insieme naturale ed umana, ove i fattori fisici, quelli etnici, quelli linguistici non son disgiunti dai fattori morali, e cioè dalle tradizioni, dalle religioni, dai bisogni" (Ibidem, l.c.). A questi caratteri della nazione, Pasquale Stanislao Mancini intese aggiungere un ulteriore chiarimento, cercando di innestare il suo discorso nei due versanti delle suddette interpretazioni. In termini, cioè, per un verso giusnaturalistici e per l’altro storicistici. Ed alla fine romantici, osservando che la nazione è al tempo stesso una ‘società naturale’ (di uomini uniti dallo stesso territorio, dall’origine, dai costumi, dalla lingua e dalla comunanza di vita e di coscienza sociale). Ma è anche sentimento, amore, animo di farsi nazione(Ibidem, pp. 223-224). Con Mazzini "la nazione è prima di tutto coscienza, istinto della propria missione" (Ibidem, pp. 224-225). E con Gioberti la nazione sarà concepita come un "centro vitale", l’anima di un popolo, come del resto tale è nel pensiero politico dei patrioti(Ibidem, p. 225). Tuttavia, alquanto diverse sono poi le interpretazioni che dell’idea di nazione si ebbero allora fuori d’Italia, nello stesso XIX secolo (Ibidem, pp. 226-227). Concezioni essenzialmente pseudo-scientifiche, cioè facenti capo, ad esempio con Spencer, all’idea di nazione come ‘vincolo di consanguineità’, come ‘fattore ereditario’, posizione che De Gobineau aveva già spinto a conclusioni razzistiche, incentrate sulla tesi suggestiva della "superiorità delle società etniche pure" (Ibidem, p. 228). Tesi queste ultime "non sempre obiettive" (Ibidem, l.c.). Ecco un altro risultato determinato dalla pretesa di applicare alla nazione la ‘scienza politica’, infatti, "proclamata la scienza della nazionalità una ‘sezione della psicologia’, gli studi in questo senso del Fouillée e del Le Bon, per quanto suggestivi, hanno approdato spesso a risultati giustificanti l’imperialismo" (Ibidem, l.c.).
(99) Un’apparente variazione su questo tema è, in Italia, Enrico Corradini, per il quale la nazione è comunità spirituale, addirittura ‘Persona Spirituale’. Anche se poi lui stesso la riduce ad un significato "del tutto naturalistico (Ibidem, pp. 228-229).
(100) Ibidem, p. 229.
(101) Ibidem, l.c.
(102) Ibidem, p. 230.
(103) Ibidem, p. 232.
(104) Ibidem, l. c.
(105) Ibidem, l.c.
(106) In realtà, la carta – approvata nel testo definitivo nella riunione del Gran Consiglio del 21 aprile 1927, si riduceva a enunciazioni generiche di scarsa rilevanza pratica e conteneva disposizioni particolari che non avevano niente di veramente innovativo (Aquarone, Op.cit., I, pp. 141-152). Basterebbe citare l’articolo III per capire la totale assenza di autonomia concessa alle organizzazioni professionali: "L’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto a controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria […]" (Ibid., to. II, doc. n. 40, p. 477).
(107) "La Carta del Lavoro, nella sua prima dichiarazione fondamentale, così si esprime: ‘La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita,, mezzi di azione superiori, per potenza e durata, a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista’. Qui son superate, in modo esplicito e definitivo, tutte le concezioni false della nazione. Qui, implicitamente, vengono superate tutte le antitesi: quella tra popolo e nazione, quella tra Stato e nazione, tra individui e nazione" (Curcio, La coscienza dello Stato…, cit., p. 234). Qui Curcio ha sottoscritto una posizione palesemente contraddittoria non soltanto con tutta la precedente parte del saggio, ma anche e soprattutto rispetto a quanto aveva scritto in L’ostetrica del diritto, nel 1930. Sintomo di un’involuzione momentanea, di una risposta che in questo lungo saggio critico dello statalismo del Regime Curcio sente di dover pure dare al richiamo all’ordine di quella che era pur sempre una pesante dittatura, anche se lontana quanto si vuole,da quella socialista-sovietica o nazional-socialista tedesca.
(108) "La teoria italiana recentissima ha apportato questo riguardo un contributo chiarificatore essenziale e fondamentale", in quanto, dopo aver superata la concezione individualistica, "risolventesi nella proclamata volontà dichiarata o presunta del popolo", ormai la nazione è intesa – afferma Curcio (riferendosi, e non troppo esaurientemente in termini bibliografici, alle formulazioni in proposito prodotte da Del Vecchio fra 1913-24 - come la "viva e concreta obiettivazione della nostra individualità, che vi si contempla ingrandita e moltiplicata indefinitamente nel passato e nell’avvenire" (Ibid., p. 233).
(109) Ibidem, l.c.
(110) Ibidem, l.c.
(111) ID., Stato universale-organico e Stato fascista, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. VII (luglio), pp. 484-491.
(112) ID., Oltre il diritto, nella rubrica Note e discussioni : ibidem, fasc. VIII (agosto), pp. 610-612.
(113) ID., Lo Stato, la guerra e la pace, ibidem, fasc. X (ottobre), pp. 707-714.
(114) ID., Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’), nella rubrica Note e discussioni, ibidem, fasc. XI-XII (novembre-dicembre), pp. 802-805.
(115) W. Heinrich, Dottrina fascista e dottrina universale-organica, ibidem, fascicolo V (maggio), pp. 340-349.
(116) Intanto Costamagna accusava però il tedesco di aver confuso il concetto dello Stato ("che la dottrina fascista assume in un valore etico irriducibile ad una definizione formale di competenze giuridiche, come la intende il Heinrich") ed il concetto di governo, "che è essenzialmente organizzativo e funzionale" ([C. COSTAMAGNA], Nota della Direzione, ibidem, p. 349n.). Giustamente risentita era particolarmente la risposta ai dubbi che Heinrich esprimeva sulla capacità organizzativa del popolo italiano, cui Costamagna opponeva (chiamandolo il "nostro amico tedesco") che "questo popolo ha dato alla civiltà europea i tre più alti tipi di organizzazione nello Impero, nella Chiesa e nella repubblica di San Marco" (Ibidem, l.c.)
(117) Il discorso di Curcio parte dalla considerazione del significato della concezione organicistica, basata su di una visione della società come "unità organica composta da unità parziali", secondo cioè una loro diversa funzionalità di corpi, ceti o classi che svolgono la varie attività artistiche, scientifiche, religiose, economiche, come altrettante "funzioni […] in relazione all’unità organica totale" (Curcio, Stato universale-organico e Stato fascista, cit., p. 486). Nell’organicismo di Spann andava vista dunque la riproposizione di una vecchia concezione dello Stato come ordinamento complesso, costituito da una molteplicità di corpi titolari di funzioni, centro di un sistema di interazioni interpretabile in senso pluralistico. Lo Stato come un’unità ed una molteplicità di entità sociali del tutto armonizzabili, non più da considerare come opposte o addirittura avverse fra loro e rispetto all’ordinamento statuale (Ibidem, l.c.). Quale dunque la sostanziale differenza che Curcio vedeva rispetto al ‘corporativismo’ fascista, secondo Heinrich invece molto prossimo alla suddetta visione organicista? "Una, prima di tutte e sopra tutte le altre, fondamentale: la teoria fascista si fonda sopra una concezione etica dello Stato, la quale risolve, concretamente, tutte le antinomie e può servire ad affermare insieme l’unità-sovranità dello Stato e partecipazione di tutti - associazioni ed individui - alla vita dello Stato" ( Ibidem, p. 487). Invece la "teoria universale-organica postula, in un tentativo astratto e trascendentale, tale unità di società, Stato, enti ed individui" (Ibidem, l.c.)
(118) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971), cit., pp. 345-466.
(119) "L’organizzare in senso materiale è del governo, e lo Stato, per il fascismo, non è il governo. Lo Stato è complesso di forze, di opere, di spiriti, di fedi; il governo è, invece, la direzione politica dello Stato. Tale distinzione, fondamentale nella dottrina fascista, può servire, essa soltanto, ad eliminare molti equivoci" (Curcio, Stato universale-organico e Stato fascista, cit., p. 489).
(120) "[…] Ma non già uno Stato che stia sopra gli individui o le categorie; […] perché è, vive, agisce, si sviluppa, traendo motivi essenziali di forza, di pienezza, di contenuto da individui e gruppi" (Ibid., p. 488).
(121) Ibidem, p. 489. Certo qui il discorso contro l’organicismo universalistico, mistico-trascendentale, ed alla fine naturalistico-istituale, di Spann-Heinrich, finisce per Curcio in una rievocazione delle promesse liberali, delle istanze autonomistiche, di sindacati e corpi sociali, che ormai sono alle spalle del fascismo-Regime.
Nondimeno, in tale prospettiva, contrariamente a quanto crede Heinrich - che cioè lo Stato fascista sia "accentratore, subordinatore di tutte le attività politiche ed economiche, comprese le attività delle organizzazioni professionali" - Curcio rivendica a queste ultime "una loro compiuta autonomia" ( Ibidem, l.c.). Asserzione poco convincente di Curcio, che peraltro dimostra la sua contrapposizione al Regime, evocandone appunto una inesistente anima pluralista e liberale, in un ossequio retorico che in realtà è la rivendicazione delle promesse delle origini della rivoluzione (ossia dell’autonomia e della partecipazione politica delle organizzazioni professionali alla vita dello Stato). Promesse non mantenute e disattese sostanzialmente dal Regime, scaduto in un ‘corporativismo’ formale. "Queste […] rivendicano una loro compiuta autonomia; da un punto di vista, anzi, superiore, possono anche rivendicare, almeno alle origini, una partecipazione diretta alla formazione dello Stato, nato attraverso una rivoluzione e, pertanto, anche da esse" (Ibid., l.c.)
(122) Ibidem, p. 490.
(123) ID., La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese, cit. Firenze, Nuovissima, 1932.
(124) Da ultimo, dopo la guerra, si ricordò di lui - a fronte del silenzio in Italia - a livello internazionale, David Weinstein, in riferimento proprio a La politica italiana del 400 (D. Weinstein, Savonarola and Florence. Prophecy and Patriotism in the renaissance. Princeton, University Press, 1970, p. 23).
(125) "La rivoluzione politica del Quattrocento […] s’inserisce in tutto quanto lo sviluppo delle idee politiche moderne", e - realizzandosi nel distacco dai vecchi sistemi, dalle vecchie ideologie medievali -, si dispiega da un atteggiamento quasi costante nei riguardi del problema morale, "inteso come immanenza e pertanto capace di giustificare la negazione assoluta del moralismo politico" e quindi di" dimostrare l’esigenza della politica come eticità e come pratica, come spiritualità concreta e come economia […]" (Curcio, La politica italiana del ‘400…, cit., p. 202).
(126) La riflessione politica italiana si afferma nel XV secolo "come la prima restaurazione del senso, della coscienza, dello spirito politico dei tempi moderni", per cui in quegli scrittori permane sempre "una tendenziale, insita, preoccupazione nei riguardi del concetto di rivoluzione […], della rivoluzione come etica della politica e del diritto" (Ibid., l.c.).
(127) ID., Oltre il diritto, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. VIII, agosto, nella rubrica Note e discussioni, pp. 610-612.
(128) E precisamente quelli di: Arrigo Solmi (Politica e diritto nella Dottrina generale dello Stato. Milano, 1932), Carlo Costamagna (Diritto pubblico e diritto privato, nel nuovo sistema del diritto italiani, in: Studi in onore di Federico Cammeo. Padova, 1932) e Sergio Panunzio (Stato e diritto. L’unità dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. Modena, 1931).
(129) "Chi è […] che crea il diritto? Lo Stato? E lo Stato non è la resultante di valori squisitamente politici? Che cos’è il diritto se non imperio, manifestazione di una volontà superiore? E cotesta volontà non trova, forse, nella politica il suo centro vitale e la sua fonte di vita e di energia?" (Ibid., pp. 611-612).
(130) "Questo s’incomincia a capire da qualche tempo da noi; e fa piacere vedere come, ormai, la quasi totalità dei giovani studiosi di diritto pubblico s’attiene a tali criteri. Sarebbe, invero, un bel dire occuparsi dei nuovi istituti creati dal Regime senza tener presenti i motivi ideali - e cioè politici - che li hanno generati" (Ibid., p. 612).
(131) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di carlo Curcio…, cit., p. 454 e ss.
(132) Curcio, Lo Stato, la guerra e la pace, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. X (ottobre), p. 707. "Il fondamento della politica – di ogni politica – va ricercato nel motivo eterno – attivo, dinamico, eroico – dello spirito umano" (Ibid., l.c.).
(133) Ibidem, l.c. Sarebbe dunque meglio dire che sul piano della ‘scienza politica’ può essere realmente afferrata soltanto l’inesauribile diversità dei comportamenti umani, in correlazione alla presenza, o meno, ed al grado di intensità di motivazioni etiche nelle decisioni e negli orientamenti, che pertanto possono essere determinati ora all’azione eroica, antagonistica, rivoluzionaria, oppure appiattirsi nella soggezione moralmente argomentata a quanto impongano le vicende.
(134) Ibidem, pp. 708-709.
(135) Ibidem, p. 708.
(136) Ibidem, p. 711.
(137) Ibidem, l. c.
(138) Ibidem, l.c.
(139) "La storia ancora una volta può esser chiamata a testimoniare questa asserzione. Mai v’è stata pace che non sia stata, non solo fondata sulla guerra, frutto di guerra cioè; ma che non sia stata fondata sulla forza. Così la pax romana; così la pax britannica; e, in gran parte – sia pure per ragioni anche d’imperio spirituale – la pax christiana" (Ibid., p. 712).
(140) "O si concepisce il diritto come pura norma, come dato, come natura: come ordine stabilito, fissato; e si ha una concezione pacifista. […] Oppure si concepisce il diritto come aspetto della vita, come capitolo dell’etica, come storia; e si ha una concezione energetica, attivistica della società e del mondo" (Ibid., l.c.). Sotto questo profilo, - precisa Curcio - c’è una effettiva affinità fra guerra e rivoluzione, fenomeni che entrambi creano nuovo diritto, come ben compresero Proudhon (anche se poi concluse per il pacifismo) e Marx, il quale, "rivoluzionario perfetto" – non a metà come Proudhon – "giustifica ed esalta la guerra" (Ibid., p. 713). Eppoi, rivoluzioni pacifiste non ne esistono. "La rivoluzione bolscevica, sotto il manto del pacifismo, ha un esercito ben temprato ed agguerrito, e non manca, logicamente, di iniettare nella gioventù russa l’entusiasmo frenetico per la guerra. Perfettamente logico e coerente, Mussolini, il più grande rivoluzionario dei tempi moderni, giustifica la guerra ed esalta lo spirito guerriero del popolo" (Ibid., pp. 713-714). E qui ecco che il tema della rivoluzione riprende uno dei cardini della riflessione del 1930 sulla rivoluzione. "I grandi costruttori di ideali, i seminatori di vita, i creatori di Stati, gli artefici della storia hanno costantemente avuto chiara la esigenza logica ed etica della guerra. Gesù vincitore dei demoni, fondatore della monarchia eletta, venne a portare non la pace ma la spada" (Ibid., p. 713). Alla fine, anche Cristo è stato un eroico antagonista, creatore di una radicale rivoluzione nel costume atavico. Da questa contesa è nata la civiltà cristiana.
(141) ID., Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’), ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. XI-XII, novembre-dicembre, nella rubrica Note e discussioni : pp. 802-805.
(142) Si veda: Convegno di Scienze morali e storiche (14-20 novembre 1932-XI). Tema: L’Europa. Voll. I-II*. Roma, Reale Accademia d’Italia, 1933-XII (‘Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta. Atti e Convegni 2*).
(143) Curcio, Vecchia e nuova Europa…, cit., pp. 804-805. Problemi, questi ultimi, tuttavia ora accentuati da una nuova fase del trapasso da uno stadio all’altro della civiltà europea, che adesso è in una crisi profonda, determinata da molteplici fattori: l’americanismo, l’eccessiva influenza del capitalismo, che, al massimo del suo sviluppo, "ha aperto crepe profonde nel sistema economico" (Ibid., p. 805). Sì, certamente, a confermare le previsioni di Marx, c’entrano questi fattorie economici. Ma c’è dell’altro. Intanto, la crisi dei sistemi politici, gli effetti della Grande guerra, il rilassamento del sentimento morale e religioso. "Ma non è tutto. Quella europea non è una crisi soltanto economica o politica o religiosa, è una crisi di civiltà" (Ibid., p. 803).
(144) Ibidem, l. c.
(145) Ibidem, l. c.
(146) Ibidem, l. c.
(147) Ibidem, p. 805.
(148) I tratti salienti di questo opuscoletto sono essenzialmente due. Intanto, la riconsiderazione, molto articolata, della genesi dello Stato unitario italiano, fino alla sua crisi fra fine XIX-inizio XX secolo, in uno scadimento dell’ordinamento sociale e politico in un sistema di garanzie formali, ma non sostanziali. "Anche in questa società il diritto è tale soltanto formalmente; lo si viola spesso, lo si offende spessissimo, nonostante tutte le considerazioni contrarie; e il diritto è di chi se lo conquista. Guai pertanto ai giovanissimi ed ai vecchi; gli uni più esposti alle offese, gli altri più incapaci di difendersi" (ID., L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana, cit., p. 4). Da tale scadimento delle vita nazionale derivano l’instabilità sociale, la Grande guerra, e la rivoluzione fascista, qui vista come ricostruttiva delle stesse sorti internazionali dell’Italia. A questo secondo aspetto, Curcio dedica una significativa analisi sul ruolo attuale dell’Italia, posta dalla politica mussoliniana al centro di un processo di riequilibrio e di pacificazione, possibile superando l’egoismo delle Potenze vincitrici ed arginando qualsiasi tentazione pangermanista. "Rafforzamento della pace europea mediante non la rigida applicazione de’ trattati di pace, ma con una oculata e prudente revisione di questi, a patto che ogni revisione non turbi, però, l’equilibrio continentale (come avverrebbe per una unione austro tedesca) […]" (Ibid., p. 52).
(149) Si tratta delle recensioni a: James BRYCE, Democrazie moderne. A cura di L. Degli Occhi. Voll. I-II. Milano, U. Hoepli, 1930-31], ‘RIFD’, XIII (1933), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 141-142; Giuseppe Santonastaso, Georges Sorel. Bari, Laterza, 1932], ibid., pp. 142-143; Giorgio Sorel, L’Europa sotto la tormenta. A cura di Mario Missiroli. Milano, Corbaccio, 1932], ibid., l.c.; David Davies, Le problème du XXe siècle. Essai sur les relations internationales. Paris, Payot, 1931], ibid.,, fasc. II (marzo-aprile), p. 270; Adriano Tilgher, Etica di Goethe, Roma, Libr. P. Maglione, 1932], ibid., p. 271; Antonello Gerbi, La politica del romanticismo. Le origini. Bari, Laterza, 1932], ibid., fasc. III (maggio-giugno), ibid., pp. 456-457; Emanuele Landolfi, Lo Stato nella sua essenza e nei suoi rapporti con l’individuo. Roma, Stamperia reale, 1932], ibid., pp. 457-458; a Mario Missiroli, L’Italia d’oggi. Bologna, Zanichelli, 1932], ibid., p. 458; Rino Longhitano, La Russia di fronte all’Europa (Il principio di nazionalità in Russia). Catania, Rinnovamento, 1932], ibid., p. 459; Antonio Ferraù, L’avvenire nella politica di Saint-Simon. Roma, Luzzatti, 1931], ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 628; Aristide Campanile, Antieuropa e i diritti dell’uomo. Roma, Nuova Europa, s.d.], ibid., pp. 628-629.
(150) Ibidem, IV, 1933, fasc. I, gennaio, pp. 6-15.
(151) Sintesi di una indubbia acutezza di indagine, questa di Curcio, che anticipa di decenni quanto con quasi con stesse parole, e certo con la medesima impostazione argomentativa, possiamo ritrovare nella definizione del quesito data molti anni dopo da Giovanni Sartori, il quale del resto era stato, nel dopoguerra, suo giovane collega alla facoltà di Scienze politiche (la ‘Cesare Alfieri’) di Firenze.
(152) Ibidem, pp. 13-15. "Onde la Politica resta Politica; né pura scienza, né pura filosofia, né pura storia, ma una forma speciale dell’attività dello spirito, distinta dall’arte; e il cui segno di distinzione è dato: dal suo obbietto, che è costituito dall’esigenza di ordinare gli uomini che vivono in società; dalle sue finalità, che sono ispirate a criteri di miglioramento e di perfezione; dal suo metodo, che è filosofico e storico insieme" (Ibid., p. 15).
(153) Ossia quella agli Studi filosofico-giuridici dedicati a Giorgio Del Vecchio nel xxv anno di insegnamento (1904-1929). Modena, Soc. tip. Modenese, 1930, voll. I-II], ibid., pp. 71-73.
(154) Precisamente a: Francesco Orestano, Riassunto e conclusioni del Convegno Volta. Roma, R. Accademia d’Italia, 1932], ibid., IV, 1933, fasc. II, febbraio, p. 157); Gugliemo Massart, Società e Stato nel cristianesimo primitivo. La concezione di Origene. Padova, A. Milani, 1932 (ibid., pp. 157-158); Amintore Fanfani, Le origini dello spirito capitalistico in Italia. Milano, Vita e pensiero, 1933 (ibid., pp. 158-159).
(155) Ibidem, pp. 142-144.
(156) Le recensioni in questione sono le seguenti: Tommaso Napolitano, Evoluzione del diritto penale sovietico dall’ottobre ’17 ai nostri giorni, Città di Castello, Tip. Leonardo da Vinci, 1932; ID., Il Codice penale della R.S.F.S.R. Trad. del testo ufficiale russo, con pref. di S.E. Silvio Longhi. Ivi, 1933 (ibid., fasc. III, marzo, pp. 237-238); Francisco De Vitoria, Addresses in commemoration of the fourth centenary of his lectures ‘De Indis’ and ‘De iure belli’. Washington, Catholic University of America, 1932 (ibid., p. 238); Fritz Ermarth, Mussolini. Eine verfassungsrechtliche Studie über die Regierung Italiens, Tübingen, I.C.B. Mohr, 1932 (ibid., fasc. IV, aprile, p. 313); Giorgio Del Vecchio, La Société des Nations au point de vue de la philosophie du droit international. Paris, Librairie du recueil Sirey, 1932 (ibid., pp. 314-315); Giuseppe Santonastaso, Gli ideali di Proudhon. Udine, Tip. Ed. Fiorini, 1933; ID., Il problema della guerra e della pace. Ivi, 1933 (Ibid., fasc. V, maggio, p. 400); Eugenio Di Carlo, Un teorico della ragion di Stato: Scipione di Castro, (estratto dal volume di: Studi in onore di Ugo Conti. Città di Castello, Tip. Dell’Unione arti grafiche, 1932) (Ibid., p. 400); a Felice Battaglia, La crisi del diritto naturale. Venezia, La Nuova Italia, 1930; ID., Diritto e filosofia della pratica. Ivi., 1932 (Ibid., fasc. VI, giugno,pp. 474-475); F.S. Triggiani, Saggio sulla distribuzione dei poteri, con speciale riguardo al diritto costituzionale italiano. Bitonto, G. de Bari, 1932 (Ibid., pp. 475-476); Bruno Spampanato, Discorsi al popolo. Napoli, Alberto Morano, 1932; ID., Idee e baionette. Ivi, 1932; ID., Popolo e regime. Bologna, Cappelli, 1932; ID., La politica finanziaria della Destra storica. Napoli, Chiurazzi, 1932 (Ibid., pp. 476-477); Marcello Capurso, Politica orientale. Appunti. Con pref. di M. Mutinelli. Perugia, Ed. di "Fascismo", 1933 (Ibid., pp. 478-479); Ugo Mariani, Le teorie politiche di sant’Agostino e il loro influsso nella scuola agostiniana del secolo XIV. Firenze, Libr. Ed. Fiorentina, 1933 (Ibid., fasc. VII, luglio, pp. 556-557); Giorgio Tarissi De Jacobis, L’ordinamento corporativo e le fonti del diritto commerciale. Con pref. di Sergio Panunzio. Roma, "Il nuovo Diritto", 1933 (Ibid., p. 557); Sergio De Cesare, Inquietudini del nostro tempo. Napoli, Anonima Chiurazzi, 1933 (Ibid., pp. 557-558); Guido Gambardella, Aspetti di economia della tecnica. Con pref. di Oddone Fantini. Napoli, Ed. Chiurazzi, 1933 (Ibid., p. 558); Raffaele Numeroso, L’organizzazione scientifica del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. I capisaldi per l’attuazione. Napoli, Tip. F. Giannini, 1933; ID., Les postulats fondamentaux pour actuer la rationalisation dans les administrations publiques. Naples, Impr. Portosalvo, 1933 (ibid., pp. 558-559); Antonino D’alia, Popoli e paesi nella storia dell’umanità. Saggio di scienza politica. Roma, Libreria internazionale fratelli Treves, 1932 (Ibid., pp. 559-560).
(157) Si tratta di: Un ammonimento: la mostra della Rivoluzione (Ibid., fasc. III, marzo, pp. 209-211); Per una collana di ‘Classici del diritto’ (Ibid., pp.227-229); C’est la faute à Voltaire? (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 289-291); Un pericolo per l’Europa (ibid., fasc. V, maggio, pp. 375-378); Unità di cultura e unità di indirizzo (Ibid., fasc. VI, giugno, pp. 428-429); Federalismo o internazionalismo? (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 532-533); Oltre la crisi (Ibid., pp. 534-536).
(158) Anno nel quale, Curcio fra l’altro stende la prefazione a: Oddone FANTINI, L’universalità del fascismo. Principi di dottrina e di etica fascista. Napoli, Chiurazzi, 1933.
(159) Stato e rivoluzione, ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, I (1933), fascicolo n. 1, luglio, pp. 7-23.
(160) "[…] L’aspetto essenziale del diritto è la positività, la coercizione, la normatività assoluta; e l’aspetto essenziale dello Stato l’imperio, la sovranità, la potestà assoluta" (Ibid., p. 8).
(161) Sulla linea di Machiavelli (e non senza echi di Hobbes), qui Curcio afferma che lo Stato nasce per correggere i difetti degli uomini, che aspirando ad una migliore condizione di esistenza, "si organizzano, si formano un esercito, si nominano un capo […]; poi hanno paura di veder tradita la loro causa, di veder tramontare i loro ideali; e s’organizzano in Stato, si danno leggi, alle quali conferiscono un potere immenso e credono raggiunta […] la perfezione di quest’ordine", mentre invece lo Stato "è il segno della caducità di tutte le illusioni, di tutte le speranze, di tutti i sogni" (Ibid., pp. 8-9).
(162) Ibidem, p. 10. Analoga a "quei grandi movimenti di popolo anelanti alla liberazione, che sono caratteristici nell’Italia dopo il secolo XII", la Riforma protestante mira a svincolarsi da quelle stesse autorità che soffocavano il bisogno di autonomia dei popoli, anche se poi Lutero ripiegò sul partito della nobiltà e della borghesia (Ibid., pp. 11-12). E comunque dalla stessa parola ‘riforma’ è discesa quella di ‘rivoluzione (Ibid., p. 12).
(163) Ibidem, p. 13. Ecco quanto aveva compreso perfettamente Fiche, che nel suo "Contributo alla rettificazione del giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese, […] purtroppo rimasto incompiuto, arriva a dire che il vero principio politico è quello che coincide con la nostra essenza spirituale"; è cioè "la legge morale", per cui ogni ordinamento che contrasti con la legge morale "non ha valore ed è ingiusto" (Ibid., l.c.). Giustamente, pertanto, Fichte aveva compreso che gli Stati devono "essere ricondotti al loro fine etico", e che le costituzioni "sono sempre trasformabili e le rivoluzioni legittime" (Ibid., l.c.).
(164) "[…] Non a caso, infatti, le monarchie moderne riposano la loro sovranità non soltanto sulla volontà di Dio, ma anche della nazione. Questa precisa dichiarazione che è a capo dello Statutio del Regno d’Italia è squisitamente di origine rivoluzionaria. Non è, del resto, un segreto per nessuno che il carattere delle monarchie moderne è dato proprio da questa fusione di elementi tradizionali e rivoluzionari, per cui la Corona è insieme conservazione ed innovazione, e cioè continuità assoluta […]" (Ibid., p. 15).
(165) Ibidem, p. 17.
(166) Ibidem, l.c.
(167) Ibidem, l.c. "La rivoluzione è esercizio di volontà politica che vuole nuovi ordini di vita. Ma essa, di fronte allo stato, ha una sua logica. Può esser considerata sempre presente o perché insita nello stato stesso, che ne ha compreso gl’ideali; o perché minacciosa di realizzarsi di fronte all’evidente discontinuità che s’è verificata nello Stato stesso[…]" (Ibid., p. 19).
(168) La rivoluzione è infatti "esercizio di volontà politica, che vuole nuovi ordini di vita" e che ha una sua logica di fronte allo Stato (Ibid., l.c.). La rivoluzione è sempre immanente nella vita dello Stato, sempre presente, sia perché "insita nello Stato stesso, che ne ha compreso gli ideali", sia perché è una minaccia incombente di "realizzarsi", tutte le volte che si palesi discontinuità di questi ideali (Ibid., l.c.). Quasi in un’eco incosciente delle distinzioni rivoluzionarie francesi (di Sieyès, nella nozione di rappresentanza, e di Robespierre nella legittimazione del terrore), cioè fra una funzione politica in tempi normali, ed una rivoluzione in tempi di crisi istituzionale, - comunque qui Curcio per un verso critica le rivoluzioni ‘cervellotiche’, innescate da vaneggiamenti intellettualistici, ossia rivoluzioni "a freddo, […] manifestazioni di ideologie malsane", e per l’altro rifiuta di considerare rivoluzioni le insurrezioni di piazza, guidate da "loschi interessi" e nelle quali "predomina la feccia"(Ibid., pp. 19-20). La vera rivoluzione è invece coessenziale alla vitalità dello Stato, della continuità delle sue istituzioni, ma deve assicurare stabilità, corrispondere "alla coscienza rivoluzionaria del popolo" (Ibid., p. 20). Pertanto, una tale rivoluzione non è mai compiuta e superata, ed anzi si ripropone e si manifesta ogni volta che si sia "rotto l’equilibrio, che è immanente in ogni forma di organizzazione politico-giuridica": l’equilibrio "tra i cittadini e gli ordini che li reggono, tra la nazione e lo Stato" (Ibid., p. 21). E si manifesta, "attraverso un processo che è sempre prodotto da minoranze e cioè da élites", come volontà del popolo, che "afferma impetuosamente ed imperiosamente il suo diritto ad aver norme di rapporti, di vita civile, morale, politica conformi ai suoi nuovi ideali ed alle sue più vive esigenze" (Ibid., l.c.).
(169) Ibidem, l.c. La sostanza della rivoluzione si concreta formalmente solo dopo la presa del potere, dopo cioè l’installazione della nuova classe politica al comando, realizzando un suo ordine nuovo. Solo allora la rivoluzione si completa, "quando si son creati i nuovi istituti giuridici, quando si è attuato tutta una nuova struttura di rapporti non solo giuridici, ma anche e soprattutto morali, i quali tutt’insieme danno vita al nuovo Stato" (Ibid., l.c.). Pertanto, il regime politico che abbandonasse lo spirito rivoluzionario in questa seconda fase tradirebbe "gli aneliti, le speranze, le sofferenze di coloro che hanno compiuto sacrifici spesso colossali per raggiungere quella specie di Stato di grazia che è lo Stato rivoluzionario, lo Stato loro, veramente loro" (Ibid., p. 22).
(170) Ibidem, p. 23. Qui, rievocando Cromwell e Washington, che non abbandonarono mai il loro spirito rivoluzionario, Curcio si rivolge al Capo del Governo, ammonendolo che qualsiasi Stato di nuova fondazione, "il quale come tutti gli Stati deve avere l’illusione e la pretesa di essere il vero Stato", l’unico, perfetto e perfettibile, dovrà essere sempre "retto da leggi, da istituti, da norme precise; ma soprattutto affidato a quell’ideale da cui è scaturito, a quello spirito onde è nato […]"(Ibid., p. 22).
(171) Ibidem, fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 591-605.
(172) Ibidem, p. 591.
(173) Ibidem, l.c.
(174) Ibidem, p. 592.
(175) Ibidem, l.c.
(176) "Crisi di fedi, di ideali, di valori; crisi in una parola religiosa, che dà luogo ad uno strano pessimismo, che annulla energie, forze costruttive, volontà di credere e di sperare" (Ibid., p. 593). Ecco la "crisi dello ‘spirito occidentale’, e cioè dello spirito europeo", di cui a lungo si è parlato (Ibid., l.c.).
(177) Tale il significato della diffusione di stilemi architettonici, come pura la grande quantità di traduzioni di opere letterarie e politiche nelle diverse lingue. Lo stesso sviluppo delle comunicazioni, sempre più rapido e diffuso, accentua questo processo di omologazione delle varie culture in una medesima prospettiva europea (Ibid., pp. 593-594).
(178) Data che – sottolinea Curcio - è forse quella della "nascita della nuova Europa", in quanto "avvenimento solenne", in quanto accordo con cui "le grandi potenze europee decidono di collaborare in vista di un fine comune da raggiungere" (Ibid., p. 595). Non più il fine negativo, quale la "lotta ad altri gruppi di potenze, conquiste di nuovi territori, di colonie, e via via"; né finalità, astratta, quale quelle di generiche concezioni di pace, giustizia, democrazia, e così via; e nemmeno fine meramente empirico, economico, ma "fine prima di tutto politico, morale" (Ibid., l.c.).
(179) Ibidem, p. 597. Infatti, il vero "spirito della nuova Europa" è contrario all’inerzia, alla pigrizia mentale, all’inazione, e vuol essere "una scuola di energia, di attività, di opere" (Ibid., l.c.). Bisogna "credere, volere, operare […] creare la coscienza europea" (Ibid., l.c.). Un mito allora? Forse anche questo. Ma un mito valido per tutte le nazioni europee, poiché la proliferazione di miti politici contrapposti, il "polimitismo", ne uccide il sostrato ideale, che deve essere unico, univoco, come unica ed univoca deve e essere la coscienza europea (Ibid., l.c.).
(180) "Già il diritto romano aveva, in gran parte, agito su tale trasformazione […]. Ma è solo dopo parecchi secoli – dopo le invasioni, le dominazioni, le traslazioni dell’Impero, tutti fenomeni che hanno perfezionato l’influsso della civiltà latina sugli altri popoli – che appaiono i frutti del dominio politico e di quello civile di Roma su gran parte d’Europa" (Ibid., p. 598). E dunque, si tratta di un’unità morale nata al di là di particolari tradizioni, costumi e culture delle genti europee, ossia di un’unità sostanziale che non va cercata né in questo particolarismo nazionale, né in un’infondata ipotesi di una comune natura biologica, etnica e razziale su cui ci si illuderebbe di fondare la nuova Europa. Le differenze etniche, di lingua, hanno un loro peso, certamente, ma è soprattutto da fattori storici che dipende la comune coscienza europea, nata da "un centro irradiatore e diffusore di civiltà", da una "particolare forma distintiva di vivere, di pensare la vita, di organizzare la vita", ossia una coscienza originata da quella originaria matrice storica che appunto è stata l’Europa "romana"(Ibid., l.c.).
(181) Ibidem, p. 601.
(182) "In questo senso, anzi, un rafforzamento dell’idea di nazione in Europa consentirebbe un rafforzamento dello stato stesso; rafforzamento che è base indispensabile per la instaurazione di un ordine politico nuovo" (Ibid., l.c.). Un ordine che peraltro non potrebbe sorgere senza che venissero eliminate tutte quelle ingiustizie, quelle false pretese nazionalistiche innescate da sconsiderate clausole dei trattati di pace, tali da esporre incessantemente l’Europa stessa a gravi perturbazioni (Ibid., l.c.). Rispetto a questo problema morale di una comune coscienza europea, sono dopotutto di secondaria importanza, almeno sul momento, le forme istituzionali cui dare al nuovo ordine europeo, cioè se farne una federazione o una confederazione di Stati, oppure un grande Stato federale (Ibidem, pp. 602-603). Per il momento, sarebbe realistico limitarsi a realizzare una politica concordataria, tramite l’abolizione dei debiti di guerra, le riparazioni, tramite il riassetto economico delle singole nazioni, aiutando quelle più duramente colpite, smobilitazione dei protezionismi, raggiungimento di una stabilità monetaria (Ibid., p. 604). Tutti programmi e misure da prendere "senza turbare l’individualità delle singole economie nazionali", poiché gli Stati nazionali "sono i grandi individui della storia", ed annullarli significherebbe intristire la stessa storia dell’umanità (Ibid., l.c.). Un’immagine retorica, dai tratti romantici, con cui peraltro Curcio vuol riferirsi alla futura struttura del sistema europeo nel pieno rispetto, nella valorizzazione, anzi, delle individualità culturali e nazionali.
(183) Fusione ed unità degli italiani (ibid., pp. 623-628); Eroismo e disciplina (Ibid., pp. 628-631).
(184) Quelle a: Carlo Scorza, Fascismo, idea imperiale. Roma, Tip. E. De Gasperis, 1933 (ibid., pp. 647-648); Luigi Federici, Crisi e capitalismo: una guida attraverso il caos mondiale. Milano. U. Hoepli, 1933 (Ibid., pp. 649-650); Sileno Fabbri, L’ Opera nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia. Milano, Mondatori, 1933 (Ibid., pp. 650-651); Luigi Lojacono, Il fascismo nel mondo. Roma, L’Economia Italiana, 1933 (Ibid., pp. 652-653); Arthur Fonjallaz, Mussolini, un chef. Génève, 1933 (Ibid., pp. 654-655).
(185) Si vedano, infatti, le recensioni a: Franz Arthur Müllereisert, Die Dynamik des revolutionären Staatsrechts, des Volkerrechts, und des Gewohnheitsrechts. München, Duncker u. Humblot, 1933 (ibid., pp. 732-733); Gustav [Ritter] von Kreitner, Altri 467 milioni di bolscevichi? Con appendice di G. C. Castagna. Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1933 ( ibid., p. 733); Pierre de Tourtoulon, Les trois justices. Paris, Librairie Recueil Sirey, s.d. [ma: 1933] (ibid., p. 735).
(186) Germanesimo antiromano?, [nella rubrica: Note e discussioni] ibid., fasc. X (ottobre), pp. 702-704.
(187) Ibidem, p. 702. Subito dopo una tirata contro l’auto-lesionismo di ebrei nemici della loro gente ed adesso hitleriani, come quell’economista-sociologo - di cui Curcio non fa il nome, ma del quale lamenta il credito che sta avendo in Italia- che con un accademico sussieguo affetta disprezzo per il fascismo e per "la funzione di Roma nell’ora presente" (Ibid., l.c.). Proprio mentre il nazional-socialismo imita i nostri maggiori istituti giuridici e professa "l’accettazione integrale della nostra esperienza politica", la nuova Germania tenta di scrollarsi di dosso tutto quello che "di romano può esservi nella forma, se non nella sostanza, che è immutabile, delle sua vita odierna, per richiamarsi alla sua tradizione" (Ibid., l.c.). Ma di quale tradizione si tratti risulta inequivocabile, quella cioè di "quell’antico spirito germanico, rozzo, brutale, istintivo", che poi ha generato l’individualismo della Riforma, poi il liberismo borghese, egocentrico, quindi l’assolutismo e l’imperialismo bismarckiano, da cui poi il comunismo la febbre espansionistica Guglielmina (Ibid., p. 703).
(188) Ibidem, l.c.
(189) "Le grandi sventure tedesche sono state sempre il frutto dell’esasperazione della corrente antiromana", laddove "le grandi affermazioni universali dello spirito germanico sono state illuminate dalla luce di Roma" (Ibid., l.c.)
(190) Si ricorderà – precisa Curcio – la lettera che Guglielmo II scrisse a H. Steward Chamberlain – considerandolo suo compagno di battaglia e alleato nella lotta contro Roma e Gerusalemme (Ibid., l.c.). E questo Chamberlain, come ognuno sa perfettamente, è "stato l’autore di un libro ove si teorizzava del nazionalismo razzista, del mito del sangue e di altre cose del genere" (Ibid., p. 704). Da questi atteggiamenti venne poi la guerra, che non è forse stata tutta voluta dei tedeschi, ma non sarebbe avvenuta "se non fosse esistita la Germania Guglielmina, esclusivista, tedesca e cioè antiromana" (Ibid., l.c.).
(191) Un discorso, ibid., fasc. X, ottobre, pp. 718-720.
(192) Si tratta delle seguenti recensioni a: Carlo Talarico, La rivoluzione francese e l’uguaglianza dei cittadini. La rivoluzione fascista e l’uguaglianza delle categorie. Pisa, Nistri-Lischi editori, 1933 (ibid., fasc. XI, novembre, pp. 809-810); Roberto Michels, Prolegomena sul patriottismo. Firenze, La Nuova Italia, 1933 (ibid., pp. 810-812); Francisco Suarez, Addresses in commemoration of his contribution to international law and politics. Delivered at the Catholic University of America, 30 aprile 1933. Washington, 1933 (ibid., p. 813); Virginio Perulli, L’Opera Nazionale Dopolavoro nel sistema giuridico. Padova, R. Zannoni, 1933 (ibid., pp. 813-815)
(193) Si trattava della recensione a: Antonio Ferraù, L’avvenire nella politica di Saint-Simon. Roma, Luzzatti, 1931, ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 628.
(194) In tal senso, si veda, la già ricordata recensione a: Aristide Campanile, Antieuropa e i diritti dell’uomo (anche questa sul fascicolo di luglio-ottobre), ibid., pp. 628-629.
(195) ID., Politica e razionalizzazione, ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, I, 1933, nn. 4-6 (ottobre-dicembre), pp. 147-165.
(196) Ibidem, pp. 147-148.
(197) Ibidem, p. 148. A fronte della democrazia come mèta di una oggettiva razionalizzazione dei rapporti e della partecipazione delle masse alla politica, - sottolinea Curcio (fatto tanto più significativo se si pensa che si trattava del testo di un corso svolto nell’inverno 1933 presso l’Istituto Superiore di Studi Corporativi) - c’è dunque l’errore, l’ abbaglio utopistico di una ‘democrazia utopica’, del comunismo, sogno di una perfezione irrealizzabile, pericolosa fuga dalla realtà, in quanto "programma astratto di livellamento, di uguaglianza, di mutuo soccorso" (Ibid., p. 149).
(198) "Il principio della razionalizzazione può e deve essere applicato alla Politica; i metodi dell’organizzazione scientifica del lavoro possono e devono essere applicati alla teoria dello stato; ma prima della tecnica ed oltre la tecnica il sentimento reclama i suoi diritti; prima della ragione ed oltre la ragione bisogna cogliere il motivo ideale che anima gli uomini riuniti in società; onde sono popoli, nazione, Stati. La razionalizzazione non ha il diritto di offuscare il mito, che anima le folle, che dà vita alle grandi idee ed impulso alle generose azioni […]" (Ibid., p. 165).
(199) "[…] Mito che è divino e come tale umano, perché proprio dalla sua divinità gli uomini colgono la gioia suprema di innalzarsi, di sperare, di credere, di soffrire; è proprio il mito che rafferma la coscienza dei popoli e porta lo Stato ad affermarsi nella storia" (Ibid., l.c.).
(200) "[…] Razionalizzare, dunque, sì; ma a questo patto: che lo Stato, acquistando una maggiore consapevolezza dei suoi fini, una maggiore esperienza nei suoi metodi, una maggiore capacità organizzativa e costruttiva, si avvii alle mete supreme, alle quali la coscienza dei popoli moderni aspira con sempre maggiore intensità" (Ibid., l.c.).
(201) Machiavelli nel Risorgimento, RIFD, XIV (1934), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 12-48.
(202) E cioè quelle a: C. A. Fusil, Rousseau juge de Jean-Jacques ou la comédie de l’orgueil et du coeur. Paris, Librairie Plon, 1923 (ibid., pp. 153-154); ID., L’anti-Rousseau ou les égarements du coeur et de l’esprit. Paris, Librairie Plon, 1929 (ibid., l.c.); Gustavo Lanson, Montesquieu. Paris, Librairie F. Alcan, 1932 (ibid., pp. 154-155); Charles Fourier, Pages choisies. Introd. par Charles Gide. Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1932 (ibid., p. 155); Waldemar Gurian, Der Bolschevismus. Einführung im Geschichte und Lehre. Freiburg i. B., Herder u. Co., 1931 (ibid., fasc. II, marzo-aprile, pp. 300-301); Michael Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservativismus. Frankfurt a. M., Klostermann Verlag, 1932 (ibid., fasc. III, maggio-giugno, pp. 458-460); Romanesimo e Germanesimo (La crisi dell’Occidente). Saggi di M. Bendiscioli, G. Moenius, I. Herwegen, P. Wutse. Brescia, Morcelliana, 1933 (ibid., pp. 460-461); George Flamand, Les idées politiques et sociales de Fénelon. Paris, Imprimerie française de l’édition, 1932 (ibid., pp. 461-462); Firmin Roz, Washington. Paris, Dunod, 1933 (ibid., pp. 462-463); Nicholas Murray Butler, La crisi della società contemporanea. Bari, Laterza, 1933 (ibid., p. 463); João Arruda, O Moloch moderno. Estudio da crise do Estado moderno. Sao Paulo, Editoria Ltda, 1932 (ibid., fasc. VI, novembre-dicembre, p. 787).
(203) L’ottavo Congresso internazionale di filosofia [nella rubrica: Notizie], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 767-771.
(204) Da un lato, si vedano infatti le recensioni a: Tommaso Napolitano, Maternità e infanzia nella U.R.S.S. Saggi di legislazione sovietica. Prefazione di Gennaro Marciano. Padova, A. Milani, 1934 (‘Lo Stato’, V, 1934, fasc. I, gennaio, p. 74); Carlo Giglio, Inghilterra d’oggi. Padova, Cedam, 1934 (ibid., p. 76); Contenuto, funzioni ed aspetti politici del Partito Nazionale Fascista (ibid., fasc. III, marzo, pp. 161-171); Popolazione e fascismo. Scritti di: Amoroso, Arcari, Boldrini, Bortolotto, Carli, Castellino, Chiarelli, Consiglio, Coruzzi, Curcio, Fabbri, Galvani, Gemelli, Lojacono, Lorenzoni, Medologhi, Michels, Mortara, Panunzio, Pende, Pietra, Solmi, Tagliacarne, Virgilii, Zingoli. A cura e con prefazione di Luigi Lojacono. Roma, ‘L’ Economia Italiana’, 1934 (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 312-315); Sterbendes Volk? Berlin, Propaganda Verlaf-P. Hochmuth, 1934; F. Burgdörfer, Volk ohne Jugend. Berlin, 1935; Mühlner, Volk ohne Kinder. Berlin, 1934 (ibid., pp. 318-319). E peraltro vanno anche considerati i contributi nella rubrica Note e discussioni: Nostra rivoluzione (ibid., fasc. I, gennaio, p. 42-45); L’estremo Oriente e Roma (ibid., fasc. II, febbraio, pp. 138-141); Per la salvezza d’ Europa (ibid., fasc. VI, giugno, p. 453-457); Esperienze europee (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 544-546); Forze Armate e politica (ibid., fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 605-607); Malta e l’Italia (ibid., fasc. X, ottobre, pp. 688-692).
(205) E comunque andrebbe visto il saggio, che esula dai limiti cronologici che ci siamo proposti, apparso infatti nel 1936 su questa stesa rivista: ID, L’Epoca della politica, ‘Lo Stato, VI, fasc. X (ottobre), pp. 668-670).
(206) E cioè la prefazione a: G.B. VICO, L’estetica, Bologna, Cappelli, 1934.
(207) Verso la nuova Europa, Napoli, Chiurazzi, 1934.
(208) Verso la nuova Europa, ‘Lo Stato’, IV (1936), fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 591-605
(209) Dal Rinascimento alla Controriforma. Contributo alla storia del pensiero politico italiano da Guicciardini a Botero, Roma, Colombo, 1934.
(210) Ossia: nel 1926, con Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI; nel 1927, con La modernità di Machiavelli; nel 1928, con L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo, ed Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento; nel 1929, con L’ideale del lavoro.
(211) E cioè, oltre che con il sopra ricordato L’ideale del lavoro, apparvero nel 1929 sia L’ordine corporativo che Il diritto sindacale corporativo e l’unità del mondo giuridico. E nel 1930: Crisi dello Stato e forze economiche; La proprietà e il socialismo; Teorie del lavoro; Politica corporativa; Sorel e il fascismo; Un corporativista italiano di trent’anni fa; I problemi del diritto corporativo.
(212) Ibidem, pp. 88-89
(213) Ibidem, p. 109.
(214) "[…] E contro Cesare s’appuntarono, naturalmente, gli strali di questi scrittori politici. Il fondatore dell’impero, il superatore della repubblica, l’ordinatore dello Stato romano unitario non poteva apparire, nonché agli scrittori repubblicaneggianti, ma agli stessi scrittori monarchici, che come l’incarnazione di una idea pericolosa. Imperialismo, spirito di conquista e di dominio, supremazia di uno stato sugli altri, supremazia di un uomo o di una casta erano odiosi concetti, che la politica del secondo Cinquecento aborriva" (ibidem, pp. 43-44).
(215) Curcio [S.v.:] Rivoluzione fascista, in: PLURES, Dizionario di politica. A cura del Partito Nazionale Fascista. Vol. IV. R/Z. Roma, Istituto della Enciclopedia italiana. Anno XVIII E.F. [1940], p. 88.
(216) "La rivoluzione senza dubbio innova, segna l’inizio di un tempo diverso, ma, come sempre è avvenuto, si riporta a taluni caratteri inalterabili della nazione, che proprio per questa sua costante vitalità e perennità è davvero nazione e grande nazione" (Ibidem, l.c.).
(217) "Che la rivoluzione avesse dovuto e dovesse mirare a creare non solo istituti e leggi ed opere più rispondenti alle esigenze degl’italiani ed ai fini politici sociali e civili che il fascismo segnava alla nazione; ma soprattutto creare una coscienza di quei fini, un ideale vasto e diffuso onde proprio quegli stessi fini si giustificassero, anzi scaturissero, è per più ragioni evidente" (Ibidem, p. 102).
(218) "Insomma la rivoluzione doveva e voleva penetrare negli spiriti e nelle coscienze, essere in primo luogo una trasformazione dei modi di concepire vita e mondo e cioè una trasformazione della civiltà" (Ibidem, l.c.).
(219) Ibidem, l.c.
(220) ID., Introduzione a: Utopisti italiani del Cinquecento, scelti e annotati da Carlo Curcio. Roma,Colombo, 1944, p. 27.
(221) Ibidem, pp. 27-28
(222) Ibidem, p. 28.
(223) Al pensiero di Kant ritorna più volte l’attenzione di Curcio, sintomo di un antefatto criticista non dimenticato negli ulteriori sviluppi ‘gentiliano-hegeliani’ della sua militanza politica. Fra l’altro, si veda: Sulla concezione kantiana del progresso umano ("RIFD", 1954, fasc. II).
(224) Si vedano le raccolte di: P. Turiello, Il secolo XIX e altri scritti di politica internazionale e coloniale (Bologna, Zanichelli, 1947); F. Orsini, Memorie (Roma, Colombo, 1948); Eroismo senza fortuna (in: Italia eroica, Roma, istituto di divulgazione storica, 1950); Gl’ideali politici di Gabriele D’Annunzio (in: G. d’A., Ibidem, 1951); Il pensiero politico italiano ("Rassegna di cultura e vita scolastica", 1951, n. 3); Caratteri e momenti del pensiero politico umbro ("Annali della Fac. di Giurisprudenza della Università di Perugia", vol. LIX, 1949-50); L’africanismo di Amedeo d’Aosta (in: A. d’A., Roma, Istituto di divulgazione storica, 1953); Il pensiero politico italiano del settecento (in: Antologia della critica storica, Torino, Petrini, 1951); Machiavelli nel Risorgimento (Milano, Giuffrè, 1953).
(225) Politica e famiglia ("Famiglia e civiltà", 1951, nn. 3-4).
(226) Si vedano: Delle Facoltà politiche in Italia. Prevenzioni, esperienze, proposte ("Pagine libere", 1948, fasc. mag.-giu); Intorno ad alcuni recenti lavori di storia di filosofia del diritto ("RIFD", 1951, fasc. IV); Teoria e pratica in politica considerate da uno storico delle dottrine politiche (relazione presentata al IV Congresso internazionale di Scienze politiche, Roma, settembre 1958); Sulle origini della storiografia delle dottrine politiche ("RIFD", 1959, fasc. V).
(227) É in: "Ulisse", 1948, n. 4.
(228) É in: Scritti di sociologia e politica in onore di L. Sturzo, Bologna, Zanichelli, 1953.
(229) Anche questo è un preciso nucleo di interessi, cui Curcio dedica l’insegnamento di Storia dei paesi afro-asiatici, presso la Facoltà di Scienze politiche ‘Cesare Alfieri’ di Firenze. Si vedano: Il problema coloniale, "Studi politici", 1953-54, fasc. 3-4; Autodecisione dei popoli, in: Novissimo digesto italiano, vol. I ; Etica coloniale e dignità umana, "RIFD", 1958, fasc. V.
(230) Altre firme illustri sono quelle di altri due amici e colleghi di Curcio, il già ricordato Rodolfo De Mattei ed Alessandro Franchini Stappo (allora docente di politica economica alla ‘Cesare Alfieri’ di Firenze). Fra l’altro (infatti l’esemplare della collezione presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), segnatura IX ri. 1492, è frammentario, sul n. 2, di Curcio appare Intendimenti antichi e nuovi dell’ Europa, e sul n. 3 Europa e Africa. Troviamo ancora di Curcio - sull’altro dei due numeri sopravvissuti, il n. 4 - un articolo (Problemi storici dell’Europa del Rinascimento), due commenti (Ancora Paneuropa? ed Un ponte sull’ Europa), ben quattro recensioni di libri sull’Europa.
(231) Europa. Storia di un’idea. Voll. I-II. Firenze, Vallecchi, 1958.
(232) Denis de Rougemont (Vingt-huit siècles d’Europe, Paris, Payot, 1961) parla nell’avant-propos dei due esaurienti volumi sull’Europa; J.B. Duroselle (L’idée d’Europe dans l’histoire, Paris, Denoel, 1965), nell’introduzione dice testualmente: "C’est à Carlo Curcio que je voudrais, ancore plus qu’aux autres, rendre hommage. A coté de son effort, mon livre n’est vraiment qu’un essai. […] Curcio a été infatigable. Je ne pense pas qu’existe dans le monde actuel pareille éruditiion sur l’idée d’Europe. […] Je tiens à exprimer à lui principalement ma gratitude" (Ib., pp. 20-21). Il testo è ripreso da: R. De Mattei, Op.cit. . 4.
(233) Come osserva De Mattei, all’elaborazione storica dell’idea di nazione Curcio aveva dedicato (fra gli anni 1932-1956) alcuni saggi, oltre a quelli già ricordati (La coscienza dello Stato…, del 1932; Nazione Europa Umanità…, del 1950; Intorno a P.S. Mancini…, del 1955), vi sono infatti: sia Sindacalisti e nazionalisti a Perugia fra il 1928 e il 1933 ("Pagine libere", 1956, fasc. di dic.); sia Renan fra Nazione e Umanità ("Rassegna di cultura e vita scolastica", XXI, 1967, nn. 7/8, lug./ago.); sia Critici ed eterodossi dell’idea di Nazione nella seconda metà dell’Ottocento ("Storia e Politica", 1969, fasc. gen./mar.).
(234) Oltre ai testi già citati, si veda: L’iniziativa cattolica nel mondo del lavoro ("Ulisse", 1954, pp. 304-311).
(235) Sta in: Studi in onore di Ettore Rota, Bari, 1958.
(236) "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del lavoro e della sicurezza sociale. Università degli Studi di Trieste" 1958,
(237) Ibidem, n. 14.
(238) Sta in: "Economia e storia", 1959, fasc. 3.
(239) Sta in: "Rivista degli infortuni e delle malattie professionali", 1960, fasc. di gen.-feb.
(240) Sta in: "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del Lavoro e della Sicurezza sociale. Università di Trieste", 1960, nn. 17-18.
(241) "Previdenza sociale", 1961, fasc. 4.
(242) "Rivista degli infortuni e delle malattie professionali", 1961, fasc.mag.-ago.
(243) "Mercurio", 1962, fasc. di mag.
(244) Nell’ordine della loro pubblicazione: Paolo Paruta (in: Letteratura italiana. I minori, Milano, Marzorati, 1960, pp. 1365-1381); Giovanni Botero (Ib., pp. 1883-1399); La città ideale di Brunetto Latini (in: Scritti vari di Filosofia del diritto raccolti per l’inaugurazione della Biblioteca Giorgio Del Vecchio, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 119-137); Ragguaglio di Giuseppe Montanelli ("Annali della Pubblica istruzione", 1961, fasc. marzo-aprile, pp. 139-154); Il genio politico di G.D. Romagnosi, prolusione al: Convegno di Studi in onore di G.D.Romagnosi, Salsomaggiore, 1961. Atti, Milano, Giuffè, 1963); Storia e dottrine politiche in Pasquale Villari ("Storia e politica", II, 1963, fasc. I, pp. 71-84); Qualche considerazione sul pensiero politico umbro tra Medioevo e Rinascimento (in: Atti del IV Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-26 maggio 1966, Perugia, 1967, pp. 593-604); Venti settembre. Roma: tante idee, una idea (in: Annali della Pubblica istruzione", XVI, 1970, nn. 4/5); Rileggendo la ‘repubblica’ di Platone ("RIFD", XLV, 1968, fasc. 3/4, pp. 498-523).
(245) In simile prospettiva, cfr.: La teoria y la pratica en politica consideradas por un historiador de las doctrinas politicas ("Revista de Estudios Politicos", !960, n. 109, pp. 117-129); Uno storico del pensiero politico agostiniano: padre Ugo Mariano (Ib., fasc. III, pp. 316-325); La storia delle dottrine politiche di Gaetano Mosca ("Storia e politica", VI, 1967, fasc. II); Una storia delle idee politiche e sociali ("RIFD", XLIV, 1967, fasc. II, pp. 331-344).
(246) Si vedano: Carlo Alfieri e le origini della scuola fiorentina di scienze politiche, Milano, Giuffré, 1963.
(247) Cfr.: Note per la storia dell’idea di lavoro e non-lavoro "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del Lavoro e della Sicurezza sociale. Università di Trieste", IX, 1964, nn. 25/27; Ancora qualche nota sull’idea di lavoro e non-lavoro (Ib., X, 1965).
(248) Idea dell’Italia, "RIFD", 1959, fasc. VI, pp. 711-717.
(249) A questo proposito: Seneca fra utopia e realtà ("Rassegna di cultura e vita scolastica", XIX, 1965, n. 10); Repubbliche e principati ‘immaginati’ prima del Machiavelli ("RIFD", XLII, 1965, fasc. IV, pp. pp. 645-672); Verso una nuova utopia (Ib., pp.717-725); L’utopia come modello in un poligrafo italiano del Cinquecento. […] Per le nozze di Sily Giugliano e Nicola Parisio, Firenze, 1968; La nuova utopia ("Cultura e scuola", 1968, n. 28).
(250) Si vedano: Le problème historique (in: L’Europe du XIXe et du XXe siècle, Milano, Marzorati, 1959, I, pp. 57-157); L’insegnamento della storia nella formazione dei giovani (in: Problemi della scuola italiana, Bologna, Cappelli, 1960, pp. 171-185).
(251) Ricordo di Roberto Michels ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e sociale", VII, S. III, 1963, fasc. I, pp. 71-84).
(252) Paolo Treves tra ‘ragion di Stato’ e Restaurazione ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e social" e, VII, S. III, 1963, fasc. II, pp. 182-193); Ricordo di Maranini ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e sociale e di Diritto comparato", 1969, fasc. di set./ott., pp. 321-343).
(253) Su di un testo veneziano quattrocentesco di Dottrina dello Stato ("Storia e politica", IX, 1970, fasc. IV, pp. 519-526).
(254) Dalla filosofia giuridica alla storia politica nell’opera di Giacomo Perticone ("Storia e politica", IX, 1970, fasc. I).
(255) Si vedano in tal senso: Prospettive e problemi del pensiero politico dell’illuminismo ("Cultura e scuola", 1963, n. 7, pp. 120-126); Idee politiche nella Rivoluzione francese ("Storia e politica", IV, 1965, fasc. II, pp. 169-215); Eguaglianza. Dottrine generali (in: Enciclopedia del Diritto, vol. XIV, Milano, Giuffré, pp. 510-519); Un riformatore ligure del Settecento: Giambattista Pini (in: Scritti in memoria di W. Cesarini Sforza, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 251-262).
(256) Con prefazione di Rodolfo de Mattei: Milano, Giuffrè, 1977.
(257) Europa. Storia di un’idea. Voll. II, cit. p. 954.
(258) Ibidem, pp. 954-955.