Enzo SCIACCA, Principati e repubbliche. Machiavelli, le forme politiche e il pensiero francese del Cinquecento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005, pp. 238.
Enzo Sciacca, dopo Il problema storico del pensiero politico moderno, la genesi della modernità (Palermo, 2000), recensito su "Rassegna" (n. 15, aprile 2002), torna ad approfondire altri aspetti del suggestivo argomento, proponendoci un valido strumento per lo studio delle forme politiche e della riflessione teorica sulla monarchia assoluta.
L’autore si occupa della ricezione di Machiavelli nella cultura francese della modernità, in riferimento alle forme di governo che il Segretario fiorentino individuò nel binomio repubbliche-principati e nella circolazione delle forme di governo. Egli mette in evidenza il "rapporto dialettico per cui il regno di Francia viene a costituire un ampio e solido materiale per l’interpretazione del principato da parte del fiorentino, che egli restituisce alla cultura francese come un fondamento per l’elaborazione di quel nuovo modello politico" (p. 10). Il volume si apre con la teoria machiavelliana delle forme politiche, prendendo subito le distanze da coloro che hanno sottovalutato Le Istorie fiorentine "ai fini di una complessiva valutazione del suo pensiero politico" (p. 16). Il segretario fiorentino rompe con la tipologia e i "criteri tassonomici" elaborati sino a quel momento; e nei suoi scritti non si trovano significativi riferimenti alla scienza politica del Medioevo. Egli, com’è noto, nel Principe distingue gli stati in repubbliche e principati, mentre nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio propone la teoria polibiana dell’anaciclosi. In riferimento a quest’ultimo aspetto, Sciacca osserva come debbano essere affrontati i rapporti tra Machiavelli e Aristotele, spesso poco evidenziati rispetto alle più note influenze di Polibio: "quello che ci interessa – scrive Sciacca – è come Machiavelli rilevi da Aristotele, a mio avviso, più che da Polibio, l’impalcatura della sua teoria delle forme politiche, relativamente almeno a quell’aspetto di essa che deve essere considerata profondamente innovativa rispetto alla scienza politica tra Quattro e Cinquecento" (p. 19). Nella Politica, Aristotele propone una tipologia di sei forme di governo – tre rette e tre deviate – distinte anche in base al numero di governanti, alla loro "virtù", e ai loro interessi. Lo Stagirita è convinto, inoltre, che ogni sistema politico abbia una sua conflittualità: "i pochi contro i molti, […] i poveri contro i ricchi, ed il cui equilibrio sta nel rispetto delle leggi" (p. 20). Se la classe di governo persegue l’interesse generale, la forma è retta, altrimenti è degenerata. Il conflitto interno al sistema politico è ineliminabile tanto da essere presente anche nella forma mista (politia), commistione di due forme deviate: democrazia e oligarchia.
Attraverso l’esempio della Francia, Machiavelli delinea "uno dei punti maggiormente significativi della concezione delle forme politiche monarchiche del pensiero moderno" (p. 25). Egli, infatti, presenta la contrapposizione tra monarchia legittima (réglée o royale) e il dispotismo che è presente nel pensiero politico francese da Claude de Seyssel sino a Montesquieu. A Machiavelli, l’esperienza politica romana offre la possibilità di analizzare la repubblica democratica fiorentina, "le vicende politiche della sua patria" e in ciò, Le Istorie fiorentine, gli permettono di usare la libertà come criterio storiografico, "come unità di misura e criterio di valutazione di situazioni politiche e istituzionali" (p. 30). Nel Principe emerge la distinzione tra regno e principato: il primo presenterebbe dimensioni più ampie del secondo. E differenti, pertanto, sarebbero i termini re e principe. Sciacca però, a tal proposito, avanza l’ipotesi secondo la quale in Machiavelli il regno sarebbe una specificazione del principato, in grado di "aggregare e frenare" e rispondere alla crisi politica e istituzionale presente in Italia. Il regno di Francia era l’esempio più importante di come re e leggi potessero fungere da freni alla "insolenza dei potenti". (p. 32). Per Sciacca il principato civile costituisce un modello teorico con riferimenti al regno di Francia. Nel principato civile – retto da privato cittadino con il consenso dei concittadini – il popolo e i "grandi" formano i due "umori", i due partiti, e la libertà è intesa come "disunione" dei due umori. È proprio il conflitto tra i due umori a distinguere, secondo Machiavelli, il principato dalla repubblica. In ogni repubblica "è necessariamente presente" la conflittualità. Il principato civile: "discende da due differenti momenti genetici. Il primo si ha allorquando, in una fase di crisi della repubblica, uno dei due umori favorisce la trasformazione di quella in un principato […]; nel caso avverso […] i conflitti saranno ancora più aspri e cruenti e non escluderanno le violenze e persino le scelleratezze, fino a quando il principato non diverrà popolare o una tirannide" (p. 40). Da principe civile, cioè con il consenso dei concittadini, governò Agatocle che aveva preso il potere con azioni scellerate. E principe civile fu Cesare Borgia le cui azioni sono, per Machiavelli, esempio di quella precettistica che deve essere tenuta in conto dal principe. Dalle opere del segretario fiorentino, emergono diversi modelli di repubblica: aristocratico-spartano-veneto e popolare romano ateniese. Si è tanto discusso sul confronto tra il VI libro delle Storie di Polibio e i Discorsi di Machiavelli, il quale, però, se condivide con il filosofo greco il giudizio sulla forma mista, appare più cauto nella circolazione delle forme di governo tanto da poter dire che il suo naturalismo è "profondamente diverso da quello polibiano" (p. 57). E se in entrambi sono presenti l’eptade tipologica e lo schema della esanomia, per Machiavelli, la costituzione mista non sembra avere riscontri nella "verità effettuale" di Firenze e d’Italia caratterizzate da forti instabilità (p. 67).
Il sedicesimo secolo è caratterizzato dalla costruzione di un modello di Stato in cui "superiorem non recognoscens" e che, pertanto, attribuisce al re i poteri che erano stati fino a quel momento riferiti all’imperatore. L’autore precisa come solo di recente la nozione di assolutismo sia stata "de-ideologicizzata" cioè distinta dai termini dispotismo e tirannide. I giudizi sulla monarchia assoluta non furono concordi. Jean Ferrault, Barthélemy de Chasseneux e Charles de Grassaille insistevano sulla "assolutezza della potestas legem condendi del sovrano" (p. 88). Per loro il re di Francia era "imperator in regno suo". I moderati, invece, pur non negando, come Claude de Seyssel, il carattere assoluto del potere del re, vedono nell’equilibrio e nella giustizia i freni capaci di evitare il dispotismo. Infine, per Guillaume de La Perrière - collocato in una posizione intermedia tra i due gruppi - "la monarchia francese è una monarchia assoluta, la cui sovranità non è affatto intaccata dalla presenza di corti sovrane le quali, con il prestigio, accrescono e consolidano la maestà della corona" (p. 125). Egli si allontana dalla tipologia delle forme di governo della Politica di Aristotele per avvicinarsi a quelle dell’Etica Nicomachea in cui compare la timocrazia come costituzione oligarchica, cioè fondata sul censo, e, pertanto, diversa dal governo tenuto dai custodi guerrieri della Repubblica di Platone. Diversa è anche l’idea di forma mista di governo che in La Perrière risulta dalla mescolanza di monarchia, aristocrazia e timocrazia (p. 123).
Sciacca accosta Seyssel a Machiavelli per il "comune debito nei confronti della scienza politica antica" e, soprattutto di Aristotele e Polibio. Seyssel analizza la storia romana per dimostrare i limiti e la inaffidabilità della democrazia e diverge da Machiavelli per il quale le disunioni tra plebe e senato sono state, rispetto ad altre realtà, motivo della grandezza di Roma. Seyssel studia il sistema politico veneziano intravedendo due grossi rischi: la presenza di due partiti e l’esercito mercenario. E dato che la repubblica di Venezia sarebbe "destinata alla corruzione e alla rovina finale", il pensatore savoiardo studia quella che ritiene sia la migliore forma di governo: la monarchia. In Francia, essa si presentava con alcune "specialità" che la rendevano superiore alle altre: la legge salica per la successione al trono e i tre freni della religione, giustizia e polizia. Il primo freno si manifesta come imposizione per il re a vivere secondo la legge cristiana e per i sudditi a obbedire. La giustizia riguarda, invece, gli aspetti istituzionali, il rispetto per le leggi fondamentali. La polizia, infine, è quel freno che si esprime nelle stesse leggi fondamentali e nel concetto di ordine politico. Tali sono i caratteri peculiari della monarchia assoluta di Seyssel che coincide con la monarchia réglée.
L’ultima parte del lavoro di Sciacca tratta la presenza di Machiavelli nel pensiero politico francese del ‘500. Tra il 1544-48 il segretario fiorentino non era ancora considerato il precettore dei tiranni. Le prime traduzioni del Principe risalgono al 1553 con le curatele di Guillaume Cappel e di Gaspard d’Auvergne. Tra Machiavelli e Seyssel, Sciacca colloca il polithique Loys Le Roy in quanto dal primo avrebbe preso l’autonomia della scienza politica, dal secondo la teoria della monarchia réglée (p. 154). Nei due scritti De l’excellence du Gouvernement Royal e Vicissitude, Le Roy affronta il problema delle forme politiche che sono rette se hanno come fine il bene pubblico. La democrazia è la forma più soggetta a instabilità, "turbolenze costituzionali e sociali" (p. 185) e per questo degna della sua diffidenza. Il governo monarchico, invece, nella forma ereditaria, viene esaltato e distinto da quello dispotico e tirannico anche se "come in tutto il pensiero francese del Cinquecento […] i confini tra la monarchia absolue e la dispotica rimangono piuttosto vaghi" (p. 173).
Il volume di Enzo Sciacca - parzialmente tratto dalle lezioni su Il problema delle forme politiche nel pensiero di Niccolò Machiavelli, tenute dall’autore per il corso del dottorato di ricerca Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee nell’anno accademico 2002-2203 – ha, tra le altre cose, il pregio di sollecitare gli studiosi a una migliore conoscenza dei classici per meglio comprendere i metodi e i temi del pensiero politico.
Claudia Giurintano
Eric VOEGELIN, Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, a cura di Dario Caroniti, Roma, Gangemi Editore, 2004, pp. 335.
La frase del tedesco Eric Hermann Vilhelm Voegelin (1901-1985), riportata anche ad apertura del libro, potrebbe essere considerata, per uno storico del pensiero politico, la massima verso cui indirizzare il proprio lavoro: "Il compito dello storico delle idee non si può esaurire nel riportare le dottrine di un pensatore o nell’esporre qualche grande sistema teorico, ma deve anche esplorare lo sviluppo dei sentimenti che si cristallizza nelle idee, e mostrare la relazione tra le idee e la matrice dei sentimenti in cui sono radicate" (p. 37 e p. 102). L’autore, professore a Vienna, nel 1938 aveva abbandonato l’Austria per andare negli Stati Uniti dove, appena un anno dopo, aveva iniziato a scrivere una Storia delle idee politiche prendendo come modello l’opera di George Sabine. Lo scopo era quello di dimostrare "sinteticamente le radici dell’ordine politico della civiltà occidentale a partire dal pensiero politico dell’antica Grecia e le cause che avevano condotto parte della cultura europea a un grado di decadenza morale tale da produrre la svolta totalitaria del novecento" (Introduzione, pp. 7-8). L’obiettivo di restare nella sintesi non fu però mantenuto tanto da trasformare quel progetto in un’opera in otto volumi, pubblicati postumi nel 1998 da Ellis Sandoz. Un nono volume, tutto a se stante, fu pubblicato nel 1975, con il titolo From Enlightenment to Revolution, ad opera di John Hallowell che estrapolò dalla Storia delle idee politiche alcuni capitoli, usciti ora in versione italiana con i tipi Gangemi e a cura di Dario Caroniti.
Dall’Illuminismo alla rivoluzione si apre con l’analisi del Settecento. L’autore giudica le definizioni di "secolo della rivoluzione" e della "Ragione" come "negazioni del valore cognitivo delle esperienze spirituali" poiché "affermano l’atrofia del trascendentalismo cristiano". Si trattò di una "ribellione apostata" capace di dare vita a un movimento di idee che avrebbe condizionato la struttura politica occidentale (p. 39). Il Settecento aveva sostituito la Chiesa e l’Impero con le "nuovi fonti di autorità" rappresentate dai "corpi mistici delle nazioni" (Introduzione, p. 9). L’eliminazione della Chiesa e dell’Impero, "intesi come poteri pubblici, fu accompagnata dalla crescita di nuove entità sociali che […] tendevano a sostituire la realtà dell’umanità cristiana che andava dissolvendosi" (p. 40). Per Bossuet, nel XVII secolo, l’universalità della storia consisteva nella "guida provvidenziale dell’umanità verso la vera religione" (p. 41). E con il trasferimento del centro dell’universalità dal sacro al profano, il cristianesimo finiva per essere inteso come evento nella storia portando alla scomparsa del dualismo "tra storia sacra e profana". Le due storie si riunivano nella storia secolarizzata "dove secolarizzazione indica l’atteggiamento col quale la storia, inclusi i fenomeni religiosi cristiani, viene concepita come un susseguirsi di eventi umani intramondani, mentre, allo stesso tempo, viene mantenuto il credo cristiano in un ordine della storia umana universale e carico di significato" (p. 43).
Tra gli intellettuali illuministi Voltaire aveva avuto il merito di iniziare una lettura della storia "non più semplicemente improntata a un astratto passato da ricordare, ma come senso della vita di tutti gli uomini e della nostra propria" (Introduzione, p. 10). Secondo il filosofo francese, il significato della storia non poteva più essere metastorico ma immanente: "Voltaire – scrive l’autore – parla dell’estinzione, della rinascita e del progresso dello spirito umano. L’estinzione corrisponde alla Caduta, la rinascita alla Redenzione, il progresso a un Terzo Regno della perfezione spirituale. Gli argomenti che fanno parte del sistema sono il medioevo (estinzione), l’epoca dell’inizio della tolleranza, che parte da Enrico IV (rinascita), e l’era dello stesso Voltaire (progresso)" (p. 46). Una riorganizzazione della storia, questa, che prelude quella di Saint-Simon e di Comte della legge delle tre fasi: religiosa, metafisica, positivo-scientifica. Il filosofo illuminista evocherebbe il nuovo mito dell’utile e, secondo Voegelin, proprio "l’affermazione del principio dell’utile" costituisce "l’ossatura di una nuova religione". La ragione di Voltaire è il simbolo che designa un complesso di sentimenti e di idee; essa non è un’idea filosofica ma un insieme di "conoscenze raccolto da fonti molto differenti" (p. 58). Voegelin ritiene che sia stata la pretesa dell’età dei lumi di creare un mondo demitizzato a produrre una religione "umana" "che si risolve nel culto di personalità violente, libere da ogni vincolo morale e civile" (Introduzione, p. 17).
La seconda e terza parte del volume (pp. 69-106) è dedicata a Helvétius, la cui figura, osserva l’autore, non essendo della statura di Montesquieu, di Hume o di Rousseau, non aveva ricevuto la stessa "attenta, minuziosa considerazione" (p. 69). Voeglein coglie in Helvétius un debito nei confronti di John Locke – da cui egli avrebbe tratto la critica all’innatismo delle idee morali e l’esigenza di creare un nuovo fondamento della morale - e nei confronti della tradizione dei moralisti francesi, soprattutto, di Pascal.
Nella crisi del pensiero occidentale, Voegelin inserisce i controrivoluzionari Joseph de Maistre e Louis de Bonald nei quali, a suo avviso, rivoluzione e controrivoluzione finiscono per coincidere a causa della confusione tra storia sacra e profana. La Rivoluzione francese appare negli scritti di Maistre in una visione apocalittica nella quale l’evento rivoluzionario diventa "un momento di passaggio tra un’età e un’altra nella quale si fronteggiano direttamente Dio e il Demonio in uno scontro frontale" (Introduzione, p. 23). Ma, nella crisi del pensiero occidentale non vanno collocate tutte le forme di pensiero che si ebbero dopo la Riforma. Voegelin, infatti, si guarda bene dal collocarvi G.B. Vico, poiché questi diede il via al progresso delle scienze storiche e, distinguendo tra genitum (il verum increatum) e factum (il verum creatum), avrebbe reso possibile la distinzione tra storia sacra e storia profana (scienza del verum creatum).
Tra i pensatori del XIX secolo, Voegelin avverte la necessità di considerare in modo "più appropriato" Auguste Comte sia in quanto "filosofo della storia", sia come "dittatore spirituale dell’umanità" (p. 167). Questi viene considerato la prima grande figura della crisi occidentale; il pensatore che "appartiene al nostro presente storico […] come Marx, Lenin e Hitler" (p. 107). Secondo l’autore, la comprensione della storia poteva apparire maggiore anche grazie "alla migliore conoscenza di Comte e all’esperienza politica" tratta dalla realizzazione pratica dei progetti comtiani. Il filosofo positivista "voleva estirpare il cristianesimo e la metafisica della civiltà occidentale" ma il suo "desiderio di distruzione era nascosto sotto il programma scientista e dal sogno della repubblica occidentale". In Michael Bakunin, invece, si palesa l’esistenza distruttiva del rivoluzionario poiché il presente deve cancellare il passato sin dalle fondamenta e il futuro non deve essere immaginato "dagli uomini ancora contaminati dal passato" (p. 225).
Con l’analisi "della dialettica invertita" di Marx e della genesi del socialismo gnostico, si chiude il volume di Voegelin. Questi osserva come i sostenitori di Marx abbiano inciso sull’accessibilità dell’opera marxiana tanto da non dare alle stampe i manoscritti ritenuti da loro poco importanti. Così, sul Marx filosofo e storico, prevalse il "Marx dei marxisti, il padre della rivoluzione russa", l’autore del Manifesto e fondatore della Prima Internazionale. Alle radici dell’idea marxista, Voegelin trova la "malattia spirituale, la rivolta gnostica", un animo chiuso "in modo demoniaco alla realtà trascendente" (p. 326).
L’estensione del "segmento utilitaristico dell’esistenza" contribuì a introdurre nella civiltà moderna l’elemento della cultura magica. E la tendenza a limitare il campo dell’esperienza umana agli ambiti della ragione, della scienza e dell’azione pratica, condusse a quel crescendo rappresentato dal sogno di creare il Superuomo a fronte della "misera creatura fatta da Dio". Fu questo, "il grande sogno – scrive Voegelin nell’Epilogo – che prima appariva in modo immaginario nelle opere di Condorcet, Comte, Marx e Nietzsche e poi pragmaticamente, nei movimenti comunista e nazionalsocialista" (p. 329). Il sogno degli illuministi di un progresso immanente si tradusse, nel Ventesimo secolo, in un "incubo vivente" delle ideologie totalitarie, dei "movimenti di massa politico-gnostici". E quando l’orrore nazista fu definitivamente sconfitto, Voegelin continuò a restare negli Stati Uniti, nel paese simbolo della cultura occidentale, a testimonianza, come scrive Caroniti, della sua volontà "di attuare […] la ricostruzione dal luogo in cui i veleni etnico-nazionalisti, che avevano dilaniato l’Occidente, apparivano sbiaditi fino a dissolversi" (Introduzione, p. 31). La sua attenzione - ricorda John H. Hallowell nella prefazione all’edizione del 1975 riportata nell’edizione in questione - fu rivolta al ruolo del mito nella storia e alle relazioni tra mito, filosofia e rivelazione, lasciando una lezione perennemente valida che consiste nel rifiutare "di accettare che le idee che si devono ricercare [nelle] opere abbiano qualcosa dell’esistenza o dell’autenticità che prescinda dai sentimenti e dalle esperienze che le hanno originate".
Claudia Giurintano
Giuseppe Acocella, Per una filosofia politica dell’Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2004, pp. 396
Il libro di Giuseppe Acocella è articolato e complesso. Esso comprende una serie di saggi scritti nell’arco di un trentennio allo scopo di proporre una originale interpretazione della filosofia civile fra Otto e Novecento. Attraverso il pensiero di vari autori, Acocella intende ripercorrere l’itinerario che "ha forgiato la filosofia civile e l’etica sociale dell’Italia contemporanea". La tesi di fondo espressa dall’autore è che "la filosofia politica del Risorgimento italiano" appaia inadeguata per esprimere compiutamente le aspirazioni, le questioni, i bisogni della società italiana sia prima che dopo l’unificazione. La realtà italiana di quel periodo non può essere rappresentata sic et simpliciter dall’ordinamento statale e dal suo rigoroso normativismo. È necessario tener conto del processo di evoluzione che ha moltiplicato le fonti del diritto, ha dato vita ad una pluralità di ordinamenti giuridici, a nuove forme organizzative (partiti, sindacati ecc..).
Il primo capitolo tratta della filosofia civile nella vivace cultura napoletana. Attorno alla rivista "Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti", pubblicata dal 1832 al 1836 e diretta da Giuseppe Ricciardi, s’incontravano alcuni tra i più eminenti studiosi, scrittori politici napoletani. Tra questi si ricorda Giuseppe Ferrigni de’ Pisone, giurista il quale abbozzò una prima storia del pensiero politico italiano. Il suo intento era quello di "rivendicare il pensiero italiano dalla straniera servilità"; ossia una storia delle dottrine politiche italiane che rivendica la sua autonomia disciplinare. D’altra parte lo sforzo degli scrittori de " Il Progresso" è proprio quello di definire l’autonomia e la specificità di ciascuna scienza, riscoprendo il valore originale della politica. Luigi Dragonetti ritiene che l’economia politica (definita economia sociale) è "la scienza ordinatrice della società", ed è la vera scienza politica. Non sono le costituzioni o le forme di governo a costituire l’oggetto della vera scienza politica. Pertanto i grandi scrittori di politica come ad esempio Aristotele o Montesquieu non hanno potuto dare soluzioni ai problemi. La storia degli scrittori di politica, dunque, deve coincidere con la storia degli scrittori di economia, giacchè questa è la scienza politica per eccellenza. L’autore che più di altri ha saputo congiungere economia e diritto politico è Giandomenico Romagnosi, considerato punto di riferimento obbligato per l’evoluzione della scienza giuridica.
Le riflessioni di Dragonetti sulla "politicità" dell’economia imponevano di includere pieno iure tra gli scrittori politici quelli di economia sociale. Anche su questo tema altri prestigiosi collaboratori de "Il Progresso" riproposero la questione dell’originalità del contributo italiano alla scienza della politica. Tra questi sono ricordati Luigi Blanch, Matteo De Augustinis e G.N. Durini; in particolare questi ultimi vedono in Antonio Serra da Cosenza (1600) colui che diede inizio alla scienza economica, precedendo di un secolo e mezzo Adam Smith.
Il pensiero di Stefano Cusani, figura di rilievo della cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, è preso in considerazione in quanto già nel 1839 sottolineava il ruolo unificante della filosofia concludendo che "la storia della filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo dello Spirito Umano, non è che la manifestazione di quel potentissimo bisogno che ha l’uomo di conoscere e di sapere" (p. 39).
Il saggio su Francesco De Sanctis prende in esame il dibattito sviluppatosi nel ‘900 sulla sua opera e in particolare sul suo pensiero morale. L’autore, - considerato oltrechè storico, psicologo, moralista e filosofo tra i maggiori che l’Ottocento italiano abbia avuto, - si muove in un confronto tra storicismo vichiano ed hegelismo. In lui è centrale la relazione tra ideale e reale, tra pensiero e azione, sebbene alcuni critici, e tra questi Benedetto Croce, abbiano voluto separare l’impegno civile dalla riflessione filosofica e letteraria. Si giunge alla conclusione che De Sanctis abbia vissuto problematicamente le influenze di Hegel e di Vico.
Vittorio Imbriani ha una visione evolutiva della storia, determinata non dal pensiero individuale d’un uomo, ma da una intera civiltà. Tuttavia ogni nuovo passo di civiltà e di progresso deve sempre tener conto del passato. Egli contrappone alla legge scritta la consuetudine popolare. Ciò che dà fondamento alla legge è naturale. La natura è la storia. Imbriani rifiuta la Ragion di Stato, non condivide lo stato così come si era configurato nei primi anni dopo l’unificazione. È avverso alla sinistra e al principio della democrazia perché porta con sé, in primo piano, una "plebe" incapace di divenire libera. Coscienza critica della realtà del suo tempo, Imbriani fu considerato un reazionario non tanto per la sua concezione della storia, ma per non aver percepito la comparsa di nuovi soggetti sociali sulla scena della politica. Ciò lo condusse alla rottura con De Sanctis che, invece, come altri uomini del Risorgimento, valutava positivamente il 1848 proprio per la centralità e il ruolo di protagonista assunto dal popolo.
Significativa la presenza di Agostino Magliani nella vita pubblica italiana della fine dell’Ottocento durante i governi presieduti da Depretis. La concezione etico-politica di Magliani va ricondotta alla formazione culturale maturata all’interno della scuola giuridica napoletana. Le sue idee furono espresse in vari articoli che egli pubblicò sulla rivista "Nuova Antologia". Il tema centrale della sua riflessione è il rapporto tra finanza e libertà politica. Richiamando "la sentenza verissima del Montesquieu, che esistono rapporti necessari tra la natura delle imposte e quella delle istituzioni politiche" (p.104), Magliani giunge alla conclusione che l’attività economica incontra un limite preciso nella legittimazione politica dello stato, "nessuna buona finanza si può fare senza una buona politica, nessuna buona politica si può fare senza una buona finanza" ( p.107).
Il secondo capitolo del libro tratta il pensiero etico-civile di Ruggiero Bonghi (Napoli 1826 - Torre del Greco 1895) scrittore politico e parlamentare. Attraverso il rapporto epistolare (14 lettere) tra il pensatore napoletano e Cesare Bardesano di Rigras tra il 1855 e il 1861, l’autore ricostruisce i rapporti tra gli esuli meridionali, entusiasti del liberalismo moderato di Cavour e il ceto di politici funzionari piemontesi. Nel volume Storia dell’Europa durante la Rivoluzione francese, l’antigiacobino Bonghi esamina le idee che avevano generato la Rivoluzione francese, evento tragico di tutta la storia contemporanea. Un posto di primo piano occupa l’Enciclopedia, vera sintesi delle correnti francesi miranti ad affermare la raison nella storia. Secondo l’interpretazione di Bonghi tra i quattro autori presi in considerazione, Diderot, Montesquieu, Voltaire e Rousseau, quest’ultimo è il vero "giacobino", il precursore della Rivoluzione e delle sue nefaste conseguenze. Interessanti i temi affrontati da Bonghi nei discorsi parlamentari: questione sociale, crisi e degenerazione del sistema parlamentare, riforma elettorale, crisi morale, tutte problematiche volte alla ricerca di un’etica civile capace di coniugare stabilità delle istituzioni e fermenti sociali.
Giambattista Vico rappresenta una pietra miliare nel panorama culturale napoletano del 1600. Autori, i più diversi, successivi a lui, saranno profondamente influenzati dal suo pensiero, e in modo particolare dal suo concetto di storia. Tra questi Acocella ricorda Stefano Cusani, per il quale la lezione vichiana, se accolta, avrebbe assicurato la continuità e l’originalità della filosofia italiana. Secondo Cusani "l’ordine degli avvenimenti, chiamata Provvidenza presso alcuni, e legge dell’intelligenza umana presso alcuni altri, è quella legge che Iddio stesso ha imposta al mondo morale, e che non differisce dalle leggi del mondo fisico" (p.211).
L’incidenza del vichismo sulla formazione e sul pensiero sturziano è apertamente manifestata dallo stesso Sturzo. "Anch’io - scrive il sacerdote calatino citato da Acocella - debbo a Vico, fin dai primi passi nello studio della filosofia e del diritto, il mio orientamento al concreto storico, perché anzitutto imbevuto di storia, la storia fu la mia prima passione giovanile" (p.215). Per Sturzo è Vico il grande filosofo della storia, colui che ha saputo intuire la "processualizzazione" storica. Il pensatore siciliano definisce la sua sociologia storicista e - nell’affrontare il discorso sulla formazione del mondo umano (dalla famiglia alla struttura politica), che conduce allo sviluppo di una coscienza sociale e della razionalità - richiama frequentemente la filosofia vichiana a suffragio delle proprie tesi.
Errico De Marinis nella ricostruzione dell’evoluzione della sociologia designa Vico quale padre della nuova scienza. Per aver concepito una teoria evolutiva della storia, e la connessione tra diritto naturale e processo storico, il filosofo napoletano merita di essere affiancato ai grandi precursori di questa nuova disciplina.
Nel corso della costante ricerca per la fondazione di una economia nuova che superasse l’individualismo liberale, Ugo Spirito attinge, in una prima fase, allo storicismo relativistico di Simmel e Sombart. Successivamente nelle critiche che Spirito rivolge a Sombart è implicita una diretta e radicale riserva nei confronti di Vico. Tuttavia, secondo Acocella, anche per Ugo Spirito lo storicismo vichiano costituisce un importante punto di riferimento.
L’etica sociale, nella crisi dello stato liberale, è il tema trattato nel quarto capitolo. Il raffronto tra Aristide Gabelli e Piero Gobetti li vede accomunati dall’idea che l’etica protestante deve essere alla base di una rinascita civile dell’Italia. Gobetti non trascurò di considerare l’incidenza del popolarismo sturziano grazie al quale le masse cattoliche abbracciarono la democrazia.
Giovanni Amendola dà spazio alla centralità dell’azione individuale e alla sua eticità. Le funzioni individuali sono essenzialmente etiche e la storia risulta dall’incontro delle azioni etiche dei singoli individui. Anche Carlo Rosselli si occupa di etica e, in modo particolare, nel suo Le memorie di Henry Ford tratta dell’etica puritana nella civiltà industriale.
Acocella conclude questa rassegna di saggi con un capitolo interamente dedicato a Giuseppe Capograssi, filosofo cattolico della prima metà del ‘900. Fondamentale nella speculazione filosofica di Capograssi il concetto di persona. L’originalità del suo personalismo risiede nell’idea che l’individuo, nel mondo sociale, sia in costante relazione con le istituzioni intese come "organismi etici collettivi". Altrettanto importante la sua concezione dello stato. Fu critico nei confronti dello stato corporativo che non si limitava ad avere una funzione conciliativa e pacificatrice, ma intendeva formare una nuova realtà sociale: non più "stato soggetto alle realtà sociali, essenzialmente formato da esse, […] ma stato a se stante, vera forma sostanziale" (p. 380). Il giurista Capograssi, a parere dell’autore, restituisce lo stato alle sue vere funzioni di definitore e gestore di tutti gli interessi nazionali. Egli è per uno stato costituzionale democratico nel quale l’autonomia regionale si pone a difesa dell’individuo e delle singole realtà sociali.
Rosanna Marsala
Carmelo Sciascia Cannizzaro, Il Risorgimento di Macaluso, Agrigento, Centro Studi Giulio Pastore, 2005
La provincia italiana, fra le tante variegate ricchezze, vanta uno stuolo di appassionati di storia locale, lontani dalle cattedre e, in gran parte, ignora, che costituiscono preziosi punti di riferimento per ricostruire accadimenti e personaggi minori che hanno avuto una parte, spesso importante, nel corso della storia nazionale. È ciò che è possibile ricavare dalla lettura dell’ultima ricerca fatta dal canicattinese Carmelo Sciascia Cannizzaro, non nuovo a queste imprese, sul suo concittadino Vincenzo Macaluso, eminente, quanto sconosciuta figura del Risorgimento siciliano. La ricerca in questione trae lo spunto dal dibattito, sempre attuale, sulle vicende dell’unificazione nazionale, sulle sue conseguenze sulle popolazioni meridionali e, in particolare, sui siciliani e sui problemi rimasti irrisolti.
Il protagonista della vicenda, figlio della borghesia agraria, pur cresciuto in un ambiente fortemente condizionato dalla presenza di un alto esponente della classe dirigente borbonica, parente e contiguo di casa, quel Gioacchino La Lomia che fu prima Direttore del Dicastero di Grazia e Giustizia e poi Ministro della Real casa, sposò giovanissimo le idee rivoluzionarie e repubblicane e fu tra i primi, appena ventitreenne, ad inalberare il vessillo tricolore durante i moti palermitani del ‘48. Condannato a morte dal restaurato regime borbonico, fu restituito all’attività forense mercè l’intervento dell’autorevole La Lomia. Ma la sua irriducibile intolleranza verso il sistema persecutorio instaurato dal capo della polizia borbonica, Maniscalco, lo portò a patrocinare, senza riserve, la causa del suo compagno di lotta Lorenzo Minneci con la conseguenza di rimediare un’altra condanna alla pena capitale, ancora una volta condonata tramite l’autorevole parente, ma con l’obbligo del domicilio coatto ad Agrigento. Per niente rassegnato, riprese la via della cospirazione attirandosi la stretta sorveglianza del regime, nel corso dell’organizzazione di un’insurrezione, nel 1859, che, partendo da Agrigento, avrebbe dovuto coinvolgere Caltanissetta e quindi si sarebbe diretta verso Palermo. Per dare consistenza all’operazione e reclutare volontari alla causa, ricorse anche alla gestione in gabella di miniere di zolfo a Comitini, una delle quali di proprietà della patriottica famiglia Ricci Gramitto, a cui apparteneva la madre di Pirandello, dove trovò uno stuolo significativo di aderenti. Il segnale convenuto fu l’innalzamento di tre bandiere tricolori nei territori di Grotte, Aragona e sulla montagnola, chiamata "La Pietra" di Comitini. Il pericolo che in quel periodo incombeva sul regime borbonico, a causa della diffusione degli ideali unitari, fece dispiegare contro i sospettati, tutte le misure repressive di cui era capace la polizia dell’epoca che riuscì, dopo alterne vicende, a catturare il patriota canicattinese. Rinchiuso nelle carceri della Vicaria e condannato a morte per la terza volta, fu salvato dall’arrivo di Garibaldi che, tra l’altro, lo inserì nei quadri dirigenti della rivoluzione, affidandogli l’incarico di Commissario straordinario della provincia di Girgenti.
Particolare interesse riveste la seconda parte del libro, prestandosi ad una chiave di lettura che ripropone, con nuove ed inedite argomentazioni, il tema dei difficili rapporti dei siciliani con lo stato unitario e apre ulteriori squarci verso la ricerca della verità storica che i libri di scuola, ispirati alla logica del vincitore, non ci hanno compiutamente dato. Vincenzo Macaluso, rompendo, peraltro, lo stereotipo del siciliano immerso nel suo secolare fatalismo, pur avendo accettato l’inevitabilità della monarchia sabauda ai fini della ricomposizione dell’Italia sotto un’unica bandiera, rinunciando a prebende ed onorificenze che la politica di Cavour non faceva mancare a quanti si prestassero ad isolare i democratici, iniziò una battaglia che durò sino alla morte avvenuta nel 1892 a Roma in solitudine ed in miseria. Nel 1861 diede vita al periodico "La Pietra", in ricordo della bandiera issata nel 1848, e, quasi a ribadire le forti ragioni che lo ispiravano, nel clima che già cominciava a delinearsi, lo sottotitolò: "meno immoralità, meno ingiustizie, meno dispotismo". Per rendere ancora più incisive le sue battaglie, trasferì la redazione del suo giornale prima a Firenze e poi a Roma, nelle capitali cioè dove si organizzava il nuovo Stato, denunciando, in maniera clamorosa, gli abusi e la corruzione del sistema. Macaluso si accorgeva che, man mano che il moderatismo si andava assestando sulle strutture del nascente Stato, tendevano ad emergere non solo uomini fino alla fine fedeli ai Borbone, ma anche personaggi che spacciavano come benemerenze le carcerazioni per delitti infamanti e che avevano dato nel passato saggi della loro capacità di ordire trame e delazioni, organizzare omicidi, favorire sporchi affari, con la conseguenza - come amaramente scrisse Macaluso - di dover vedere "il perverso protetto e l’uomo onesto conculcato, l’assassinio fomentato, l’assassinato invendicato, il borbonico in galla ed il liberale ingiuriato, conculcato, oppresso e financo pubblicamente estinto". Queste riflessioni vennero corroborate dalla sua esperienza di funzionario di prefettura, sempre rimosso dopo poco tempo dall’assunzione dell’incarico, con l’accusa di tramare contro il governo, prima a Girgenti, poi a Noto e infine a Lagonegro. Le prefetture divengono ai suoi occhi l’emblema delle delazioni, degli abusi, della rozza applicazione delle leggi, della corruzione, delle persecuzioni. Tutto ciò, unito all’incapacità dei vari funzionari inviati dal governo piemontese per governare le province siciliane, costituisce la miscela alla quale si deve gran parte della sfiducia delle popolazioni meridionali nei poteri dello Stato. Indicativo, al riguardo, appare l’episodio relativo al prefetto di Girgenti Enrico Falconcini, destituito dall’incarico dopo soli cinque mesi dalla nomina, in seguito ai durissimi giudizi sul suo operato espressi dai parlamentari dell’opposizione. Egli, per giustificarsi scrisse l’opuscolo Cinque mesi di prefettura in Sicilia pubblicato a Torino del 1863 che, ripubblicato recentemente dalla Sellerio, con la prestigiosa prefazione di Andrea Camilleri, è divenuto un classico per mettere in evidenza le difficoltà incontrate da un uomo di legge in una terra affetta da endemiche condizioni di sottosviluppo e di degrado sociale. Pressocché ignorato è invece il pamphlet pubblicato da Vincenzo Macaluso nello stesso anno e nella stessa Torino Rivelazioni politiche sulla Sicilia e gravi pericoli che la minacciano in risposta ad Enrico Falconcini ex Prefetto di Girgenti. Sciascia Cannizzaro coglie l’occasione per mettere l’uno di fronte all’altro due uomini, uno del nord, l’altro del sud, che hanno molte cose in comune, ma che divergono profondamente, sulla valutazione della realtà e, soprattutto sull’applicazione dei principi liberali. Con il suo scritto, infatti, il patriota canicattinese si scaglia contro la perversa applicazione delle misure dello stato d’assedio, fonte inesauribile di abusi e soprusi, contesta l’uso di imporre all’Isola funzionari non siciliani, condanna la riscossione delle odiate decime. Tutti temi questi, ripresi con altri scritti collegati alla questione della leva obbligatoria, ai provvedimenti di soppressione degli ordini ecclesiastici ed alla vendita dei loro beni, al manifestarsi di fenomeni mafiosi per i quali egli ebbe a fare delle specifiche e circostanziate accuse.
A distanza di tanti anni ci si chiede con l’autore se un diverso approccio ispirato ai principi sostenuti dal Macaluso, avrebbe dato alla Sicilia un diverso assetto ed uno sviluppo che l’avrebbe posta sullo stesso livello delle altre regioni del Nord, anche se a gettare pesanti dubbi sulle capacità della classe dirigente siciliana contribuiscono cinquant’anni di autonomia che non sembra abbiano contribuito a superare lo svantaggio iniziale. Siamo dunque in presenza di una doppia verità o dobbiamo concludere, concordando con Leonardo Sciascia che "la Sicilia è una terra difficile da governare perché difficile da capire"? In questa terra dove alligna predominante il fatalismo e l’acquiescenza agli andazzi, anche i più perversi, tuttavia, Vincenzo Macaluso continuò, mai domo, mai piegato dalle persecuzioni, le sue battaglie, proponendosi come un modello di positività degno di essere additato alle nuove generazioni.
Gabriella Portalone
Franca ALAIMO, Le Utopie del Viaggio - La poesia di Tommaso Romano, Firenze, Vallecchi, 2005.
La prima, immediata impressione che si ricava leggendo Le utopie del viaggio – La poesia di Tommaso Romano scritto da Franca Alaimo per i tipi dell’antica e prestigiosa Vallecchi, è il disagio di fronte all’abusato e talora condiviso giudizio in virtù del quale il critico sarebbe uno scrittore fallito o, almeno, mancato. Scrittore che, ove eserciti il proprio mestiere partecipando delle purtroppo diffuse camarille, spesso cade o in lodi del tutto immeritate o in acrimoniosi giudizii; quando non esibisce una propria inopportuna e prevaricatrice "creatura". L’analisi che Franca Alaimo esercita sulla poesia di Tommaso Romano, infatti, nasce da un affettuoso e lucido distacco, da una partecipe e amorosa obiettività, da una subìta ma proficua sintonia del sentire. E qui, non a caso ci imbattiamo nella figura dell’ossimoro, una delle principali caratteristiche dello stile e, prima ancora, del percepire e vivere la realtà di Tommaso Romano.
Al proposito, non va dimenticato quanto ebbe a scrivere un altro grande siciliano, Gesualdo Bufalino: "L’ossimoro non è una ridondanza, ma una contrazione, non uno scialo, ma un’economia". E la prova di una grande umiltà, si direbbe ove si potesse aggiungere qualche parola alla perfetta definizione di Bufalino, umiltà dell’uomo che indaga una realtà complessa, difficile interpretare, un uomo il cui giudizio nutre la trepida professione del dubbio, nonché l’intelligente ricorso alla produttiva, ubertosa sinestesia, cioè all’accostamento di categorie solo in apparenza competenti a sfere sensoriali diverse, laddove concorrano in realtà a efficacemente fotografare il mondo intorno a noi.
La critica (meglio: l’analisi puntuale) di Franca Alaimo, quindi, non come biliosa rivincita o manifestazione paraninfa subalterna all’opera, ma quale opera essa stessa dalla dignità autonoma, però "baciata" dalle misteriose sintonie che, fortunatamente, talvolta si instaurano fra spiriti affini. Tutto è còlto con levità marmorea: nel trascegliere i lemmi che "significhino" (o esserne divinamente, misteriosamente trascelti?); nell’esplorare la magia – unica degna di interrompere la sacralità del silenzio – che alcune parole fra loro accostate suggeriscono attraverso l’armonia che sprigionano; nel profumo di certe immagini evocate con sapiente ingenuità; nei colori che, così, diventano fragranze, mentre le fragranze si vestono di memorie e le memorie si traducono in speranza di futuro. Dal tutto emerge poi, inconfondibile, la solitudine - fisica e dell’anima - figlia di un’aristocratica e perciò stesso dolorosa insularità. E la scelta dell’evocare, che equivale a definire con pregnanza, non fuggire dalla responsabilità dell’affermare. E l’onomatopea dello spirito a riprodurre i misteriosi suoni del mondo attraverso la conoscenza, la sintesi, l’amore nei confronti della parola deposta sulla pagina come nota sul rigo di un pregevole spartito. A regalarci, infine, poesia.
Il quadro che Franca Alaimo traccia di Tommaso Romano appartiene ad un uomo geniale e combattivo che però non si sottrae agli obblighi che derivano dal vivere immerso nella cultura e integrato nella società che lo circonda. Obblighi che lo costringono alla condizione di uomo dalle due vesti, e a coniugare la naturale e quasi goliardica disposizione all’ironia con la rigida serietà del ricercatore. I ruoli culturali che Romano ha assolto a Palermo – e non solo – tangibilmente raccontano una vita brillantemente vissuta sul doppio registro della scanzonata intelligenza critica e della mai definitiva e ultima solennità.
Ora il vero Tommaso Romano si manifesta nella vita spirituale ricca, contrastata, fertile, profonda. La vita di un uomo che ha acquistato a caro prezzo le certezze che orientano la fatica di ogni giorno. E che ha gettato alle ortiche la seconda veste, la veste dell’ufficialità che gli andava stretta, per dedicarsi alla ricerca perenne, inesausta, ineludibile, dolorosa del vero.
A rendere più pertinente e puntuale il percorso che Franca Alaimo traccia e ci suggerisce nei confronti di Tommaso Romano soccorre la comune, inevitabile vocazione al sapere, all’indagare, al viaggio intellettuale che entrambi possiedono (o dalla quale, ancora una volta, sono posseduti); vocazione che direi risulta speculare, da parte di Franca Alaimo, a quella cui Tommaso Romano ha improntato le proprie esplorazioni nel mondo senza confini della conoscenza. E la fertilità dell’incontro culturale fra i due strordinarii personaggi si appalesa, in tutta evidenza, in questo prezioso piccolo libro.
Quali le frequentazioni culturali di Tommaso Romano? Citando a caso, come il clamore suggerisce alla memoria, ecco uno scenario europeo, attuale e mondano, sul quale si esibiscono Leopardi, Goethe, Borges, Guénon, Stirner, Heidegger, Eliade, Junger, Pessoa, Gozzano, Parronchi, Caproni, Luzi…(e con alcuni dei citati personaggi contemporanei la frequentazione è stata anche personale). Il tutto sullo sfondo del futurismo nella sua peculiare accezione siciliana.
Altri sono i maestri della scuola di cristianesimo che hanno fatto di Tommaso Romano un miles Christi. Altri gli autori. Nelle loro pagine c’è il fuoco che impasta le terre non europee, le terre del Meridione. Sant’Agostino, San Tommaso, Teresa de Avila, Francisco de Vitoria, Bartolomé de Las Casas, Aparisi y Gujarro, compongono la prima veste il primo e più vero ethos di Tommaso Romano. E – fra i contemporanei – Francisco Elias de Tejada, Cornelio Fabro, Giulio Bonafede, Nicola Petruzzellis, Attilio Mordini, Silvio Vitale, Francesco Grisi.
Puntuale e preziosa, infine, è la conclusione di Franca Alaimo nell’individuare le "linee portanti" della poesia di Tommaso Romano:
"- Il procedere del pensiero attraverso il fuoco dell’antitesi e la conseguente ricerca di una ricomposizione armoniosa nella gioia segreta dello spirito;
- la consapevolezza della dinamicità della Tradizione all’interno della mobilità degli eventi storici;
- la forza sintetica del simbolo che dà vita a un’immaginazione tutta permeata di sacro;
- il ruolo ordinatore della ragione nei confronti degli impulsi irrazionali;
- l’accettazione della dimensione concreta della vita e il dovere di coniugarla con i fini etici ed estetici;
- il conforto dei sentimenti profondi e delle passioni feconde come la musica, la poesia e le altre arti;
- il sogno di un’umanità eletta capace di scrivere quel libro della sapienza, di cui parla Borges, e il conseguente culto dei maestri di ogni tempo e luogo".
A proposito di Borges: non ci sembra impertinente chiudere con una sua massima: Ormai i fatti non interessano più nessuno: sono solo il punto di partenza per il ragionamento e la fantasia.
Piero Vassallo
Il volume di Sergio Romano edito da Rizzoli, Giovanni Gentile un filosofo al potere negli anni del regime (2004), si presenta al lettore, non tanto come la biografia del grande filosofo dell’attualismo, ma piuttosto come uno studio parallelo e incrociato di due personalità complementari, fondamentali per la storia del pensiero italiano: Giovanni Gentile, appunto, e il suo mentore, maestro, amico, collaboratore, infine rivale, Benedetto Croce. L’autore mette, dunque, in rilievo che, quantunque la politica abbia fatto di questi due uomini due avversari, in realtà non si può parlare dell’uno senza parlare dell’altro. Si influenzarono vicendevolmente e, pur nella diversità delle loro posizioni, maturarono insieme il proprio pensiero filosofico: "Predicavano la tolleranza – scrive Romano – quando gli attacchi di cui erano bersaglio concernevano l’altro; ma ciascuno di essi cedeva rapidamente al gusto di fare polemica quando era personalmente coinvolto. Croce era più sottile ed elegante, Gentile più duro e tagliente; ma l’uno e l’altro erano dominati dallo stesso puntiglioso desiderio di vincere ogni battaglia. E avevano in comune lo stesso grande disegno; quello di dominare la vita intellettuale italiana". (p. 143) In ciò furono ambedue accontentati dal destino, poiché se Croce dominò la cultura italiana del primo e del secondo dopoguerra, Gentile ne fu l’indiscusso arbitro durante gli anni del regime, per passare poi ad un completo quanto immeritato oblio da cui solo adesso si tenta di farlo riemergere, riconoscendo, dopo che il tempo ha domato le passioni politiche, la sua non comune statura intellettuale, nonché la sua profonda umanità.
Ciò che più ci sorprende di questa biografia, puntualmente documentata, è lo sforzo di non scindere mai il filosofo dal politico e dall’uomo. Tramite le lettere, i discorsi, gli scritti del grande siciliano, Romano riesce a cogliere tutti i lati del suo carattere, da quelli più facilmente percepibili, a quelli reconditi e marginali. Mette così in risalto gli aspetti di quella sicilianità che mai l’abbandonò, fatta di slanci e di ritrosie, di passionalità e ombrosità, di entusiasmi e depressioni, di festosità e silenzi, in cui predominava il senso dell’amicizia e della lealtà e una testardaggine mascherata troppo spesso da coerenza. Soprattutto la sua sicilianità si rispecchia nel senso della famiglia, fortissimo in lui fino alla morte; una famiglia alla maniera della gens romana, non limitata essenzialmente da vincoli di sangue e di affinità, ma allargata agli amici, ai collaboratori, agli studenti, in un groviglio di sentimenti in cui i rapporti di lavoro diventavano anche rapporti di amicizia e affetto.
Giovanissimo dovette adattarsi ai compromessi pur di guadagnare quella cattedra universitaria di cui era indubbiamente degno, ma che le consorterie, esistenti allora come ora, gli negavano, preferendogli personaggi mediocri e di gran lunga inferiori a lui per preparazione ed ingegno. Proprio da quell’ambiente in cui dovette combattere una vera guerra per il riconoscimento dei suoi meriti, imparò che le leggi del potere s’imponevano anche al di fuori della sua Isola, tristemente famosa già allora per il prevalere della prepotenza mafiosa, e comprese "il valore positivo delle amicizie e quello meno positivo delle consorterie" (p. 304).
Approdato, nel 1893, dalla natia Castelvetrano alla Scuola Normale Superiore di Pisa – che proprio lui, negli anni del potere, avrebbe reso la più prestigiosa università italiana – vi trovò un ambiente fortemente positivista da cui, tuttavia, nonostante l’affetto e la stima per i suoi maestri, - Villari, D’Ancona, Jaja, ecc. - non si lasciò influenzare. A Pisa si notava già l’inizio della crisi del pensiero positivista e il graduale emergere delle teorie hegeliane o cattoliche; in ambedue i casi il futuro era visto o come Progresso o come Provvidenza Divina, con la conseguenza che la Verità continuava ad essere al di fuori dell’uomo e al termine della Storia.
Il giovane Gentile, però, non poteva accettare una verità esterna all’uomo, né una società governata da leggi naturali che non tenesse conto del pensiero individuale. Dimostrò da subito il suo dissenso al pensiero dominante in una recensione di un articolo di Croce che sosteneva che la storia poteva ridursi al concetto d’arte. Pur in disaccordo con il filosofo napoletano, il giovane studente della Normale aveva, tuttavia, compreso che in tal modo si spazzava via la storiografia positivista, facendo sì che lo storico cercasse gli avvenimenti oggetto della sua indagine, non fuori, ma dentro di sé. Gentile aveva intuito che Croce si stava fatalmente allontanando dal marxismo di cui rifiutava soprattutto il determinismo e che, abbracciando il volontarismo, si sarebbe ben presto riportato sulla strada dell’idealismo hegeliano, ma egli si era già spinto oltre affermando che i fatti "sono tali per noi in quanto si rappresentano nello spirito; e in tanto se ne può discorrere e filosofare, in quanto sono già stati appresi ed elaborati dallo spirito stesso". Avrebbe trovato sostegno ai suoi concetti, base del lancio del neo idealismo, nella corrente cattolica modernista e soprattutto nel suo caposcuola Blondel che, pubblicando nel 1893 il suo famoso libro L’action, dando grande rilievo all’idealismo assoluto, si poneva sulla stessa scia di Gentile. Blondel, e un altro modernista francese, l’abate Laberthonnier sostenevano che la verità doveva essere vissuta e creata dall’individuo nella sua intimità. Come Gentile, dunque ritenevano che la filosofia non fosse pura speculazione, ma anche azione.
Il rapporto tra Gentile e Croce, era già cominciato, seppure sotto forma epistolare, nel 1896 quando lo studente siciliano inviò al già famoso filosofo un suo saggio pubblicato dagli Annali della Normale e ricevette inusuali congratulazioni insieme all’omaggio dell’ultima pubblicazione dell’illustre studioso. Da quel momento la corrispondenza fra i due, arricchitasi poi di frequenti incontri e di una profonda ed affettuosa amicizia, non s’interruppe più, almeno sino al finire degli anni venti.
Il dibattito filosofico diventava, di giorno in giorno, per lo studente della Normale, una vera e propria ragione di vita che, a volte, lo rendeva aspro nei giudizi verso coloro che la pensavano in maniera diversa. Si rendeva conto della stima che incontrava nei suoi maestri che, seppure fosse da poco laureato, gli sottoponevano già importanti saggi filosofici perché li recensisse e in tali incarichi egli rivelò "una certa durezza intellettuale che sorprendeva i suoi interlocutori perché sembrava essere in contraddizione con l’intensità affettiva di cui dava prova verso i familiari, i maestri e gli amici […] La consapevolezza dei suoi meriti, una certa ombrosità isolana, la convinzione al tempo stesso egoistica e vittimistica che ogni ostacolo nascondesse un complotto contro la sua persona, lo rendevano smodatamente aggressivo e tenace là dove un altro si sarebbe comportato con maggiore misura e prudenza" (pp. 48 e 63).
Il suo pensiero maturò ulteriormente nell’esilio di Campobasso, nel cui Liceo era stato inviato dal Ministero, dopo aver invano brigato con il suo maestro Jaja, a cui era legato da un rapporto filiale, per conseguire una cattedra universitaria. In quel periodo egli amaramente sperimenta sulla sua pelle le conseguenze di una politica clientelare che, anche nel campo della cultura, premette le esigenze del potere e del voto di scambio a quelle del progresso della scuola e dell’università italiana. Anch’egli dovette piegarsi a compromessi che cozzavano con la sua dirittura morale e con i fondamenti stessi del suo sistema filosofico: "Ma v’era in Gentile fin d’allora - scrive Romano - e diverrà sempre più evidente con il passare degli anni, una candida dissociazione tra comportamenti pubblici e privati, fra i grandi principi a cui ispirò alcune fra le scelte più importanti della sua vita e la tenace incoerenza con cui difese familiari e famigli, colleghi e discepoli per il fatto di essere "suoi"" (p. 97) Probabilmente da questa amara esperienza nacque la sua profonda fede nello Stato etico, educatore, cioè, di un popolo che implicitamente egli non riteneva ancora maturo per la democrazia, visto che la politica non veniva intesa né dalle masse, né dalla classe dirigente, come un servizio, bensì esclusivamente come strumento di potere. Fu probabilmente la degenerazione del potere di cui si era sentito vittima a far sì che una volta entrato con il fascismo nel ristretto cerchio di coloro che gestivano la scuola e la cultura del Paese, volle dare assoluta prevalenza ai valori dell’intelligenza e della preparazione, rispetto all’appartenenza politica e ciò lo portò a reclutate nell’edificazione del più grande monumento della cultura nazionale, l’Enciclopedia Treccani, i migliori in ogni campo dello scibile umano, non considerando rilevante che fra di essi ci fosse un alto numero di oppositori del regime .
In questi stessi anni si intensificarono i rapporti, ormai non solo epistolari, con Benedetto Croce, che era diventato il suo principale interlocutore, ma anche un indispensabile confidente ed amico. L’amicizia con Croce diveniva ogni giorno di più un punto fermo e irrinunciabile nella vita del siciliano; i due erano veramente complementari, poiché se Croce era più pronto a cogliere l’attualità di un problema, Gentile con la sua preparazione, riusciva ad approfondirlo filosoficamente. Nasceva così il binomio culturale destinato a dominare la cultura italiana per un quarto di secolo, che avrebbe peraltro partorito, nel 1903 la più importante rivista filosofica nazionale, La Critica.
Già nel 1899 in una lettera al filosofo napoletano rivelava di aver individuato i principi basilari del suo futuro sistema filosofico, elaborando i concetti di filosofia come autocoscienza della nazione e di filosofia come storia. Egli affermava, dunque, l’immanenza dello spirito nella storia, gettando le basi di quello storicismo puro a cui anche Croce sarebbe pervenuto seppure per altre vie.
Da tale enunciazione scaturisce naturalmente la necessità, fortemente propugnata dal siciliano, dell’insegnamento della filosofia nelle scuole medie superiori come mezzo indispensabile per l’educazione delle giovani menti, proprio nel periodo della loro evoluzione. Gettava così le basi per quella sua riforma della scuola che fu l’impegno principale della sua esistenza e del suo lavoro; una scuola sana che diffondesse la cultura educando in tal senso i giovani, era il fondamento per uno Stato sano ed efficiente e questa sua fede nel ruolo primario dell’educazione all’interno dello Stato e della società, fece si che egli apparisse più un pedagogo che un filosofo e che si lanciasse nel mondo della politica soprattutto per fare "politica della cultura" (p. 99).
Questo suo concetto pedagogico lo portava a diffidare della libertà d’insegnamento che avrebbe potuto sconfinare in anarchia; la scuola doveva insegnare la verità, ma solo la scuola di stato poteva adempiere tale gravoso compito, una scuola i cui programmi fossero uguali in tutto il territorio nazionale, una scuola che provvedesse alla più completa evoluzione dello spirito dei giovani studenti attraverso l’insegnamento della lingua (italiana, latina e greca), come forma storica dello spirito, della storia come vita dello spirito nel tempo, della matematica che educa all’analisi, delle scienze che educano alla sintesi e infine della filosofia che educa lo spirito all’autocoscienza e all’autoriflessione.
Allo Stato viene dunque affidato, dal filosofo dell’attualismo, un compito arduo: farsi educatore delle giovani leve senza sbagliare. E se lo Stato si dimostra incapace di svolgere tale compito deve essere riformato in modo da raggiungere la piena eticità nella sua missione. Allo Stato etico educatore della gioventù, si affianca il concetto di "dittatura della filosofia", nel senso di prevalenza della stessa, per la sua funzione pedagogica e formatrice dello spirito, su tutte le altre materie d’insegnamento. E’ questo un vero e proprio capovolgimento della scuola positivista a cui Gentile contrappone una scuola elitaria e aristocratica e fortemente gerarchica, in cui prevalgono i valori dello spirito, rappresentati dallo scienziato e dal politico, ambedue educatori, secondo la visione gentiliana, sui valori tecnici del capitale e del lavoro. Solo negli ultimi anni della sua vita Gentile riconoscerà il ruolo educativo del lavoro, l’umanesimo insito nell’attività materiale.
La forte valenza data da Gentile alla scuola e all’educazione statale scaturisce dalla convinzione che non può esservi Stato senza classe dirigente valida, efficacemente preparata, culturalmente ed eticamente educata a preporre gli interessi nazionali a quelli personali. Probabilmente nell’affermare ciò era spinto dalla consapevolezza che nella sua Sicilia era stata proprio la mancanza di una vera classe dirigente a decretarne l’arretratezza e l’immobilismo culturale ed economico.
La gestione della scuola, perciò, era qualcosa di troppo importante per lo sviluppo della collettività perché lo Stato potesse delegarla ad altri organi, come per esempio i comuni, che non sentissero il peso di tale responsabilità e che non avessero il senso dell’unitarietà della cultura nazionale. Il suo ragionamento, in fin dei conti si basava su un circolo vizioso: se lo Stato è l’assoluto educatore delle giovani menti, nel completo rispetto della libertà individuale che, tuttavia, non può dar vita ad una morale contrastante con quella nazionale, perché la verità è unica ed è da ricercare dentro l’individuo, ha altresì bisogno di formare la futura classe dirigente che dovrà successivamente adempiere al gravoso compito. Lo Stato, insomma, attraverso la scuola riesce a dare continuità a se stesso.
Nel 1903 Gentile, dopo aver conseguito la libera docenza, otteneva un incarico all’Università di Napoli, dando inizio al suo corso di lezioni con una prolusione destinata a fare la storia della filosofia: La rinascita dell’idealismo. Fu proprio durante quel corso di lezioni che iniziò la sua battaglia pro e contro la religione. Egli era a favore della religione quando essa esprimeva l’unità spirituale che era anche unità di tutti gli italiani sotto il credo cattolico; contro, quando la religione pretendeva di monopolizzare ogni aspetto della verità, sostituendosi alla filosofia nella coscienza degli uomini.
Quando nel 1906 vinse il concorso per la cattedra di Storia della filosofia a Palermo, venne a contatto in maniera più diretta con la politica spiccia da cui si era tenuto filosoficamente lontano e distaccato fino a quel momento. Non che gli mancasse una sua visione personale dello Stato che non doveva essere lo stato liberale, democratico, fornitore di servizi ed eminente e distaccato notaio nell’accertamento dei movimenti e sommovimenti sociali; il suo Stato ideale era lo stato etico hegeliano, fondamentalmente educatore piuttosto che imprenditore o notaio.
Palermo culturalmente non soddisfaceva il filosofo abituato al largo respiro della vita intellettuale napoletana. L’unico centro culturale del capoluogo isolano che lo soddisfacesse era il circolo di Giuseppe Amato Pojero, punto di riferimento anche per gli studiosi e gli intellettuali di passaggio, dove era possibile dibattere animatamente di filosofia, con uno sguardo proteso anche agli orizzonti culturali europei. Pojero era un aristocratico palermitano dai mille interessi; aveva studiato fisica, matematica, ma anche giurisprudenza e medicina. Prediligeva, tuttavia, la filosofia e solo concentrandosi nella speculazione intellettuale e tuffandosi nel dibattito, dimenticava le sue nevrosi e le preoccupazioni economiche derivanti dalla decadenza del patrimonio familiare. Grazie all’aiuto di Gentile costituì nella sua grande villa in semidisfacimento un salotto letterario, divenuto poi "Società per gli studi filosofici" e una biblioteca filosofica che, grazie alla pubblicazione di un Bollettino e all’organizzazione di importanti conferenze ed eventi culturali, sarebbe diventata il centro pulsante della cultura palermitana e isolana, da cui sarebbe partito quel processo di affrancamento della stessa che il Gentile definì con un’espressione spesso malcompresa: "tramonto della cultura siciliana". (G. Gentile Il tramonto della cultura siciliana, Sansoni 1963).
Nel periodo in cui approdò all’Università palermitana l’argomento di cui tutti parlavano era il processo Nasi da cui era scaturito un movimento popolare a favore dell’accusato che si configurava, alla fine, in un becero sicilianismo davanti a cui Gentile arretrava indignato. Alle scomposte e irrazionali manifestazioni pro-Nasi, tendenti ad una cultura di tipo separatistico Gentile, insieme agli amici della Biblioteca Pojero, mirava a contrapporre un’esaltazione della "sicilianità", intesa come conservazione di una cultura secolare italiana che mirava ad uscire dal "sequestro" dalla cultura nazionale ed europea, per secoli subito, data l’emarginazione politica e geografica dell’Isola e l’impreparazione della classe dominante locale, per entrare di diritto nell’ambito culturale nazionale, seppur con apporti peculiari, ma non antinomici e comunque concorrenti alla formazione di un forte spirito di italianità anche in ambito intellettuale e spirituale. Come filosofo dell’attualismo, come sostenitore della sovrapponibilità dello spirito all’azione, Gentile non poteva concepire uno stato-nazione che non si basasse innanzitutto sull’unità culturale. Per "tramonto", dunque, il filosofo neoidealista non intendeva l’agonia della cultura siciliana, bensì il suo aprirsi all’integrazione nella cultura nazionale, dando vita ad una sua progressiva evoluzione attraverso "gli echi siciliani di un novecentismo attivistico" e il "recupero della "mediterraneità" sollecitato, peraltro, dalla nuova borghesia imprenditoriale in ascesa . (G.Tricoli, Introduzione a Palermo felicissima, Palermo 1992).
A Palermo Gentile conobbe un giovane professore catanese, Giuseppe Lombardo Radice, appartenente ad una famiglia che si era distinta nella storia siciliana degli ultimi anni. Anch’egli si era laureato alla Normale di Pisa con Jaja e coltivava soprattutto interessi di tipo pedagogico che solleticavano moltissimo la curiosità di Gentile. Nacque un’amicizia, destinata a rompersi nel ’23 per motivi politici, ma anche un sodalizio intellettuale il cui frutto fu una rivista, Nuovi Doveri che era destinata ad assumere in campo pedagogico il ruolo e il peso che La Critica aveva già in campo filosofico.
Fu nel periodo palermitano che il filosofo s’impegnò sempre di più in campo pedagogico, non solo con la fondazione di una rivista che non era altro che la proiezione del suo idealismo in campo educativo, ma anche prendendo una netta posizione politica sulla questione della scuola statale e laica. Il rapporto tra scuola e religione fu da lui affrontato per la prima volta al VI Congresso Nazionale della Federazione Insegnanti delle scuole medie. Il tema della laicità della scuola veniva affrontato in quel periodo in maniera molto radicale, poiché la maggior parte del corpo insegnante delle scuole pubbliche era vicina al pensiero massonico o socialista e, comunque, fortemente anticlericale. L’intervento di Gentile portò una ventata di novità, poiché egli, pur affermando la laicità della scuola come un punto irrinunciabile di uno stato moderno, distingueva la laicità passiva propria della pedagogia positivista, una laicità insomma che mirava all’agnosticismo, dalla laicità attiva che consisteva nel tenere fuori la Chiesa dalla scuola, senza però rinunziare, da parte dello stato etico ed educatore alla maniera hegeliana, all’insegnamento di quei valori morali e spirituali che costituiscono la sostanza della religione. Lo Stato non avrebbe potuto ammettere il monopolio della Chiesa nell’insegnamento spirituale, non perché irreligioso, ma perché non poteva delegare ad altra istituzione la funzione dell’insegnamento che gli è propria. Questo spiega perfettamente la sua mai superata opposizione al Concordato del 1929 che ridava alla Chiesa il monopolio dell’insegnamento religioso nelle scuole statali.
Gentile contrapponeva all’insegnamento scientifico, ma frammentario della scuola positivista, "una scuola capace di ricostruire il mondo nella sua interezza e di ridare all’uomo il senso dell’unità spirituale. E poiché questa funzione può essere svolta solo dalla religione e dalla filosofia, auspicava una scuola "laica" in cui la filosofia occupasse tutto lo spazio che era appartenuto in passato alla religione" (p. 157). Tuttavia, nelle scuole elementari dove non era possibile insegnare la filosofia, per assicurare l’unità spirituale dell’insegnamento era necessario continuare ad insegnare religione. All’equazione tra pedagogia e filosofia, visto che l’educazione non può che essere insegnamento della filosofia, aggiungeva ora l’equazione tra religione e filosofia, poiché ambedue rispondevano ai bisogni dello spirito umano in momenti temporali diversi e poiché la prima doveva sostituire la seconda quando questa non potesse entrare, come appunto nella scuola elementare. La filosofia, dunque, rimaneva la regina dell’educazione, ma Gentile ammetteva per la prima volta, dopo il Risorgimento e dopo lo strappo tra Stato e Chiesa, la necessità dell’insegnamento religioso in sostituzione di quello filosofico per i più piccoli, perché senza di esso si sarebbe ignorato il fondamentale aspetto spirituale nell’educazione del bambino.
Ma se lo Stato non può non essere religioso, non può prescindere dalla religione propria del suo popolo, poiché in caso contrario perderebbe di fronte al popolo stesso ogni autorità e valore. In tal modo Gentile riconosceva che la religione cattolica era la forma storica della coscienza religiosa e popolare in Italia. Era questa un’asserzione che sconvolse gli ambienti anticlericali italiani che si identificavano con la cultura risorgimentale e che ad essa contrapponevano il cattolicesimo, come nemico primo del processo spirituale e politico che aveva portato all’unità nazionale. Gentile sottolineava, tuttavia, che se nel Risorgimento si contavano molti protagonisti laici ed anticlericali, come Cattaneo o Crispi, anche cattolici convinti come Gioberti, Rosmini e Manzoni avevano avuto un ruolo fondamentale in quel momento della storia italiana. D’altronde l’anima del Risorgimento non era stato forse Mazzini che pur non essendo cattolico era intimamente pervaso di religiosità cristiana? E non era il Risorgimento diretta filiazione del movimento romantico, sorto per affermare la religiosità e il sentimento dopo il razionalismo e l’ateismo propri del periodo illuminista? Nel 1907, dunque, in occasione di quel Congresso Nazionale, Gentile enunciava ufficialmente il suo sistema pedagogico che il fascismo, nei primi anni della sua ascesa al potere, gli avrebbe consentito di applicare quasi integralmente, attraverso la più completa ed organica riforma scolastica della storia dello Stato italiano.
A Palermo, intanto, aveva creato una sua scuola con Fazio-Allmayer e Adolfo Omodeo, innanzi tutto, ma aveva valorizzato altri giovani studenti come Maggiore e De Ruggiero con i quali aveva instaurato un rapporto che andava la di là dell’ambito meramente accademico e professionale. A differenza di Croce seguiva i suoi giovani allievi anche nella loro vita privata e s’imponeva come loro mentore per la futura carriera, consapevole, per averlo vissuto sulla sua pelle, di quanto fosse difficile per un giovane intellettuale proveniente dalla provincia, imporsi accademicamente.
Continuava, frattanto, lo scambio epistolare con Croce con cui, tuttavia, cominciavano ad evidenziarsi le contrapposizioni di pensiero. Il primo attrito fu causato da un’enunciazione del siciliano che sottolineava come egli non scorgesse alcuna distinzione tra l’artista nell’atto di creare e il filosofo nell’atto di pensare. Peraltro lo stesso Croce nel passato si era espresso in termini simili sostenendo che non ci fosse differenza tra attività e giudizio nel campo dell’estetica. Ma se il filosofo di Castelvetrano tendeva a ridurre le distinzioni all’interno di un medesimo atto, Croce ribadiva la necessità di distinguere tra arte e critica, tra filosofia e storia della filosofia, tra economia ed etica.
Pur rimandando il chiarimento delle loro divergenze e cercando momentaneamente di appianarle, i due amici si allontanavano inevitabilmente assumendo l’uno il ruolo del filosofo dell’atto puro e l’altro quello del filosofo dei distinti.
Il duello tra i due amici, ormai separati da steccati ideologici sempre più alti, iniziò, il 13 novembre del 1913, con la pubblicazione da parte di Croce, su La Voce di Prezzolini, di una lettera aperta a Gentile e alla scuola palermitana in cui confutava apertamente l’idealismo attuale e contestava l’implicito tentativo di Gentile di fare del suo sistema filosofico il detentore della verità assoluta, respingendo tutti gli altri sistemi che fondandosi sulle distinzioni, erano ai suoi occhi astratti ed arbitrari. L’articolo si concludeva con un giudizio che a Gentile parve più pungente del dovuto. Grazie ad allievi e ad amici comuni, soprattutto De Ruggiero e Nicolini, la polemica che andava assumendo toni sempre più aspri, si stemperò nel desiderio comune di mantenere in vita la ventennale amicizia e il formidabile sodalizio intellettuale. Ma qualcosa si era inevitabilmente spezzato.
Quando scoppiò la guerra in Europa Gentile prese immediatamente posizione e nell’ottica del suo attualismo esente da distinzioni, non la contrappose al pacifismo che considerava un’invenzione antistorica del periodo illuminista, ma la definì, in termini hegeliani "l’universale concreto", davanti al quale il filosofo non poteva restare neutrale. Perciò affermò che da quel momento in poi la guerra dovesse essere per gli italiani, l’atto assoluto e il loro unico interesse.
Anche Croce si espresse sulla totalità spirituale della guerra in un articolo del dicembre 1914, ma tale definizione in lui suonava come ammonimento, mentre in Gentile aveva assunto la parvenza di esortazione; da ciò scaturì una posizione fortemente neutralista di Croce e la convinzione in Gentile che la guerra fosse per l’Italia un obbligo morale, oltre che politico, quasi un esame nazionale per accertare lo stato di maturità dell’apparato istituzionale e del popolo. Iniziava una nuova fase per il filosofo: quella dell’impegno politico che concretamente si manifestò in tutta la sua ampia portata nel libro pubblicato nel 1920 Dopo la vittoria, una raccolta di tutti i suoli articoli di attualità e di impegno politico pubblicati nei mesi precedenti soprattutto per sostenere la guerra come impegno popolare e nazionale. In tali scritti egli auspicava, per il dopoguerra, l’avvento di un uomo nuovo e di un nuovo periodo di grandi trasformazioni sociali volute dalle varie classi sociali nell’ambito di uno Stato forte ed etico. Si avvicinava molto alle parole che dalle pagine di Utopia e da Il Popolo d’Italia, il socialista eretico Mussolini, già espulso dal Partito, diffondeva alla gioventù insoddisfatta e cosciente dell’inadeguatezza del sistema liberale per uno Stato-Nazione ormai in fase di risveglio, in cui le masse venivano sempre più coinvolte nel sistema. Spiegava il suo ormai attivo impegno politico in senso antigiolittiano, sostenendo che essendo la filosofia creazione della realtà storica nell’unico contesto in cui ciò possa essere possibile, cioè nell’ambito dello Stato etico, politica e filosofia risultano essere la stessa cosa e il filosofo non può non essere un politico. Ogni sistema politico, infatti, aveva avuto alla sua base l’elaborazione di un pensiero filosofico; se Marx era stato la base filosofica del marxismo, Vico aveva ispirato il riformismo illuminato di Tanucci e Gioberti il liberalismo cavouriano. In queste considerazioni erano già racchiuse le premesse di un rapporto ancora nemmeno concepito, quello cioè tra Gentile e Mussolini, che avrebbe dato al primo il ruolo di filosofo del regime. Dunque - come scrive Marcello Pera- "l’attualismo di Gentile è fascismo virtuale prima dell’avvento del fascismo reale" (Introduzione a Alfredo Rocco Discorsi parlamentari a cura di G. Vassalli, ed Il Mulino, 2005).
I mali dell’Italia, secondo il filosofo siciliano, derivavano dalla concezione comune di una netta separazione tra mondo e spirito, cioè tra pensiero ed azione. A tale dissociazione tutta italiana tra pensiero e realtà circostante Gentile, contrapponeva l’insegnamento proveniente dal materialismo marxista tutto fondato sulla lotta di classe, cioè sullo sforzo degli emarginati e dei sottomessi di rivoluzionare il sistema sociale esistente. Ciò significa che Gentile non negava gli aspetti positivi del pensiero marxista, primo fra tutti la concezione dinamica della storia e il ruolo che in essa assumeva la forza, intesa alla maniera soreliana come violenza; ne respingeva, però, la logica della lotta di classe, nonché "la concezione utilitaria, materialistica, e quindi egoistica della vita, intesa come campo di diritti da rivendicare" (p. 267) Se si voleva combattere il marxismo bisognava contrapporre ad esso un’altra filosofia realistica anch’essa, anzi ancora più realistica. Il filosofo, pone come necessaria l’eliminazione della concezione, fino ad allora dominante, di uno Stato neutrale soggetto ad essere sgretolato da dottrine individualiste, Stato questo che si identificava perfettamente con il giolittismo, incapace di incanalare in un’unica direzione tutte le forze morali della Nazione. Era proprio quel tipo di liberalismo, il giolittismo appunto, la bestia da combattere più ancora che il marxismo con cui invece esistevano molteplici punti in comuni, soprattutto il concetto di rivoluzione o rinnovamento. Per il superamento del giolittismo occorreva l’opera di uno Stato o di un partito egemone su tutti gli altri, che proponesse una politica fondata su una severa educazione nazionale che formasse omogeneamente la gioventù, base essenziale per l’edificazione di un ordine nuovo.
Il pensatore siciliano maturava una sua idea di riforma scolastica fin dal 1913 quando aveva pubblicato il suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica; al di là dell’impalcatura esterna fatta di esami, interrogazioni, manuali e libri di testo, la missione dell’insegnante avrebbe dovuto essere quella di provocare l’allievo avviando un dialogo costruttivo che sarebbe potuto avvenire solo sulla base di un insegnamento filosofico inteso come "vita del pensiero nella storia e la sua inesauribile capacità di svilupparsi verso forme sempre più elevate di autocoscienza" (p. 237)
Il sistema liberale esistente non avrebbe mai concesso la rivoluzione del sistema scolastico a cui Gentile aspirava; ecco perché il filosofo cominciò a cercare chi potesse abbracciare e realizzare le sue idee, perché convinto che l’Italia del dopoguerra avrebbe dovuto inaugurare un ordine nuovo in ogni settore ed in primis, in quello scolastico e capì, quando vide fallire i tentativi di riforma scolastica dei suoi amici Croce ed Anile, che le singole persone, anche se amici, non avrebbero fatto al caso suo, senza il supporto di un partito che si ponesse su posizioni rivoluzionarie.
Le divergenze tra Gentile e Croce si approfondirono nel breve tempo in cui quest’ultimo fu ministro della P.I. dedicandosi, su sollecitazione dell’amico, ad una mini riforma che prevedesse l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari e dell’esame di stato. Tali punti erano graditi sia a Gentile che ai popolari di Sturzo. Ma l’esame di stato aveva un significato diverso per Croce, per i popolari e per Gentile. Per il primo era un modo per ridurre l’intervento dei poteri pubblici nell’educazione, per i cattolici era un mezzo per riconoscere implicitamente la parificazione delle scuole cattoliche a quelle pubbliche, per l’ultimo, infine, era la consacrazione del ruolo educatore dello Stato etico. Se Croce, dunque, fedele al suo credo liberale e liberista, mirava a rendere la scuola sempre più indipendente dallo Stato, Gentile voleva una scuola che fosse espressione del ruolo fondamentale dello Stato etico nell’educazione delle giovani generazioni. Anche l’insegnamento religioso nelle scuole elementari era visto sotto una luce differente dai due amici. Per Croce era il delegare l’insegnamento della religione agli ecclesiastici all’interno della scuola quando i genitori lo richiedessero, per Gentile era una preparazione al futuro insegnamento della filosofia.
Dunque Gentile divenne fascista, soprattutto perché vedeva in Mussolini l’artefice di un nuovo corso, l’unico uomo politico capace di ripudiare il passato ed accettare la sua riforma scolastica che tanto si diversificava dalla tradizione pedagogica italiana.
Perciò accettò con entusiasmo nel 1922 l’incarico al ministero della Pubblica Istruzione e volle accanto a sé l’allievo e l’amico di sempre quel Lombardo Radice che accettò di assistere il suo maestro nel difficile incarico, non tralasciando, tuttavia, di dichiarare pubblicamente di non essere fascista. La riforma si imperniava, dopo il quinquennale ciclo elementare e dopo il triennio di scuola media in cui veniva introdotto lo studio del latino, su una scuola professionale di tre anni, per chi avesse voluto imparare un mestiere, su una scuola tecnica di quattro anni, per gli impiegati, i commercianti e i tecnici, scuola a cui avrebbe potuto seguire un istituto tecnico; un istituto magistrale di quattro anni per formare i futuri educatori che avrebbero potuto completare i loro studi alla Facoltà di Magistero; un liceo scientifico che aveva un ruolo di ponte tra le classi degli artigiani e degli impiegati e quelle con funzioni direttive e da cui si poteva accedere solo ad alcune facoltà universitarie tecniche. Tutta la scuola, tuttavia, si imperniava sul liceo classico triennale, preceduto da un ginnasio biennale, liceo fondato sullo studio delle materie umanistiche ed unica scuola da cui si poteva accedere a qualunque facoltà universitaria. Era il liceo classico una scuola d’elite, ma anche una scuola nazionale che avrebbe dovuto licenziare con criteri educativi e didattici ispirati all’unità dei valori, la futura classe dirigente italiana.
La scuola nata dalla riforma, tuttavia, era destinata a scontentare tutti: il laici perché la consideravano troppo accondiscendente nei confronti della Chiesa; i cattolici perché vi vedevano un’eccessiva ingerenza dello Stato e, infine, i progressisti perché la ritenevano conservatrice ed elitaria. Tutto ciò rese tentennante lo stesso Mussolini a cui non andava di inimicarsi gran parte dell’ambiente scolastico e mise in pericolo la permanenza di Gentile al Ministero. Il filosofo, pur dimostrando davanti ai suoi allievi ottimismo sul suo futuro e sulla sorte della riforma, sentiva in effetti mancargli il terreno sotto i piedi e ancora una volta, quindi, prima di presentarsi a Mussolini per chiedere un chiarimento, sollecitò l’aiuto dell’amico Croce, magari anche attraverso un semplice articolo giornalistico perché sostenesse la "sua" riforma di fronte all’opinione pubblica italiana . L’articolo richiesto fu pubblicato sul Giornale d’Italia del 3 novembre 1923 e, in seguito, Croce si sarebbe vantato di aver fatto cambiare idea con quello allo stesso Mussolini che da quel momento in poi appoggiò pubblicamente la riforma scolastica, definendola "la più fascista di quelle finora approvate" (p. 258).
Paradossalmente il filosofo che con la sua riforma scolastica aveva particolarmente favorito la Chiesa con l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari e medie e con la maggiore valorizzazione delle scuole private, per lo più cattoliche, non era gradito alle autorità ecclesiastiche e in particolar modo a Pio XI che non volle riceverlo, alla fine del 1929, quand’egli, insieme a Treccani si offrì di presentare personalmente al Pontefice il primo volume della "sua" Enciclopedia. Al Vaticano infatti, non era sfuggito che gli aspetti favorevoli alla Chiesa della riforma gentiliana, non erano la conseguenza del suo cattolicesimo. La religione di Gentile era, infatti, una religione più vicina alla spiritualismo mazziniano che all’insegnamento dogmatico della Chiesa e il suo favorire l’insegnamento religioso nelle scuole primarie era soltanto un presupposto propedeutico per l’insegnamento della filosofia in quelle secondarie, per cui era funzionale allo sviluppo della spiritualità nei giovani discenti e non certo una sorta di catechismo come invece la Chiesa avrebbe preteso che fosse. A conferma di ciò sta la sua netta e irriducibile avversione per il Concordato del 1929 in cui vedeva una concreta minaccia di "vaticanizzazione" del fascismo con il conseguente annullamento del suo programma totalitario che doveva essere proprio dello Stato etico in cui Gentile profondamente credeva. Tuttavia, siccome anche per il più eminente dei filosofi risulta difficile far quadrare il cerchio, l’applicazione delle sue teorie alla realtà, cosa che avrebbe dovuto attuarsi con la sua riforma della scuola, mise in risalto una profonda contraddizione. La nuova legge infatti, dava ampio spazio all’insegnamento privato e alle libere università, fra cui la più importante era senz’altro l’Università Cattolica del Sacro Cuore; anche se l’intento del legislatore era quello di sgravare lo Stato di alcune incombenze nel campo dell’istruzione pubblica e di favorire la profonda cultura del clero, soffocata, dall’unità d’Italia in poi dal prevalere di una classe dirigente assolutamente anticlericale se non addirittura massone, il risultato finale era, tuttavia, quello di ergere la Chiesa a diretta concorrente dello Stato nel campo dell’educazione giovanile. In tal modo lo Stato finiva per autolimitarsi proprio nella sua funzione etica in cui Gentile soprattutto credeva. Ciò comportò per il filosofo siciliano una grande delusione che sicuramente lo portò a meditare di allontanarsi dal fascismo.
Ma l’avvenimento che più mise alla prova la sua fede nel fascismo fu, senz’altro, l’assassinio Matteotti. Dopo quattro giorni dal ritrovamento del cadavere dell’esponente socialista, Gentile, insieme a Federzoni a De Stefani e ad Oviglio, presentò a Mussolini le sue dimissioni motivandole con il desiderio di lasciare il duce, in quel critico momento, assolutamente libero nella sua azione pacificatrice. Non si può non definire quest’atto una forma di fuga dalla barca che stava affondando, tuttavia fu proprio da questo momento che iniziò veramente il sodalizio tra il filosofo e il duce del fascismo, sodalizio che avrebbe segnato fino alla fine la vita e l’attività intellettuale del primo.
Se si è detto che Gentile abbracciò il fascismo per dare una base politica alla sua riforma, bisogna chiedersi perché vi rimase fedele anche dopo la crisi Matteotti e malgrado le sue dimissioni. Si potrebbe pensare che lo fece per difendere la sua riforma, per evitare che qualcuno potesse stravolgerla, o per convenienza, per monopolizzare il potere culturale all’interno di un regime che si accingeva a divenire totalitario e che gli permetteva di essere il super visore della cultura nazionale- gli oppositori parlavano di satrapia gentiliana - e di applicare dunque le sue teorie alla realtà quotidiana, nonché di diffondere il suo idealismo senza concorrenze scomode.
Sono accettabili ambedue le ipotesi, ma bisogna, pur tuttavia, domandarsi se alla base della sua scelta politica potevano esserci motivi ideali, cioè, quale era veramente la posizione politica di Gentile? Nel corso di una polemica giornalistica con il vecchio amico Missiroli gli contestò una concezione del liberalismo che egli riteneva invece superata e sbagliata. Egli, infatti, non intendeva la libertà come il diritto del singolo di difendere i suoi interessi contro il potere e le ingerenze dello Stato, - ciò avrebbe portato ad una visione egoistica della società umana - ma intendeva la libertà come Stato e lo Stato come libertà. Infatti non concepiva l’individuo come esterno allo Stato o lo Stato come entità astratta ad esso contrapposta; l’individuo per Gentile trovava la sua realizzazione unicamente all’interno dello Stato e in esso trovava la sua libertà. Negava, inoltre, di essere socialista, poiché lo Stato non può essere al servizio di una sola determinata classe sociale, esso è un tutt’uno con gli individui che compongono la comunità nazionale. In tale Stato etico di evidente derivazione hegeliana il cittadino era libero perché partecipe di quella superiore libertà che coincideva con la volontà dello Stato.
Era questo un concetto assolutamente fascista, imperniato non solo sulla concezione dello Stato egemone, ma anche sulla ricerca della terza via tra liberalismo e socialismo, che il fascismo troverà nel corporativismo, via, questa che già era stata indicata dalla Chiesa nella Rerum Novarum, anche se il corporativismo cattolico mette in primo piano l’interesse dell’individuo, mentre quello fascista l’interesse superiore della Nazione, che non può non coincidere con quello dell’individuo.
La razionalità della sua scelta politica si deduce pienamente dalla lettera che scrisse a Mussolini subito dopo aver accettato la tessera onoraria del PNF, nel maggio 1923: "Liberale per profonda e salda convinzione, in questi mesi dacché ho l’onore di collaborare all’alta sua opera di Governo e di assistere così da vicino allo sviluppo dei principi che informano la sua politica, mi sono dovuto persuadere che il liberalismo come io lo intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l’Italia nel Risorgimento, il liberalismo nella libertà della legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai .liberali che sono più o meno apertamente contro di lei, ma, per l’appunto, da lei" (G. Gentile Il fascismo al governo della scuola, Palermo 1924, p. 143). D’altra parte leggendo il suo saggio del 1925 "Libertà e liberalismo" si comprende come Gentile non parli mai dell’individuo o degli individui singolarmente, ma degli individui in quanto compresi nell’entità collettiva che è il popolo-nazione che li domina e li trascende. (G. Bedeschi Gentile e Gramsci: due volti del totalitarismo in "Nuova Storia Contemporanea", maggio 1998).
La scelta politica di Gentile, dunque, non poteva considerarsi opportunista, ma fortemente ideale. Lo si comprende meglio se si esamina la concezione che egli aveva del fascismo che considerava, non tanto un fenomeno contingente dovuto alla crisi politica e morale scaturita dalla guerra, quanto l’espressione politica della rivolta antipositivista di cui egli era stato un protagonista e dell’evoluzione intellettuale degli italiani. Tutto ciò avrebbe tracciato un solco incolmabile tra il siciliano e Croce che si sarebbe sempre ostinato a considerare il fascismo come una mera parentesi, del tutto avulsa dalla storia e dall’evoluzione del popolo italiano. Gentile considerava il fascismo come una fede, "una forma, piuttosto che un contenuto, una volontà in atto piuttosto che il disegno di una società ideale" (p. 269) all’interno della quale non esistevano le tradizionali distinzioni dovute al positivismo (partiti, economia, politica sociale, interesse pubblico e interesse privato), bensì esisteva un’unica organica e totale concezione della società e dell’esistenza, per cui era impossibile essere fascisti in politica e non fascisti nella scuola, nella propria officina o nella famiglia. (G. Gentile I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1961)
Il fascismo diventava addirittura in Gentile la naturale evoluzione della storia italiana e come tale il completamento del Risorgimento come rivoluzione incompiuta. L’epopea risorgimentale era scaturita da una rivoluzione borghese, una rivoluzione di pochi la cui volontà aveva costruito la storia dell’Italia: "Questa volontà è il pensiero dei poeti, dei pensatori, degli scrittori politici, che a tempo sanno parlare un linguaggio che risponde a un sentimento universale: capace cioè di diventare tale" (G. Gentile Origini e dottrina del fascismo Roma 1934 p. 11). Tale affermazione comporta la rivendicazione agli intellettuali della direzione culturale dello Stato, concetto questo ripreso totalmente da Gramsci nel suo saggio Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura.
Tuttavia, i pochi idealisti che avevano fatto l’Italia, non erano riusciti a costituire uno Stato moderno, ed erano stati incapaci da far scaturire dal loro movimento ideale, la Nazione, intesa come unione di individui accomunati dall’identità storica, linguistica, religiosa, ma soprattutto dal comune scopo del conseguimento dell’interesse collettivo, inteso non come somma degli interessi individuali, bensì come interesse supremo dello Stato-Nazione. Egli vedeva il fascismo come figlio del Risorgimento, poiché questo aveva determinato una rivoluzione ideale che si sovrapponeva in pieno alla rivoluzione fascista: "Nessuna rivoluzione più del nostro Risorgimento palesa evidente questo carattere di idealità: ossia di un pensiero che precede l’azione, la suscita e vi trova il suo compimento […] L’idealismo, come fede nella necessità dell’avvento d’una realtà ideale, concetto della vita che non deve chiudersi nei limiti del fatto, ma progredire e trasformarsi incessantemente ed adeguarsi ad una legge superiore che agisce sugli animi con la forza stessa del suo intrinseco pregio, questo idealismo è la sostanza dell’insegnamento mazziniano." (G. Gentile Origini e dottrina del fascismo, cit. p. 11).
La scelta politica a favore del fascismo e di Mussolini, dovuta certo al suo interesse di difendere la riforma, ma soprattutto a ragioni di carattere filosofico ed ideale, gli costò un prezzo altissimo; non solo la perdita di due fra i suoi discepoli preferiti, Lombardo Radice e Omodeo, ma soprattutto la rottura definitiva con l’amico di una vita, con il maestro, con il fratello maggiore con cui aveva condiviso dubbi, teorie, ma anche dolori e preoccupazioni. Nel 1924 dopo il delitto Matteotti e dopo l’adesione completa di Gentile al fascismo, il dissenso fra i due vecchi amici che, fino a quel momento, era stato un dissenso esclusivamente intellettuale, si arricchiva adesso di considerazioni politiche, dunque la rottura non poteva più essere rinviata o ignorata. Se la rottura ufficiosa fu attuata mediante una lettera di Croce a Gentile, lettera che Romano definisce non "fredda, ma neppure accorata, quasi che non convenisse attardarsi ancora su una vicenda che era ormai passata alla storia" (p. 282), quella ufficiale si consumò con la pubblicazione di due Manifesti contrapposti, quello degli intellettuali fascisti, redatto da Gentile e firmato da grandi intellettuali del tempo come Corradini, Pirandello, Barzini, Di Giacomo, Soffici, Malaparte, Volpe e quello degli intellettuali antifascisti redatto da Croce. L’indifferenza, forse anche fittizia, dimostrata da Croce e sottolineata da Romano, nel rompere un sodalizio quasi trentennale, ci fa anche sorgere il sospetto che nella scelta di Croce influissero oltre a dissensi politici, ufficialmente sbandierati, anche motivi personali, accuratamente nascosti, come per esempio un’umana, quanto comprensibile, gelosia verso l’allievo, il fratello minore, ormai elevato alla posizione di vero arbitro assoluto della cultura italiana.
Superata la crisi Matteotti, nel costituire il nuovo governo, Mussolini scelse come ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele che era il più autorevole nemico della riforma Gentile. Questi lo supplicò di ritornare sui suoi passi, ma Mussolini fu irremovibile promettendo al filosofo che avrebbe vegliato personalmente sulla riforma e che avrebbe dato al suo ispiratore un ruolo di controllore affidandogli la vice presidenza del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Perché – si domanda l’autore – Mussolini non scelse proprio Gentile come ministro della Pubblica Istruzione? Dati gli ottimi rapporti personali fra i due e la piena convinzione del duce della necessità della riforma scolastica per la formazione della futura classe dirigente italiana, Romano deduce che il motivo non poteva essere se non quello dell’antipatia che il filosofo siciliano suscitava in certi ambienti fascisti che vedevano in lui l’autore di una riforma da cui sarebbe scaturita una scuola aristocratica e non popolare, in cui, peraltro, veniva introdotto un insegnamento, quello religioso, che contraddiceva con le posizioni anticlericali del fascismo delle origini. I nemici di Gentile, all’interno del ministero e del Senato, preparavano una forte manovra di disturbo all’attuazione della "sua" riforma, malgrado l’appoggio pubblico ed entusiasta di grandi intellettuali come padre Gemelli, Bottai e Prezzolini. Sotto la spinta di coloro che chiedevano una scuola più tecnica per la modernizzazione della società italiana, il governo decise di sostituire le scuole complementari con quelle di avviamento professionale, da dove si potevano anche continuare gli studi, diede più rilievo alle scuole tecniche, rese meno severo l’esame di Stato e corresse in maniera meno umanistica la riforma.
L’altro monumento eretto da Gentile alla storia della cultura italiana, oltre la riforma, è senza dubbio, la pubblicazione della Grande Enciclopedia Italiana, da lui voluta e da lui realizzata, con il contributo finanziario e organizzativo dell’industriale lombardo Giovanni Treccani. L’Istituto editoriale per la pubblicazione dell’Enciclopedia fu creato il 18 febbraio 1925: "A questa Enciclopedia – dichiarava il manifesto programmatico – che dovrà essere specchio fedele e completo della cultura scientifica italiana, saranno chiamati a collaborare tutti gli studiosi d’Italia […] L’Istituto confida che nessuno vorrà negare il proprio contributo e il proprio nome a questo lavoro, che vuole essere opera nazionale superiore a tutti i partiti politici come a tutte le scuole, e potrà riuscire, per la sua complessità, la maggior prova intellettuale dell’Italia nuova" (p. 305) L’ecumenismo culturale di Gentile non fu gradito né dagli antifascisti, né dai fascisti intransigenti come Telesio Interlandi che disapprovavano che Gentile avesse chiamato a collaborare all’Enciclopedia molte firme del Manifesto sull’antifascismo. Le aperture di Gentile a studiosi apertamente contrari al regime come Calamandrei, La Malfa, ecc. si accordavano all’esigenza che egli aveva di edificare un monumento culturale italiano al disopra di ogni partito. Ciò, tuttavia, contraddiceva con il suo concetto di totalità dell’esperienza fascista. A chi gli contestava tale contraddizione rispondeva distinguendo tra tecnici e politici, cadendo così in una nuova contraddizione e riproponendo quei "distinguo" che la sua filosofia aveva da tempo eliminato. Malgrado le contraddizioni filosofiche, la posizione ecumenica di Gentile dimostrava tutta la grandezza e la buona fede dell’uomo e dello studioso che, nel disegno di edificare un grandioso monumento alla cultura nazionale, riteneva di dover applicare le sue teorie totalizzanti. Chiunque desse il suo contributo scientifico, qualunque fosse la sua personale idea politica, non poteva lavorare che per il bene dello Stato. Malgrado i rifiuti di Croce e poi anche di Einaudi e di Lombardo Radice, nonostante quest’ultimo fornisse dei piccoli contributi anonimi, Gentile poté valersi dell’apporto di grandi studiosi come Omodeo, Fermi, Spirito, Ojetti, Bontempelli, Jemolo, Codignola, Calogero, coinvolgendo poi intellettuali certamente non allineati al fascismo nelle sue attività editoriali, come Laterza, Nicolini, Luigi Russo e Prezzolini. Insistette, inoltre, perché l’Enciclopedia desse spazio alle voci sui viventi più illustri e fra questi volle che fosse annoverato, quello che era ormai il suo nemico personale e della sua filosofia, l’ex amico Benedetto Croce. Perciò la frangia più radicale del Partito contestava Gentile accusandolo di aver fatto dell’Enciclopedia un covo di oppositori al regime. Non perdette mai, tuttavia, la stima e la gratitudine di Mussolini.
D’altra parte accanto a coloro che accusavano Gentile di essere un liberale truccato da fascista, c’erano anche quelli che lo accusavano di filo-bolscevismo. L’accusa nacque dalla proposta fatta da uno dei suoi più cari allievi, Ugo Spirito, al convegno di studi sindacali di Ferrara nel 1932. In tale occasione questi sostenne che, data la crisi del capitalismo, il fascismo sarebbe dovuto passare alla corporazione proletaria che avrebbe determinato la fusione dell’azienda con la corporazione e della vita economica individuale con quella statale (p. 356). Sul tema sarebbe tornato lo stesso Gentile nel famoso Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno del 1943, un mese prima della caduta di Mussolini e in un periodo di grave crisi di consensi per il regime. In quell’occasione lanciò un ponte politico ai comunisti dichiarando che: "Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie dello sviluppo di un’idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di ciò che si può attendere dal comunismo" (p. 405). Qualche anno prima aveva ripreso gli studi su Marx confessando che nel rileggere le pagine e gli appunti risalenti alla sua gioventù aveva sentito affiorare qualcosa che non si era mai sopito in lui e che altri in seguito avrebbero potuto interpretare come una sua maturazione culturale. Un chiaro segnale di ciò che aveva voluto dire in quell’occasione si ebbe con la pubblicazione nel settembre del 1943 del suo ultimo libro Genesi e struttura della società in cui si evidenziava la sua evoluzione filosofica. In tale opera, oltre a dare un significato alla morte, proprio alla vigilia della sua fine, preannunciava una nuova era dopo la guerra che sarebbe stata caratterizzata dall’umanesimo del lavoro che avrebbe sostituito l’umanesimo della cultura, ponendo lo Stato non più al servizio del cittadino ma del lavoratore. Alla fine della sua avventura terrena, dando vita ad una radicale evoluzione del suo corporativismo, Gentile poneva al centro delle sue elucubrazioni quella parte dell’umanità "che non s’affaccia al più libero orizzonte dell’alta cultura, ma lavora alle fondamenta della cultura umana, là dove l’uomo è al contatto della natura e lavora." Si trattava di un vero e proprio capovolgimento della sua stessa concezione filosofica, alla base della sua riforma scolastica che il fascismo aveva a poco a poco scardinato.
L’ultimo Gentile, il Gentile comunista come lo definì Ugo Spirito, si allineava ad una concezione sociale vicina al primo fascismo, quello sansepolcrista, e all’ultimo fascismo, quello di Salò, e ad una concezione pedagogica simile a quella che aveva portato Bottai, a snaturare la riforma scolastica del 1923, fondata su basi elitarie, umanistiche e lontana anni luce dal mondo del lavoro. Che il filosofo siciliano considerasse questo suo ultimo lavoro come il compimento del suo travaglio filosofico e quasi un suo testamento spirituale, si evince da ciò che disse all’amico antifascista Manlio Rossi, regalandogli il libro: "I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono. Il mio lavoro nella vita è finito" (p. 401).
Basandosi su questo, Togliatti avrebbe cercato, alla fine della guerra, tutto ciò che di Gentile era recuperabile per attirare i suoi seguaci nell’ambito della intellighenzia marxista. Spogliata dagli orpelli nazionalistici, la fede di Gentile nello Stato etico poteva essere messa al servizio del nuovo Principe, cioè del partito comunista. (P. Buchignani I fascisti rossi da Mussolini a Togliatti in "Nuova Storia Contemporanea", febbraio 1998).
Col passare degli anni rinunziò ad ogni critica nei confronti di un regime che continuava tuttavia a deluderlo, ma da cui ostinatamente non si allontanava. Peraltro, lasciare il fascismo avrebbe macchiato la sua immagine di intellettuale coerente e non l’avrebbe certo riavvicinato ai cari amici e compagni di studi che l’avevano abbandonato strada facendo. Si illudeva di mantenere il controllo della cultura, mediando continuamente con i gerarchi fascisti per assicurare la conservazione di quella libertà di insegnamento e di ricerca che non si accorgeva essere incompatibile con il totalitarismo, di fatto mai realizzato, con lo Stato etico da lui auspicato e con l’autoritarismo fascista. In tale contesto si collocano le sue pressioni presso Mussolini perché fossero mantenuti in servizio presso l’Università Gaetano De Sanctis e Giorgio Levi della Vida, malgrado si fossero rifiutati di prestare il giuramento al fascismo nel 1931. Non si accorgeva nemmeno, o faceva finta di non accorgersi, dei compromessi continui a cui era chiamato e che lo portarono a privarsi di preziosi collaboratori come Capitini segretario della Normale e di stimati studenti normalisti come Baglietto, colpevoli, dinanzi al regime, di essere per il loro intransigente cattolicesimo, obiettori di coscienza.
Ulteriori compromessi sarebbe stato costretto a fare dopo l’emanazione delle famigerate leggi razziali. Il compromesso che forse più lo rattristò fu quello costituito dal licenziamento, nel 1938, di Paul Kristeller, giovane filosofo tedesco di grande valore che Gentile aveva accolto con entusiasmo alla Normale dopo la sua fuga dalla Germania nazista. Nella lettera di licenziamento egli cercò di far trasparire tra le righe la sua accorata protesta: "Il dr. Kristeller – scriveva – […] ha servito la Scuola in modo altamente encomiabile […] studioso […] di solida preparazione filologica e filosofica e di schietto temperamento scientifico, nonché uomo di nobile e ingenuo carattere […]. La Direzione della Scuola Normale Superiore è molto dolente di dover rinunziare alla collaborazione di uno studioso di tanto valore" (p. 383). Gentile lo aiutò per il suo trasferimento negli Stati Uniti, così come avrebbe aiutato l’ebreo Rodolfo Mondolfo ad emigrare in Argentina, ma dovette rassegnarsi a compiere un atto che gli ripugnava come uomo e come studioso.
Lo stesso avvenne con gli studiosi ebrei Momigliano e Fubini; Gentile pensò di raggiungere una mediazione con il ministro Bottai, pubblicando i loro preziosi lavori anonimi e firmati da altri: Fubini non accettò e nella lettera con cui rifiutava il compromesso inflisse a Gentile forse il più doloroso schiaffo morale della sua vita: "Sarebbe per me cagione di vivo dolore il sapere che tra coloro i quali mi hanno posto quell’alternativa e al mio rifiuto si sono disposti a rinunziare all’opera mia, vi è Lei, a cui, come non pochi della mia generazione, sono debitore di tanta parte della mia cultura? Non posso però credere che Ella voglia contribuire, andando al di là dei divieti legali, o, almeno precorrendoli, alla nostra esclusione dalla cultura nazionale ed accrescere in tal modo l’isolamento a cui siamo costretti" (p. 385).
Romano spiega la passività di Gentile di fronte a comportamenti che erano incompatibili con la sua filosofia e con la libertà di ricerca e d’insegnamento per le quali si era sempre strenuamente battuto, con la necessità di mantenere fede alla scelta politica che aveva fatto nel 1923: "Come personaggio pubblico, coinvolto da vent’anni in tutta la politica culturale del regime, era ormai prigioniero della propria "coerenza"; come uomo era legato a Mussolini da quella testarda lealtà che era componente insopprimibile del suo carattere" (p. 387).
Ebbe un soprassalto di dignità nell’ottobre del 1940, quando, al Congresso Nazioale di Filosofia, criticò apertamente l’imposizione da parte del regime della tessera del partito anche a coloro che non erano fascisti. Giudicò tale imposizione una pratica ipocrita che ricreava quei distinguo nei confronti dei quali la sua filosofia si era battuta ritenendoli la causa della decadenza italiana, il distinguere tra il dire e il fare tra pensiero ed azione. Le sue accese parole, in quell’occasione, si spinsero fino ad approvare pubblicamente chi rifiutava con coraggio la tessera, scegliendo la coerenza e l’onestà intellettuale .
Il suo voler mettere la salvaguardia della cultura e dell’educazione nazionale al di sopra di tutto, gli costò una tremenda umiliazione: Badoglio, asceso al potere, scelse come ministro della P.I. Leonardo Severi, ex allievo di Gentile. Questi, desideroso di continuare la sua collaborazione col nuovo governo, in virtù di quei principi di solidarietà nazionale che aveva sollecitato nel suo discorso del 24 giugno precedente, inviò al neo ministro alcune lettere sui problemi culturali nazionali. Severi gli rispose pubblicamente in toni molto duri, per mettere in chiaro che non avrebbe mai potuto accettare la collaborazione di chi si era messo al servizio della tirannide. Gentile rispose, anch’egli pubblicamente, giustificando gli approcci fatti al ministro, non solo con il desiderio di continuare a lavorare per la causa comune dello sviluppo della cultura italiana, ma anche con la devozione che Severi gli aveva pubblicamente tributato fino a poco tempo prima. Quanto al suo servilismo nei confronti del fascismo, ricordò la sua più importante opera culturale, l’Enciclopedia, a cui avevano potuto collaborare gli studiosi più competenti senza alcuna discriminazione politica. Quindi si dimise da ogni incarico affidatogli dal regime, conscio di essere, da quel momento in poi, bersaglio sia degli antifascisti, sia degli stessi fascisti per il suo tentativo di collaborare col governo Badoglio. Bisogna riconoscere che la posizione di Gentile in questa occasione non risulta molto chiara; francamente è difficile capire quali fossero le reali intenzioni del suo approccio col nuovo governo. Fu veramente l’amore per la cultura a portarlo ad agire in una maniera che parve sleale a molti o fu un tentativo di mantenere il controllo del mondo culturale nazionale? In ogni caso egli si redense mettendosi nuovamente al servizio di Mussolini, quando ormai era inequivocabile l’avvicinarsi della sua fine, fine che avrebbe di certo travolto tutti i suoi seguaci della prima e dell’ultima ora.
Sebbene avesse declinato l’invito del ministro Biggini a collaborare con il governo di Salò, si recò in visita da Mussolini, nel suo estremo rifugio sul lago di Garda, nel novembre del 1943. Fu un colloquio molto commovente in cui Mussolini gli esternò le sue sofferenze, la sua solitudine e il dramma personale costituito dall’arresto di Ciano. Dall’ultimo colloquio tra i due più grandi protagonisti del ventennio, Gentile uscì dichiarando che l’Italia si sarebbe salvata solo con il duce o si sarebbe perduta per secoli e accettando la nomina a presidente dell’Accademia d’Italia, ritenendo il rifiuto "una suprema vigliaccheria". L’accettazione dell’incarico fu certamente dovuta al suo senso della Patria, alla fedeltà alla scelta politica fatta nel ’23 e a Mussolini, nei confronti del quale la stima e l’ammirazione non vennero mai meno, ma secondo Romano fu dovuta anche alla necessità di lavare l’onta procuratagli dalla lettera di Severi che lo aveva fatto apparire, sia agli occhi dei fascisti che a quelli degli antifascisti, un voltagabbana. Egli voleva dimostrare, accettando una nomina scomoda ed estremamente pericolosa, che le sue scelte erano state realmente ispirate dall’ideale e non da squallidi calcoli personali.
Negli ultimi mesi della sua esistenza si dedicò alla Nuova Antologia chiedendo espressamente al governo la collaborazione anche di elementi non fascisti, con lo scopo di fare della lingua letteraria un elemento di unità nazionale proprio quando il Paese era profondamente diviso.
Deprecò con tutte le sue forze le violenze perpetrate a Firenze dalla banda fascista Carità e ne denunciò gli eccessi allo stesso Mussolini, aiutando in ogni modo una delle sue vittime, l’intellettuale comunista Braibanti.
I suoi interventi pubblici miravano ad invitare gli italiani alla concordia e perciò apparvero ai partigiani come un vero e proprio modo di puntellare il regime. Di ciò lo denunciò pubblicamente il comunista Concetto Marchesi sul giornale clandestino La Lotta, con un articolo che, ripubblicato nel marzo del 1944 su un altro giornale clandestino, veniva arricchito di una chiosa scritta da Girolamo Li Causi: "Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE" (p. 424). Il 15 aprile la sentenza fu eseguita da uno studente comunista, Bruno Fanciullacci, a sua volta ucciso tre mesi dopo. Quest’ultimo episodio, il fatto che le onoranze tributate dal regime al filosofo siciliano fossero tiepide, che non ci furono rappresaglie da parte dei fascisti e che il Partito d’Azione fiorentino condannasse l’omicidio, atto arbitrario del PCI, sostenendo che Gentile non meritava tale fine perché si era sempre adoperato per aiutare gli antifascisti e il suo insegnamento non era contrario alla libertà, fecero nascere la voce, che divenne man mano sempre più insistente, che gli autori del vile assassinio fossero stati i componenti della banda Carità, contro cui Gentile, proprio nei giorni successivi, avrebbe richiesto a Mussolini provvedimenti particolarmente severi. La voce appare inconsistente, data la confessione di Fanciullacci e l’articolo di Togliatti pubblicato su L’Unità in cui si parlava del filosofo ucciso come di una "canaglia", di un "traditore volgarissimo", di un "bandito politico", di un "camorrista" di un "corruttore della vita intellettuale italiana". In tal modo, gettando discredito sulla cultura idealista, Togliatti preparava la strada all’egemonia marxista della cultura italiana del dopoguerra.
Già dagli anni immediatamente successivi all’Unificazione non erano mancate voci autorevoli di denuncia e di allarme sulla specificità e pericolosità sociale e politica della mafia, voci ora confermate ora smentite a livello culturale, politico, giurisdizionale e amministrativo, ma un vero e proprio dibattito sull’argomento si sviluppa soltanto verso la fine dell’Ottocento. In questa prima fase prendono forma talune elaborazioni in chiave antropologica tendenti a negare la natura criminale della mafia, e su tali elaborazioni poggiano certe idee circa l’essenza della mafia, che poi per tanto tempo hanno condizionato gli approcci alla materia: ne sono esempio la definizione della mafia come "modo di sentire atavico"(1) o come "coscienza del proprio essere, esagerato concetto della forza individuale"(2).
Ciò che stupisce è che queste definizioni della mafia andavano a disperdere il patrimonio di conoscenza fino ad allora acquisito dall’attività giudiziaria e di polizia: una marcia del gambero, per cui periodicamente si riparte da zero, si ritorna al punto di partenza. Così, per esempio, già nel 1866, il Prefetto di Palermo Filippo Gualtiero aveva descritto la mafia come "…associazione di violenti che, un tempo protetta dai signori feudali, era poi diventata protettrice dei maggiori proprietari. Essa costituiva ormai un’associazione con statuti veri e propri, in grado di fornire servizi illegali anche ai partiti politici, dai quali, in cambio, riceveva importanti favori"(3). Ma nel 1876, Bonfadini, relatore della Giunta parlamentare d’inchiesta sulle condizioni della Sicilia, costituita per fronteggiare l’emergenza mafia esplosa proprio allora, negava che la mafia fosse un’associazione, bensì la riteneva soltanto espressione di una "…solidarietà istintiva e brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari tutti quegli individui e quegli strati sociali che preferiscono trarre l’esistenza e gli agi, anziché sul lavoro, dalla violenza, dall’inganno e dall’intimidazione"(4). Definizione fuorviante, che si dilunga a descrivere il mafioso piuttosto che la mafia, introducendo una tendenza comune a tanta sociologia e storiografia anche contemporanea; ma soprattutto riduttiva, laddove pretende di presentare il fenomeno come espressione di una forma di rifiuto dell’ideologia del lavoro, e quindi assimilandola al problema delle cosiddette "classi pericolose", agli "oziosi", ai "vagabondi".
Ma, ben diverse ancora sono le considerazioni contenute nei due volumi usciti nel 1877 a Firenze, pubblicati con il titolo La Sicilia nel 1876 per Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Nel primo volume, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Franchetti descrive magistralmente la realtà ambientale, sociale e politica in cui affonda le radici la malapianta della mafia, offrendo le prove dell’esistenza di una organizzazione capace di dominare le spinte centrifughe e gli scontri dei singoli gruppi malavitosi locali, di realizzare un efficace controllo del territorio, di infiltrarsi nelle pubbliche istituzioni. Una descrizione che peraltro, sotto molti aspetti, riecheggia analisi, giudizi, ammonimenti uditi alla Corte d’Appello di Palermo nei discorsi di apertura degli anni giudiziari precedenti.
Negli anni che seguono, alle tesi antropologiche si aggiungono voci anche più irrealistiche, tendenti alla idealizzazione della mafia; la quale, secondo il Nicotri, sarebbe espressione della "ribellione generosa"(5) contro la prepotenza, della rivendicazione dei propri diritti, della volontà di farsi giustizia da sé; mentre Sgarlata, sulla scia di Pitrè, parla di "esagerata ipertrofia del proprio io", che indurrebbe l’individuo a non riconoscere altra ragione al di fuori della forza(6).
Come si vede, si affermava ormai un’idea di mafia del tutto diversa da quella che se ne erano fatta nel 1866 il Prefetto Gualtiero e, dieci anni dopo, Leopoldo Franchetti; una mafia che non può considerarsi associazione criminosa: è la conferma della tesi Bonfadini, ribadita esplicitamente dal Vaccaro(7) e dal Mosca, anche se quest’ultimo ammette che la mafia si presenta come "il complesso di tante piccole associazioni", con scopi "talvolta veramente delittuosi"(8). Più radicale la tesi del Puglia, il quale esclude che la mafia sia un’organizzazione criminosa e la definisce "un modo di pensare e di agire"(9).
Le rare e timide contrapposizioni a tali tesi rivelano quante resistenze incontrasse, ancora agli inizi del XX secolo, un’analisi realistica del fenomeno mafioso.
Un mutamento radicale degli indirizzi politico-criminali si ha con l’avvento del regime fascista. La dottrina non tarda ad adeguarsi ai nuovi indirizzi, e l’idea di una mafia organizzata unitariamente a fini criminosi prende il sopravvento. Anche la giurisprudenza offriva il suo contributo e nel 1939 la Cassazione stabiliva che "per la sussistenza del delitto basta che sia provata la partecipazione degli imputati alla mafia locale e alle riunioni nelle quali si siano progettati i vari delitti commessi nella località, senza che sia necessaria la partecipazione e la condanna degli imputati per tali delitti"(10).
Il Lo Schiavo è categorico nel sostenere l’essenza associativo-criminosa della mafia, arrivando a considerare superflua la prova dell’appartenenza all’associazione e la partecipazione allo specifico accordo criminoso, perché, rispettivamente, la qualifica di mafioso presupponeva per definizione l’appartenenza ad una societas scelerum, e perché "l’accordo tra i mafiosi è tacito, insito nella natura stessa dell’associazione"(11).
Il mutamento degli orientamenti dottrinali verificatosi con l’avvento del regime fascista, oltre a confermare ancora una volta come l’elaborazione giuridica sia sempre condizionata dall’atteggiamento dello Stato nei confronti del problema mafia, potrebbe anche essere dovuto all’impossibile convivenza del potere mafioso con il potere esclusivo dello Stato totalitario; ma i fatti dimostreranno come tale inconciliabilità possa rivelarsi ancora più forte in democrazia, se è vero che la recente revisione dottrinale, giurisprudenziale e legislativa in materia di mafia, ha assunto l’aspetto di un vasto movimento antimafia, in cui il sentimento e la volontà popolare hanno dato la spinta decisiva.
In una prima fase, però, caduto il regime fascista, con l’avvento dello Stato democratico si assiste ad un ritorno alle tesi ottocentesche sulla mafia, contrassegnate da un garantismo, che a noi oggi potrebbe sembrare eccessivo, ma che in realtà era una sincera interpretazione della nostra secolare tradizione giuridica. Capofila di questa impostazione giuridica fu l’Antolisei: la sua teoria, negatrice della configurabilità come reato autonomo dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, domina la scena nei primi decenni del dopoguerra, anche se non mancano importanti distinguo. Infatti, l’insigne giurista che ha fatto scuola per molte generazioni, nel suo Manuale di diritto penale definisce il fenomeno mafioso "illecito" e "immorale" ma non necessariamente criminale e, a maggior ragione, non attinente alla criminalità organizzata. Pertanto la mafia viene considerata un fenomeno solo "eventualmente" criminale. Rimane l’interrogativo se una tale teoria, così diffusa nel mondo accademico italiano di quegli anni, sia stata un ostacolo alla lotta alla mafia e come mai, ancora oggi, vi siano teorie nel mondo giuridico italiano che considerano il reato di associazione per delinquere per certi aspetti incostituzionale.
Questa visione della mafia, che peraltro è la trasposizione nella scienza giuridica del concetto sociale e politico di mafia all’epoca prevalente, come si evince da importanti discorsi tenuti al Parlamento siciliano in quegli stessi anni, non è condivisa da altri autori prestigiosi del panorama giuridico italiano di quegli anni. Il Manzini, infatti, non condivide la tesi dell’Antolisei laddove considera applicabile il reato di associazione per delinquere alle organizzazioni mafiose, anche se - l’autore precisa - non basterebbe provare l’adesione degli imputati all’organizzazione mafiosa ma bisognerebbe provare la partecipazione alla programmazione criminale, (quindi, per esempio, bisognerebbe provare la partecipazione di un imputato ad un summit mafioso)(12). La differenza tra le due tesi è sostanziale; infatti per il Manzini la mafia non solo è un’organizzazione immorale, ma è anche finalizzata al delitto. Questo comunque, in ossequio ad una concezione garantista del diritto, non basta per condannare un imputato appartenente alla mafia, ma bisogna provare la conoscenza di un programma criminale che, anche se non perseguito, cioè anche se non è stato consumato il reato-fine, porterà l’imputato ad una sentenza di condanna per il reato di associazione per delinquere. Questa impostazione, adottata dal giudice istruttore palermitano Cesare Terranova agli inizi degli anni sessanta, non diede grandi risultati processuali per l’elevato numero di sentenze assolutorie, dovute alla difficoltà di raccogliere prove sufficienti(13). E’ proprio per ovviare a tali difficoltà, che negli anni settanta si ricorse a tecniche giudiziarie improntate al modello d’autore. Attraverso queste tecniche giudiziarie, elaborate per contrastare l’impenetrabile omertà mafiosa, si evitava di dimostrare la partecipazione al programma criminoso, perché tale adesione si evinceva automaticamente dal fatto stesso che gli imputati appartenessero a gruppi di tipo mafioso. Tale modo di procedere della magistratura di quegli anni aveva il merito di considerare le associazioni mafiose quali particolari associazioni per delinquere, ma contribuì a fuorviare la magistratura stessa dalle strategie giudiziarie forse più idonee ad affrontare le cosche mafiose. Infatti, molti processi furono incentrati sull’obiettivo di dimostrare il reato di associazione per delinquere, prescindendo dall’accertamento dei singoli episodi criminosi ascrivibili agli imputati; ma in questo modo tutto il processo finiva per risultare insufficiente sotto il profilo del quadro probatorio e tale inevitabile insufficienza poi si rifletteva sulla sentenza.
Era l’epoca dei primi grandi processi seguiti alla prima guerra di mafia (1964 La Barbera + 42, 1965 Torretta + 120, 1965 Leggio + 115); da pochi anni era stata costituita in Parlamento la prima Commissione d’inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia, i cui risultati furono modesti, ma contribuirono a fare un po’ di luce sul fenomeno ancora ritenuto apertamente inesistente da larga parte delle istituzioni nazionali. I lavori della Commissione portarono alla prima legge antimafia del 1965, assolutamente insufficiente ma che fisserà degli elementi innovativi che poi serviranno al legislatore del 1982 per dare una definizione giuridica del reato di associazione mafiosa(14).
Il dibattito, iniziato già in periodo fascista, sull’applicabilità dell’art. 416 del Codice penale alla mafia, ebbe una svolta con la legge "istitutiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia" approvata il 20 dicembre del 1962: per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano compariva la parola mafia. La commissione d’inchiesta ebbe il merito, insieme alle elaborazioni giurisprudenziali prodotte dalla metà degli anni sessanta, di creare le premesse che porteranno all’approvazione dell’art. 416 bis del Codice penale, anche se a velocizzare i tempi d’approvazione saranno le gravi aggressioni mafiose che culmineranno nell’82 con l’eccidio del Generale Dalla Chiesa. I lavori della Commissione si concretizzarono nell’agosto del 1963 in una relazione nella quale veniva evidenziata l’esigenza di intervenire non solo sul fronte della legislazione penale, attraverso l’inasprimento delle misure di prevenzione (sorveglianza speciale e divieto o obbligo di soggiorno), ma anche su quello amministrativo con un maggior controllo sulle concessioni edilizie, sfruttamento delle acque pubbliche ed altro. Ma di tutte queste importanti proposte il Governo recepì solo quelle riguardanti le misure preventive e diede vita alla legge 31 maggio 1965 n. 575 contenente Disposizioni contro la mafia.
La pur timida volontà repressiva manifestata dallo Stato con la legge 575/65 registra il dissenso della dottrina, per il fatto che lo Stato tende a privilegiare lo strumento delle misure di prevenzione.
Però, un merito questa legge lo ebbe, e fu quello d’introdurre nel nostro ordinamento la categoria criminologica dell’associazionismo mafioso laddove all’art. 1 recitava: "La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose". In tal modo si ponevano le fondamenta che porteranno alla definizione normativa dell’associazionismo mafioso che sarà sancita dal legislatore dell’82.
A questo punto toccava alla giurisprudenza, soprattutto a quella della Cassazione, che in diverse sentenze dal 1965 cominciò a delineare il profilo dell’antisocialità e dell’illiceità del comportamento mafioso. Per prima è descritta la caratteristica dell’intimidazione, minaccia "implicita allusiva e immanente", peculiare dell’associazionismo mafioso. Nel 1967 una sentenza riconosceva lo stato di necessità ad un imputato che, non sentendosi protetto abbastanza dallo Stato, non fece i nomi dei mafiosi che gli avevano amputato la mano. Con ciò la Corte non volle giustificare il comportamento omertoso dell’imputato-vittima di mafia, ma volle sottolineare l’incidenza dell’elemento intimidatorio che caratterizzava la mafia e contro il quale lo Stato, obiettivamente, non era ancora sufficientemente attrezzato.
Agli inizi degli anni settanta la giurisprudenza della Cassazione comincia ad individuare un altro aspetto peculiare dell’associazionismo mafioso: l’aspetto economico e la costante ricerca di ritagliarsi con mezzi illeciti posizioni di monopolio.
Altro aspetto fondamentale colto dalla Cassazione fu il superamento della concezione della mafia come fenomeno di dimensione regionale, storicamente radicato in Sicilia. La dimensione nazionale di questo fenomeno criminale venne soprattutto evidenziata in una sentenza nella quale si disse che l’intimidazione sistematica, l’omertà e l’assoggettamento sono caratteri distintivi dell’associazione mafiosa ovunque essi si manifestino, prescindendo dal fatto che si siano manifestati in luoghi diversi dalla Sicilia e che l’associazione abbia assunto un’altra denominazione (per esempio camorra o altro) perché ad essere determinante è solo l’antisocialità e la pericolosità del fenomeno criminale.
Quindi, alla metà degli anni settanta tutti gli elementi che troveremo codificati nell’art. 416 bis erano già stati identificati dalla Cassazione.
Erano gli anni in cui Franco Spagnolo, dopo essere stato ascoltato dalla Commissione antimafia, dichiarava a Giampaolo Pansa cronista del Corriere della Sera "…per me la mafia non esiste, non esiste nel modo più assoluto. … Dico soltanto che l’antimafia ha un unico obiettivo: scoprire una cosa che non c’è! La mafia non esiste più, parliamo piuttosto di delinquenza organizzata che si trova dappertutto, e non capisco perché si debba indagare su quella di Palermo e non su quella di altre città italiane, Torino, Milano o Roma"(15). Era il settembre del 1969 e chi faceva queste affermazioni era sindaco di Palermo.
La giurisprudenza della Corte Suprema introduceva il concetto che la "mafia moderna" era uno dei più gravi fenomeni di associazione per delinquere, distinguendo, di fatto, tra mafia "moderna" e mafia "vecchia", che - secondo tale impostazione - non presentava i caratteri dell’associazione per delinquere(17). In realtà, tale distinzione non era affatto giustificabile, se non come risposta al crescente allarme sociale causato dagli episodi criminali di cui la mafia si stava macchiando in quel periodo e dall’assoluta impunità, di cui, di fatto, essa godeva.
Ma non era con scorciatoie e con interventi d’emergenza che si poteva combattere la mafia, sia perché tali scorciatoie facevano acqua sotto il profilo del giusto processo penale, sia perché trascurando la raccolta delle prove relative ai collegamenti tra i vari episodi criminali, si andò incontro a ripetuti insuccessi giudiziari.
In una tale situazione tornava alla ribalta la teoria del Manzini: l’associazione mafiosa era un’associazione per delinquere ma bisognava comunque provare l’adesione degli imputati ad un programma criminoso, perché a essere perseguita non doveva essere l’associazione in quanto tale ma il singolo imputato. Bisognava quindi affrontare il problema della raccolta delle prove, quelle vere, senza scorciatoie, e tale problema poteva risolversi solo con l’utilizzo di tecniche d’indagine concentrate sui reati-fine. La strada era quella delle tracce lasciate dal cospicuo movimento di capitali che caratterizza la notevole dimensione imprenditoriale della mafia. Il primo che imboccò la strada degli accertamenti fiscali e patrimoniali, sulle tracce lasciate dai movimenti di danaro sporco, fu Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo. Fu il primo ad avere la grande intuizione, capì che gli assegni bancari sarebbero diventati le impronte digitali del futuro e riuscì ad interpretare i fatti criminali di quel tempo che apparentemente sembravano slegati tra loro.
Ad imboccare questa strada fu anche Giovanni Falcone che, tra gli anni settanta e ottanta, prima della stagione dei grandi pentiti di mafia aperta da Tommaso Buscetta nel 1984, capì la funzione strategica del reato associativo e l’esigenza di non trascurare l’accertamento dei reati-fine; e così attraverso le indagini patrimoniali raggiunse importanti successi nel processo Spatola + 119 (traffico internazionale di stupefacenti, associazione per delinquere ed altri reati) del gennaio 1982.
Il 13 settembre del 1982 un importante passo veniva fatto dallo Stato italiano per combattere il cancro che lo colpiva. In questa data veniva approvata la legge che introduceva l’art. 416 bis nel Codice penale. Una legge che finalmente colpiva il patrimonio della mafia e che perseguiva il fenomeno mafioso delineandone i caratteri. Da questo momento nessuno poté più dire che la mafia non esisteva come associazione criminale.
Si fissava a tre il numero minimo di membri, era prevista la reclusione da tre a sei anni con pene differenziate per i capi, aggravanti per associazioni armate, pene accessorie poi abrogate (decadenza da alcune licenze e concessioni e dall’iscrizione dall’albo degli appaltatori) e, infine, d’importanza decisiva fu l’introduzione di misure di prevenzione patrimoniale: sequestro e confisca dei beni degli indiziati mafiosi. La legge, inoltre, prevedeva l’applicabilità del 416 bis anche alla camorra ed alle altre associazioni assimilabili alla mafia comunque localmente denominate.
Questa volta lo Stato aveva fatto centro, aveva uscito le unghie per usare l’espressione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che, durante i dieci minuti di audizione, davanti alla Commissione antimafia si era espresso in questi termini "Loro, questi signori, hanno la sensazione certa di poterla fare franca… Essi avvertono che da processi come quelli di Catanzaro, o quello di Bari, di Lecce, o di altre sedi, vengono assolti e che poi, tornando, non ci troviamo pronti a riceverli come si converrebbe. Siamo senza unghie, ecco…"(17). Erano passati quasi vent’anni da quando Dalla Chiesa aveva pronunciato queste parole davanti ai commissari, erano morti il giornalista de l’"Ora" Mauro De Mauro (16 settembre 1970), Pietro Scaglione Procuratore capo di Palermo (5 maggio 1971), Giuseppe Russo ufficiale dei Carabinieri che indagava sul caso De Mauro (20 agosto 1977), Mario Francese del Giornale di Sicilia (26 gennaio 1979), Michele Reina segretario DC di Palermo (9 marzo 1979), Boris Giuliano Capo della Squadra mobile di Palermo (21 luglio 1979), Cesare Terranova Presidente di sezione di Corte d’appello (25 settembre 1979) e infine il Generale Dalla Chiesa (3 settembre 1982). Senza citare un altro migliaio di uomini vittime delle due guerre di mafia. Fu la morte del Generale Dalla Chiesa e di sua moglie ad imprimere l’accelerazione finale all’iter legis, che portò all’introduzione del 416 bis il 13 settembre del 1982. Nel frattempo era morto ammazzato lo stesso Pio La Torre (30 aprile 1982) che non vide il suo lavoro in Commissione diventare una legge dello Stato, ma il cui nome resterà per sempre legato a questa legge.
Giorno 5 settembre, al funerale del Generale Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, il Cardinale di Palermo Pappalardo pronunciava la famosa omelia in cui citava la frase "Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur", mentre Roma discute Sagunto viene espugnata. A Roma si finì di discutere il 13 settembre: otto giorni dopo le esequie entrava in vigore l’art. 416 bis. Dopo anni di rinvii e interminabili discussioni la legge veniva approvata con procedura d’urgenza. I primi ad applicarla furono i giudici Chinnici, Ciaccio Montalto, Falcone e Borsellino che poterono dare il via ai penetranti accertamenti bancari, inutilmente richiesti dal Generale Dalla Chiesa. Come sappiamo i risultati ci furono e portarono al primo maxi processo (già nell’83 furono eseguiti centinaia di arresti a seguito della collaborazione di Tommaso Buscetta e di Totuccio Contorno e nel settembre ci fu il primo arresto eccellente, quello di "don" Vito Ciancimino, sindaco durante il periodo del "sacco di Palermo" che causò lo scempio edilizio della città) e a tante vittorie dello Stato sulla mafia, anche se conosciamo quale prezzo fu pagato proprio da questi primi magistrati che applicarono la nuova legge.
Ci si potrebbe domandare come mai questa legge non venne approvata prima dal nostro Parlamento. A tal proposito si potrebbero citare le parole del ministro della giustizia, Clelio Darida, che all’indomani dell’omicidio del magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto (26 gennaio 1983) sosteneva che la mafia non si sarebbe potuta sradicare, ma che, semmai, andava ridotta entro "limiti fisiologici"(18). Purtroppo la storia si ripete e altri ministri di recente hanno fatto affermazioni dello stesso tenore. Ma allora c’è da chiedersi quali siano questi limiti fisiologici: quanti morti ammazzati all’anno per mano della mafia? Quanti chili di droga smerciati? E così discorrendo.
Nel frattempo la marcia del gambero, di cui si diceva all’inizio, continuava: il 4 febbraio del 1986, a sei giorni dall’apertura del maxi processo, il Cardinale Pappalardo, replicando ai cronisti, dichiarava che l’espressione da lui usata nell’omelia pronunziata durante il funerale del Generale Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela aveva avuto "…fin troppa risonanza" e che "Palermo non è Sagunto, non lo è adesso, non potrà diventarlo mai."(19) Era un passo indietro, certo non sulle ormai indifendibili posizioni del Cardinale Ernesto Ruffini che, negli anni che precedettero la prima guerra di mafia, negava perfino l’esistenza stessa del fenomeno mafioso.
Il 10 gennaio 1987, dalle pagine del Corriere della Sera, Leonardo Sciascia, il Pitrè degli anni ottanta, definiva i magistrati eredi di Chinnici sul fronte antimafia della Procura di Palermo "professionisti dell’antimafia", "strumento di potere" e, in particolare riguardo a Paolo Borsellino, neo Procuratore di Marsala, contestava i requisiti di anzianità (che tanto staranno a cuore anche ai membri del CSM che preferiranno Antonino Meli a Giovanni Falcone, quando, nello stesso anno, si dovrà scegliere il nuovo capo dell’Ufficio istruzione della Procura di Palermo).
Il maxi processo fu un grande punto di arrivo e di partenza riguardo la percezione del fenomeno mafioso alla Procura di Palermo. Negli anni ’60 e ’70 si era riusciti a raccogliere un grande patrimonio investigativo sul fenomeno mafioso, che rivelò la struttura verticistica e unitaria della mafia, e di cui c’è una buona descrizione negli atti della Commissione antimafia. Questo patrimonio rimase inutilizzato per un coacervo di motivi, prevalentemente politici; infatti, ai lavori della Commissione non seguirono provvedimenti legislativi in grado di fornire adeguati strumenti da utilizzare in sede processuale. La legge che introdusse il reato di associazione mafiosa fu emanata nel 1982 dopo l’uccisione di Pio La Torre e del Generale Dalla Chiesa; l’ufficio dell’Alto Commissariato antimafia venne istituito solo dopo la morte del Generale Dalla Chiesa che ne aveva chiesto i poteri; la legge sul pentitismo fu sollecitata da Falcone e Borsellino sin dai primi anni ottanta, ma fu approvata solo dopo la loro morte; la revisione dell’articolo 416 bis che introdusse tra le finalità associative anche quella del voto di scambio, fu realizzata solo dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Forse si spiega anche così il periodo delle assoluzioni per insufficienza di prove degli anni sessanta e settanta.
Il fenomeno dei pentiti, aperto da Tommaso Buscetta e da Totuccio Contorno, oltre ai progressi fatti nel campo delle acquisizioni probatorie (intercettazioni telefoniche, esame del materiale bancario e patrimoniale, collaborazione con gli investigatori statunitensi, ecc.), contribuì a determinare una nuova fase della percezione del fenomeno mafioso alla Procura di Palermo. Come disse Alfonso Giordano, Presidente della Corte al primo maxi processo, il merito principale dei pentiti fu quello di dare una "…preziosa chiave di lettura interna, per vedere chiaro in una congrega criminosa della quale, fino a qualche tempo fa, si avevano notizie di terza mano, notizie che sembravano favole."(20). I crimini furono affrontati in un’ottica complessiva e non disarticolata, e i risultati cominciarono a venire. Si arrivò così ai processi e alle condanne in contumacia a carico dei latitanti, che sembravano imprendibili, e lo erano davvero fin quando qualcosa non cambiò nelle istituzioni dello Stato e nella società italiana.
Dopo i due maxi processi alla Procura di Palermo ci si rese conto dell’esistenza di un livello di collusioni "alte" fra mafia e istituzioni. I magistrati, infatti, percepirono l’esistenza di forti connessioni tra Cosa nostra e settori del mondo politico ed affaristico - economico. La convinzione dell’esistenza di tali collusioni aprì scenari che la Procura di Palermo, ancor oggi, cerca di decifrare e che gettano una luce sinistra sulla storia dell’Italia democratica. Infatti, dall’analisi degli ultimi cinquant’anni di storia italiana emerge una compenetrazione tra istituzioni, Chiesa, economia e mafia, le cui radici storiche ed il grado di organicità meritano forse di essere indagate, anche a prescindere dal terribile quesito, da qualche parte vagamente suggerito, se la mafia sia effettivamente una degenerazione della nostra democrazia, oppure se il nostro attuale sistema non sia stato generato con tali anomalie anche per volontà della mafia e della sua versione in doppiopetto, la massoneria.
NOTE
* Intervento tratto dagli atti del seminario di Storia contemporanea Evoluzione storica della percezione del fenomeno mafioso e genesi dell’art. 416 bis c.p., tenutosi a Palermo il 17 novembre 2004, presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Palermo.
(1) g. alongi, La mafia, Torino 1904, p. 11.
(2) g. pitrè, Usi e costumi del popolo siciliano, Palermo 1889, p. 289.
(3) AA,VV. La mafia 150 anni di Storia e di storie, CD-Rom, 1998.
(4) g. c. marino, L’opposizione mafiosa (1870-1882), Palermo 1964, p. 53.
(5) g. nicotri, Mafia e brigantaggio, in "Scuola positiva", 1900, p. 65.
(6) f. sgarlata, Le associazioni per delinquere, 1904, p. 46.
(7) m. vaccaro, La mafia, Roma 1900, p. 701.
(8) g. mosca, Che cos’è la mafia, citato in A. Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993, p. 46.
(9) g. m. puglia, Le classi pericolose della società, in "Studi critici di diritto criminale", Napoli, 1882, p. 242.
(10) Cass. , Sez. I, 31 marzo 1939, Maria, in "Giust. Pen." 1940, II, c. 90, in g. turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano 1984, p. 11.
(11) g. g. lo Sciavo, Il reato di associazione per delinquere nelle province siciliane, Selci Umbro, 1933, pp. 27 ss.
(12) Cfr. v. manzini, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1983.
(13) A tal riguardo basti citare i processi: "Corte di Assise di Catanzaro. Sentenza 22 dicembre 1968 (La Barbera Angelo + 116)".
"Assise Lecce, 23 luglio 1968, Bartolomeo ed altri", in Foro it. , 1969, II, c. 394-596 e spec. 431-432. "Assise Palermo, 27 maggio 1970, Spatola ed altri", citato da r. cerami, Problemi probatori in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, in AA.VV. , Mafia, ’ndrangheta e camorra, a cura di g. borrè e l. pepino, Milano 1983, p. 223.
(14) Legge 31 maggio 1965 n. 575 "Disposizioni contro la mafia". Gazzetta ufficiale n. 138, del 5 giugno 1965 art. 1 (La presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni comunque localmente denominate che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso).
(15) g. pansa, Cronache con rabbia, Torino 1975. C.f.r. s. lodato, Quindici anni di mafia, Milano 1994, pp. 209 ss.
(16) Cass. Sez. I, 16 dicembre 1971, Di Maio, in Cass. Pen. Mass. ann., 1973, p. 204, m. 184, in G. Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano 1984, p. 15.
(17) s. lodato, Quindici anni di mafia, Milano 1994, p. 7.
(18) Ivi, p. 122.
(19) Ivi, p. 178.
(20) Ivi, p. 222.
Premessa
Le ricerche sul metodo, adottato nel passato in Italia, per l’insegnamento della lingua inglese e sui criteri applicati per la traduzione dall’una all’altra lingua e viceversa, sono sempre interessanti. Oggetto di questa analisi è un’antica grammatica, ormai caduta in oblio, dall’ambizioso titolo Il Tesoro della Lingua Inglese. La grammatica ha come autore Eugenio Wenceslao Foulques(1) ed è pubblicata dalla Casa Editrice Poliglotta di Napoli(2), di cui – come è ribadito più volte a margine delle pagine pubblicitarie riportate nel retro-copertina e alla fine del volume – risulta direttore lo stesso Foulques. Il suggestivo scorrere delle pagine permette di scorgere i cambiamenti avvenuti nel corso di più di un secolo e il progresso raggiunto oggi nel campo della docenza e dell’apprendimento delle lingue straniere. Da un capitolo all’altro la lettura si rende sempre più stimolante, sino ad avvertire l’esigenza scientifica di un approfondimento del testo per meglio comprendere, attraverso richiami e confronti con la produzione didattica successiva, la tecnica usata e le possibili difficoltà incontrate dagli italiani, che, in quell’epoca, avessero voluto parlare e tradurre in lingua inglese.
L’opera è alla sua sesta edizione, ma non porta una data, che, per elementi ricavabili dallo stesso testo, sui quali ci soffermeremo più avanti, è certamente anteriore al 1887. È stata trovata nella biblioteca di un comune siciliano(3), piuttosto nota per un fondo storico risalente al XIX secolo. Il suo formato quasi tascabile è di cm. 12, 50 x 19,00. Consta di 414 fitte pagine e altre sette, compreso il retro di copertina, sono dedicate, come si è detto, alla pubblicità di libri affini apparsi nello stesso periodo.
La copertina della grammatica è abbastanza esplicita nel preannunciare il contenuto e l’impostazione. Vi è, innanzi tutto, specificato proprio in testa che gli argomenti sono affrontati secondo il "Metodo Ahn-Robertson" e, poi, a centro di pagina, che trattasi di un "Corso teorico-pratico" tripartito nel seguente modo: I. – Corso preparatorio; II. – Corso di applicazione; III. – Corso di perfezionamento. Un’analisi del testo e un confronto di esso con il Nuovissimo Metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, sempre a opera dello stesso autore, ci consentirà di comprendere sia il metodo adottato, sia la suddivisione dell’opera, che, considerata nel suo insieme, dà subito l’idea di un lavoro organico e sistematico.
È, intanto, utile stabilire per Il Tesoro della Lingua Inglese una collocazione nel tempo, visto che non viene esplicitamente indicato nel testo l’anno di pubblicazione. Può, tuttavia, dirsi con certezza che essa risalga a un periodo anteriore al 31 ottobre 1887, in quanto sulla Rassegna pugliese, proprio in quella data, apparve una recensione del catalogo diretto da Foulques e un ampio brano di essa fu riportato nel retro di copertina della grammatica. Questa constatazione, ovviamente, vale per la sesta edizione di cui siamo in possesso, mentre per le precedenti cinque edizioni, invano cercate in biblioteche pubbliche e private, si deve presumere che siano uscite nel decennio antecedente, allorquando in Italia cominciavano a circolare le prime grammatiche per l’apprendimento delle lingue moderne europee.
Si hanno notizie indirette soltanto della quinta edizione de Il Tesoro della Lingua Inglese tramite una nota inserita a seguito dell’ Appendice della sesta. In essa si legge che si tratta di un volume unico a "uso degli Studiosi Italiani, contenente il Corso preparatorio, cioè Nozioni preliminari; il Corso di applicazione, cioè le Regole grammaticali e la Sintassi; ed il Corso di perfezionamento, cioè gl’idiotismi ed i modi di dire che formano l’indole della lingua, nonché i Verbi con particelle ed omonimi. Tutto ciò accompagnato da numerosissimi Temi e Versioni". Come è possibile comprendere da siffatta suddivisione questa quinta edizione non differisce molto dalla sesta, che, tuttavia, si presenta "commentata e corretta dall’Autore"(4).
1. La produzione scientifico-didattica di un singolare poliglotta
Da un’indagine bibliografica effettuata in internet si trovano, qua e là, altre pubblicazioni di Foulques, come Guides De La Conversation: Francaise- Anglaise (Napoli, Casa Editrice Poliglotta, 1888), Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn (Napoli, Anacreonte Chiurazzi, s.d.), Dialoghi di conversazione italiani-inglesi, con la pronuncia inglese figurata ad uso degli italiani (Milano, Bietti, 1898), The first step: a primer and Reading-book for the schools of Italy (Naples, A. Chiurazzi, 1911). Foulques, per i suoi tempi, fu un eccezionale poliglotta. E si impegnò non solo negli studi della lingua inglese, ma anche in rilevanti traduzioni dal francese, dal tedesco, dal russo e dal polacco. Curò, fra l’altro, la versione italiana dei romanzi Anna Karenina di Leon Nikolaievitsc Tolstoi (Napoli, S. Romano, 1901) e Quo vadis? di Henryk Sienkiewicz (Napoli, S. Romano, 1913).
Ma molto di più si apprende dalle inserzioni pubblicitarie che, all’inizio e alla fine, come è stato accennato, occupano le sette pagine della grammatica. Queste, non solo ci danno un’idea del "catalogo aggiornato", ma anche ci permettono di individuare una tappa, non proprio recente, dell’insegnamento e della divulgazione delle lingue moderne e, in particolare, della lingua inglese in Italia. Da esse si deduce che la Casa Editrice Poliglotta di Napoli, alla fine dell’Ottocento, pubblicava e diffondeva in tutta la penisola, su ordinazione e con spedizione "franco di porto", un Corso completo della lingua inglese che constava di ben cinque testi. Oltre a una guida grammaticale ben strutturata, esso comprendeva: The English Reader, "letture inglesi graduate con Note italiane ed un trattato pratico di pronuncia", indispensabile per capire gli inglesi e farsi capire; Le Tresor de la Langue Anglaise, ovvero l’edizione francese-inglese de Il Tesoro della Lingua Inglese, utile a chi conoscendo il francese desiderasse perfezionarsi e, in pari tempo, imparare l’inglese; The English Speaker, una raccolta di racconti inglesi con note e domande per acquistare "l’abitudine e la pratica di parlare questa lingua"; una Guida della conversazione inglese - italiana contenente "la Nomenclatura usuale e Dialoghi pratici sui soggetti più comuni della vita, preceduti da 2 Grammatichette, una inglese per gl’Italiani, l’altra italiana per gli Inglesi"; e, infine, la Britannia Literaria, un’antologia inglese con biografie e ritratti dei principali scrittori della Gran Bretagna.
L’interesse editoriale e scientifico di E. W. Foulques per le lingue moderne fu da vero poliglotta, nel senso che egli apprese e diffuse in Italia i principali idiomi europei. E, come ancora si apprende dalle inserzioni pubblicitarie, fu anche autore de Les Bijoux Littéraires, una serie di novelle, racconti, leggende, scritti umoristici, in lingua francese, "d’indole tale da poter essere messi fra le mani di tutti". I volumetti erano illustrati da "graziose vignette" e si vendevano in tutta Italia al prezzo straordinario, "senza precedenti per pubblicazioni in lingue estere", di dieci centesimi. A questi si aggiunge la pubblicazione in italiano dei "migliori capolavori letterari dei più acclamati scrittori antichi e moderni di tutti i paesi", al fine di offrire agli appassionati lettori un "diversivo alle noie della vita" e infine una raccolta di fiabe e leggende russe tradotte sempre da Foulques "con ben 90 illustrazioni degli artisti P. Scoppetta e S. Profeta".
Non mancano "commedie francesi, inglesi e tedesche con numerose Note italiane per iniziare gli studiosi alla lingua parlata", per citarne alcune: Le Bourru bienfaisant di Goldoni, quale libro di lettura e traduzione oppure The Knapsack (La Bisaccia), di M. Edgeworth, commedia in due atti diffusa e venduta con le stesse modalità degli altri volumi al prezzo di 0,50 centesimi. Un corso completo per l’insegnamento della lingua francese in cui figura non solo il corrispettivo della versione inglese, Il Tesoro della Lingua Francese, ma anche la Chiave del Tesoro della Lingua Francese, vale a dire - secondo quanto riportato - "la correzione di tutte le versioni e di tutti i temi contenuti nel libro precedente; la pronuncia figurata di tutti i testi; note spiegative sulle principali Regole, ed una notevole aggiunta di Letture graduate…"(5).
2. Una nuova era per l’insegnamento delle lingue moderne: due metodi a confronto
La maggior parte dei corsi, pubblicati da Foulques, preannunciano già nel titolo l’adozione, da parte dell’autore, di nuovissimi metodi per l’apprendimento della L2, che si distinguono per la loro praticità e facilità. Tale e tanta pubblicità alla metodologia di insegnamento consentì al poliglotta napoletano di inserirsi nella rete europea dei divulgatori della didattica del periodo, la quale, com’è ben noto, era finalizzata all’insegnamento e alla diffusione delle lingue moderne attraverso metodi più pratici rispetto a quelli tradizionali utilizzati per impartire le lingue classiche nelle Grammar Schools.
Baugh e Cable sottolineano che, già in Inghilterra, nella seconda metà del XVII secolo, "occasional writers like John Wallis (Grammatica Linguae anglicanae 1653), recognized that the plan of Latin grammar was not well suited to exhibiting the structure of English, but not until the eighteenth century, generally speaking, was English grammar viewed as a subject deserving of study in itself. Even then freedom from the notions derived from Latin was something to be claimed as a novelty and not always observed. William Loughton, Schoolmaster at Kensington, whose Pratical Grammar of the English Tongue (1734) went through five editions, inveighs against those who "have attempted to force our Language (contrary to its Nature) to the Method and Rules of the Latin Grammar" and goes so far as to discard the terms noun, adjective, and verb, substituting names, qualities, affirmations"(6).
L’industrializzazione della società europea, lo sviluppo delle ferrovie e la crescente emigrazione dall’Europa verso le Americhe, avevano dato luogo a un nuovo tipo di learners, il cui intento, nell’imparare le lingue, non era quello di perfezionare un apprendimento scolastico, ma quello di acquisire i principi di base di una o più lingue moderne al fine di sfruttare al meglio le nuove opportunità professionali o di scambio interculturale che l’era moderna offriva loro. A tal proposito, è rilevato da Howatt che nel 1800, contrariamente a quanto accade oggi con l’inglese che va assumendo sempre più il ruolo di "world auxiliary language", le forti rivalità nazionali non permisero l’affermazione di una lingua franca la quale, comunemente accettata, soddisfacesse i bisogni elementari di appartenenti a comunità diverse e in contatto tra loro.(7) Sicché, in quel secolo, veri e propri creatori di metodi si cimentarono a prospettare, ciascuno a loro modo, nuove metodologie per facilitare l’apprendimento di qualsiasi lingua moderna nel minor tempo possibile e con un minimo di sforzo.
Ciò avvenne non tanto a opera di linguisti specializzati, filologi o pedagoghi titolati, ma per merito di studiosi con grandi doti di osservazione. Costoro, anche attraverso l’insegnamento, avevano personalmente avvertito l’esigenza di nuovi criteri utili a fornire una solida base sui principi di un idioma diverso dalla L1 tenendo in conto le aspirazioni di uno studente adulto, interessato a un’acquisizione funzionale della lingua parlata e scritta.(8)
I metodi si distinguono dai trattati puramente grammaticali per la nuova concezione dell’apprendimento e dello studio di una lingua straniera. Lo spirito critico e innovatore con cui veniva affrontato il problema dell’insegnamento era ora visto come una preoccupazione pedagogica che poneva in una nuova dimensione, più comunicativa e meno teorica, la relazione tra docente e alunno. La maggiore o minore originalità di un metodo, rispetto a un altro, dipendeva dall’importanza attribuita alla pratica della lingua parlata nel processo di apprendimento e al peso attribuito alla conoscenza della grammatica e della traduzione.(9)
Foulques, nella copertina de Il Tesoro della Lingua Inglese, preannuncia che il metodo da lui adottato è quello di Ahn – Robertson. Si tratta della combinazione di due metodi molto conosciuti nel XIX secolo: quello tradizionalista di Franz Ahn e quello analitico – interlineare di Theodore Robertson. Franz Ahn visse tra il 1796 e il 1865. Quando nel 1827 egli pubblicò il suo primo testo, A French Reader for German Learners, era un insegnante di Aachen, un centro sul confine tedesco olandese. Nel 1838 divulgò un corso per l’insegnamento della lingua francese secondo il suo New Practical and Easy Method che, nel successivo ventennio, si diffuse parallelamente al metodo di Ollendorf, non solo nelle lingue tedesca, spagnola, italiana e russa, ma anche in latino. Secondo quanto afferma Howatt:
Ahn’s method lives up to its title. It is both practical and easy. After a brief introduction to the pronunciation, the basic learning materials begin. They are arranged in short, consecutively numbered sections. Each odd-numbered section gives a grammatical summary, usually in the form of a paradigm, and about a dozen new vocabulary items, followed by a set of sentences to translate in the mother tongue. Each even-numbered section contains sentences to translate into the foreign language, and no new teaching points. In his first course there are sixty-eight lessons in the space of only sixty-six pages, plus a set of twelve areas of vocabulary and twelve pages of ‘easy dialogues’ (phrases like ‘Are you hungry?’, ‘It is foggy’, ‘What can I offer you?’, and so on).(10)
Foulques conosceva bene il metodo di Franz Ahn poiché, in un periodo non indicato, ma probabilmente antecedente alla pubblicazione de Il Tesoro della Lingua Inglese, lo adottò per compilare il Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, (Napoli, Anacreonte Chiurazzi Editore, s.d.). Quest’opera, al contrario dell’altra, è priva anche di riferimenti pubblicitari datati che ci possano far risalire a una precisa collocazione nel tempo. Essa, che consta di 161 pagine ed è articolata in tre parti, può definirsi una grammatica(11) nel senso più tradizionale del termine, poiché ogni argomento è sviluppato in una sezione propria cui seguono gli esercizi attinenti alle regole riportate dall’autore. La prima parte tratta brevemente della pronuncia e dei verbi ausiliari to have, to be, can, may…, must, ought…; la seconda si addentra, approfonditamente, nelle regole grammaticali; mentre la terza, di appena 9 pagine, comprende Letture Graduate in due colonne, l’una traduzione dell’altra.
Theodore Robertson, vissuto dopo Franz Ahn, fu l’ideatore e il massimo esponente del metodo analitico e interlineare, applicato al francese, al tedesco, all’ italiano e allo spagnolo, così come al latino. Tale metodo fu abbastanza conosciuto in Europa, tanto da essere utilizzato in combinazione con altre metodologie (Foulques, ne Il Tesoro della Lingua Inglese, lo abbina a quello tradizionale di F. Ahn) e da costituire il fondamento di sistemi contemporanei, come l’Hamiltoniano e il Toussaint-Langenscheidt.(12)
La diffusione del metodo Robertson, secondo quanto afferma Matilde Gallardo Barbarroja, si può far risalire alla seconda metà del XIX secolo. La fonte cui si attiene la studiosa è il Robertsonian Method. A course of lessons in the Spanish Language, intended to enable persons to acquire the language without oral instruction, scritto da Alexander H. Monteith e pubblicato a Londra dall’editore Samuel Gilbert. La prima edizione di tale corso risale al 1881, mentre la seconda, più facilmente reperibile, al 1884. L’autore è uno studioso che, prima del 1881, aveva già pubblicato alcuni libri sull’insegnamento delle lingue moderne. Egli, nell’introduzione del corso spagnolo di inglese, delinea le caratteristiche principali del metodo analitico interlineare di Robertson(13), al quale, come egli stesso sostiene, aveva apportato qualche innovazione suggeritagli dall’esperienza.
Monteith sottolinea, fra l’altro, la doppia finalità per cui il metodo è stato ideato, e, cioè, da un lato come reazione alle metodologie tradizionali, dall’altro come soluzione alla necessità di procurare allo studente uno strumento realmente efficace e, soprattutto, semplice per l’apprendimento della L2. Nel metodo Robertson la grammatica, infatti, a differenza dei metodi tradizionali, occupa un posto marginale, poiché le referenze non vengono configurate in sezioni o capitoli, ma vengono riportate sotto forma di note aggiuntive che riguardano l’ordine sintattico fondamentale. Dall’impostazione robertsoniana, particolarmente attenta alla descrizione dei suoni in spagnolo, si deduce che la grammatica, sebbene convenga conoscerla, non è così importante come la pronuncia o la continua acquisizione di nuovi vocaboli. Da qui le numerose spiegazioni sulla descrizione dei suoni e sulla stessa pronuncia(14). Monteith, infatti, alla pagina III, afferma:
The principle of this method is to introduce the learner to a general view of a language before he is led to a consideration of its minutiae; to teach a few words at a time, but so to fix them upon the understanding that they may be always at command, and ready for use when wanted […] which will be found in the end to be the mode of procedure most profitable for the student.(15)
Dopo aver acquisito la pronuncia lo studente deve essere messo nelle condizioni di memorizzare il significato delle parole attraverso la traduzione diretta e inversa, la quale viene concepita da Monteith come un "exercise in composition, as well as a means of impressing the construction of the passage more firmly on the mind".(16)
Nel metodo Robertson la lingua parlata assume, quindi, un ruolo prioritario per l’apprendimento di qualsiasi idioma straniero. Lo studente è stimolato, sin dalle prime lezioni, non solo a conoscere i suoni della L2, ma altresì a esprimersi oralmente, disponendo di un numero anche minimo di parole. Altrettanta importanza nell’apprendimento è data alla comparazione tra la lingua madre e la L2. Un tale confronto si collega alla Contrastive Analysis la quale, ponendo l’accento sulle differenze tra due o più lingue, permette di identificare le aree di difficoltà specifiche in cui l’alunno può imbattersi.(17)
3. Il "Tesoro della Lingua Inglese" e il Metodo Ahn-Robertson
Dopo aver delineato le caratteristiche principali dei due metodi è opportuno passare all’analisi del metodo unico Ahn – Robertson, utilizzato da Foulques per la compilazione de Il Tesoro della Lingua Inglese. Il fatto che, nel Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, l’autore si attenga esclusivamente al sistema di F. Ahn ci permetterà di capire, attraverso una comparazione tra i due testi, in che modo Foulques combini il metodo tradizionalista con quello analitico – interlineare.
La prima cosa che a un attento osservatore non può sfuggire è la diversa impostazione dell’indice generale nelle due opere : da una lettura dell’indice del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese è possibile cogliere per intero la struttura del volume, mentre ne Il Tesoro della Lingua Inglese, piuttosto che un sommario suddiviso per capitoli e paragrafi, si offre al lettore una Tavola delle materie per ordine alfabetico. Questa dà subito nel dettaglio l’idea di una maggiore completezza del corso, ma non permette allo studente inesperto di avere la visione unitaria, attraverso l’indice, della compagine e dell’ordine della grammatica. Lo scorrere alfabetico degli argomenti, per ben quattro pagine, non stimola il lettore a rendersi conto nell’immediatezza della maniera tramite la quale procedere per l’apprendimento della lingua. L’indice sistematico, in altri termini, propone un vero e proprio piano di lavoro, mentre quello alfabetico, sebbene utile per la ricerca delle specifiche materie, non dà la possibilità di una programmazione di studio.
A questo punto è opportuno analizzare e comparare l’accennata tripartizione delle due opere. La prima parte, ovvero il corso preparatorio de Il Tesoro della Lingua Inglese, tratta della pronuncia e dei verbi ausiliari principali e secondari. Ben diciassette pagine sono dedicate alla pronuncia delle vocali, dei dittonghi e delle consonanti singole e doppie. I suoni di ciascuna vocale, dittongo o consonante sono esposti singolarmente e le esaurienti spiegazioni, con dovizia di esempi, sono seguite da un "esercizio pratico" per ogni suono descritto. Dalle sei vocali (a e i o u y) della lingua inglese, spiega l’autore, "dipende la difficoltà della pronuncia inglese, perché ognuna di esse non ha un suono fisso e determinato, ma cambia la sua pronuncia secondo il posto che occupa nella parola o la combinazione che subisce dalla vicinanza di un’altra lettera".(18)
Mettendo in pratica le regole che Foulques fornisce sarebbe possibile riprodurre l’emissione di voce corretta di ciascuna parola senza l’aiuto di una fonte di riferimento orale, che, invece, è esplicitamente consigliata dall’autore per la giusta pronuncia del th.(19) Lo studente è sollecitato alla pratica attraverso un esercizio di lettura, che segue a ciascun paragrafo e riporta moltissime parole che presentano il particolare suono spiegato. Nel caso della vocale a, cui Foulques riconosce quattro suoni, l’esercizio è composto da gruppi di piccole frasi, uno per ogni diversa pronuncia : e chiusa, a breve, a lunga, o prolungato. Riportiamo sotto l’esempio considerato:
4. Esercizio pratico sulla vocale a
1.º A pale slave came late. A baby made a table. Take
Un pallido schiavo venne tardi. Un bimbo fece una tavola. Prendete
a cane. A paper is in a lake. A taper is on a table.
un bastone. Una carta è in un lago. Un cero è sopra una tavola.
A fate made him quake. – 2.º A bad and fat man. A black
Un destino fece lo tremare. Un cattivo e grosso uomo. Un nero
cat sat on a table. An able man has a hat. Save
gatto sedeva sopra una tavola. Un abile uomo ha un cappello. Salvate
a pale lad. A rat is in a bag. A man can make a
un pallido ragazzo. Un topo è in un sacco. Un uomo può fare una
cake. – 3.º A cardinal has made a bath. A calf is fat.
focaccia. Un cardinale ha fatto un bagno. Un vitello è grasso.
A lass had a cart. A lark sang. A path is far.
Una ragazza aveva una carta. Una lodola cantava. Un sentiero è lontano.
Calves can ran far. – 4.º A bald man sat on a
(I) vitelli possono correre lontano. Un calvo uomo sedeva sopra un
wall. All had a warm cake. Call a tall lad. That
muro. Tutti avevano una calda focaccia. Chiamate un alto ragazzo. Quella
law was bad. A cat has paws. Frank was almost bald.
legge era cattiva. Un gatto ha zampe. Francesco era quasi calvo.
Prima di passare alla spiegazione dei verbi, l’autore si sofferma a trattare l’accento tonico e la divisione delle parole inglesi, sia anglo-sassoni, sia derivate da altre lingue classiche o moderne(20).
Anche in Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese la prima parte, che consta di solo otto pagine ordinate con numeri romani, è dedicata alla pronuncia. L’impostazione, tuttavia, è decisamente diversa rispetto al testo precedente. Ogni argomento è trattato in paragrafi brevi, con pochi esempi, cui non segue alcun esercizio pratico. Ciascun suono delle parole indicate è riprodotto per mezzo della pronuncia inglese figurata.
L’opportunità di accompagnare tale studio con il supporto di un insegnante è esplicitamente suggerita dall’autore che, a conclusione del capitolo, aggiunge il seguente "Nota bene": "Si vede da ciò che precede che la pronuncia inglese presenta molte difficoltà; ed è perciò che vicino ad ogni parola inglese abbiamo messo, nella presente grammatica, la pronuncia inglese figurata, cioè abbiamo cercato di imitare (per quanto era possibile) la pronuncia inglese scrivendola con lettere italiane. Siamo certi che ciò agevolerà immensamente agl’Italiani lo studio dell’Inglese; ma ciò non toglie che si farà sempre bene di farsi aiutare da un Maestro o da un nativo inglese o americano".(21)
La pratica di questa parte, relativa alla pronuncia, è affidata a due tipi di esercitazione: Primi esercizi di lettura ed Esercizi pratici di lettura. Nella prima sezione figurano tre colonne, la prima colonna è in inglese, la seconda dà la corrispettiva traduzione italiana e la terza propone la giusta lettura servendosi della pronuncia figurata. A tal proposito, anche a mo’ di documentazione, è utile riportare l’esercizio relativo alle parole di una sola sillaba(22):
INGLESE
A week at the farm.
Ann has been for a week at the farm where her aunt lives. Now she has come back; and she has much to tell of what she saw.
ITALIANO
Una settimana alla masseria.
Anna è stata per una settimana alla masseria dove sua zia vive. Ora essa è tornata; ed essa ha molto da raccontare di ciò che essa vide.
PRONUNCIA
E uîk at thi fârm.
Ann has bîn for e uîk at thi fârm uêr her ânt livs. Nau sci has cheum bak; and sci has meuc’ tu tel ov uôt sci sô.
Gli Esercizi pratici di lettura consistono in una breve lista di parole, efficaci per capire in quale modo l’allievo deve pronunciare le vocali inglesi e "nella quale – avverte l’autore – quelle della prima colonna si pronunciano col suono breve di a e i o eu, e quelle della seconda col suono di ê, î, ai, ô, iù"(23). Riportiamo le prime cinque parole di ciascuna colonna:
Bab babe / fan fane / mop mope / sam same
bal bale / fat fate / mor more / sid side
ban bane / fin fine / mut mute / sir sire
bar bare / fir fire / nam name / sit site
bas base / for fore / nod node / sol sole
Questa prima sezione del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese si conclude con una trattazione generale sui verbi, mentre ne Il Tesoro della Lingua Inglese si ha solo una breve introduzione sui verbi ausiliari principali e secondari. Ogni tipologia di verbo e ciascun modo e tempo vengono singolarmente approfonditi nella seconda parte di entrambi i testi, dove non solo troviamo spiegate le diverse funzioni sintattiche, ma anche una lista completa dei verbi irregolari e di quelli con particelle, ossia quei verbi inglesi che possono reggere una o più preposizioni e assumere un significato diverso da quello originario.
5. Le regole grammaticali e le nomenclature
Se si scorrono le pagine della seconda parte del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, il cui titolo è Classificazione ed analogia delle parti del discorso, ci si accorge che ognuno dei quaranta capitoli che la compongono affronta materie differenti, approfondite da una spiegazione più o meno dettagliata sull’uso di alcuni verbi regolari o irregolari, i quali vengono ora coniugati, ora confrontati tra loro. Tutte le sezioni sono strutturate in modo analogo. Esse contengono non solo le principali regole su una parte del discorso, ma anche un paragrafo, Nomenclature, in cui lo studente si imbatte, di volta in volta, in una lista di parole da imparare a memoria.
Tali vocaboli, di cui l’autore invita ad acquisire il significato, riguardano, alcune volte, un ambito specifico del vocabolario inglese, quale la famiglia al capitolo secondo o le parti che compongono la casa al capitolo terzo; altre volte, sotto la voce Nomenclature, l’autore raggruppa vocaboli diversi e in nessuna relazione tra loro. Il tutto, cioè regole grammaticali e nomenclature, permette allo studente di affrontare i due esercizi di traduzione contenuti in ciascun capitolo: la Versione dall’inglese all’italiano; il Tema dall’italiano all’inglese.
Il livello delle lezioni e delle esercitazioni è, ovviamente, progressivo. Inoltrandoci nel cuore della grammatica troviamo, oltre agli esercizi di lettura e traduzione, anche lettere da trascrivere e racconti o poesie da imparare a memoria. Riportiamo qui sotto un esercizio di lettura e traduzione, la cui impostazione permette anche di verificare la giusta interpretazione del testo proposto, semplicemente coprendo con il quaderno la riga sottostante a quella scritta in L2. Non manca, anche in questo caso, la pronuncia figurata dell’intero brano:
LETTURA E TRADUZIONE
A Rule of Proportion
Una Regola di Proporzione
A person who was much in debt was once asked how
Una persona che era molto in debito fu una volta chiesta come
he could sleep so quietly at night. - "You ought rather
essa poteva dormire così tranquillamente di notte. Voi dovreste
to ask," said he, "how my creditors can sleep."
piuttosto domandare, diss’egli, come i miei creditori possono dormire.
[PRONUNCIA – E riul ov proporsceun. – E pérson
hû uâs meuc’ in det uâs uâns áskd hau hi cûd slîp so
quaietli at nait. – Iú ôt ráther tu ask, sêd hi, hau mai créditors can slîp.](24)
Come abbiamo sopra accennato, in Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, la struttura del testo, fin dall’indice, si presenta più organica e sistematica rispetto a quella de Il Tesoro della Lingua Inglese. I primi quattordici capitoli trattano le regole basilari della grammatica, mentre i successivi riguardano soprattutto le regole sintattiche della lingua inglese. Ciascun argomento viene affrontato singolarmente e, talvolta, riproposto con graduale approfondimento in due o più capitoli. La spiegazione delle regole, precedendo gli esercizi, rende il sistema Ahn meno induttivo rispetto alla combinazione Ahn-Robertson proposta nel corso. Se quest’ultimo, infatti, stimola lo studente a svolgere l’esercizio di traduzione senza conoscere le regole grammaticali a esso inerenti, in Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese l’esercitazione proposta dall’autore non solo segue la spiegazione delle regole, ma è anche molto più ridotta e meno complessa.
La Lettera da trascrivere e da imparare a memoria a pagina 69 è, per esempio, scritta da un figlio che informa il padre sul suo programma settimanale giorno per giorno. L’impostazione è molto semplice e lineare e l’esercizio di conversazione, a essa relativo, interroga meramente l’alunno sui giorni della settimana.(25) Non mancano, come detto sopra, le poesie o i racconti da imparare a memoria, il cui contenuto può anche apparire puerile agli occhi di uno studente adulto o di un lettore moderno:
Racconto da impararsi a memoria.
Dante’s frankness.
Di Dante franchezza.
When he was at Verona, this great poet received a
Quando egli era a Verona, questo gran poeta riceveva una
small pension from prince Scaliger. At the same court
piccola pensione dal prince(26) Scaligero. Alla stessa corte
there was a buffoon who lived richly. - "How Happens it,"
vi era un buffone che viveva riccamente. – "Come accade ciò,"
said he one day to Dante, "that you, with all your
disse egli un giorno a Dante, "che voi, con tutto il
genius, remain so poor, while I live in plenty?" - "I
vostro genio, rimanete così povero, mentre io vivo in abbondanza?"
should be rich too," replied the poet, "if I could find a
"Io sarei ricco pure, " replicò il poeta "se io potessi trovare
prince with a character like mine!".(27)
un principe con il carattere come il mio!".
La seconda parte de Il Tesoro della Lingua Inglese si presenta più complessa, più ‘pratica’(28) e, sicuramente, più ricca di argomenti rispetto a quella del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, secondo il metodo di F. Ahn. Essa è costituita da ben sessanta capitoli sotto il titolo generale e di per sé esaustivo : Corso di applicazione. Ogni capitolo si compone di una serie di esercizi che avvia subito lo studente alla ‘pratica’ della lingua inglese. Le regole grammaticali di ciascuna lezione sono, invece, molto sintetiche e riportate sotto forma di Regole e note spiegative, introdotte dall’autore nel seguente modo: "Importa molto di non passare alla lezione seguente senza avere interrogato l’alunno intorno alle regole e note spiegative. È specialmente indispensabile ch’egli sappia bene i verbi inglesi in tutti i loro tempi".(29)
Ciò che generalmente precede tale parte teorica è una Traduzione alternativa in cui il testo inglese è accompagnato dalla corrispettiva traduzione italiana(30). A essa seguono altri tre tipi di esercitazioni: una Conversazione, ovvero undici domande sull’esercizio precedente, alle quali, secondo una nota dell’autore, l’alunno dovrà rispondere in inglese, servendosi delle parole vedute e conosciute nel testo; una Parafrasi del Testo, vale a dire una quindicina di sentenze che, dopo una "traduzione preliminare", devono essere lette in italiano dal professore e "a misura" tradotte nuovamente "a viva voce in inglese dall’allievo"(31); e un ultimo esercizio, conclusivo di ciascun capitolo, costituito da due colonne: una Versione da tradurre in italiano e un Tema da tradurre in inglese. Non si tratta di una versione e di un tema come oggi li intendiamo, bensì di una ventina di frasi che, secondo quanto indicato da Foulques, l’"allievo dovrà assolutamente tradurre per iscritto" senza l’ausilio di alcun dizionario o grammatica, essendo tutte le parole "contenute nel ‘Testo’ o nelle ‘Note spiegative’ che precedono".(32)
A differenza del metodo Ahn, quello usato ne Il Tesoro della Lingua Inglese prevede esplicitamente una maggiore partecipazione del professore di madre lingua. È lo stesso autore che, soprattutto nei primi capitoli, ora suggerisce all’insegnante come spiegare un determinato argomento, ora allo studente come eseguire un determinato esercizio.
Tutti i capitoli mantengono, in linea di massima, la stessa impostazione del primo. Le Regole e note spiegative si presentano sempre più ricche, sia dal punto di vista semantico, sia dal punto di vista grammaticale. Esse non possono considerarsi, come accade in Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, delle vere e proprie lezioni su un argomento, devono, piuttosto, ritenersi degli appunti schematici sulle principali regole necessarie all’allievo per lo svolgimento degli esercizi. Al capitolo nono, per esempio, Foulques spiega il genitivo sassone nel seguente modo:
Regole e note spiegative(33)
Of the book, del libro; of my father, di mio padre.
Oltre il genitivo con of, ve n’è ancora un altro, chiamato genitivo possessivo o genitivo sassone; cioè, quando il possessore è un essere ragionevole, il genitivo si forma aggiungendo ‘s al nome del possessore, facendolo seguire immediatamente e senza alcun articolo dall’oggetto posseduto:
the father’s house, la casa del padre.
Se il nome del possessore è al plurale e termina in t, basterà aggiungervi il solo apostrofo: The pupils’ lesson, la lezione degli allievi.
Se il possessore non è un ente ragionevole, si farà come in italiano: The page of my book, la pagina del mio libro. The leg of the table, il piede della tavola.
Tali note grammaticali vengono spesso arricchite dall’autore con accenni alle differenze semantiche tra due o più vocaboli. Nel caso della Nota spiegativa che introduce il genitivo possessivo troviamo, inoltre, spiegato il significato di alcuni termini e la differenza tra il sostantivo parent e il sostantivo relations:
La voce inglese parent, al singolare, ha il doppio significato di padre o madre; al plurale corrisponde alla parola genitori; ma parenti in generale diconsi relations: I have lost my parent, ho perduto mio padre o mia madre. I write to my parents, scrivo ai miei genitori. He has a great quantity of relations, ha moltissimi parenti.
To mean, aver l’intenzione; fa al passato meant.
Sweet significa letteralmente dolce.
Want]
Need] bisogno, necessità. Queste parole sono anche verbi.
Riferimenti di questo genere sono comuni in tutto il testo. Oltre alle differenze semantiche tra due o più vocaboli, l’autore nel corso dei capitoli tiene a chiarire la diversità tra il verbo awake e il verbo rouse; oppure tra il verbo do e il verbo make (cui dedica un’ampia trattazione dalla pagina 223 alla 227, non sottovalutando le eventuali comparazioni con il verbo ‘fare’ italiano). Sono anche spiegate le differenze tra i sostantivi city e town o the door e the gate(34); tra hour e o’clok; tra time e weather; tra house e home; tra sky e heaven; tra morning dress e mourning dress; tra Parlour e drawing room; tra temper e character, etc.
Anche ne Il Tesoro della Lingua Inglese gli esercizi sono progressivamente più complessi e articolati. Dopo il trentaduesimo capitolo, si trova un’ennesima traduzione dal titolo Riposo dello studio. Si tratta di esercizi e, in particolare, di astruse versioni dall’italiano, come quelli che tuttora si trovano nelle grammatiche latine o greche, i quali "dovranno essere tradotti – scrive Foulques – sopra un quaderno separato per essere poi corretti dal Professore"(35). Ognuno di questi comprende delle note aggiuntive in cui viene suggerito il giusto termine inglese da utilizzare per la traduzione.
Un ampio spazio, in entrambe le grammatiche, viene riservato sia alla conoscenza di un numero considerevole di vocaboli, utili e necessari all’elaborazione delle traduzioni e della conversazione, sia all’apprendimento di buona parte dei verbi inglesi regolari, irregolari e con particelle.
Se, per un verso, in Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese troviamo dei paragrafi specifici dal titolo Nomenclature, in cui l’autore spesso elenca parole appartenenti a contesti diversi della lingua inglese, senza una tematica particolare e relativi agli esercizi che il capitolo in questione richiede, per altro verso ne Il Tesoro della Lingua Inglese troviamo (oltre ai piccoli gruppi di parole delle Note spiegative) delle liste monotematiche di termini attinenti ad ambiti più specifici. A pagina 111 sono, per esempio, elencate The Parts of the body; a pagina 114 tutti i paesi europei e tutte le attuali regioni italiane; a pagina 119 the inhabitants (a florentine: un fiorentino; a Piemontese: un piemontese etc.). Non mancano, inoltre, la nomenclatura dei metalli (p. 64), delle stagioni (p. 88), dei colori (p. 96), delle metropoli europee (p. 116), delle feste (p.122), dei Trades and professions (p. 128), dei Titles ovvero dei titoli nobiliari (p. 131), dei Men’s and women’s names (p. 134) e così via.
6. I verbi e la loro coniugazione
Per quanto riguarda i verbi e la loro sintassi, l’autore introduce l’argomento nella prima parte di entrambe le grammatiche. In Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, le regole sulla pronuncia lasciano spazio a una breve e generale trattazione sui verbi(36) e alla completa coniugazione dei verbi ausiliari e di quelli difettivi. Foulques sottolinea, innanzitutto, l’estrema facilità dei verbi inglesi, rimandando ulteriori approfondimenti alla seconda parte del testo e minimizzando le eventuali difficoltà che lo studente potrebbe incontrare. "I verbi inglesi – egli afferma – sono facilissimi, perché non c’è che un sola coniugazione regolare sulla quale si modellano tutti i verbi regolari, ed anche in questi verbi ci sono pochissime desinenze. […] I verbi irregolari sono, poi, anch’essi meno difficili che nelle altre lingue, perché l’irregolarità non si trova che in due soli tempi, cioè nell’imperfetto o passato definito, e nel participio passato, mentre tutti gli altri tempi, senza eccezione, si coniugano regolarmente. […] Si badi solo che quasi tutti i tempi (e più particolarmente il presente e l’imperfetto) sono suscettibili di avere, oltre la forma semplice, altre due forme, detta la progressiva e l’enfatica. Le forme negative ed interrogative presentano pure un po’ di difficoltà, almeno per i tempi del presente e dell’imperfetto, ma basterà di un po’ di attenzione per capire il meccanismo speciale. La coniugazione passiva, riflessiva, e l’impersonale sono presso a poco identiche a quelle italiane".
Ne Il Tesoro della Lingua Inglese la prima parte del corso affronta solo i verbi "ausiliari principali" to be e to have e quelli "secondari" can, may, shall, will, must, ought, let e do. La loro coniugazione è riportata per esteso, alla stessa stregua della coniugazione dei verbi italiani. Si trovano tutti i tempi del modo indicativo (presente, imperfetto e passato remoto, passato indefinito, passato remoto composto, futuro, futuro composto); la coniugazione dell’imperativo in tutte le persone singolari e plurali; il presente e il passato del modo condizionale; il modo congiuntivo coniugato in due forme per tutti i tempi (presente, imperfetto, passato e trapassato); il modo infinito; il participio presente e quello passato.
I primi dodici capitoli del Corso preparatorio, inoltre, ripropongono all’interno delle proprie Regole e note spiegative la coniugazione di un tempo dei verbi to have e to be, cui spesso segue un "Nota Bene" dell’autore, in cui viene accennata la funzione sintattica del tempo riportato. Nel coniugare il Perfect (dei verbi to have e to be) l’autore, per esempio, conclude semplicemente asserendo che "L’inglese non ha che un sol tempo passato, che corrisponde ai due tempi italiani chiamati Imperfetto e Passato definito"(37).
Le Avvertenze generali sui verbi e la coniugazione di quelli regolari sono riportate tra il dodicesimo e il tredicesimo capitolo del Corso preparatorio. Ci si trova dinanzi a una sezione a parte, di cui si raccomanda all’allievo lo studio "specialmente per ciò che riguarda le forme negative ed interrogative della coniugazione, le quali sono una delle difficoltà della lingua inglese"(38). Tali Avvertenze generali sui verbi si presentano più esaurienti rispetto alla trattazione meramente introduttiva del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese. L’autore non si limita solo a informare l’allievo sulla facilità dei verbi inglesi e sulle poche difficoltà comunque superabili, piuttosto egli elenca, soprattutto dal punto di vista morfologico, quelle che considera le caratteristiche principali dei verbi regolari. Dopo aver affermato che la "lingua inglese ha una sola ed unica coniugazione per tutti i suoi verbi regolari" e che il "pronome soggetto, così spesso sottointeso in italiano dev’essere sempre espresso in inglese", egli prosegue, infatti, spiegando che l’"unica persona usata nella conversazione inglese è la seconda plurale you. Il Lei di rispetto non esiste; il thou s’impiega soltanto nella poesia e nello stile sublime"(39); e "la caratteristica della 2° pers. sing. (soltanto pel tempo presente) è s o es"; che "il futuro si forma mediante l’ausiliare shall o will; il condizionale col should e would; il congiuntivo col may o might, l’imperativo col let"; che tutti i verbi regolari e irregolari (salvo gli ausiliari principali e secondari) "si coniugano negativamente ed interrogativamente al Presente, all’Imperfetto ed all’Imperativo (per quest’ultimo soltanto alle due 2° pers.)(40) coll’aiuto dell’ausiliare do, passato did. Gli altri tempi, avendo già un ausiliare, ne fanno a meno." etc.(41) Anche in questo caso la singola coniugazione di ciascun modo (del verbo regolare to call, dato come esempio) è riproposta nelle Note spiegative dei capitoli successivi. Il loro uso sintattico viene sempre accennato in "Nota Bene" dell’autore. A proposito dell’indicativo, per esempio, trattando della forma progressiva, coniugata soltanto nello schema generale, Foulques si limita ad affermare quanto segue: "Tanto il Presente quanto l’Imperfetto di tutti i verbi inglesi hanno un’altra forma, detta progressiva, che si fa coll’ausiliare to be ed il gerundio del verbo da coniugarsi: I am calling, sto chiamando; ecc. I was calling, stavo chiamando; we were calling, stavamo chiamando ecc. così anche per i tempi composti: I have been calling; I had been calling, ecc."(42).
Un altro esempio in cui è chiaro il ruolo marginale attribuito dal metodo Ahn-Robertson alle regole grammaticali è quello tramite il quale, al ventinovesimo capitolo, sotto due "Nota Bene" (p. 131), Foulques spiega in maniera molto sintetica l’uso di shall - should e di will – would: "Shall serve a formare il Futuro, e should il Condizionale. Predice, semplicemente, alla prima persona sing. e plur. Promette, comanda o minaccia, cioè enuncia una volontà alle altre due. […] Will e would servono pure a formare il Futuro e il Condizionale. Alla 1° persona sing. e plur. will promette, comanda o minaccia, cioè enuncia una volontà, e predice semplicemente alle due altre". L’autore conclude inoltre l’argomento raccontando un aneddoto sui rischi cui si va incontro sbagliando l’uso di shall e will: "Non imitate – egli scrive - quello straniero che essendo caduto nel Tamigi, a Londra, gridò: I will be drowned, nobody shall help me, io voglio essere annegato, nessuno mi salverà". "Voleva dire il contrario – aggiunge Foulques – ma non aveva saputo impiegare i segni shall e will".
Un ulteriore analogo riferimento sulla marginalità delle regole grammaticali, lo si può fare analizzando la maniera in cui Foulques spiega la morfologia e la sintassi del modo congiuntivo. Come è ben noto, già nel periodo in cui egli scriveva, le forme del congiuntivo inglese si erano fuse con quelle dell’indicativo e avevano perso buona parte della loro funzione sintattica(43). Al capitolo XIX del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese l’autore afferma che il congiuntivo "inglese si forma col premettere alla voce del verbo l’ausiliare may, potere; passato, might, il quale però può pure essere sottointeso" dando luogo a una seconda forma senza ausiliare.
Ne Il Tesoro della Lingua Inglese, dopo aver appuntato in nota la possibilità di sottintendere l’ausiliare may(44) e dopo avere rilevato l’esistenza di una forma più semplice del tipo that I have(45) (pronome più infinito del verbo), Foulques entra più nello specifico. Escludendo eventuali paragoni tra il congiuntivo italiano e quello inglese (tuttavia ancora plausibili durante il XIX secolo)(46) al quarantottesimo capitolo, sotto la voce Regole e note spiegative, egli ne spiega sommariamente la funzione sintattica:
Il Congiuntivo inglese si usa assai più di rado che il Congiuntivo italiano, e soltanto quando si tratta di un fatto non ancora avvenuto, e specialmente quando c’è un’incertezza, dopo le seguenti congiunzioni: that che, affinché; if, se;even if, se anche; in order that, affinché; provided, purché; though, o although, benché, sebbene; unless, a meno che; whether….or, sia che, o…o, quando esprime alternativa: Even if he were in town, anche se fosse in città; unless she be rich, a meno che sia ricca; provided you do what you have promised, purché facciate quello che avete promesso(47).
L’autore non si ferma a chiarire né l’origine, né la differenza tra le due forme del congiuntivo riportate, tanto meno l’uso di were nel Subjunctive Past Tense quando egli coniuga il verbo to be. In realtà tali forme del congiuntivo che vengono semplicemente descritte dall’autore, sia ne Il Tesoro della Lingua Inglese, sia nel Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, esprimono una sola forma del reale congiuntivo inglese volta a esprimere un proposito. Gli studiosi di storia della lingua inglese concordano nel sottolineare che nell’inglese moderno il congiuntivo continuava a mantenere in tutti i dialetti la desinenza –en. Cadendo tale desinenza the Subjunctive mood si è fuso con il modo indicativo perdendo col tempo anche la sua funzione sintattica.(48)
In una dettagliata Modern English Grammar la cui prima edizione risale al 1912, Nesfield sostiene che il "Subjunctive mood is so called, because it is generally subjoined to some other sentence, and seldom stands alone. […] It cannot be used either to assert a fact or to inquire about one; that is it cannot take the place of Indicative mood. The Indicative, however (according to the idiom now in force), can, and frequently does, take the place of Subjunctive. In fact, the tendency of Modern English is to get rid of the Subjunctive"(49). Nella pagina successiva Nesfield, spiegando l’uso sintattico dei verbi, considera una sola ipotesi in cui il modo congiuntivo si serve dell’ausiliare may e, cioè, quando "the Subjunctive states a purpose". "In this case – egli spiega – the verb in the Subjunctive mood is preceded by the conjunction that or lest (that not). The Auxiliary verbs "may" and "might" are used after "that", and "should" after "lest""(50).
Quello presentato da Foulques è, quindi, un congiuntivo che, secondo la grammatica inglese, esprime "un fatto non ancora avvenuto" (Nesfield parla di purpose), ma non sicuramente un’"incertezza" com’è affermato ne Il Tesoro della Lingua Inglese. Nesfield, inoltre, in una nota a conclusione della trattazione dell’ argomento, precisa: "In the Tudor Period, and somewhat beyond it, the Subjunctive was commonly expressed without the help of an auxiliary". In altre parole le forme riportate da Foulques, oltre a non essere esaurientemente spiegate nella loro funzione sintattica, indicano in realtà una sola possibilità dell’uso più svariato del congiuntivo inglese il quale, oltre a esprimere un proposito, può servire per esprimere "a wish, a condition, a doubt, anything rather than a fact"(51).
In un altro trattato sulla Lingua Inglese di Nesfield, Historical English and Derivation (London, Macmillan and co., 1922), la cui prima edizione risale al 1898, l’autore, dopo la coniugazione del congiuntivo con la desinenza –en, sotto il paragrafo Forms of verbs in Old and Modern English, scrive: "The tenses of Subjunctive were usually formed synthetically in Old Eng., but the Auxiliary "should" is also met with occasionally"(52). In seguito egli, entrando più nello specifico riguardo le Forms of the Subjunctive mood, aggiunge: "In this mood as in the Indicative, there were only two tenses that were formed by flexional endings, viz. the Present and the Past. In all persons of the Present tense the ending was –e in the Singular number, and –en in the Plural. The –e was at first syllabic : after becoming non-syllabic and mute, it was dropped altogether, since it was no longer necessary. The –en died out also, like the – en and –enne of the Infinitive, and the –on of the Past tense Indicative. In Modern English, as in Old, there are no endings in the Present Tense to distinguish the Second and Third persons from the First. Thus we have "if I see, if thou see, if he see." But in the Past tense the Second Person has acquired the ending –st or –est , borrowed from the Second person of the Indicative. The truth really is that the Past Subj. is dead, and the Present is dying"(53).
Il motivo per cui Nesfield, dieci anni dopo la pubblicazione di Historical English and Derivation, riporta ben quattro forme del congiuntivo inglese è chiaro nell’introduzione della Modern English Grammar. In essa l’autore considera tale opera il "final report of the "Joint Committee on Grammatical Terminology"" avente come suo obiettivo generale la "simplification and the unification of the terminologies and the classifications employed in the grammars of different languages""(54). Modern English Grammar è, quindi, un testo nato con l’esplicito intento dell’autore di unificare in un corpo unico, sotto l’egida della Joint Committee on Grammatical Terminology, le regole elencate dai numerosi grammatici della lingua inglese.
Tale lingua viene riconosciuta dall’autore degna di particolare attenzione e importanza. Questi, contestando l’esiguo numero di membri della English Association presenti nel Joint Committee (solo due su ventinove), sottolinea che "the number of members … is a very inadequate proportion, considering that the English language has higher claims to our consideration than any other language in the world, ancient or modern, and that the English Association was established for the express purpose of promoting its study and watching its interests throughout the British Empire, and even in countries not subject to the British flag". Ciò denota l’attenzione che già agli inizi dello scorso secolo l’inglese e il suo insegnamento cominciarono a ricevere presso i paesi fuori dall’Impero britannico.
Tornando alla nostra analisi, i numerosi esempi sulle diverse forme verbali inglesi, presenti ne Il Tesoro della Lingua Inglese, vengono arricchiti dall’elencazione, in due liste indipendenti rispetto ai capitoli, di "tutti i verbi irregolari" e dei "verbi con particelle". In Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese le due liste sono inserite alla fine della seconda parte, mentre ne Il Tesoro della Lingua Inglese le troviamo tra il trentesimo e il trentunesimo capitolo sotto il titolo di Sintassi Inglese/ English Syntax. Esse sono uguali in entrambe le grammatiche e sono precedute da una nota dell’autore che spiega le caratteristiche principali dei due gruppi di verbi che si accinge a elencare. "L’irregolarità nei verbi – scrive Foulques – non può trovarsi che in due soli tempi: il passato ed il participio passato. Sono, per conseguenza, questi due soli che si segnano qui; tutti gli altri tempi seguono la coniugazione regolare"(55). Relativamente ai verbi con particelle, egli preannuncia che la particella che "segue il verbo gli dà un significato completamente opposto a quello originale e, ciò che è più strano, neppure sempre conforme al senso della particella stessa". La pratica di tali verbi, attraverso ciascuna lista "abbastanza completa", è consigliata al fine di capirli e "adoperarli come si conviene". L’elencazione è arricchita da note aggiuntive a piè di pagina, che spiegano le peculiarità di alcuni verbi quali awake che "non prende mai il pronome reciproco, quantunque corrisponda tanto al verbo riflesso svegliarsi, quanto al verbo attivo svegliare"(56); oppure to shave, il cui participio passato shaven, sottolinea Foulques, "è impiegato per lo più come aggettivo"(57).
Nonostante i due diversi metodi adottati dall’autore per compilare le due grammatiche, la trattazione dei verbi si presenta in entrambe particolareggiata. Il metodo tradizionale Ahn è sicuramente più semplice e permette comunque un approccio più sistematico nei confronti di tutti gli argomenti; Il Tesoro della Lingua Inglese, compilato secondo il metodo Ahn-Robertson, è invece un testo sicuramente più ‘pratico’ rispetto al Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese. Se da un lato, in quanto corso teorico-pratico, esso si presenta più ricco per il numero maggiore di materie illustrate dall’autore, dall’altro lato il ruolo marginale attribuito alle regole grammaticali fa sì che lo studente si concentri esclusivamente sulla pratica della lingua ovvero sulla lettura, traduzione e conversazione di essa.
Il trentunesimo capitolo de Il Tesoro della Lingua Inglese e quelli che seguono fino al sessantesimo riguardano The English Syntax. Ciascuna delle Note spiegative riprende argomenti già trattati nei capitoli precedenti, approfonditi dalla spiegazione della funzione sintattica all’interno del discorso. Foulques, in sostituzione di esse, nell’ultimo capitolo del Corso di applicazione, riporta un esempio di analisi inglese ovvero una "english parsing, containing all the parts of speech". L’autore analizza, sia dal punto di vista grammaticale, sia dal punto di vista sintattico, ogni parte del seguente periodo: "O heaven! enlarge my life with multitude of days, In health thus the suppliant prays, He hides from himself his state and shuns to know, That life is but protracted woe"(58). Sulla subordinata introdotta da that, per esempio, egli scrive: "a copulative conjunction, connecting the preceding clause with the following"; Life – "a common noun, neuter gender, singular number, nominative case to the verb is"; Is - "an irregulare intransitive verb, indicative mood, present tense, third person, singular number, agreeing with its noun life "; But - "a disjunctive conjuction, connecting the preceding clause with the following"; Protracted - "a participal adjective, qualifying life"; Woe - "a common noun, neuter gender, singular number, nominative case after the verb is".
6.1. Rassomiglianza e paragone
Lo stesso capitolo si conclude con un paragrafo dal titolo Rassomiglianza e paragone nelle terminazioni di moltissime parole.(59) Foulques elenca una serie di terminazioni inglesi paragonate ad alcuni suffissi italiani. Ciò che egli però non sottolinea è che si tratta soprattutto di morfemi di origine francese e latina. Infatti la maggior parte delle parole cui essi hanno dato luogo nella lingua inglese si annoverano tra quelle derivanti dall’antico francese, dal latino o talvolta anche dal greco. Il primo suffisso della lista è, per esempio, –able che, come spiega l’autore, "corrisponde all’italiano in ile o evole". È l’unico caso in cui viene riportato il suffisso italiano corrispondente. Negli altri esempi Foulques si limita soltanto a fornire le parole inglesi e italiane con simile terminazione. Nel caso di – able troviamo: adorable – adorabile ; probable - probabile; considerable - considerevole; favourable – favorevole.
Tale suffisso che deriva dal latino – bilis, viene generalmente usato in inglese in senso passivo e preceduto dalla radice di verbi latini, ai quali dà il valore di aggettivi. Come sottolineava Nesfield, –able nel tempo si è reso indipendente dando luogo all’aggettivo able, mentre come suffisso lo si può trovare anche unito a dei nomi non solo di origine latina, ma anche teutonica (vd. Break-able).(60)
A seguito di –able troviamo altri diciannove suffissi; un numero esiguo rispetto a quello raggiungibile se si volessero considerare tutte le terminazioni di origine latina o greca della lingua inglese. L’autore stesso, come si è detto sopra, non considera il fatto che le parole inglesi e italiane, da lui fornite per dimostrarne la ‘rassomiglianza’, hanno un’eguale etimologia. Non manca, in ogni modo, qualche svista, come quella sotto la voce della terminazione –age, dove insieme ai due esempi: courage e village si ritrova anche la parola page (paggio).
L’etimo di page è in realtà incerto, tuttavia quello che si può sicuramente escludere è che tale sostantivo sia costituito dal suffisso –age (che deriva dal latino –aticum, dal tardo latino –agium e dal francese –age). In tal caso, infatti, la sua radice sarebbe p-. Secondo alcuni studiosi ‘paggio’, dal francese antico (1225) page, deriva dal latino pathicus (cinedo) e dal greco pathikòs, che, secondo il Devoto, venne "privato del significato deteriore e rimasto con quello etimologico di sottomesso". Altri lo fanno derivare dal greco paidion, piccolo fanciullo (diminutivo di pais) oppure dal tardo latino pagium, servo. Il Battaglia lo fa, anche, risalire al latino popolare pagicus, derivato da pagus, villaggio, voce dotta che, in origine, significava "pietra di confine ficcata nel suolo", corradicale di pangere ‘ficcare’. L’OED dà ampio spazio a quest’ultimo etimo, asserendo che "Littrè suggests that medieval latin pagius is from pãgus the country, a country district, comparing Provençal pages villani, rustic: latin pãgensis, and cites the statement of Fauchet (1601) that down to the tune of Charles VI and VII, 1380-1461".
Un caso particolare è, invece, l’elencazione di act e gli esempi ad esso annessi: Exact – esatto; Contact – contatto; Fact – fatto. Tutti e tre i sostantivi riportati da Foulques hanno sicuramente qualcosa in comune, quella che forse egli considera una rassomiglianza, ma, in effetti, essi non sono costituiti dallo stesso suffisso. Exact come l’italiano ‘esatto’ proviene dal participio passato (exactus) del verbo latino exigere. Eliminando tutti gli elementi morfematici individuabili in ex-act-us, vale a dire il prefisso ex- e la desinenza –us, ci accorgiamo che act rappresenta il semantema della parola non certo il suffisso. Lo stesso si può asserire per contact, astratto del latino contingere (con+tangere) e derivato dal tema act del participio passato contactus, -a, -um. Cosa ben diversa è per fact, derivante dal participio passato del verbo facere con radice fac. In altre parole, act non solo non rientra tra i suffissi inglesi, ma non può essere considerato tale neanche nel latino classico, medievale o nell’antico francese.
Tra il Corso preparatorio e il Corso di perfezionamento de Il Tesoro della Lingua Inglese troviamo delle Lezioni Parlate progressive "contenenti la ricapitolazione di tutte le Regole spiegate nei 60 capitoli precedenti". Si tratta di sessanta letture in italiano di cui l’autore invita l’allievo a fare una prima traduzione, ad alta voce, col professore e, "dopo debita preparazione", a ripeterle in inglese "sul testo italiano, con la medesima rapidità e chiarezza che se fossero scritte nella lingua richiesta"(61). Foulques, nella sua breve introduzione, riconosce che "leggere con facilità un libro inglese qualunque, ed anche scrivere correttamente non bastano. Bisogna parlare, e parlare speditamente". "Queste "Lezioni Parlate" sono dunque di grande, di somma importanza"(62) affinché l’allievo, avendo acquisito le reading and writing skills della lingua inglese, possa ora esercitarsi nello speaking e proseguire con il corso di perfezionamento che costituisce la terza parte del corso.
7. Il Corso di perfezionamento
La terza e ultima parte de Il Tesoro della Lingua Inglese è compresa tra il sessantunesimo ed il centesimo capitolo e come si è accennato, usando le parole dello stesso autore, riguarda "gli idiotismi ed i modi di dire che formano l’indole della lingua, nonché i verbi con particelle ed omonimi". I capitoli iniziano sempre con la lettura alternativa che continua il racconto su un naufragio, iniziato nelle sezioni precedenti. Sembra quasi che Foulques si serva di un romanzo a puntate per interessare l’allievo man mano che prosegue l’apprendimento della lingua. A seguito di ciò si ha l’esercizio di conversation (quattordici domande sulla storia sopra riportata) con le relative istruzioni del curatore, il quale premette che: "Da ora innanzi tutte le domande saranno scritte in inglese. Nelle classi, sarà d’ottimo aiuto, che, di tanto in tanto, domande e risposte siano fatte reciprocamente dagli allievi stessi"(63).
L’esercizio di conversation, che torna pure nei capitoli precedenti, è seguito da due nuovi paragrafi teorici che sostituiscono le Regole e note spiegative: Verbs with particles e Homonyms and homographs. Nel primo l’autore elenca di nuovo alcuni dei Verbs with particles, già compresi nella lista generale di cui abbiamo detto sopra, affinché l’allievo li memorizzi ulteriormente. Anche in questo caso egli ribadisce che tali phrasal verbs sono "numerosissimi in inglese" e la loro conoscenza è importante poiché "spesso diverse particelle accompagnate allo stesso verbo ne cambiano completamente il significato, p.e. come out, uscire; come in, entrare; come up, salire; come down, discendere".
Il secondo paragrafo, innovativo per l’aspetto trattato, riporta alcuni tra i più frequenti Homonyms and homographs inglesi. Gli esempi fatti sono composti da circa cinque parole per ogni capitolo aventi uguale pronuncia, ma significato diverso. Come esercizi conclusivi di ciascuna sezione si propone ancora la translation, una ventina di frasi da tradurre in L2 e The Seeds of the Apple, trentunesima versione dall’italiano, appartenente a quel Riposo dello studio di cui abbiamo parlato durante la descrizione del Corso preparatorio.
Sin dalle prime pagine di questa terza parte è palese l’intento di Foulques di avviare lo studente all’esercizio continuo della lingua parlata, tanto da introdurre nel novantaduesimo capitolo e successivi (sostituendo l’elencazione dei verbi con particelle e gli Homonyms and homographs) anche gli "idiotismi" inglesi. Essi, come presto diremo, non consistono in quei veri e propri costrutti linguistici particolari e caratteristici di un idioma, nel nostro caso della lingua inglese, bensì corrispondono, per lo più, alla traduzione inglese di proverbi di uso comune in tutta l’Europa.
Un primo esempio di ciò è il detto to build castels in the air, tale e quale all’espressione italiana "far castelli in aria". In realtà, quei pochi dizionari di idiomi inglesi che la riportano, considerano di uso più frequente nella lingua l’espressione "building castles in Spain" che significa egualmente fantasticare su cose che non hanno alcun fondamento. Sebbene con il beneficio del dubbio, siffatto modo di dire si fa risalire ad una frase del roman de la rose: "Allora farà castelli in Spagna e avrà gioia di nulla". Alcuni ritengono, diversamente, che il detto risalga alle chansons de geste dei cavalieri i quali, come ricompensa dei loro servigi, ricevevano dei feudi in Spagna spesso inesistenti. Altri ancora ne traggono l’origine dal fatto che in Spagna non si era soliti costruire castelli isolati nelle campagne, per timore che fossero assaliti all’improvviso dai Mori. Vedere, quindi, un castello con tutte le sue peculiarità nelle campagne spagnole è sempre stata una cosa molto difficile.(64)
Altri esempi di semplice traduzione sono: il famoso detto di origine biblica to cast pearls before swine, "buttare perle ai porci"; oppure to err is human dal latino errare humanum est; oppure Physician cure thyself, sempre dal latino medice, cura te ipsum(65); to put the cart before the horses, mettere il carro davanti ai buoi; out of the frying-pan into the fire, dalla padella alla brace; she is worth her weight in gold, essa vale tanto oro quanto pesa; walls have ears, le mura hanno orecchie; to make a virtue of necessity, far di necessità virtù; to be like a fish out of water, sentirsi un pesce fuor d’acqua (l’unica differenza di tale espressione con la corrispettiva italiana è che l’intera frase può essere utilizzata davanti un nome per descrivere una situazione dove qualcuno si sente a disagio: The fish-out-of-water feeling continued, la situazione di di-sagio continuò.).
Un altro modo di dire, molto conosciuto in Italia e che Foulques annovera tra i "proverbi inglesi", è "cavare le castagne dal fuoco", ma la sua traduzione non corrisponde a quella attualmente utilizzata in Inghilterra. Egli ci riporta: to make a cat’s paw of one e lo traduce "cavare le castagne dal fuoco con la zampa del gatto". I dizionari inglesi, alla voce chestnuts, riportano: to pull someone’s chestnuts out of the fire. Il dizionario Collins, in particolare, aggiunge una nota esplicativa che giustifica quanto tradotto sopra dall’autore de Il Tesoro della Lingua Inglese. In essa si legge: "This expression is based on the fable of the cat and the monkey. The cat wanted to get some roast chestnuts out of the fire but did not want to burn its paws, so it persuaded the monkey to do the job instead"(66). La favola a cui il dizionario si riferisce è quella di La Fontaine, Le singe et le Chat (favole IX, 17), in cui "due bricconi, la scimmia Bertrand e il gatto Raton, videro arrostire delle castagne e pensarono di rubarle. La scimmia accampò la scusa che non aveva le zampe adatte allo scopo e, blandendo il gatto, lo convinse ad affrontare lui l’impresa. E il felino, con astuzia e fatica, "ne tira fuori una, poi due, poi tre e Bertrand se le sgranocchia""(67). In realtà i vari testi consultati sull’origine dei proverbi e dei modi di dire danno diverse versioni della stessa favola. Ciò che importa è che tutti concordano sullo stesso significato dell’espressione: far qualcosa a proprio vantaggio lasciando i pericoli agli altri e goderne i frutti. Sicuramente nel XIX secolo ci si rifaceva ancora all’espressione originaria che, col tempo, ha dato luogo a quella generale ed impersonale di "cavare le castagne dal fuoco".
Il primo esempio di espressione simile, ma lievemente diversa nel significato rispetto a quella comune italiana è to kill two birds with one stone che Foulques traduce con "prendere due piccioni con una fava". Se in italiano tale detto significa raggiungere due scopi diversi con una sola operazione, in inglese vuol dire "you manage to achieve two things at the same time (es. we can talk about Union Hill while I get this business over with. Kill two birds with one stone, so to speak)"(68).
Un modo di dire inglese, senza un reale corrispettivo in italiano, è, invece, to blow hot and cold cui l’autore dà il significato di "essere ipocrita". A tal proposito il Collins, a sua volta, riporta numerose spiegazioni in tre voci differenti. In primo luogo l’espressione descrive lo stato d’animo di chi talvolta è entusiasta o interessato a una certa cosa e in altri momenti non lo è. La seconda voce del dizionario suggerisce un significato più vicino a quello italiano dato da Foulques ne Il Tesoro della Lingua Inglese: "Someone who is enthusiastic about something or interested in it at the moment, but that you are sure their attitude will soon change"(69). Continuando alla terza voce si legge: "if you say that someone blows hot and cold, you mean that sometimes their work or performance is good, and sometimes it is not. Ex. They seem to have blown hot and cold in their early matches". Si tratta, appunto, di una espressione idiomatica prettamente inglese che sarebbe in ogni modo incomprensibile per l’interlocutore italiano.
Alla stessa stregua di quest’ultima espressione può considerarsi anche il detto "he is a skin-flint", tradotto da Foulques con il dispregiativo "è un avaraccio". Anche in questo caso sarebbe impossibile tradurre letteralmente il modo di dire inglese, dal momento che skin significa pelle, mentre flint pietra dura come una roccia. Secondo l’OED l’aggettivo apparve in Inghilterra intorno al 1700 e con esso si indica un uomo, misero, che vorrebbe anche la pelle come una roccia, pur di guadagnare o conservare qualcosa : "a miser who would even skin a flint to save or gain something; an avaricious, penurious, mean or niggerdly person; a miser".
Gli "idiotismi" riportati da Foulques sono numerosissimi e analizzarli singolarmente in questa sede, per quanto possa essere un lavoro non solo interessante ma anche affascinante, ci allontanerebbe troppo dal nostro intento principale : riscoprire questa grammatica del XIX secolo e analizzarne i contenuti per meglio comprendere la metodologia adottata dall’autore durante i primordi dell’insegnamento delle lingue moderne e, nel caso specifico, della lingua inglese.
L’ultima parte, che chiude il corso teorico pratico di Foulques, è l’Appendice, una ventina di pagine, di cui le prime quattro sono dedicate alla trattazione dei fatti "più importanti" della storia della lingua inglese, che "com’è attualmente in uso è derivata da molte altre, e consiste di circa 43.000 parole, inclusi i nomi propri"(70). L’autore elenca i principali idiomi europei, moderni e antichi, che hanno influenzato la lingua inglese, apportando in essa un numero cospicuo di parole legate ora all’arte, ora alla guerra, ora alla religione, ora al commercio etc. Infine, egli sottolinea la continua evoluzione di tale lingua che "la formazione di nuove parole tende, anche ora, ad aumentare" in tre modi diversi : 1) "col comporre una parola nuova di due o più parole vecchie" come per esempio post-office; 2) con l’utilizzare una parola in un senso nuovo come switches, scambi e sleepers, traverse nell’ambito della ferrovia"; 3) "coll’inventare una parola del tutto nuova"(71) quale fudge, frottola o quiz, scherzo.
Le successive sedici pagine dell’Appendice contengono due prove di esame, a cui l’insegnante dovrà sottoporre lo studente per testarne la preparazione alla fine del corso. La prima è una prova orale, costituita da ben 550 domande alle quali l’"allievo dovrà rispondere speditamente" al professore. Esse riguardano non solo tutte le materie trattate ne Il Tesoro della Lingua Inglese, ma anche argomenti più generali, di carattere privato o inerenti alle lezioni svolte, come per esempio: "20. Do you learn English? 21. How many lessons have you had? 22. In what season did you begin to learn? 23. How many lessons do you take a week? 24. Do you find English difficult?".(72) La seconda è una prova di composizione in cui, come si evince dal titolo: Subjects for English Compositions, l’autore propone all’allievo un centinaio di soggetti da svolgere in L2. Essi variano da argomenti legati a episodi storici come "7. The foundation of Rome, a classical reminiscence" ad altri legati alle esperienze personali degli allievi. Al numero cinque, per esempio, viene offerto un soggetto fantasioso: "The rhinoceros and the mouse, a fable: - the monster boasts of his strength and bulk, - laughs at the timidity of the mouse, - arrival of a troop of hunters, - the mouse finds safety in a hole, the huge beast is killed"; al numero dodici ne troviamo uno legato alla vita scolastica: "What are the duties of a school-master; - what qualities should he possess?"; al numero nove, invece, si richiede un lavoro meramente descrittivo in cui i suggerimenti dell’autore sulla forma sono molto espliciti: "Description of one of the principal towns in Italy; - general aspect, - streets, - buildings, - cleanliness, - public walks, - inhabitants".(73) Ciascuno dei temi proposti dovrà essere elaborato in lingua inglese seguendo, nella composizione, le indicazioni dello stesso Foulques. Il corso teorico-pratico cui abbiamo dedicato le nostre pagine non si conclude con un’appendice che approfondisce ulteriormente gli argomenti sinora trattati. Dopo una breve esposizione sulla storia della lingua inglese troviamo, piuttosto, delle complesse prove che mirano a scoprire nell’alunno soprattutto le sue capacità orali e di composizione, quasi a sottolineare i due principali obiettivi dell’autore, ossia mettere lo studente nelle condizioni di poter capire l’interlocutore straniero e parlare "speditamente" e, in pari tempo, sviluppare le capacità di composizione in ambiti di diverso genere che spaziano, come abbiamo visto, dalla storia alle esperienze personali.
Lo stesso non si può affermare per Il Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema Ahn, in cui la terza e ultima parte comprende delle semplici Letture graduate suddivise in appena otto pagine. Il testo, inoltre, non possiede un’appendice e complessivamente può essere considerato una vera e propria grammatica didattica poiché la spiegazione delle regole avviene nel modo più semplice, chiaro e conciso possibile(74). Gli esercizi sono soprattutto di traduzione e permettono di fissare, attraverso l’applicazione pratica, le regole e i principi base della lingua inglese. Lo speaking è affidato a piccoli esercizi di conversazione in cui figurano una dozzina di domande, inerenti alle letture fatte. Anche la stessa conoscenza dei suoni e della pronuncia viene del tutto affidata all’utilizzo della pronuncia inglese figurata che, come abbiamo visto, accompagna sia gli esempi, sia le esercitazioni.
Conclusione
A conclusione va detto che in entrambi i testi Eugenio Wenceslao Foulques - intellettuale di formazione certamente umanistica che si adoperò moltissimo per la diffusione delle lingue moderne in Italia - sembra rivolgersi non solo a un pubblico scolastico, ma anche a tutti coloro che nell’Ottocento desideravano apprendere e migliorare la conoscenza della lingua inglese fuori da una scuola. L’ausilio di un insegnante viene esplicitamente suggerito dall’autore, ma l’organizzazione degli argomenti, soprattutto nel Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, non limita l’acquisizione della lingua a un contesto meramente scolastico. Lo stesso fatto che Foulques avesse elaborato un corso completo per l’apprendimento delle lingue inglese e francese, in cui i diversi libri potevano formare un tutto completo o essere venduti separatamente l’uno dall’altro in tutta Italia, ci dimostra che il pubblico cui egli si rivolgeva era molto più eterogeneo di quello dei banchi di scuola.
Le inserzioni pubblicitarie che troviamo ne Il Tesoro della Lingua Inglese ci dicono, infatti, che l’autore corredava le grammatiche con testi di esercizi e relative chiavi, con guide alla lettura e alla conversazione in lingua straniera o, ancora, con antologie letterarie ricche di note biografiche e ritratti dei principali scrittori stranieri. In altre parole la pubblicità, volta a favorire il successo commerciale del testo, non solo ci rivela il prestigio della Casa Editrice Poliglotta, ma anche l’approvazione che, in campo nazionale, i testi di Foulques riscuotevano, sia tra le scuole, sia tra la gente comune.
La lingua usata dall’autore per redigere le grammatiche è l’italiano e tutti gli argomenti e gli esempi riportati sono relazionati dal punto di vista dello studente italiano. Foulques è più che consapevole delle difficoltà cui l’allievo può andare incontro e, con continua partecipazione all’interno del testo, si sofferma ora a dare suggerimenti sulla migliore metodologia da adottare, ora a incoraggiare l’allievo a superare quegli aspetti, grammaticali e non, che l’autore considera di maggiore difficoltà per un interlocutore italiano. L’utilizzo della traduzione interlineare, il paragrafo sulle rassomiglianze e sui paragoni, le liste dei verbi regolari e dei verbi con particelle (arricchite da note chiarificatrici), gli aneddoti sui possibili errori che si possono commettere e, infine, l’elencazione dei proverbi e dei modi di dire sono tutte dimostrazioni del fatto che Foulques si mise realmente nei panni di uno studente la cui lingua madre era radicalmente diversa da quella che costui si accingeva ad apprendere.
A tale riguardo il caso dei proverbi e dei detti inglesi, riportati ne Il Tesoro della Lingua Inglese, è quello che potrebbe suscitare maggiori titubanze. La conoscenza e l’uso di questi avrebbero probabilmente consentito a uno studente dell’Ottocento, senza distaccarsi dal proprio patrimonio culturale, di farsi capire da un inglese, ma sicuramente, a parte qualche eccezione, non lo avrebbero messo nelle condizioni di capire le molteplici frasi idiomatiche che gli inglesi sono soliti intercalare nel loro parlare comune. Tuttavia è sempre didatticamente apprezzabile il tentativo dell’autore di dare all’allievo anche tali strumenti di comunicazione.
La differenza principale tra i due testi consiste nell’importanza attribuita alle regole grammaticali proprie della lingua inglese. Come abbiamo avuto modo di constatare, l’impostazione didattica del Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese non trova riscontro ne Il Tesoro della Lingua Inglese in cui le regole grammaticali vengono rimandate a brevi e semplici Note spiegative introdotte nel mezzo di ciascun capitolo tra gli esercizi di lettura e quelli di traduzione e conversazione. Nel Corso preparatorio sono, inoltre, espressi soltanto i principi generali della grammatica, mentre le minuzie di ogni singolo argomento vengono rimandate, qua e là, al Corso di perfezionamento. La maggior parte dei concetti vengono spiegati attraverso numerosissimi esempi, in cui la traduzione interlineare permette allo studente di avere un immediato confronto tra L1 e L2 e di poter, altresì, confrontare, sul momento, la morfologia e la sintassi di entrambi gli idiomi. Da qui lo studio comparativistico tra la lingua italiana e quella inglese, tipico dei metodi analitici interlineari. Ciò potrebbe anche permetterci, in una visione globale de Il Tesoro della Lingua Inglese, di mitigare il giudizio di marginalità espresso sulle regole grammaticali di cui abbiano discusso a proposito del metodo Ahn-Robertson. E, quindi, affermare che, sebbene tale metodo privilegi l’apprendimento delle capacità colloquiali, esso, nel suo complesso, non sottovaluta del tutto l’incameramento di regole grammaticali e sintattiche. Abbiamo visto, fra l’altro, che Foulques intercala anche delle liste, in cui non si limita a elencare i verbi, bensì li arricchisce con note aggiuntive. Egli riporta aneddoti o consigli, suggerendo spesso l’assimilazione degli argomenti passati prima di proseguire con i capitoli successivi. L’autore, in altri termini, è costantemente presente all’interno del testo, dà consigli, suggerisce le modalità di apprendimento e, soprattutto, avverte sulle difficoltà senza mancare mai di rassicurare lo studente.
Un ampio spazio, come si è detto, viene dedicato alla trattazione della pronuncia. La descrizione accurata di ogni singolo suono, nella prima parte de Il Tesoro della Lingua Inglese, evidenzia subito l’importanza attribuita non solo alla pronunciation, ma anche alla conoscenza delle caratteristiche fonetiche della lingua. Nel Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese, invece, nonostante Foulques spieghi esaurientemente l’argomento nella prima parte, la pronuncia figurata accompagna ogni singola lettura ed esercizio in tutto il testo e ciò comporta per lo studente, uno studio fondato prevalentemente sulla memoria piuttosto che sul ragionamento. Oggi la tendenza di alcuni grammatici è quella di rimandare l’acquisizione della pronuncia inglese alle regole internazionali della fonetica, mentre altri, screditando queste ultime, sostengono che il listening riesce sempre e comunque a dare una versione più perfetta della cosa.
Un aspetto che è opportuno sottolineare, in entrambi i testi, è quello che l’autore si limita semplicemente a descrivere le parti inglesi del discorso senza preoccuparsi di spiegarne il significato e la funzione propri nell’uso di una lingua. Ciò presuppone che l’allievo debba conoscere di suo la grammatica della L1, la quale - sia secondo il metodo Ahn, sia secondo il metodo Ahn-Robertson - rappresenta uno strumento essenziale nel processo di acquisizione della L2.
Altro aspetto, tipico delle prime grammatiche per l’insegnamento della lingua inglese, è che le traduzioni e gli esercizi di conversazione proposti dall’autore esulano spesso dalle esigenze della quotidianità. Per esempio, un racconto su un naufragio, come quello che abbiamo citato e ritroviamo ne Il Riposo dello studio, non impartisce la conoscenza linguistica indispensabile allo studente per trasmettere i suoi bisogni più elementari in inglese. Oggi, diversamente dal passato, i numerosi testi disponibili, offerti a chiunque volesse apprendere una lingua straniera, partono per lo più dalla realtà che ci circonda, illustrando come muoversi all’interno di un aeroporto o per la strada.
NOTE
(1) In questa e in altre sue pubblicazioni i nomi dell’autore sono sempre con le sigle iniziali, E. W., che sono precedute dal titolo di Prof.. In qualche edizione successiva il nome Wenceslao è italianizzato in Venceslao.
(2) Questa casa editrice, come viene indicato nella stessa copertina, si serviva della Tipografia Muca, sita, sempre a Napoli, in via San Sebastiano n. 51.
(3) Si tratta della Biblioteca parrocchiale di Alia, in provincia di Palermo. La segnatura del volume è 371.3.FOU
(4) Cfr. la copertina de Il Tesoro della Lingua Inglese, Corso teorico-pratico del Prof. e.w. foulques, Sesta edizione, Napoli, Casa Editrice Poliglotta, s.d..
(5) Per tutta questa parte cfr. le pagine pubblicitarie di inizio e fine volume de Il Tesoro della Lingua Inglese, Corso teorico-pratico del Prof. e.w.. Foulques, cit..
(6) a.c. baugh, t. cable, A History of the English Language, London, Routledge, 2002, V ed., p. 274.
(7) a.p.r. howatt, A History of English Language Teaching, Oxford, Oxford University Press, 1984, p. 139 ; "Between 1880 and 1907 fifty-three universal languages were proposed. Some of these enjoyed an amazing, if temporary vogue. In 1889 Volapük claimed nearly a million adherents. Today it is all but forgotten. A few years later Esperanto experienced a similar vogue, but interest in it now is kept alive largely by local groups and organizations. Etc.", a.c. baugh, t. cable, op. cit., p. 7; Cfr. anche a. mauranen, English as Lingua Franca – an Unknown Language?, relazione al convegno su "Identity, Community, Discourse: English in Intercultural Settings", University of Turin – Sixth Centennial Celebrations, 30 Sept. – 2 Oct. 2004, atti in corso di pubblicazione.
(8) Se nella prima metà del XIX secolo, si registra un vero e proprio boom nella pubblicazione di phrasebooks per viaggiatori o per chiunque fosse interessato all’apprendimento di un idioma europeo, non bisogna sottovalutare, a questo proposito, la fondazione nel 1880 della Society for Promoting the Study of Foreign Languages, alla quale si deve il patrocinio di un gran numero di opere per l’insegnamento e la diffusione delle lingue moderne. Cfr. anche m.g. barbarroja, Introducción y desarrollo del español en el sistema universitario inglés durante el siglo XIX, (REDIRIS), 2003, su red temática de lingüística de lespañol asociada a la lista de distribución infoling, http://elies.rediris.es/elies20/.
(9) Cfr. m.g. barbarroja, Introducción y desarrollo del español en el sistema universitario inglés durante el siglo XIX, (REDIRIS), 2003, su red temática de lingüística de lespañol asociada a la lista de distribución infoling, http://elies.rediris.es/elies20/.
(10) a.p.r. howatt, op. cit., p. 140.
(11) Durante gli anni trenta del diciannovesimo secolo si assiste in Inghilterra al fiorire di un’intensa attività filologica e alla pubblicazione di numerosi testi per l’insegnamento delle lingue moderne che hanno come punto di riferimento, o meglio come archetipo, l’impostazione delle grammatiche latine. È quello il periodo in cui primeggia l’influenza di Horne Tooke, il massimo rappresentante del metodo tradizionalista. Lo studio sulle grammatiche inizia soprattutto dopo il 1840 e si deve all’importanza riconosciuta alla lingua quale veicolo di cultura e comunicazione. Cfr. aarslef, hans, The study of language in England, 1780-1860, Princeton, Princeton University Press, 1967.
(12) a.p.r. howatt op. cit., p. 149.
(13) Per maggiori approfondimenti cfr. m.g. barbarroja, Introducción y desarrollo del español en el sistema universitario inglés durante el siglo XIX, (REDIRIS), 2003, su red temática de lingüística de lespañol asociada a la lista de distribución infoling, http://elies.rediris.es/elies20/.
(14) Il suono della L2 viene ricostruito attraverso la combinazione di lettere della L1, la cui lettura permette allo studente di avvicinarsi il più possibile alla giusta pronuncia delle parole straniere prese in esame. Come afferma Pedersen, tale importanza data alla pronuncia e il meccanismo adottato per garantire una corretta pronunzia dei suoni, gettarono le basi della linguistica comparata e della conseguente nascita del sistema di trascrizione fonetica contemporaneo.
(15) a.h. monteith, Robertsonian Method. A course of lessons in the Spanish Language, intended to enable persons to acquire the language without oral instruction, London: Samuel Gilbert […] p. III.
(16) Ivi, p. 7; "In order that the student may ascertain whether he has acquired a proficiency in the words, we shall range them in two columns, the Spanish on one side and the English on the other; so that either the one or other column being covered over, the student may submit himself to a special examination in this particular. This exercise should be persisted in until the meaning of each Spanish word is firmly impressed on the memory, and the English ones can be turned into Spanish with the utmost facility", Ivi p. 8.
(17) Il comparativismo del metodo di Robertson, secondo quanto afferma la Gallardo, mira a stabilire le somiglianze strutturali tra due lingue, piuttosto che le differenze. E, in questo senso, si avvicinava alla corrente comparativistica rappresentativa della linguistica del diciannovesimo secolo che ebbe grande influenza nell’insegnamento delle lingue moderne.
(18) e.w.foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 9.
(19) Ivi, p. 11.
(20) Tra le ultime pagine del testo si trova anche una breve, ma esaustiva, dissertazione sulla storia della lingua inglese. Ciò denota come Foulques abbia cercato di rendere quanto più completo il suo lavoro approfondendo non solo gli aspetti grammaticali ma anche quelli storico linguistici.
(21) e.w. foulques, Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, Napoli, Anacreonte Chiurazzi, s.d., p. VIII.
(22) Ivi, p. IX.
(23) Ivi, p. 1.
(24) Ivi, p. 43
(25) Ivi, p. 69.
(26) Sicuramente si tratta di un errore di stampa, prince sta per principe.
(27) e.w. foulques, Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, cit., p. 100-101.
(28) È opportuno sottolineare che per ‘pratico’ nel contesto della metodologia di allora si intendeva un metodo che fornisse una tipologia svariata di esercitazioni. Quindi l’uso che, in questa sede, si fa di tale parola non deve essere inteso nel significato più comune di utile ma nel significato di esercitazione, messa in pratica della lingua per un suo immediato e facile apprendimento.
(29) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 38.
(30) Ogni lettura e traduzione viene incolonnata alla stessa stregua del Nuovissimo Metodo, manca la pronuncia figurata.
(31) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 38.
(32) Ivi, p. 39.
(33) Ivi, p. 60.
(34) "The town, la città, in generale; - the city, la città, in senso più poetico e quando si parla della parte più antica di certe metropoli, come Londra e Parigi. The door, la porta; the gate, il portone", Ivi, p. 48.
(35) Ivi, p. 152.
(36) e.w. foulques, Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, cit., p. 4.
(37) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 41
(38) Ivi, p. 71.
(39) Nonostante Foulques affermi e ribadisca più volte l’uso frequente di you nella conversazione a dispetto di thou, "usato in poesia e nello stile elevato parlando a Dio od a cose inanimate", nella coniugazione di ciascun tempo riporta sempre e comunque Thou.
(40) Il modo imperativo, come è noto, non ha una forma interrogativa. Tuttavia Foulques lo inserisce, forse per ragioni di sinteticità, insieme con gli altri modi.
(41) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 81.
(42) Ivi, p. 84.
(43) Cfr. f. thomas, Storia della lingua inglese, Napoli, Liguori Editore, 1988.
(44) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 63.
(45) Ivi, p. 122.
(46) Cfr. f. thomas, op. cit., pp.195-196, 389-90.
(47) e.w. foulques, Il tesoro della lingua inglese, cit., p. 205.
(48) Cfr. f. thomas, op. cit.; a.c. baugh, t. cable, op. cit.; etc.
(49) j.c. nesfield, Modern English Grammar, London, Macmillan and Co., 1918 (first edition 1912), p. 65.
(50) Ivi, p. 64
(51) Ibidem.
(52) j.c. nesfield, Historical English and Derivation, cit., 1922, p. 131
(53) Ibidem.
(54) Ivi, p. V.
(55) e.w. foulques, Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, cit., p. 141; e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 136.
(56) Ibidem
(57)e.w. foulques, Nuovissimo metodo pratico e facile per apprendere la Lingua Inglese secondo il sistema di F. Ahn, cit., p. 144; e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 139.
(58) e.w. foulques, Il Tesoro della Lingua Inglese, cit., pp. 244 - 246.
(59) Ivi, p. 248.
(60) j.c. nesfield, Historical English and Derivation, cit., p. 233.
(61) e.w. foulques, Il tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 249.
(62) Ibidem.
(63) Ivi, p. 287.
(64) Cfr. g. pittano, Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, Bologna, Zanichelli, 1992.
(65) Medice, cura te ipsum è una frase presa dal vangelo di san Luca (4, 23). Gesù prega nella sinagoga di Nazareth tra l’ammirazione di tutti. A un certo punto rivolto a coloro che si meravigliavano, dice: "certo che voi direte a me quel proverbio: Medico cura te stesso; tutte quelle cose che abbiamo udito essere state fatte in Cafarnao, falle anche qui nella tua patria". Questo modo di dire è rivolto a coloro che vogliono dare consigli o vogliono correggere i difetti altrui che dovrebbero invece correggere in se stessi. Corrisponde all’evangelico vedere la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedere la trave nel proprio", g. pittano, op. cit., p. 188.
(66) Dictionary of Idioms, Harper Collins Publishers, 2002, p. 64.
(67) g. pittano, Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, op. cit., p. 183.
(68) Dictionary of Idioms, cit., p. 29.
(69) Ivi, p. 204.
(70) e.w. foulques, Il tesoro della Lingua Inglese, cit., p. 395.
(71) Ivi, p. 398.
(72) Ivi, p. 399.
(73) Ivi, p. 408.
(74) Tutta la grammatica inglese è descritta in appena 150 pagine che comprendono anche svariate tipologie di letture, nomenclature ed esercizi.
L’ottocento
Ad una sintesi dei fatti e delle storie particolari riflettenti l’umore del tempo, la Sicilia del 1867 appare una regione profondamente delusa del momento storico raggiunto. Ci si andava rendendo conto amaramente come l’Unità d’Italia conseguita, agognata dalle classi sociali più evolute ed attive, stava significando la fine del mito indipendentista e la definitiva conclusione della condizione e dei privilegi d’un regno per secoli importante e soggetto d’una propria politica nel contesto europeo; condizione che veniva avvertita soprattutto dalle classi sociali più colte. Per il popolo più umile, per gli ex picciotti e garibaldini e per i progressisti in genere il consolidarsi dell’appartenenza al Regno d’Italia significava la fine del sogno d’una possibile rivoluzione sociale mazziniana o addirittura "internazionalista"; per tutti, poi, si andava rendendo sempre più evidente e mortificante il confronto tra la condizione economica e sociale meridionale e quella del più evoluto Nord, sulle cui regole avveniva l’unificazione giuridica, economica ed amministrativa di tutto il territorio del Regno e si conformavano parametri di convivenza e criteri di ordine pubblico.
Nell’autunno del 1866, un’insurrezione popolare antipiemontese era scoppiata a Palermo. I rivoltosi (legittimisti borbonici, componenti clericali, contadini esasperati dalla pressione fiscale, repubblicani, mazziniani e socialisti) si erano impadroniti della città con battaglie portate strada per strada per sette giorni. Ma il 22 settembre la rivolta era stata domata dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, commissario con pieni poteri inviato dal Governo, che comanderà a Palermo fino alla fine dell’anno, reprimendo definitivamente ogni aspirazione autonomista o riformista, arrestando migliaia di cittadini, giustiziandone sommariamente centinaia e facendone condannare a morte dai tribunali militari molte decine .
Nel 1867, il Governo era guidato dal toscano Barone Bettino Ricasoli, cui successero il piemontese Urbano Rattazzi ed il savoiardo generale Luigi Federico Menabrea. La condizione della Sicilia come territorio annesso al Regno Sabaudo sembrava inoltre debole nel contesto di un paese economicamente e socialmente disomogeneo. E siccome si trattava prima di tutto, secondo la linea propria della Destra storica, di risanare il bilancio statale, fortemente compromesso, da ultimo, dalle spese straordinarie sostenute per la guerra contro l’Austria del 1866, non era neanche possibile immaginare operazioni di forte redistribuzione delle sostanze attraverso investimenti riequilibratori.
Il 15 agosto fu promulgata la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici, la liquidazione dell’asse ecclesiastico e la devoluzione allo Stato dei relativi patrimoni, per lo più situati nel Meridione. Una tale operazione, ispirata dall’intento di rimettere in circolazione terreni ed immobili della c.d. manomorta, onde suscitare maggiore facilità di accesso dei ceti sociali nuovi ad attività economiche legate a beni immobili e, specialmente, al fattore di produzione "terra", finirà, come è noto, col favorire ancora le persone ed i gruppi economici che, per essere già abbienti, poterono pagare allo Stato le cifre richieste per le assegnazioni, aggravandosi così ancora di più la cesura tra ceti possidenti e proletariato misero e vessato: argomento in più di scontento per una "rivoluzione fallita".
Sempre per il fine di sanare il deficit del nuovo Stato, i governi del tempo introdussero misure fiscali straordinarie, quali l’aumento delle imposte sulle proprietà fondiarie e l’imposta sulla macinazione dei cereali (c.d. tassa sul macinato); imposta che, incidendo sui consumi di prodotti di primissima necessità quali il pane e la pasta, sebbene utile per le casse dello Stato, risultò odiosa, gravando pesantemente sull’economia domestica delle popolazioni rurali. Per questo, sin dal gennaio 1869, si verificarono in tutta l’Italia rivolte e sommosse di contadini che costarono molte decine di morti e centinaia di feriti.
Ancora più complessivamente, lo scenario nazionale comprendeva: le polemiche per la sconfitta di Lissa con il relativo processo all’Ammiraglio Persano, la battaglia di Mentana, la infruttuosa spedizione di Garibaldi a Roma.
A Torino, il 9 febbraio del 1867, era uscita per la prima volta la Gazzetta piemontese, quotidiano che, assumendo sin dagli inizi un ruolo informativo da stampa di capitale morale di un Regno che si sentiva ormai consolidato in uno Stato nazionale di lungo avvenire, assumerà presto il titolo La Stampa, per essere strumento di informazione per tutto il Paese. A Palermo, il quotidiano Giornale di Sicilia usciva invece regolarmente ormai da sette anni. A Napoli, nel 1981, inizierà le pubblicazioni il quotidiano Il Mattino.
La consapevolezza che, comunque, anche la Sicilia si trovava ormai nel contesto economico di una grande nazione, nell’ambito della quale il suo tessuto produttivo doveva sostenere una più sofisticata concorrenza, anche al fine di imporsi nei mercati esteri, richiedeva sempre più la puntuale e tempestiva conoscenza di dati e di fatti di valore economico.
Nel clima che si è appena sommariamente richiamato, una tale esigenza veniva raccolta a Palermo da Luigi Pierallini(1), il quale fondava nel 1868 il giornale Avvisatore Marittimo Commerciale(2) che avrebbe avuto, attraverso varie vicende e parziali mutamenti di testata e di orientamenti, mai tuttavia tali da mutarne l’essenza di giornale economico, lunghissima vita; essendo durato fino al 1994.
Si trattò all’inizio di un giornale trisettimanale di dimensioni molto esigue e su carta economica. Spesso si componeva di un solo foglio con caratteri tipografici in corpo otto, privo generalmente di cronache, editoriali e commenti, che veniva distribuito per la città a mano non appena licenziato dalla tipografia. Riportava essenzialmente dati, secondo le voci delle rubriche che sarebbero rimaste immutate per decenni: Movimento del porto, Esportazioni di Palermo, Catania e Messina, Protesti cambiari, Fallimenti, Cronaca del commercio, Dissesti e dissestati, Giurisprudenza commerciale, Telegrammi agrumari, e dando essenziali informazioni sulla domanda di importazione di agrumi e vino da parte di Germania, Francia, Belgio ecc; sulle condizioni che tali prodotti dovevano avere per potere essere esportati; sulla legislazione e le condizioni per l’emigrazione negli USA e nell’America del Sud.
Oltre a tali rubriche, emblematiche di quali fossero i maggiori traffici commerciali e le correnti migratorie da e per la Sicilia (particolarmente indicativa quella sui movimenti nel porto di Palermo), interessante per capire certe contiguità nell’economia del Mediterraneo di allora è la pubblicità fatta ricorrentemente dell’Annuario di Sicilia, di Malta e di Tunisi (Grande guida commerciale, con 300.000 indirizzi) edita da Niccolò Giannotta di Catania.
E’ verso la fine degli anni ottanta che il giornale sembra diventare il prototipo di un giornale contemporaneo. Apparteneva del resto ad un contesto di giornali d’una certa consistenza nella provincia di Palermo dove, nel 1891, si stampavano 54 periodici(3). Sono gli anni in cui si manifesta una delle cicliche crisi del Banco di Sicilia(4), per cui, tra i primi "testi lunghi" il giornale poteva riprodurre, per la curiosità dei lettori operatori economici e politici, le interpellanze in discussione nel Parlamento del Regno sulla conduzione del primo istituto bancario siciliano. Si svolgono inoltre elezioni amministrative, dopo la riforma della legge comunale e provinciale del 1888, che ampliava il diritto di voto, ed il giornale prende per la prima volta, dopo oltre vent’anni di vita, posizione contro i giochi e gli accordi pre-confezionati che, ricorrentemente, destano disamore e delusione in chi crede in una democrazia autentica. Nel novembre del 1890 intervenivano inoltre le elezioni politiche, per le quali il giornale parteggiava esplicitamente per Crispi e per Michele Amato Pojero.
Negli anni novanta, quando ormai usciva quotidianamente, si aggiungeva nella testata l’indicazione Ufficiale per gli atti della Camera di commercio, con l’aggiunta dello stemma del Regno.
Sul piano giornalistico e della tecnica della comunicazione è rilevante, come parametro del formarsi d’una azienda giornalistica moderna, che lo stesso giornale annunci il 10 marzo 1889: "L’Amministrazione dell’Avvi-satore Marittimo Commerciale avverte i signori commercianti che, volendo rendere la propria tipografia atta a qualsiasi richiesta per lavori di lusso e comuni, ha ritirato un’altra macchina di grande formato nonchè un’estesa collezione di tipi inglesi e a fantasia" e, nel numero successivo: "L’Avvisatore Marittimo Commerciale, nato di forma assai modesta e che conta ben ventun’anno di sua laboriosa esistenza, mercè gli aiuti dei suoi cari abbonati, oggi si presenta di un formato regolare, sperando di occupare quel posto che si è procurato col suo zelante ed indefesso lavoro e per appagare sempre più i desideri manifestati da coloro che al commercio appartengono"(5).
Circa i contenuti, nel numero del 1° gennaio 1890, si informano i lettori che "Il giornale entrerà in una nuova fase: non sarà più il giornale esclusivamente commerciale ma tratterà in breve sunto le parti politica ed amministrativa che hanno la loro attinenza col commercio. Toccherà a tratti la cronaca, la vera cronaca, non i pettegolezzi. Farà la bibliografia delle opere di indole commerciale; darà un esatto resoconto delle procedure dei fallimenti e pubblicherà, .....ahi misero, i protesti di tutta la Sicilia ...". Sul problema della pubblicazione dei protesti cambiari, che il giornale riteneva un servizio importante a tutela dell’affidamento degli operatori commerciali, c’era stato il dissenso di molti lettori che contestavano l’opportunità di rendere pubblici fatti appartenenti alla sfera personale; ma il giornale restava fermo sulla propria linea, ritenendola coerente con i servizi da rendere ai propri lettori, sebbene offrisse agli abbonati "tre linee gratis per la giustificazione", ossia un piccolo spazio per chiarire se il titolo protestato fosse stato poi onorato, se si sia trattato di disguido, di omonimia ecc., in modo da potersi ristabilire eventualmente la buona fama degli interessati.
E’ in questo periodo che il giornale, forte dei suoi nuovi "tipi inglesi" ed, evidentemente, d’una più estesa organizzazione redazionale, ingrandisce anche i caratteri di stampa, migliora la carta, muta il sottotitolo in "politico-commerciale-quotidiano" (anche se non esce proprio ogni giorno) e comincia ad offrire anche qualche editoriale e sostanziosi articoli di cronaca. Dal 6 gennaio 1889 cominciò a pubblicare, tra l’altro, tutti i documenti programmatori dei diversi settori che sarebbero figurati nell’Esposizione nazionale che si sarebbe inaugurata a Palermo il 15 novembre 1891, nonché successivamente le cronache ed i commenti, anche con riferimenti alla stampa estera, dell’Esposizione in corso, ivi compreso, con i dovuti omaggi e le manifestazioni di devozione, il resoconto della visita del re Umberto e della regina Margherita, cui il giornale non riteneva doversi rivolgere quei sentimenti di ostilità o di diffidenza che ancora, evidentemente, serpeggiavano tra i siciliani come per una dinastia che aveva "annesso" l’antico Regno di Sicilia.
Ma quello che in queste cronache emerge indirettamente è lo stato di insicurezza che il tessuto industriale e, più in genere, produttivo della Sicilia mostrava nei confronti delle industrie delle regioni italiane del nord. L’Avvisatore riferiva di giudizi espressi, in sede di organizzazione, sulla "inopportunità di un confronto tra produttori manufatturieri delle province continentali d’Italia e quelle dell’Isola nostra: che cosa collocheremo, si osservava, accanto alle manifatture del Piemonte, della Lombardia, della Liguria?"(6) e commentava che invece proprio il confronto avrebbe fatto studiare rimedi ai nostri produttori onde essere competitivi e che v’erano dopotutto anche in Sicilia delle industrie manufatturiere di valore, come quelle della seta di Catania e Messina e quelle della ceramica, che forse avrebbero dovuto solo essere conosciute e avrebbero dovuto meglio impostare la propria attività commerciale.
Lunghi articoli e commossi commenti il giornale pubblicò, ovviamente, in occasione della morte di Ignazio Florio avvenuta il 17 maggio 1891, da cui si possono trarre oggi molte interessanti informazioni su questo grande industriale meridionale(7).
Sul finire del XIX secolo, il giornale seguì anche, dettagliatamente, la lunga crisi nei rapporti commerciali tra Italia e Francia, apertasi nel 1886 con la denunzia da parte italiana del vigente trattato, dopo che la Francia aveva, con evidente disconoscimento degli interessi degli esportatori italiani, aumentato i dazi di importazione sul grano e sul bestiame.
Agli inizi del novecento si presenta ormai, se non con l’aspetto, almeno con le tecniche di impaginazione dei giornali contemporanei, un giornale moderno: le colonne, l’attacco, il catenaccio, la finestra, il fondino, l’occhiello, la spalla ecc.
Un momento di entusiastiche ed esaltanti cronache sui progressi industriali siciliani è quello del 1925, quando "la Sicilia celebra la sua affermazione industriale", come, con titolo a grandi caratteri su nove colonne sotto la testata, il giornale presenta la prima Fiera campionaria siciliana che si inaugurava in uno scenario di grande suggestività, tra le magnolie e le palme del Giardino Inglese, e presentava con sintetiche schede i principali espositori. Sebbene, l’anno successivo, ci si fosse posto il problema dell’avvenire di quella manifestazione, essa fu aperta lo stesso il 20 giugno dell’anno seguente, quando venne ad inaugurarla sua altezza reale il Principe ereditario Umberto(8).
Analoga approvazione il giornale dedicava all’Esposizione agricola ed industriale che si svolse a Caltanissetta nell’ottobre dello stesso 1926.(9)
Passano gli anni della trasformazione dello Stato, con forti mutamenti nel sistema economico: il 3 maggio del 1926 è istituito il ministero delle corporazioni; alla Banca d’Italia è attribuito il controllo dell’intero sistema bancario italiano; il Prefetto Mori è inviato in Sicilia per intraprendere una lotta decisiva contro la mafia; è approvata la Carta del lavoro con cui, tra l’altro, sono soppresi il diritto di sciopero ed il diritto di serrata; sono firmati i Patti lateranensi; hanno inizio i lavori per la bonifica dell’Agro pontino; l’Iri si fa carico del risanamento finanziario delle maggiori banche italiane assumendo partecipazioni al loro capitale. Di tutto ciò vi sono echi nel giornale, il quale, come in un progetto di sviluppo complessivo d’una impresa editoriale, quale ormai appariva, nel 1934 affiancherà all’antica testata un supplemento: La Rivista per tutti, settimanale del giovedì, diretto da Franco Pierallini, figlio del fondatore del Giornale, e da Pier Luigi Ingrassia. Era una sorta di piccolo rotocalco ante litteram, stampato, come si usava allora per i giornali di attualità, in tenui colori seppia, giallo, amaranto, celeste ecc., diverso ogni settimana. Conteneva cronache e critiche del teatro e del cinema, articoli sulla moda, immagini di dive e perfino novelle e poesie, senza tralasciare, dato il tempo che era quello delle sanzioni economiche votate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni e della guerra in Etiopia, di esortare i lettori a dare oro alla Patria. Vi collaborarono tra gli altri Enrico Ragusa, Vanni Pucci, Arcangelo Cammarata e Giacomo Armò; scrittori di diversissime provenienze culturali, espressioni, tutti e quattro, di un certo raffinato carattere della cultura siciliana del novecento.(10)
Nel 1935, il giornale verrà soppresso con decreto prefettizio perchè non coerente con la politica economica del regime. Non si sono potuti approfondire quali dati di fatto furono la causa effettiva di questa sanzione nè se ne comprendono le ragioni, dal momento che il giornale, fino al 1935, non appare in una posizione di critica al Governo. A supplire il vuoto creatosi, provvide, comunque nel ’36 l’uscita (dalla stessa impresa editoriale) di un’altro giornale, di taglio perfettamente uguale ad Avvisatore, col titolo Corriere agricolo commerciale della Sicilia, di cui Franco Pierallini fu il direttore amministrativo e Pier Luigi Ingrassia il direttore responsabile. Durerà fino al 1940, quando verrà sospeso a causa della guerra. Nel 1946, come si vedrà, Avvisatore si ripresenterà con la sua antica testata per durare ancora quasi mezzo secolo.
Percorrere tutta la sua storia, attraverso i contenuti, equivarrebbe all’ardua impresa di scorrere la storia d’Italia di oltre un secolo. E poiché quello che qui si vuole offrire è, per quanto possibile, l’immagine d’una impresa giornalistica che riuscì ad avere in Sicilia una lunga e significativa vita, astraendo dalle sue pagine alcuni momenti significativi, si indicano di seguito certi atteggiamenti assunti nei confronti di particolari segmenti di quella storia.
Le colonie
Nel 1884 ha inizio, con serie operazioni militari, la progressiva penetrazione italiana nelle coste del Mar Rosso ed in Abissinia. Si ricorderà che di quell’anno è la conquista di Massaua; dell’inizio del 1887 sarà l’umiliante sconfitta di Dogali; quindi si rafforzerà l’ormai decisa volontà dell’Italia di fondare una sua colonia africana con l’unificazione istituzionale dei possedimenti italiani nella colonia Eritrea. Col Trattato di Uccialli, stipulato con l’Abissinia, l’Italia riconobbe la legittimità del governo di Menelik in cambio del riconoscimento delle conquiste italiane, raggiungendosi così una prima forte situazione di stabilità sul piano internazionale.
Nei commenti alle cronache sulla questione africana e sulle dette progressive tappe, redatti da un giornale economico, si disvela l’interesse e l’occasione originaria della politica coloniale italiana cominciata, come è noto, dall’acquisto nel 1879, da parte di una privata compagnia di navigazione italiana, la Società Rubattino, della Baia di Assab, onde poterla utilizzare come base di scalo per le proprie navi nelle rotte attraverso il Mar Rosso. Il territorio prospiciente la baia sarà poi ceduto allo Stato (1882) per divenire l’originale nucleo di un possedimento con sovranità di diritto internazionale, appunto di carattere coloniale(11).
Quando, nel 1895, la questione coloniale si fece grave per gli sconfinamenti del ras del Tigrè Mangascià e per l’arrivo di informazioni sui preparativi di Menelik, negus d’Etiopia, per attaccare l’Italia con il beneplacito di Francia e Russia e si cominciò a parlare di guerra in Eritrea, il giornale raccolse gradualmente le ragioni degli anticolonialisti. All’inizio, in verità, osservava: "sarebbe una guerra a fondo, non una semplice lezione da infliggere a Menelik [...]; questa campagna importerebbe una forte spesa ma sarebbe minore di quella che richiederebbe lo status quo"(12); quindi, via via che il dibattito nel paese si andò infocando e che la gravità della scelta divenne chiara, notava: "occorrono 150 mila uomini e 1500 milioni di lire, il che in buon volgare vorrebbe dire che tutte le entrate d’un anno, che formano il nostro bilancio di Stato, dovrebbero essere impiegate per far la guerra in Africa [...] mentre qui si arresterebbero le pulsazioni di un grande Stato e, di conseguenza, si monterebbero le barricate". "Ci si cacciò in imprese coloniali, senza esservi sospinti da nessuna intima necessità"(13). Quando però, a metà degli anni venti, la base coloniale italiana in Africa si andò consolidando sviluppandosi un promettente nucleo di affari e di traffici, Avvisatore ne fa il quadro, rappresentando l’opportunità che le due compagnie di navigazione, le cui rotte solcavano il Mar Rosso, la Transatlantica italiana e la Società Florio, potenziassero e migliorassero i propri servizi onde agevolare un già promettente commercio: "La Tripolitania è entrata in una fase politica di assestamento che tutto deve far ritenere duraturo. Conseguentemente, gli italiani cominciano a guardare alla Tripolitania economica, suscettibile di un non indifferente sviluppo agrario, con occhi realistici; la Cirenaica, con l’accordo italo-egiziano e con la prossima presa di possesso di Giarabub, vedrà risoluta la sua situazione politica. Dopo di che occorrerà pensare allo sfruttamento economico della fertile regione, per la quale il ministero delle colonie ha statuito che presto sieno iniziati il lavori del porto di Bengasi [...]. In Eritrea si lavora dal punto di vista economico e politico. Con la cessione dell’Alto Giuba [...], con l’occupazione militare dei sultanati di Obbia e dei Migiurtini, che ha messo fine ad un protettorato che era un nome senza subbietto, noi abbiamo allungato considerevolmente le nostre coste battute dall’Oceano indiano [...] Con la cessione dell’Oltre Giuba siamo entrati in possesso della riva destra del Giuba, di cui possedevamo già la riva sinistra: possiamo fare liberamente quelle derivazioni di acque che occorrono per le piantagioni di cotone che sul Giuba cresce bene…".(14)
Si vede in sostanza come, per il ruolo che allora svolgeva una colonia, l’Italia di Crispi era entrata decisamente nella "filosofia", del resto comune a Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Portogallo ecc., comune ossia ai grandi paesi europei, del necessario completamento d’uno Stato che volesse sentirsi economicamente sicuro, con possedimenti fuori dal proprio territorio.
La grande guerra
Il problema dell’utilità o meno per l’Italia di partecipare alla guerra dichiarata dall’Austria alla Serbia (28 luglio 1914) e presto estesasi con una poderosa offensiva della Germania contro Belgio e Francia, e la scelta del campo in cui prendervi parte fu, tra la fine del 1914 e l’inizio del ’15, un elemento traumatico a livello politico, morale e culturale di grandi proporzioni. Intorno a questo problema si sviluppò un acceso nazionalismo(15) in quasi tutta l’Europa e specialmente in Francia, ove si colorò addirittura di tinte razzistiche, ed ove si assistette al rovesciamento delle posizioni di moltissimi intellettuali da pacifisti, internazionalisti ed estimatori della civiltà tedesca in guerrafondai e fieri nemici della Gemania. In Italia, la questione fu vista soprattutto nell’ottica ancora risorgimentale dell’irredentismo e nella prospettiva del completamento del territorio nazionale. Fortissimi furono i richiami al governo perché si scendesse in guerra, con manifestazioni popolari, articoli giornalistici e dibattiti all’interno dei partiti, pronunciamenti di autorevoli figure della cultura (D’Annunzio) e di movimenti culturali (es.: futuristi) che vedevano la guerra in sé come il rimedio (un lavacro), addirittura morale, per i mali della corruzione, dell’opportunismo, dell’inedecisionismo di tutto un popolo; per non parlare del travaglio che pervase i socialisti, con la nota sofferta evoluzione del pensiero di Benito Mussolini e del suo giornale Il Popolo d’Italia dalla posizione di assoluto neutralismo ad un neutralismo operoso e, quindi, al deciso interventismo. Perfino a Palermo i giovani nazionalisti andavano a gettare sassi contro le finestre del consolato austriaco.
I conflitti che il mutare dei tempi determinano, tra posizioni ideologiche ed opportunità politiche, descrivono del resto la forza della Storia che, si potrebbe dire, talvolta non raccoglie i fatti ma, in un suo tumultuoso fluire, addirittura li determina. Anche nell’Avvisatore ve ne sono tracce.
Il 10 gennaio del 1915, il giornale uscì con la prima pagina interamente occupata da un solo articolo, intitolato in maniera gigantesca L’astensione dell’Italia nel conflitto europeo. Seguiva il sottotitolo: Giova ai franco-belgi, agli inglesi, ai germano-austro-ungarici ed agli italiani. Quindi, con caratteri in corpo 16, si enunciava l’opinione neutralista del giornale, sulla base della contestazione di articoli pubblicati sul quotidiano palermitano L’Ora e su un discorso tenuto da Enrico Corradini(16) all’Hotel des palmes, sulla falsariga di una conversazione che il vecchio Ernest Lavisse(17) aveva tenuto in Francia alla Sorbonne, tendenti a dimostrare che fu solamente la Germania a volere la guerra e quanto fosse opportuno per gli Stati europei appoggiare Francia e Gran Bretagna.
Successivamente, il 14 gennaio, la posizione del giornale era resa più chiara in una "Appello ai nazionalisti italiani": "L’Austria, cari amici nazionalisti, è stata per secolare tradizione l’alleata fedelissima del Trono di S. Pietro e nelle ultime elezioni il vostro partito è entrato alla camera dei deputati con i voti dei cattolici…"; poi aggiungeva che si vociferava che l’Italia sarebbe entrata in guerra contro l’Inghilterra per ottenere Malta, ma erano fandonie; mentre, se di problemi di completamento dello Stato nazionale si trattava, ossia della riunione alla madre Patria di Trento e di Trieste, un tale obiettivo poteva essere raggiungibile per via diplomatica(18): "Auguriamoci che oggi l’Italia –a rovescio del piccolo e prode Piemonte, che aveva rischiato pochissimo per conseguire molto - non abbia a rischiare moltissimo per conseguire poco"(19).
Ma quando, dopo il fatidico 24 maggio, la notizia dell’entrata in guerra dell’Italia percorreva ormai tutta l’Europa, suscitando le passioni e le avversioni che la Storia registra, il giornale (28 maggio) titolava:"La parola al cannone e si esprimeva con (forse sofferta) ma decisa lealtà patriottica: "L’ora delle recriminazioni, dei commenti, delle critiche è passata né dobbiamo più ricordarci d’aver tanto parlato [...]. Quanti hanno giovinezza d’anni e forza di vita debbono correre al fronte, perché sarebbe viltà aver propugnato la causa ideale per tradirla in questo istante in cui la Patria ha bisogno di tutte le sue migliori energie: Avanti fratelli, alle frontiere! E la parola al cannone; e che esso rombi con veemenza…verranno poi la pace e la concordia, ma quando saremo vittoriosi su tutte le vette, sul mare nostro e quando il tricolore d’Italia sventolerà su tutte le terre d’oltre Alpi ed oltre il mare!"
Da questo momento il giornale è coerente con la linea scelta di fedeltà alla Patria comunque, senza ricordare più, neanche nel buio momento di Caporetto, "d’aver tanto parlato contro la guerra". Sprona invece a sostenere anche quello che fu chiamato il "fronte interno della guerra" ossia la partecipazione ed il sostegno in tutti i modi possibili dei combattenti da parte di quelli che non erano al fronte (donne, anziani, ragazzi, esonerati ecc.): "L’Italia non fa la guerra esclusivamente con le armi, ma la fa anche civilmente, mediante la sua preparazione e la sua difesa civile, alla quale tutti, senza distinzione di caste o di sesso, concorrono con slancio ed abnegazione pari a quelli dei soldati nelle trincee; e sono tesori di denaro, di offerte, di doni che si profondono e si accumulano per lenire la miseria delle famiglie dei richiamati e quelle dei caduti; per meglio rafforzare la Croce rossa e gli aiuti ai feriti. Così dunque la guerra dell’Italia è la più bella, la più santa, la più generosa che mai sia stata vista, essendo cementata una concordia senza pari fra tutto il popolo, che solamente ha sul cuore la Patria ed il Re". Ed il 18 agosto del 1916 si esultava per la presa di Gorizia e se ne spiegava il significato emblematico per tutta l’azione bellica del Paese.
Il giornale che, comunque, continuava ad essere l’informatore sui dati utili agli operatori economici (protesti cambiari, movimenti dei porti, listini di prezzi, giurisprudenza commerciale, dati sulle esportazioni ecc.) avvertiva il clima di guerra e i numeri di quel tempo ne presentano i caratteri che interessarono tutta la società italiana: dagli ampi spazi bianchi per i mancati visti della censura militare, alla triplicazione del prezzo della carta, agli articoli in cui si spiegava quali erano e sarebbero state le ripercussioni della guerra sul commercio e sull’industria. A descrivere in maniera suggestiva quella condizione possono servire ora certe istruzioni su come economizzare: per esempio, utilizzando le arance avariate per le marmellate e per le spremute o per farne addirittura vino ed aceto. Spesso comparivano nel giornale le esortazioni ad aiutare i prodotti nazionali: Se volete un’Italia ricca e forte, proteggete la produzione nazionale!
Il clima di attesa e l’atteggiamento nei confronti del sorgente fascismo
Dalla lettura di decine di commenti ai fatti politici successivi al 1895 (scandalo della Banca romana, compromissioni di Crispi, disoccupazione, violenze nel Paese, incertezze nei partiti, ecc.) emerge nel giornale la constatazione di un clima complessivo di attesa e di incertezza. Considerandosi genericamente la situazione nazionale, il 5 gennaio 1895 il giornale osservava, partendo dalla recente storia della Francia: "dopo che il consolato democratico e l’Impero avevano spazzato via le opposizioni interne ed esterne e fatto sventolare il vessillo glorioso della libertà in tutta Europa, si era avuto un certo ordine. Ma le reazioni successive, i mutati ordinamenti popolari, i disastri prodotti da quella guerra che invase in questa seconda metà del secolo XIX tutti gli strati sociali, portarono seco loro la necessità impellente e nazionale di rinnovare i corpi amministrativi, legislativi ed esecutivi. Eccoci ora al momento psicologico in cui si trova ogni nazione, di risolvere col problema sociale anche quello della riforma parlamentare dopo le recenti crisi in Ungheria, in Austria, Spagna, Serbia, Grecia, Francia, Germania e Italia e, francamente anche nella gran Bretagna e negli USA, ove questo bisogno si è manifestato anche senza le gravi scosse cui andò soggetta la Francia repubblicana e l’Italia monarchica. Chi sarà il gran Maestro, il Messia, il Cristo rivendicatore contro i sinedri tenebrosi di questa riforma sociale, politica, mondiale, che si impone pel bene pubblico alle coscienze?"
La psicosi dell’attesa emerge in maniera più ragionata, commentandosi certi atteggiamenti revisionistici del Governo nei confronti della Chiesa cattolica. L’8 marzo 1895, un editoriale è intitolato Amoreggiamenti col Vaticano e vi si informa di certe invocazioni che Crispi andava facendo dell’aiuto che può dare al Paese "il principio religioso contro il mostro dell’anarchia"; anche "il Marchese Di Rudinì si fa innanzi e si mostra desideroso di offrire al Vaticano il simbolico ramo di olivo".
Certo, dice il giornale, occorrerà trovare soluzioni per nuove relazioni fra Stato e Chiesa: "Forse il Papa si risolverà a togliere il Non expedit (ossia il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica dello Stato italiano n.d.r.), sedotto dalle palinodie tardive dei vecchi giacobini" ma "il dualismo fra lo Stato e la Chiesa, più profondo da noi che altrove, perchè generato dal conflitto del principio nazionale, in nome del quale sorse la nuova Italia, e il principio universale rappresentato dal papato, durerà probabilmente fino a che nella situazione politica italiana non avvengano profonde modificazioni". Vedremo come le "profonde modificazioni" interverranno un quarto di secolo dopo e che ..., "il Messia", atteso sin dal 1895 e che la Chiesa chiamerà "uomo della Provvidenza", troverà nel 1929 il modo di instaurare definitivamente relazioni nuove e pacifiche tra Stato e Chiesa.
Il succedersi, in dieci mesi del 1922, di tre governi (il gabinetto Bonomi, durato appena due mesi ed i due gabinetti Facta) fu il sintomo della grave crisi che in quegli anni attraversava il sistema parlamentare; crisi che rifletteva il profondo travaglio dei partiti e le forti aspirazioni e preoccupazioni di cui erano portatrici le varie tradizionali categorie sociali (operai, contadini, industriali, proprietari terrieri, ex combattenti, ecc.) di fronte all’inerzia dell’azione governativa ed alle prospettive di possibili radicali e drammatici cambiamenti che il nascente comunismo prometteva, sulla falsariga della Rivoluzione russa dell’ottobre 1917.
Su questo sfondo, dal 1919, l’Italia viveva una vera guerra civile, con le sue quotidiane vittime ed il suo esteso e cruento disordine nelle piazze e nelle campagne. Era, dunque, nell’aria, ancora più evidentemente che per il passato, l’attesa di qualche evento che potesse ricondurre ad un clima di normalità il Paese.
Questo "evento", come è noto, fu rappresentato dalla fermezza con cui il fascismo, raccogliendo anche una notevole parte dei fermenti del nuovo mondo sociale e culturale, non si propose per un qualsiasi ricambio della compagine governativa ma per una "rivoluzione".
Ad una settimana dalla Marcia su Roma, Avvisatore riassumeva i termini della situazione ed ipotizzava le prospettive in un articolo che, letto oggi, risulta fortemente evocativo di quella condizione di vigilia e di quella Storia: "Roma, pur tanto abituata alle commozioni politiche, patisce in questo momento un senso che par quasi angoscia, ma ansia tormentosa lo è di certo: si sente nell’aria che qualche cosa di grave matura, lentamente ma inesorabilmente, in questo principio d’autunno insolitamente triste, accidioso e funebre. Da per tutto, al caffè come in tramvai, nelle halles degli alberghi gremitissimi, come nelle sale sgargianti di falsa luce, dove furoreggia il tango, avverti un senso d’irrequietudine che si appalesa in un incrocio di domande e risposte, di induzioni e previsioni, le più pazze, le più cervellotiche; ma tutte paurose: "il Ministero si dimette prima dell’apertura del Parlamento o si ripresenta?" ... "Non credo, pare che Facta, preoccupatissimo pel grande convegno fascista in Napoli pel 24, voglia cavarsela dal rotto della cuffia!". "Succederà Giolitti o avremo il colpo di Stato, con la marcia su Roma e gli inevitabili conflitti sanguinosi?" "Certo, la imponente adunanza fascista di Napoli ( si calcola saranno circa quarantamila i fascisti che parteciperanno al convegno) è una minaccia seria per la Capitale; dato che il fascismo impaziente di arrivare potrebbe decidersi a rompere le righe ... e allora ?".
L’articolo concludeva: "L’Italia non può, e non deve perire così: gravemente ferita e dilaniata una prima volta, dai guerrafondai che preparavano il lauto banchetto per loro e per i pescicani, lasciarla oggi in balia dei nuovi e forse più terribili marosi sarebbe un secondo e più mostruoso delitto. L’Italia deve rimanere in piedi e deve progredire. Il pericolo che la sovrasta è costituito dallo sfrenarsi delle fazioni, e le fazioni devono tacere. Il fascismo non può essere considerato come fazione; perchè esso -potenzialmente- è la Nazione stessa: dopo avere abbattuto il comunismo, ridotto all’impotenza il socialismo, ricacciato indietro il Partito popolare, assorbito i postulati della democrazia e del liberalismo, attirato gran parte del movimento sindacalista, esso proclama di volere governare, ed è in condizione di potere dettare le sue leggi. Ora una fazione non può giungere a tanto, in un paese di circa quaranta milioni d’uomini qual’è il nostro. Se a tanto è pervenuto, segno è che la grande maggioranza degli italiani, pur non essendo regolarmente inscritta nei ruoli del fascismo, sente e pensa che deve essergli accordato credito, nel momento in cui esso assume di potere e di volere salvare la Nazione dal baratro in cui minaccia di precipitare. Anche i più scettici, gli ammalati cronici di pessimismo dicono: lasciamo che i fascisti si provino"(20).
Il giornale raccoglieva evidentemente un sentire molto diffuso alla vigilia del 28 ottobre del 1922 ed il senso del portato della Storia; traendo, come una parte di italiani più grande degli aderenti al fascismo, fiducia - perfino una fiduciosa curiosità - da quella sofferta traiettoria che aveva condotto Benito Mussolini da una base socialista anarchicheggiante e pacifista alla "guerra purificatrice" ed esaltatrice dell’Italia; dall’abbandono dell’inevitabilità della lotta di classe al concetto di una rivolta ideale nazionale rigeneratrice. E ciò, mentre montava il pericolo d’una rivoluzione di tipo bolscevico e del radicalizzarsi dei vari blocchi sociali. Il cammino dei fascisti, d’altra parte, si presentava ispirato da una cultura di tipo idealista: dal Futurismo di Marinetti(21) all’irruente interventismo di D’Annunzio, all’attualismo ed all’idealismo di Gentile e si manifestava con ardimento, impeto giovanile, coraggio, entusiastico pragmatismo; al cospetto della vecchia classe liberale degli Orlando, dei Giolitti e dei Salandra, irrimediabilmente compromessa negli affari e nelle clientele provinciali più o meno limpide, cui era assai difficile chiedere di suscitare negli italiani fiducia o un qualsiasi moto di orgoglio nazionale.
Ma quando il giornale vede come, a regime ormai avviato, i vecchi sostenitori dell’ordine democratico liberale si affrettino, smentendo le proprie posizioni politiche, la propria storia e sè stessi, nelle furbizie di un umiliante vassallaggio non imposto e non decoroso, non può fare a meno di esporre la propria critica, sia pure quando l’uomo che si umilia innanzi al vincitore si chiama Vittorio Emanuele Orlando.
Il 16 novembre, il discorso di Benito Mussolini in parlamento, in sede di presentazione del nuovo governo, era stato molto chiaro: s’era trattato del famoso "discorso del bivacco", in cui il Duce, tra riferimenti ad un ristabilimento della normalità e della legalità e richiami alle potenzialità della forza di decine di migliaia di fascisti convenuti in armi a Roma il 28 ottobre, aveva fatto ben capire che quello che stava cambiando non era un governo ma un sistema ed un ordine costituzionale e sociale.
Orlando parlò pochi giorni dopo, a Partinico, ad una folla da grandi occasioni, invocando la fiducia nel fascismo e Avvisatore commentò: "All’Onorevole Orlando -uno degli umiliati nella storica seduta del 16 novembre- spettava un assai arduo compito: cioè quello di approvare la violazione delle norme costituzionali, compiuta dall’onorevole Mussolini, con la forza di uno stupro; atto che abbiamo per altro augurato salutare per lo Stato. Compito arduo, particolarmente per l’illustre nostro concittadino, in quanto egli -uomo squisitamente parlamentare, non meno per temperamento che per cultura e per tutta una vita vissuta- è il più grande maestro di diritto costituzionale che oggi vanti l’Italia; onde nella mente di lui, certamente, vibrò il pensiero della folla idiota che, sia pure a traverso la glorificazione del fascismo -in quanto esso ha dato finalmente all’Italia un Governo - attendeva dalla sua parola alata una rivendicazione vigorosa, sostanziale più che formale o nebulosa, del regime parlamentare. Ma egli scacciò quel pensiero, come si fa di un tafano importuno, perchè lo pressava un’urgenza, non per se - badiamo bene!- ma per i suoi fidi di quaggiù(22)"; i quali, sbaragliati dall’evento fascista, udendo lo scroscio delle vecchie impalcature politiche che minacciano di rovinare, nell’ora così grave di ansie si sono rivolti a lui, come al Messia. Ed egli allora – egli, il maestro del diritto costituzionale, l’uomo squisitamente parlamentare - fu costretto di convenire che mentre il fantasma elettorale picchia alla porta col manganello fascista, correre dietro al giure può essere un magnifico esercizio accademico, ma non giova all’uomo politico".
Si trattava, notò il giornale, di rinnegare la stessa posizione che lo Statista aveva assunto, quale sostenitore della democrazia parlamentare, nel momento del pericolo, a difesa dello Statuto, per innestare nel nuovo corso la base della propria fortuna politica. Egli, in sostanza, "rifiutò di assumere il potere, perchè andare al governo in quelle condizioni (cioè sottostando alle rigide norme costituzionali) non significava comandare ma obbedire. Quindi egli rifiutò per non violare le norme consuete alla funzione costituzionale: quelle medesime che l’onorevole Mussolini genialmente calpestò sotto i suoi scarponi chiodati: quelle medesime che il Fascismo mise da parte per la salvezza della Nazione".
D’onde la delusione: "l’onorevole Orlando non aveva bisogno di affrettarsi a piegare reverente la fronte, anzi a umiliarla davanti al duce del fascismo - la qual cosa egli ha fatto col discorso di Partinico -, perchè egli aveva una personalità sua, circondata di prestigio grande e di stima, da poter far prevalere in qualsiasi ora elettorale. Non così i giannizzeri del suo seguito. E sono essi che lo hanno spinto alla inutile dedizione, costringendolo a uccidere ignominiosamente (la parola è cruda ma è la sola che troviamo rispondente al nostro pensiero) barbaramente in lui tutto un passato di cultore del diritto costituzionale e d’uomo squisitamente parlamentare"; per cui non restava che assistere "al malinconico tramonto di una fama politica che era ragione d’orgoglio legittimo per noi di Sicilia(23)".
Subito dopo però, sebbene rimanesse ferma la valutazione positiva sull’avvento del Regime ("In sostanza, la lotta tra il fascismo ed il socialismo più o meno comunista è una lotta fra quelli che vogliono distruggere la patria e coloro che la vogliono difendere"), il giornale osservava come l’azione fascista in Sicilia non fosse autentica e non fosse ancora efficace.
In Sicilia, dice il giornale, c’è tutto da rifare e c’è soprattutto bisogno d’una purificazione ambientale nella vita quotidiana perchè, manca la nuova classe dirigente, risultando quella formatasi dopo la Marcia su Roma il frutto d’una operazione trasformista (cfr. quanto detto a proposito di V.E. Orlando) e perchè è vero quello che scriveva in quei giorni il quotidiano Impero di Roma, che "il fascismo siciliano ha una fisionomia sui generis, definibile fascismo feudale" perchè "pochissimi siciliani per l’idea fascista hanno affrontato rischi ed hanno esposto la loro pelle". Il che, possiamo ora aggiungere, si deve considerare quando si valuta il perché, dopo il 1943, in Sicilia non si sia sviluppato neanche un antifascismo comparabile con quello delle regioni settentrionali.
Il Giornale dunque, nei primi mesi del nuovo corso, si esprimeva in tutta una serie di articoli paradigmaticamente così: "Nessun dubbio che l’opera del fascismo, malgrado qualche inevitabile esuberanza, sia stata e continui ad essere salutare per il Paese. Or noi vorremmo che il fascismo – al quale deve interessare la cosiddetta penetrazione nel Mezzogiorno - pensi sul serio a iniziare qui la sua opera di moralizzazione e di rinnovamento".
E, andando ai casi concreti, proseguiva: "A Palermo abbiamo un’Amministrazione civica in pieno sfacelo, per cui tutti i servizi pubblici sono in grande sconquasso, basti citare l’annona che non funziona affatto, in modo che una gerla di camorristi domina e dissangua la popolazione, malgrado che [...] i generi all’ingrosso abbiano avuto una sensibile diminuzione ... però a tutto profitto degli insaziabili rivenditori al minuto. Il fascismo dovrebbe quindi imporre lo scioglimento del nostro Consiglio comunale, dato che in seno ad esso non è stato possibile trovare una soluzione che costringa il nefasto cav. Di Scalea(24) a lasciare il suo ufficio. Un atto d’imperio del fascismo in tal senso sarebbe salutato dalla cittadinanza con la più grande simpatia, ed aprirebbe i cuori alle migliori speranze per la restaurazione dell’ordine e della moralità. Il popolo desidera ardentemente vedere il fascismo siciliano all’opera, e le sue legittime aspettative non dovrebbero andare deluse"(25).
In altri articoli si rappresentarono direttamente al Capo del Governo, in occasione del ritiro generalizzato del porto d’armi che suonò come sfiducia in un popolo immaginato come, tutto intero, dedito al delitto, tutti i meriti dei siciliani nei confronti della Patria comune, ivi compresi i trecento milioni di scudi d’argento, frutto della incorporazione da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, serviti a costruire infrastrutture nel nord. Si rievocava allora tutto l’antico orgoglio siciliano per la sua illustre storia; quando, per esempio, i siciliani "veri munificenti signori, fecero risplendere la Corte ed il Senato siciliano: di fastigi, di sfarzo, di luce, di intellettualità e di sapere, tanto da schiacciare e confondere la miseria, la deficienza e la burocrazia della Corte dei Savoia, quando nel 1713 la nostra Sicilia, per il trattato di Utrecht, venne assegnata a quel Principe".
Ora si chiedeva: "Noi che fummo e che siamo con voi, Eccellenza, noi che nel campo della nostra attività, della nostra azione fisica e cerebrale, siamo per l’ordine, per la disciplina e per il lavoro, noi, e tutti coloro che si elevano dal campo partigiano campanilistico, vi chiediamo d’emanare ordini precisi, categorici ed imperativi, affinché i vostri funzionari, più realisti del re, non facciano scattare quel malcontento che serpeggia contro di loro, e che potrebbe scoppiare producendo disastri non prevedibili, nè facilmente riparabili, acuendo ed aumentando aspirazioni prettamente siciliane"(26).
Il giornale esprimeva dunque fede nella rivoluzione nazionale ma anche preoccupazione per la necessità d’un riscontro nei fatti dei buoni propositi che l’avevano originata.
Alcuni anni dopo, nel gennaio del 1925(27), dopo il duro discorso di Mussolini alla Camera, del 3 gennaio, in cui, rivendicando gli sforzi compiuti per una normalizzazione del Paese e la volontà di reprimere ogni illegalità, comprese quelle fasciste, dichiarava d’essere pronto a ricorrere alla forza per vincere ogni residua resistenza, Avvisatore faceva appello al Governo cui denunziava gli sperperi di denaro e le consorterie che dominavano nel Comune di Palermo, facendo i nomi dei componenti la camarilla, tra cui indicava quello contro cui aveva già espresso, come s’è visto, tutta la sua riprovazione, ossia l’ex sindaco ed ora senatore Giuseppe Lanza Tasca di Scalea (mentre si rimpiangeva la gestione del Conte Salvatore Tagliavia); ma avvertiva anche, dato che Palermo da diversi anni era ormai amministrata da commissari prefettizi, che "solo un’amministrazione ordinaria può sollevare Palermo dallo stato di evidente inferiorità in cui si trova di fronte alle altre città italiane. [...] Ritardare le elezioni amministrative significa rimandare la soluzione di questi problemi, con grave danno della pubblica cosa [...]. Il governo nazionale – che ha ripetute volte mostrato la sua consapevolezza della necessità di rinascita del mezzogiorno- e l’onorevole Mussolini, le cui simpatie per la Sicilia sono note, non possono non riconoscere il diritto che ci fa reclamare il ritorno dell’amministrazione ordinaria al nostro Comune".
Ma la storia ci insegna che il governo meditava altre più drastiche soluzioni: il 4 febbraio 1926 entrava in vigore la legge di riforma delle amministrazioni locali che aboliva i consigli elettivi e sostituiva la figura del sindaco elettivo con quella del podestà, di nomina governativa(28): forse perché, come diceva il giornale, "siamo in tempo di rivoluzione"; oppure perché, come aveva detto altra volta il Principe di Salina, in Sicilia non c’è stata alcuna rivoluzione.
Il governo di Mussolini, comunque, continuava ad apparire utilmente decisionista. Dalla lettura dell’Avvisatore questa impressione traspare dagli editoriali pubblicati in occasione dell’abolizione, nel 1926, del privilegio conservato dal Banco di Sicilia dopo l’unificazione del Regno di emettere biglietti di banca; problema dibattuto nei precedenti decenni da ogni governo e mai risolto: "Il governo Mussolini lo ha affrontato con la medesima forza con cui suole affrontare tutte le questioni in cui è in ballo la vita economica e morale del Paese, e lo ha risolto con uno dei suoi consueti atti di esemplare prontezza, ai quali ci siamo ormai abituati" perché "il regime attuale, che non tollera sovrapposizioni di poteri e che taglia risolutamente la testa a tutte le camarille di qualsiasi natura, con un semplice provvedimento ha compiuto un gesto solenne togliendo il terreno sotto i piedi alla "Banda crispina" che "imperava al Banco di Sicilia e che ne reggeva i destini: i posti dei consiglieri erano terribilmente ed accanitamente contesi, perché offrivano oltre che la possibilità di laute prebende personali, anche la facilità di creare una fitta rete d’interessi politici ed economici convergenti verso gli astri maggiori"(29).
Quello che comunque emerge dalle cronache e dai commenti degli anni venti e trenta è la convinzione, probabilmente raccolta da un clima generale (se è opinione degli storici che a metà degli anni trenta il fascismo raggiunse un alto consenso popolare), che quello che si stava vivendo era un tempo di rivoluzione, ossia una trasformazione profonda tendente a mutare radicalmente istituzioni e sistema economico e sociale.
Negli anni trenta il giornale, pur seguendo la sua solita linea (informazioni sulle produzioni ed esportazioni, normative fiscali, fallimenti, problemi dei trasporti, regolamenti postali ecc.), quando deve parlare della politica generale, specialmente se riguardante il tessuto economico complessivo, come è nel 1934, quando deve spiegare il sistema corporativo e la sua filosofia di assunzione degli interessi individuali nell’ambito dell’ interesse nazionale, si inserisce nel più ampio discorso delle rivoluzioni europee: "La soluzione russa, basata sull’abolizione del capitalismo, fallì non solo dal punto di vista pratico perchè portò allo sfacelo e alla miseria, ma anche dal punto di vista della dottrina, perchè degenerò nel capitalismo di Stato. Ad ogni modo, Italia e Russia hanno il merito comune di aver compreso la grave, improrogabile necessità che una soluzione si imponeva [...] Da noi si era storicamente più avanti ed un popolo capace di maturare la grande rivoluzione poteva dare la mente capace di creare quella formula magica che sintetizza (nella Carta del Lavoro) la teoria della dottrina corporativa". Ma anche in occasione del plebiscito del 25 marzo 1934, per il quale si approvava il "ritorno" nella lista nazionale di rappresentati del commercio, dell’industria e dell’artigianato, secondo la linea ormai corporativa dello Stato, si parlava di importanza della consultazione per il proseguire della "rivoluzione".(30)
La riforma agraria, lo zolfo e il petrolio
Da giornale economico, Avvisatore affrontava tra l’altro il problema della "riforma agraria", sin dai tempi del progetto di legge di Crispi del 1894, ultimo atto dell’orientamento riformistico e per certi versi giacobino dello statista siciliano, suggerito anche dai recenti moti dei Fasci dei lavoratori, ma, come è noto, non andato poi in porto per il forte conservatorismo che allora animava la classe politica di governo.
Con l’avvento del fascismo, almeno fino al 1940, accantonato l’orientamento d’un drastico frazionamento dei latifondi a vantaggio d’una diffusa proprietà contadina, si dette corso alla cosiddetta politica di "sbracciantizzazione", col favorire la diffusione dei rapporti di colonìa parziaria, e ad una massiccia opera di bonificamento dei terreni, per la quale il fascismo sviluppò un’organica e complessa legislazione.
Era passato, del resto, il tempo della Battaglia del grano, bandita da Mussolini il 14 giugno del 1925 onde rendere il Paese autosufficiente almeno per il prodotto fondamentale nell’alimentazione: il pane, ed aveva dato buoni risultati, registrandosi nel 1931 una produzione di 81 milioni di quintali di frumento. Avvisatore la giudicava favorevolmente, tanto da suggerire una "battaglia dell’organizzazione commerciale."(31) Evidentemente sembrava però al governo di allora l’agricoltura il settore in cui più urgentemente occorreva intervenire con profonde modifiche di struttura per rispondere a secolari malesseri sociali d’una grandissima massa di italiani ed era la bonifica integrale, che sarebbe iniziata nel 1928, la politica cui dedicare l’ impegno degno di una battaglia.
Corriere agricolo commerciale (che in quegli anni sostituiva Avvisatore) spiegava allora la politica di "bonificamento" sulla base delle tre condizioni costanti: crescita demografica, necessità di arresto dell’inurbamento ed elevazione del tenore di vita delle popolazioni rurali. Nel numero 14 del 1935, descrivendosi l’azione del Governo, intesa a bonificare terreni paludosi, dissodare aree mai coltivate, captare acque, aprire nuove strade che rendessero penetrabile il latifondo e costruire borghi e case rurali, il giornale così esprimeva i due aspetti fondamentali della politica fascista: "intensificare l’agricoltura, sia con gli ordinari e perfezionati mezzi della tecnica e della sperimentazione e con una quotidiana lotta che valesse a strappare ogni lembo del suolo nazionale al dominio degli elementi avversi; sia con la disciplina delle emigrazioni interne, perchè la popolazione rurale, e cioè quella che più mantiene spiccata la tendenza all’accrescimento, potesse ritrovare nell’attaccamento alla terra le ragioni della sua vita. Voleva significare, sopratutto, una rivalutazione politica e morale del contadino e dell’agricoltura, considerando l’uno e l’altro come elementi di primo rango nella comunità nazionale"(32).
C’era, del resto, bisogno della spiegazione degli elementi di fondo della politica di "bonificamento", dato che tutto il nuovo modo di presentarsi, anche visivamente, delle campagne in via di bonificamento o già bonificate, con le loro migliaia di nuovissime case coloniche, con i borghi rurali in costruzione ed i bevai e le strade, appariva ai ceti che avevano dominato incontrastamente per generazioni nel latifondo, un fatto rivoluzionario e certamente pericoloso, vedendosi minacciate le "dovute" distanze sociali, attestate da modi immutabili del vivere. Questa politica ebbe perciò anche i suoi critici, espressisi talvolta con la superiorità dell’ironia; per cui troviamo nella stampa del tempo articoli che spiegavano il senso di quelle opere edili complesse – e per di più in uno stile architettonico nuovo - in aree che apparivano sperdute e desolate(33).
Carlo Emilio Gadda descrisse il fenomeno, in un articolo del 1941 sulla Nuova Antologia, in cui è riservata ammirazione per queste realizzazioni dello Stato che, "esprimendo in azione la volontà e le direttive del Duce, guardano al latifondo siculo come a problema di bonifica integrale". Diceva: "Le case rurali, che ospitano le famiglie coloniche a mano a mano recuperate a un miglior lavoro ed immesse nel latifondo trovano e troveranno presidio nei borghi. Essi vengono costituiti in centri del vivere civile e dovranno appunto investirsi di tutti i compiti e gli attributi del capoluogo, senza presentare tuttavia rinnovato l’inconveniente che si vuole ovviare in ogni modo: cioè quello di una fitta popolazione di contadini che si stipa nel villaggio in condizioni di scarsa igiene, di estrema povertà, ad una distanza di chilometri dal luogo del lavoro. Il borgo della colonizzazione non ospiterà contadini: ma soltanto gli artigiani indispensabili (meccanici, artigiani stipettai, muratori, calzolai...) e le botteghe delle derrate d’alimento o di vario commercio e gli uffici, i posti sanitari, le scuole. Il borgo deve esser visto come una cittadina sfollata: piccola capitale funzionalistica senza stento e senza gravezza di plebe. La plebe sana è nei campi, al lavoro. Ecco una chiara idea, delle più positivamente innovatrici [...]. I previsti ampliamenti verranno a completare la struttura del borgo con uno o più edifici per gli ammassi dei prodotti agricoli, con piccoli magazzini di deposito per macchine e strumenti agricoli, concimi, sementi, sacchi, legname d’opera"(34).
Quando Gadda fece la sua descrizione dei borghi rurali nella Nuova Antologia, ne erano già stati costruiti otto ed altri erano in costruzione; erano state completate circa 2.500 case coloniche ed altre centinaia erano in via di costruzione. Il Corriere agricolo commerciale della Sicilia, annunziava su nove colonne: "Ventimila case coloniche segneranno l’auspicata fine del latifondo insulare: acquedotti, strade, fognature ed opere pubbliche assicurano una immediata sicurezza di lavoro nelle zone di bonifica".(35)
Verrà poi la guerra, con l’interruzione di un tale disegno, ma nei primi tempi della Repubblica e della Regione siciliana, l’opera di bonifica continuerà attraverso l’Ente nazionale di colonizzazione del latifondo siciliano, sebbene la furia distruttrice dei siciliani stessi, negli anni dell’occupazione anglo-americana, si fosse abbattuta anche contro i borghi già completati ed arredati. Avvisatore annotava: "non fa certo onore a nessuno il non avere impedito, non provvedendo alla custodia, la distruzione dei locali ed il saccheggio del magnifico arredamento. Qui non era in gioco un regime ma lo Stato: qui c’era solo la incosciente, sadica voluttà di torbidi elementi, di portare la distruzione contro una conquista piena di promettenti sviluppi per l’onesto lavoro dei "campi""(36).
Si sa come sia toccato, poi, alla neo istituita Regione siciliana completare l’opera di bonificamento ed affrontare il più spinoso dei problemi della questione agraria: lo scorporo dei latifondi, che avverrà con la legge regionale n. 104 del 1950, modellata sulla "legge stralcio"(37) dello Stato e che assegnerà a braccianti agricoli 102 mila ettari di terra. L’Avvisatore, il 30 novembre 1950, titolava: L’autonomia ha dato alla Sicilia una riforma agraria migliore della legge stralcio(38) e spiegava: "All’alba del 21, dopo quindici ore di seduta continua, l’Assemblea regionale ha varato la sua legge: ha votato a favore tutta la maggioranza compatta. Si sono opposte le estreme sinistre e le estreme destre. Come abbiamo detto, questa legge ha un contenuto essenzialmente produttivistico: i piani di miglioria sono al centro della riforma, e tutti i proprietari sono tenuti ad operare i miglioramenti imposti dall’Ente per la riforma agraria siciliana".
Se il problema dell’agricoltura poteva indurre a drastiche riforme, ad investimenti di straordinarie proporzioni e quindi ad incentivi che potessero assicurare un avvenire di progressiva conversione dell’economia rurale ed indurre a drastiche riforme e ad investimenti di straordinarie proporzioni a fini produttivi di tutto l’apparato, fatto di terre, lavoratori, tecniche ed infrastrutture, in vista, dopo il 1957, anche della sorgente politica agricola comune della Comunità economica europea, il tema dello zolfo si presentò subito, nel dopoguerra, con aspetti drammatici, senza serie vie di uscita. E prospettive pessimistiche il giornale registra negli anni cinquanta e fino a quando, proprio con l’aiuto della C.E.E., il settore, che aveva costituito una base produttiva fondamentale e perfino una componente dell’ambiente e del costume siciliano, sarà liquidato per sempre con espropriazioni e con l’esodo assistito dal posto di lavoro di migliaia di addetti(39).
A fronte di un settore produttivo in via di dissolvimento, si aprivano negli anni cinquanta le rosee prospettive di nuovi giacimenti e di più importanti impianti industriali: il petrolio. Già nel 1950, a tre anni dalla propria istituzione, la Regione siciliana legiferava per una disciplina della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, più aderente agli interessi della Sicilia di quanto potesse essere la vigente normativa statale(40).
Quindi il primo petrolio sgorgato ad Augusta nel 1954, la discesa in Sicilia della Gulf-Italia e dell’ENI di Enrico Mattei ed i problemi (allora serii) della scelta tra le imprese private e l’Ente di Stato.
Su questi argomenti, nei giorni 24, 25 e 26 gennaio 1958 si svolse a Gela un importante convegno, rimasto "storico", intitolato Petrolio di Sicilia. Ad esso parteciparono le più eminenti personalità del mondo politico ed industriale che avevano un ruolo in quella che fu in quegli anni la grande speranza della Sicilia; speranza rivolta alla nascita di industrie estrattive, raffinerie ed indotto: tra essi Enrico Mattei, presidente dell’ENI, Nicolò Pignatelli Aragona, presidente della Gulf Italia Company, Salvatore Aldisio, già alto commissario per la Sicilia, Domenico La Cavera, esponente della Confindustria, Angelo Moratti, industriale del settore petrolifero, Francesco Caltagirone e gli uomini politici aventi allora un ruolo guida nella Regione, tra cui il presidente dell’Assemblea regionale Giuseppe Alessi, Mario Fasino, Vincenzo Carollo, Emanuele Macaluso.
Nel clima di quegli anni, in cui la scoperta del petrolio a Gela e nella Sicilia meridionale suscitava speranze e sogni, per cui i giornali parlavano già di Sicilia, Texas d’Europa e di prospettive di una poderosa trasformazione economica dell’Isola, il convegno costituì un momento di riflessione e di confronto molto chiaro tra le diverse posizioni dalle quali il ruolo della Sicilia industriale era visto. Rinviando per un’analisi completa agli atti del convegno(41), può dirsi che a Gela, nel 1958, si scontrarono due diverse concezioni: quella dell’industria privata e del libero mercato (Pignatelli) e quella degli enti pubblici economici e delle aziende a capitale pubblico (Mattei)(42).
Su questo scontro, si giocherà tra pochi mesi la partita che porterà, nella Regione, alla crisi del governo La Loggia, alla provvisoria umiliazione dei fanfaniani siciliani, ritenuti troppo legati ai c.d. "monopoli del Nord", ed all’esperienza dei significativi, sebbene effimeri, governi di intento sicilianista di Silvio Milazzo(43).
Avvisatore, ovviamente, seguì per anni tutto lo sviluppo della questione. Ma, particolarmente interessanti restano ora acuni articoli, anche per una certa evocatività del clima di grandi speranze di riscatto della Sicilia che contengono, alcuni articoli. Il 23 febbraio 1955, per esempio, si informava: "Nuove prospettive per l’economia siciliana: l’ENI effettuerà ricerche petrolifere nel sottosuolo di Gela e di Castelvetrano"; e l’1 luglio 1955: "Tutto il mondo parla del petrolio siciliano", in cui si esprimeva, comunque e malgrado le critiche delle opposizioni, fiducia per la particolare attenzione che i governi di allora dedicavano al problema: "Sotto l’impero delle vecchie leggi statali sulle ricerche minerarie, nessuno era venuto in Sicilia con capitali e mezzi strumentali efficienti da permettere il rinvenimento del petrolio. La Sicilia, una volta ottenuta l’autonomia, si è data una propria legge che, estendendo il diritto di ricerca e di sfruttamento del petrolio a tutte le imprese italiane e straniere in grado di offrire serie garanzie di impegno finanziario e di capacità tecnica, è valsa a permettere il rinvenimento del petrolio"44).
Il secondo dopoguerra
Soppresso nel 1936, nel 1946 il giornale riprese le pubblicazioni, sotto la direzione di Vittorio Pierallini, nipote del fondatore, con la sua originaria testata e con il sottotitolo Settimanale commerciale-agricolo-industriale-marittimo, spiegandosi altresì nella testata che il giornale avrebbe pubblicato gli atti ufficiali delle federazioni provinciali dei commercianti e degli industriali della Sicilia.
Nell’editoriale di presentazione (Riprendiamo il cammino) si manifestava una responsabile e preoccupata soddisfazione per la fine della guerra e del regime fascista. Si diceva, tra l’altro: "Dieci anni sono stati per noi di attesa, durante i quali la nostra fede nei principi della libertà e del diritto si è ritemprata nella lotta di tutti i giorni, quando tra rigo e rigo dei nostri scritti si poteva leggere il segreto pensiero, l’amarezza di una soggezione che, opprimendo il popolo, ci lasciava vivere in quel grigiore che caratterizzò un ventennio di uniforme, livellatrice politica di dittatura..." Certo non si meditava sul favore che il Regime aveva riscosso al suo nascere ed al suo affermarsi anche dall’Avvisatore nel periodo1919-1925 (v. retro). Si proseguiva: "Ben duro è stato il prezzo di questa riconquista e ben lontani siamo ancora da quella libertà che avevamo bramato e per la quale abbiamo tanto sofferto in una attesa di amare rinunzie... La politica resta monopolio di un esarcato scaturente da un cosiddetto Comitato di liberazione, che non ha alcun fondamento" e notava l’emergere, come nei più tristi momenti di sbandamento di un popolo, delle solite furbizie e squallide sopraffazioni: "il processo epurativo che s’è fatto strumento di nuove ingiustizie nella sua stolta concezione giuridica; la nuova stampa che tenta di superare e dominare mediante l’ingiuria ed il turpiloquio"(45).
Ancora agli inizi del 1946, effettivamente, l’avvenire politico della Sicilia era incerto e confuso. Se si leggono i rapporti degli agenti segreti degli Stati Uniti, dal luglio del ’43 al 1947, se ne ha un quadro abbastanza chiaro e perfino suggestivo. Pesavano: l’insufficienza delle produzioni agricole, l’estrema povertà del popolo, il lento e confuso delinearsi delle posizioni dei neo costituiti partiti politici, l’acuirsi e poi il declinare della guerriglia separatista, le preoccupazioni dei latifondisti sull’avvenire dei loro privilegi, il diffuso brigantaggio e l’esplicita collaborazione dell’Alta mafia nella politica e, perfino, nelle questioni riguardanti l’ordine pubblico e la repressione della delinquenza comune(46). Ma i rapporti segreti dicevano che "le notizie della stampa sono da ritenersi in gran parte inesatte ed alterate a scopo scandalistico, oppure, per alcuni giornali di partito, a scopo allarmistico, onde distrarre la pubblica opinione da problemi più impellenti" (era forse questo che disorientava i redattori di Avvisatore) e concludevano cinicamente con questa sintesi: "può dirsi che la situazione in Sicilia è grave per l’Isola, preoccupante per l’Italia, insignificante per la sicurezza degli alleati"47).
Ma in quel periodo, in cui la fine della guerra e della dittatura poteva indurre ad una ubriacatura di rivincite, l’Avvisatore che, individualmente, aveva probabilmente motivi di rivalsa da far valere, si mostrò abbastanza equanime e sereno nella diagnosi sul momento storico in cui rivedeva la luce. Non perdeva la fede nello Stato e nella continuità del valore superiore dell’interesse nazionale.
Non fu separatista e mostrò invece dubbi sull’effettività di una condivisione popolare dell’autonomia regionale e sulle capacità di una sana e proficua autogestione della Sicilia. Esortò ad una serena ricostruzione: "Cessi la campagna di odio e di diffamazione", inducendo così al problema d’una pacificazione tra gli italiani, ed ebbe modo di riflettere sul significato della celebrazione del 25 aprile, già nel 1947 chiamata "Festa della liberazione".
Agli inizi di maggio del 1947, scriveva: "del dramma nazionale, che s’insanguinò di fosca tragedia per quei popoli su cui più duro era pesato il giogo dei governi e più larga si era stesa l’illusione, è necessario che resti un ricordo, che sia monito per qulli che verranno dopo di noi. Questo ricordo non è consacrato nel 25 aprile, che, abbracciando un duplice evento e un duplice significato, non può essere espresso con una parola sola"; perchè al disopra della fine della dittatura e della guerra, "restava, in qualunque modo, una sanguinosa sconfitta delle armi italiane e un fatale avvilimento di alcuni elementi sociali, a cui avevamo per tradizione affidato l’onore della nazione: che questo fosse causato dall’aberrante avventura del regime ventennale, che fosse alimentato da movimenti incerti, oscuri, incoscienti, colpevoli, avviliti di tradimento, attenuati da rischiose rinunzie, rientra nello studio dello storico futuro, ma quello che restava era duro, avvilente, disonorante".
"Si può, tutto questo, festeggiare?" si chiedeva il giornale, e concludeva che "si ha sempre il diritto di versare una lacrima, in mezzo a tanta gioia che dimentica, in un sol giorno, che anche se ci siamo liberati di un regime che portò alla catastrofe, non siamo più quelli che eravamo nel 1918!"
E, commentando la strage di lavoratori compiutasi a Portella delle Ginestre il 1° maggio 1947 per mano della banda Giuliano (almeno secondo la versione ufficiale), si chiedeva, inducendo a trarre insegnamenti dall’appena concluso esercizio di morte: "uccidere: come poté questa parola balenare per un attimo solo nell’anima di chi certamente ha visto per anni la morte passare e dominare sovrana su ogni principio?"
I primi numeri del nuovo Avvisatore testimoniano anche la rinascita della vita produttiva di Palermo: riprendeva l’industria vetraria con l’inagurazione di un nuovo stabilimento; iniziava il nuovo collegamento navale commerciale tra Palermo, Cagliari, Livorno e Genova; si inaugurava (8 ottobre 1946) la Fiera del Mediterraneo mentre al nord riapriva i battenti la Fiera di Milano; si accresceva in Sicilia la produzione del rayon; il Ministero del tesoro decideva il ritiro delle am-lire mentre, in un contesto più frivolo (ma emblematico d’una resurrezione ed evocativo d’un clima), gli inserti pubblicitari del giornale avvisavano che al teatro Nazionale si sarebbero esibiti il comico Tino Scotti con il Trio Lescano e che era prossima l’inaugurazione del Casinò municipale di Palermo nella terrazza Kalesa (auto pubbliche ogni mezz’ora da piazza politeama e da piazza Verdi).
Generalmente, comunque, non si espose in campagne elettorali dirette, salvo che nel 1955 allorchè espresse attenzione particolare in favore del Partito nazionale monarchico(48). Successivamente, si limitò a esporre posizioni alquanto articolate(49), piuttosto ortodosse nei confronti dell’area politico-ideologica governativa, sebbene criticasse spesso, come fu diffusamente negli anni ottanta sia in molti giornali che nelle sedi accademiche e, vanamente, tra le stesse basi elettorali dei partiti, il degrado amministrativo, il frazionismo partitico, l’instabilità governativa ed il clientelismo (anche allora si aspettava forse un demiurgo o una rivoluzione; ma quella volta si trattò poi di fingere solamente l’avvento d’una Seconda Repubblica).
Negli stessi anni, si intuiscono dalla pubblicità accolta nelle sue pagine ma soprattutto dalla frequenza di certi servizi redazionali collegamenti con forti soggetti del tessuto produttivo italiano: Fiat, Banco di Sicilia, IRFIS, Rasiom, Sicilcassa, Enel ecc.
Nello stesso periodo e fino alla conclusione della sua storia, il giornale estese ancor più il campo dei propri interessi: sia verso quello giuridico che verso quelli artistico e culturale in genere(50).
Il nuovo Avvisatore avrà momenti di maggiore o minore splendore, mostrando fasi di maggiore o minore robustezza editoriale. Politicamente, si mostrerà per lo più anticomunista; il che non era allora che la conseguenza dell’essere organo degli industriali e del non avere ancora (almeno nei primi decenni dopo la guerra), i comunisti italiani, rinunziato completamente alla prospettiva di una profonda trasformazione del sistema capitalistico e liberistico e mantenendo il partito socialista l’ispirazione marxista e, nell’economia, orientamenti dirigistici e tendenti ad una diffusa partecipazione pubblica a capitali di impresa.
Dalla cronaca alla storia
Passavano gli anni, la democrazia si consolidava, l’autonomia siciliana, invidiata dalle altre regioni per l’ampiezza dei suoi poteri, pareva godere di possibilità di spesa illimitate (contributi in tutti i settori, eserciti di impiegati stabili e precari, opere pubbliche faraoniche; enti pubblici economici, veri immensi centri di potere; partecipazioni ai capitali d’una infinità di imprese improduttive) finchè non si apprese, anche da Avvisatore, sul finire degli anni novanta che la situazione finanziaria della Regione era seriamente critica. L’integrazione europea progrediva tra alti e bassi, inducendo con le sue regole gli Stati membri a perseguire una politica economica liberista, di mercato e di concorrenza(51); l’agricoltura veniva fortemente assistita e, tuttavia, la sicurezza sociale sembrava ormai raggiungere traguardi inimmaginabili.
Ma era soprattutto lo sfondo del tessuto sociale che diventava sempre più incomparabile con quello dei primi decenni del giornale. Nessuno dei partiti politici aveva ormai più intenti rivoluzionari; il socialismo ed il comunismo non sono più i partiti del proletariato; Vittorio Emanuele Orlando è celebrato con intitolazioni di vie e scuole in tutta l’Italia per i suoi meriti democratici e scientifici; il potente Banco di Sicilia cessa d’essere siciliano e… d’essere potente; delle imprese coloniali italiane, non riuscendo a valutarne storicisticamente il ruolo, ci si vergogna; gli intellettuali, sul finire degli anni ottanta, cominciano ad ammettere l’inattualità del fascismo e la storicizzazione del problema. Ma succedono anche: la strage di Piazza Fontana, quella di Brescia; quella di Bologna... La rivolta di Reggio Calabria, che non ha più nulla a che fare con gli scioperi e le rivolte socialiste e del proletariato, sebbene sia sempre una ribellione allo Stato; gli italiani residenti nella ex colonia italiana Libia, che, come riferiva Avvisatore negli anni venti, avrebbe potuto costituire un sbocco per attività agricole e commerciali degli italiani, nel 1970 sono costretti a rientrare in Italia (con la Libia torneremo poi amici!); in Etiopia, nel maggio del 1990, i guerriglieri del Fronte democratico rivoluzionario conquistano Addis Abeba e viene instaurata la democrazia; la Somalia è continuamente scossa da guerre civili ed il 2 luglio del 1993 tre soldati italiani della missione Onu vi sono uccisi ed altri feriti; negli anni ottanta, Avvisatore comunica che il petrolio siciliano copre ancora solo il 2% del fabbisogno italiano(52); passano gli anni degli "opposti estremismi"con le loro ecatombi di giovani e passano le "brigate rosse" con le loro stragi; passa il tempo dell’assalto della mafia ai vertici dello Stato, col suo sangue e con i suoi misteri; ma passano anche decenni di pace per l’Italia; si eleva il livello culturale generale; L’Italia si consolida un paese industriale ad economia di mercato, vive attivamente la politica comunitaria e, come il resto del mondo occidentale, "progredisce" sempre più. Si scopre che anche la Sicilia è nord per stranieri e che i tunisini che lavorano nella pesca e nell’agricoltura siciliane sono ormai più di ventimila(53).
Sul finire degli anni ottanta, ci si interrogava sulla validità della situazione politica, economica e sociale del Paese alla stregua delle premesse. Certo era assai diversa da quella dei primi anni del giornale ed anche da quella immaginata dai costituenti del 1946. E sebbene fosse diffuso un certo malessere circa le disfunzioni delle istituzioni, nessuno avrebbe più parlato seriamente di un possibile colpo di Stato né di attendere un "demiurgo" come negli anni che precedettero il ’22. Basterà, nel 1993, convenire, senza grandi scuotimenti, che si sta passando dalla prima alla "seconda Repubblica" e progettare riforme: la riforma della Costituzione, la riforma della sanità; riforma delle autonomie locali; riforme fiscali; riforma delle leggi elettorali; riforma del diritto di famiglia; riforma del sistema radio ed audiovisivo; riforma della scuola; riforma delle pensioni; riforma della giustizia…passeranno anni, decenni e Avvisatore registra i vari pensieri e le varie necessità. Gli antichi nomi dei partiti politici, derivanti da ideologie consolidate nel novecento, finiscono improvvisamente nel 1993 all’esplodere della grave questione morale rivelatasi in quegli anni. Muta talmente tutto che anche la stampa di informazione, quella fatta di carta, di notizie e di idee, vede attenuare il suo ruolo: la televisione diventa un mezzo essenziale della politica: pare avverarsi quasi la profezia di Orwell. La stampa periodica siciliana, in particolare, comincia a non reggere più alla concorrenza della televisione e delle grandi imprese nazionali che straripano nel sud con la forza dei sistemi finanziari che hanno alle spalle.(54) Non si tratta più di idee, di notizie e di buona prosa, ma di tecnica ed investimenti. I dati normativi e finanziari arrivano poi anche per quel sistema informativo dai caratteri d’una vera rivoluzione chiamato Internet. Cose certo inimmaginabili nei decenni precedenti; perché è sempre inimmaginabile quale sarà il mondo di domani; né serve la conoscenza della Storia; la quale, se non si è attenti a ricostruirne il senso in ogni suo segmento, lontano dalle passioni, non serve a farci sapere neanche un po’ di verità sul passato.
In una siffatta condizione, sempre più mutevole ed incomprensibile, nel n. 1 del 1993, Avvisatore, celebrando il 127° anno di vita, accenna a difficoltà di continuare, ma durerà ancora due anni. Nel numero uno del 1994, che orgogliosamente annunzia l’inizio del 128° anno di vita e reca sulla testata l’indicazione Fondato a Palermo da Luigi Pierallini nel 1867, si osserva: "Al consueto entusiasmo con il quale ci accingiamo alla gran fatica e al legittimo orgoglio per avere aggiunto un’altra perla alla lunga collana del più antico settimanale dell’Isola, si mischiano sentimenti che turbano: timore, smarrimento, rabbia. Il delicato momento che il Paese sta vivendo getta un’ombra su tutte le attività e non può non farci riflettere sulle concrete possibilità che la nostra testata (certamente non immune dai riflessi negativi della recessione e della crisi politica che già hanno piegato non poche iniziative imprenditoriali) possa gettare la spugna proprio alle soglie del ventunesimo secolo. A questa condizione [...] si aggiunge quella peculiare dell’essere parte integrante del tessuto politico, sociale ed economico della Sicilia, di una Terra che in misura maggiore soffre per gli esiti di una bufera che non ha risparmiato realtà ben più forti e temprate. L’essere noi siciliani si traduce nella fatica di portare un fardello molto più pesante rispetto a quello che i nostri confratelli del resto d’Italia portano: decenni di errori di conduzione politica, d’immobilismo, di assenza di programmazione ci hanno condotto in un vicolo cieco dal quale non è pensabile uscire senza danni e ferite".
Il delicato momento che gettava "un’ombra su tutte le attività del Paese" lo si può evocare sinteticamente con questi dati degli anni 1993 e 1994: Bettino Craxi si dimette da segretario nazionale del P.s.i., in seguito a sospetti sulla moralità della sua conduzione; si dimettono dal governo il liberale Francesco De Lorenzo ed il democristiano Giovanni Goria perché coinvolti in scandali finanziari; sono arrestati alcuni alti dirigenti della Fiat; è arrestato Primo Greganti, ex funzionario del P.c.i.; è arrestato Michele De Mita, fratello dell’ex segretario nazionale della D.c., per illeciti nella ricostruzione dell’ Irpinia, dopo il terremoto che l’aveva colpito; si dimette il ministro del bilancio Reviglio per un avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sui fondi neri dell’E.n.i.; è arrestato Franco Nobili, presidente dell’I.r.i. Si indaga su abusi nella sanità e viene coinvolto l’ex ministro De Lorenzo; è arrestato Giuseppe Garofano ex presidente della Montedison e scoppia lo scandalo Enimont con la sua "maxitangente" miliardaria; si uccide in carcere Gabriele Cagliari ex presidente dell’E.n.i.; si uccide Raul Gardini, ex presidente della società Ferruzzi; per abuso di ufficio e corruzione è arrestato il presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò; esplode lo scandalo dei fondi neri dei servizi segreti. Quindi, nel 1994, sembra aprirsi una stagione nuova nella politica (nuove persone, nuovi partiti, nuovi simboli) e Silvio Berlusconi, un grande industriale di Milano, lancia il nuovo partito Forza Italia ed assume la Presidenza del Consiglio: è incriminato subito il suo braccio destro, amministratore delegato della sua maggiore impresa, Marcello dell’Utri, per uno dei soliti scandali; il 22 novembre, lo stesso Berlusconi riceverà un avviso di garanzia per fatti legati ad uno scandalo in cui è coinvolta la Guardia di finanza; il 21 maggio 1994 Giulio Andreotti, lo statista che per quasi mezzo secolo è stato al governo dell’Italia in vari ruoli, è rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa, quindi sarà incriminato quale mandante dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli; Craxi e Martelli, quest’ultimo già ministro della giustizia, sono indagati per uno scandalo di fondi segreti; Antonio Gava, già ministro dell’interno, è arrestato… Eppure, perfino Avvisatore, che aveva mostrato scoraggiamento, raccoglieva elementi di ottimismo dalla vittoria del "si"al referendum indetto da M. Segni per aprire la via ad una riforma elettorale in senso maggioritario.(55)
Col 31 dicembre 1994, dopo 128 anni di vita, il giornale usciva dalla scena dell’informazione: per l’obsolescenza determinata dall’invasione di più moderni mezzi di comunicazione. Oggi le sue annate, di cui abbiamo indicato la collocazione in biblioteche pubbliche, restano a concorrere nella documentazione di un periodo della nostra Storia, ed a proporre tra l’altro l’eterno problema: se nella storia si possano individuare i segni d’un continuo miglioramento della condizione umana in tutti i sensi.
Perché è curioso quello che dissero negli anni sessanta Herman Kahan, fisico, futurologo e tecnico militare, e Antony J. Viener, fisico e filosofo, entrambi statunitensi. Nello studiare come potrebbe essere il mondo di domani, dicevano, che ormai pochi di noi sembrano tornare all’ingenuo ottimismo dell’illuminismo, alla fiducia razionalistica nel progresso della storia. Essi notavano infatti che l’uomo ha sviluppato un enorme potere di cambiamento sul mondo che lo circonda e che l’idea che prevaleva nel vecchio umanesimo era che ciò fosse un "progresso"; viceversa questo grande potere esercitato sulla natura minaccia(56) di diventare esso stesso una forza di natura, fuori dal nostro controllo, così come l’intelaiatura sociale delle azioni oscura e minaccia non soltanto gli obiettivi umani di tutto il nostro tendere verso un "perfezionamento" ed un "miglioramento", ma anche le varie reazioni confuse ed ideologiche contro tale processo.
NOTE
(1) Nella direzione del giornale, a Luigi Pierallini successe nel 1929 il figlio Franco e nell’amministrazione il fratello Vincenzo; nel 1946 il figlio del primo, Vittorio, e quindi, dal 1980, assunse la direzione responsabile Lia Nasta, moglie di Vittorio, il quale restava direttore editoriale. Negli ultimi anni comparvero nel giornale inchieste di Marina Pierallini, figlia di Vittorio, il quale è morto nell’estate del 2004.
(2) Fascicoli di Avvisatore si trovano presso la Biblioteca centrale della Regione siciliana, coll. Giorn. 23, da 1889 a 1935 e da 1946 a 1947; presso la Società siciliana per la Storia Patria, da 1919 a 1994 (con lacune e con la pausa dal 1935 al 1946, riempita dai fascicoli di Corriere agricolo commerciale della Sicilia, di cui fu direttore amministrativo Franco Pierallini e direttore responsabile Pier Luigi Ingrassia). Con Avvisatore non va confuso L’Avvisatore commerciale (coll. in Biblioteca centr. Reg. sic. in Giorn. 656), periodico fondato a Palermo nel 1871, diretto da Ferdinando Urso e stampato nella tipografia di Gaetano Priulla, che col n. 16 aggiunse il sottotitolo "Giornale di agricoltura, industria e commercio", col n. 51 quello di "Politico, artistico e letterario" e che, dal n. 64, mutò il sottotitolo in "Giornale quotidiano politico, artistico, letterario, di agricoltura, industria e commercio". Non si ha notizia che sia durato oltre il n. 81 del 1871.
(3) Cfr. i dati statistici pubblicati a suo tempo dal Ministero agricoltura, industria e commercio, riprodotti in Ircac (a cura), L’economia siciliana a fine ottocento; Analisi ed. Bologna 1988, pag.319, ove si informa che al 31 dicembre 1891 nella provincia di Palermo si pubblicavano 54 periodici, fra i quali 17 politici, 1 politico-religioso, 7 amministrativi ed economici, 7 agricolo-industriali, 9 letterari o storici, 2 religiosi, 2 di scienze matematiche, 5 di medicina, 1 di musica e drammatica, 1 di moda. Tutti questi periodici si pubblicavano a Palermo, eccettuato il Bollettino del Comizio agrario di Cefalù che si pubblicava in questa città.
(4) Per questo ed altri episodi della storia del Banco di Sicilia, v. Giuffrida R., Il Banco di Sicilia, Palermo 1973.
(5) La redazione del giornale era allora in Piazza Marina, 59; quindi passerà in via Chiavettieri, 40 ed in via Q. Sella, 35. Abbastanza esteso si presentava lo spazio degli inserti pubblicitari: oltre alla solita reclame del Ferro-China Bisleri, un classico in tutta la stampa del tempo, si notino anche per gli aspetti di costume: il negozio palermitano di cappelli inglesi di John Arthur & C.; la farmacia Petralia di Porta Macqueda, 459-464 che, oltre ai farmaci, vendeva le acque minerali Vichy e Recoaro; la sartoria Truden & figlio; le casseforti di Vienna Daneu; il rinforzante egiziano per capelli "Dei padri missionari"; la Drogheria Florio di Piazza S. Giacomo La Marina, 72; la Profumeria Augusto Hugony; i rimedi del dottor Tenca per le malattie veneree, ecc."
(6) Avv. 27 gen. 1891.
(7) Avv. 19/5/1891, e ss.
(8) Avv. 24 e 31 mag. 1926; Anche in questo caso, certe produzioni esposte sono ora fortemente evocative di un tempo: i grafofoni Rosmilia, "il non plus ultra delle macchine parlanti", prodotti dall’industria del ragioniere Guardione; le spugne Wedekind di importazione dalla Germania; il Passatutto, per fare velocemente il passato di pomodoro, macchina brevettata dalla ditta Noto e Cudia; i Mobili Barraja, "molto apprezzati dai ministri Nava e Di Scalea"; i mobili in legno curvo della ditta Waekerlin & C. prodotti a Catania, "come era nei primi anni di questa moda per le c.d. sedie di Vienna".
(9) Avv. 3 sett. 1926.
(10) Enrico Ragusa, noto personaggio del novecento palermitano, definito da Mario Taccari in Palermo l’altro ieri (Flaccovio ed 1966): "poeta, narratore, teatrante, conferenziere, mordace, svelto di penna e di battuta". Vanni Pucci (1877-1964), scrittore, commediografo, poeta dialettale; scrisse particolarmente per la scuola; ha lasciato molti racconti, che meritano d’essere recuperati all’attenzione dei lettori. Arcangelo Cammarata (1901-1977) fece parte del movimento cattolico fiorito negli anni venti tra San Cataldo e Caltanissetta, che dette forza a casse rurali cooperative e circoli culturali e che porterà alla nascita della Democrazia cristiana. Dopo lo sbarco degli anglo - americani, fu prefetto di Caltanissetta ed il primo sindaco democristiano di San Cataldo. (cfr. Giurintano C., Arcangelo Cammarata e il movimento cattolico tra le due guerre, in questa Rivista, n. 19/2003, pag. 97). Giacomo Armò (1900-1943), giornalista, poeta, drammaturgo, diresse importanti riviste letterarie di rilievo nazionale.
(11) Cfr., per es., Avv. 14-15 dic.1891; 13-14 genn.1892.
(12) Avv. 10 /8/1895.
(13) Avv. 18 ott. 1895.
(14) Avv. 12 maggio 1896.
(15) V., per es., Silvestri M., La decadenza dell’Europa occidentale;Rizzoli ed., vol.I, pag. 420.
(16) Enrico Corradini (1865-1931) fu uomo politico e scrittore, servendosi della letteratura nella sua lotta politica. Nel 1910 fondò l’Associazione nazionalista; del nazionalismo italiano fu l’ideologo ed il capo sicchè il fascismo lo considererà un suo precursore, anche per le sue idee sul superamento sia del socialismo che del liberalismo verso una "lotta di classe tra le nazioni".
(17) Ernest Lavisse (1842 – 1922), storico francese, insegnò nella facoltà di lettere di Parigi e fu membro dell’ Accademia di Francia. Fu grande sostenitore della scuola laica e repubblicana e studiò con passione, lasciando numerose opere al riguardo, la storia della Prussia e la figura di Federico II, di cui rilevò soprattutto i caratteri psicologici.
(18) Il 6 maggio, l’Austria aveva proposto all’Italia la cessione di una parte del Trentino ma ciò era stato giudicato insufficiente dal Governo che, viceversa, denunziava il trattato di "triplice alleanza".
(19) Avv. 8 maggio 1915.
(20) Avv. 20 ottobre 1922.
(21) Si ricordi al riguardo questa proposizione del manifesto futurista: "Noi vogliamo glorificare la guerra –sola igiene del mondo - , il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore."
(22) Il Comitato provinciale fascista di Palermo aveva in quei giorni avvertito che non avrebbe accettato il travaso nei ranghi fascisti degli elementi della vecchia politica, con un ordine del giorno che così disponeva tra l’altro: "in nessun caso si verrà all’ assorbimento nelle sezioni di quegli elementi della politica locale che seppur in determinati paesi hanno la maggioranza, non sono però sostenuti dalla massa onesta del popolo e che, se per il passato a tali elementi si sono rivolti per fini elettorali candidati politici di altri partiti, ciò non avverrà in seno al Fascio, qualunque possa esserne la conseguenza"; mentre il Comitato si dichiarava deciso "a provocare provvedimenti governativi che valgano a combattere la delinquenza e le consorterie camorristiche che pesano con sistemi terroristici nella vita pubblica di molti paesi della Sicilia e turbano l’economia dell’Isola." Il problema dell’onorevole Orlando parve dunque al giornale quello del "salvataggio dei naufraghi", ossia l’operazione di accreditamento presso il nuovo ordine della sua base elettorale e clientelare che nulla aveva avuto in comune con il movimento fascista.
(23) Avv. 9 dicembre 1922.
(24) Trattasi di Giuseppe Lanza Tasca, dei principi di Scalea, nato il 20 giugno 1870 e morto il 20 ottobre 1929. Ricoprì le cariche di sindaco di Palermo, dal 19 maggio 1920 al 21maggio 1924, e di senatore del Regno. Il periodo della sua amministrazione è ricordato per il completamento della via rotabile che porta sul Monte Pellegrino, della via Roma fino alla Stazione, e per l’inizio della costruzione del nuovo porto.
(25) Avv. 26 febbraio 1923; 5 agosto 1923.
(26) Avv. 26 febbraio 1923.
(27) Avv. 8 gen. 1925, Sperpero del denaro del contribuente; ivi: Gli affaristi municipali in tripudio.
(28) Primo podestà fu, fino al 1929, Salvatore Di Marzo (1875 – 1954), discepolo di V.E. Orlando e grande giurista, professore di diritto Romano a Catania, Pisa, Palermo e Roma, dove ricoprì anche la carica di rettore. Dal 1929 al 1932 fu senatore del Regno e sottosegretario all’Educazione nazionale.
(29) Avv. 1 apr. 1926.
(30) Avv. 24 marzo 1934. Questo numero contiene un intervento, in verità piuttosto retorico, di un esponente della gioventù fascista, che poi sarebbe diventato un noto storico: Gaetano Falzone.
(31) Avv. 13 mar. 1926.
(32) Avvisatore, 20 luglio 1939.
(33) Spinello Perticone S., Il villaggio agricolo come base della colonizzazione, in L’Ora 31 dicembre 1942.
(34) Gadda C. E., I nuovi borghi della Sicilia, in Nuova Antologia, 1941.
(35) Corriere agric. comm., 20 luglio 1939.
(36) Avv. 30 novembre 1950;
(37) Legge 21 ottobre 1950, n. 841.
(38) 20 maggio 1950 Tepedino G., Latifondo, incubo e miraggio del povero contadino siciliano; Avv. 7 ottobre 1950.
(39) V., per es., Avv. 10 ottobre 1955, Frisella Vella G., L’avvenire dello zolfo: lo zolfo ha un avvenire incerto e 16 novembre 1955, Un problema grave: il prezzo dello zolfo.
(40) Cfr. legge regionale 20 marzo 1950, n. 30 e le successive l.r. 30 giugno 1952 e l.r. 5 agosto 1957, n. 51.
(41) Petrolio di Sicilia (a cura di Orlandi G.) Atti del Convegno internazionale di Gela, 24 / 26 gen. 1958.
(42) Significative al riguardo sono queste espressioni di Alessi nel corso del convegno "La Sicilia ha un suo problema ed è quello di svegliare l’attenzione degli operatori economici sulle sue possibilità: possibilità di natura, possibilità di geografia, possibilità umane, e ciò non soltanto come atto di solidarietà nazionale e di sua compartecipazione attiva ai progressi dell’Italia, ma anche come atto di responsabilità verso le sue popolazioni residenziali, per il loro sempre più alto tasso di incremento demografico [...]. Per la Sicilia, la scelta non è, dunque, tra gruppi privati e aziende di Stato, bensì tra chi si dimostra più vicino e solidale alle istanze e ai bisogni dell’Isola e chi, invece, se ne distacca, con l’atteggiamento colonialista di chi prende e se ne va, lontano o vicino dallo stretto non ci importa, ma se ne va portandosi via le nostre speranze e lasciandoci le delusioni. Noi non dobbiamo qualificare l’iniziativa secondo la natura privatistica o pubblicistica del ricercatore o coltivatore, secondo l’origine del capitale, italiano o straniero, siculo o continentale. Noi dobbiamo effettuare la scelta legislativa ed amministrativa secondo l’orientamento, secondo l’interesse che questo capitale prende per i problemi dell’Isola, secondo l’attitudine al suo naturalizzarsi e propagarsi nell’Isola che lo pone, sopra ogni altra caratteristica, al servizio della Sicilia e perciò dell’Italia." In Alessi: Il pensiero politico cattolico e le origini dell’Autonomia siciliana (a cura di Palmeri G. e Alessi D.), Assemblea regionale siciliana, Palermo 2004, p. 327.
(43) Oltre le tante opere ormai note riguardanti la storia dei governi Milazzo (Grammatico, .Menighetti , Nicastro, Marino, Spampinato, Chilanti, Santalco ecc.), recentemente: Portalone Gabriella, Sturzo e l’operazione Milazzo, Olschki, Firenze 2004.
(44) Cfr. Avv. 22 giugno 1955; 29 giugno 1955; 21 settembre 1955, nonchè per gli sviluppi successivi, 8 giugno 1983.
(45) Avv. 8 ottobre 1946.
(46) C.f.r. Mourner e Bullfrog, 5 aprile 1945, in Tranfaglia N., Come nasce la Repubblica, Bompiani 2004, p. 159; in cui si riferisce, tra l’altro, che "Calogero Vizzini, il capo dell’alta mafia, sembra aver pronunziato le seguenti parole: Ora basta! La Sicilia desidera tranquillità nelle campagne e nelle strade. Alcuni elementi sono stati già eliminati, altri devono ancora cadere. Il fascismo ha diffamato la Sicilia con le leggi speciali di pubblica sicurezza. Eravamo considerati una colonia penale. Il prefetto Mori e i suoi agenti sono i responsabili del degrado morale, economico e politico della Sicilia. Ma, al giorno d’oggi, gli americani debbono poter giudicare la Sicilia come un gioiello nel Mediterraneo.
(47) Ivi, JK 23 del 16 febbraio 1946, p. 178.
(48) V. Avv. 20 aprile 1055; 18 maggio 1955, in cui si raccomandano i candidati del Partito nazionale monarchico Pivetti e Guttadauro.
(49) V. Avv. 19 gennaio 1983.
(50) In quel periodo vi comparvero, per es., le firme del giurista A. Piraino Leto; dei costituzionalisti A. Romano, G. Corso, V. Riggio; di A. Fusco, impiegato in quel tempo nel progetto d’una originale riforma burocratica; di vari critici e letterati quali Salvatore Orilia, Piero Violante, Albano Rossi, Lorenzo Fertitta, Bruno Cedronio; del filosofo Giulio Bonafede; dello storico Francesco Pillitteri; dell’economista Gaetano Cusimano, nonchè una serie di servizi di Marina Pierallini, esponente della quarta generazione della famiglia che, per oltre un secolo, ha tenuto in piedi l’impresa giornalistica di Avvisatore.
(51) Nei numeri usciti tra gli anni 1980 e 1990 sono riprodottì molti documenti e relazioni, anche ufficiali, sulla politica agricola ed industriale della C.E.E.
(52) Avv. 1 giu. 1983.
(53) Avv. 19 genn.1983.
(54) Cfr. Palmeri G. Giornali di Palermo, Palermo, Ila-Palma ed., 2002.
(55) Avv. 18 e 25 apr. 1993.
Don Davide Albertario nacque il 16 febbraio 1846 a Cascine Nuove di Filighera, in territorio pavese. Fu fautore del cattolicesimo "integralista" – che si potrebbe definire "reazionario" – facente capo a "L’Osservatorio cattolico" di Milano, da lui stesso fondato.
Riguardo alla concezione sociale, al contrario, ebbe una visione molto avanzata, rispetto alle posizioni di molti settori del cattolicesimo italiano. Già nel 1869, al tempo della sua ordinazione sacerdotale, maturò il convincimento della necessità di una dottrina sociale cattolica, innovativa e agguerrita, che contrastasse il socialismo materialista che, del resto, aveva già conquistato vaste masse di lavoratori. In questa direzione operò, con maggiore decisione e forse in modo audace, dopo la Rerum novarum (1891) di Leone XIII, tanto che sembrò collimare con le rivendicazioni socialiste, benché egli tenesse decisamente a dichiararsi alieno dai movimenti politici del socialismo laico: "Non siamo socialisti, ma riconosciamo che nel sistema liberale i socialisti devono essere rispettati"(1).
Per le conseguenze che ne derivarono, il culmine della sua battaglia in campo sociale è collocabile nel maggio del 1898. Agli inizi del mese, appoggiando le rimostranze di contadini della Brianza aveva sostenuto, di fatto, anche se esprimendosi sul piano dei principi teorici, l’identificazione tra movimento cattolico ed emancipazione delle plebi rurali(2). Nello stesso mese, si registrò la famosa repressione delle agitazioni degli operai a Milano, condotta con i "cannoni" da parte del generale Bava Beccaris. Caso volle – ma è solo un rilievo aneddotico – che fu colpita anche la cancellata esterna del convento dei frati minori cappuccini di Viale Piave, in Monforte: quel convento che attiene alle lettere di Davide Albertario, riprodotte in questo mio articolo. Il 24 maggio 1898 don Davide Albertario fu incarcerato insieme con molti esponenti socialisti, tra cui Filippo Turati; quindi, processato dal tribunale militare, fu condannato a tre anni di carcere: tra gli altri capi d’accusa, la collusione col sovversivismo anarchico e socialista e la proclamazione dell’odio di classe.
In realtà, il procedimento poliziesco – nei confronti anche dell’"Osservatore romano" e dei comitati organizzati da Albertario – e giudiziario contro l’Albertario stesso si spiega compiutamente in base ad altre ragioni. Si tenga presente che le imputazioni, a suo carico, più specifiche e puntualizzate erano circa il vagheggiamento della sovranità temporale del papa e l’oltraggio allo Stato italiano.
In effetti, la sua battaglia fu radicale proprio nel condannare la cultura moderna e liberale sotto ogni aspetto e in ogni campo: filosofico, teologico, ideologico, politico, pedagogico, sociale. "Odiare […]; odiare cordialmente, […] odiare come in cielo si odia il peccato, odiare tanto che l’odio al liberalismo sia uguale all’amore, alla fede e a Dio", disse al Congresso cattolico di Bologna nel 1877, in un’ottica teologica.
In prospettiva politica, tale posizione "intransigente", nemica dichiarata della "modernità", mirava a fondare la società intera sui valori morali e religiosi esclusivamente cristiani; a tal fine, a influire nelle amministrazioni pubbliche; a formare un corpo politico su cui il papa potesse contare fino "alla conquista del potere"(3). In effetti, il movimento di Davide Albertario si proponeva il ripristino del potere temporale del papato.
L’orientamento, che ebbe l’"incondizionato appoggio di Roma", "guadagnò la maggior parte del clero e dei militanti cattolici italiani"(4); in particolare, a Milano, il cardinale Carlo Andrea Ferrari, arcivescovo dal 1894, mostrò "una netta concordanza di vedute con le idee di Albertario", verso cui fu accusato di eccessiva condiscendenza(5). Sta di fatto che, tra le fila cattoliche, l’Albertario era il solo che fosse capace, segnatamente a Milano, "di muovere cospicue masse di elettori"(6).
Proprio a causa del suo ascendente su larghe fasce della popolazione cattolica, i nemici di don Davide Albertario furono, più che i laicisti – ma in convergenza con questi – proprio alcuni esponenti del mondo cattolico e anche del clero: di quel settore del clero che sosteneva, anch’esso con molta determinazione, la necessità di accogliere quanto di positivo fosse offerto dal pensiero "moderno" della civiltà europea, nata dall’Illuminismo e sviluppatasi attraverso gli apporti del Positivismo (in epistemologia, in sociologia, in scienze biologiche, storiche, esegetiche, ecc.).
Si ritiene fondatamente che, dietro le quinte dell’azione poliziesca contro l’Albertario e i suoi comitati – che del resto si tenevano anche nelle chiese – ci fosse la longa manus dei "conciliatoristi"(7), i quali temevano che il di-sprezzo gettato sulle autorità civili dagli "intransigenti" fomentasse l’ostilità della società laica contro il cattolicesimo in generale.
In effetti, nell’area cattolica si contrapponeva ad Albertario la corrente "conciliatorista" o "transigente". A livello ideologico, essa accoglieva alcuni valori della cultura moderna, auspicando, anzi, lo svecchiamento del cattolicesimo da schemi ritenuti superati. A livello politico, considerava il "Non expedit" vaticano "un’irrazionale protesta"(8) e, sostenendo l’autonomia del laicato cattolico, distingueva tra la sfera politica e la sfera religiosa, stabilendo, solo per quest’ultima, la necessità di direttive gerarchiche. Per l’Albertario, che, invece, rifiutava tale dissociazione, il "Non expedit" era vincolante; e l’imperativa "preparazione" alla conquista del "potere" doveva compiersi "nell’astensione" dal voto politico(9). Circa la libertà della Chiesa, la corrente "conciliatorista" la intendeva in un quadro di autonomia nei confronti dello Stato, nel rispetto reciproco: per cui sarebbe bastato, per il papato, uno Stato "miniatura" (poi di fatto istituito nel 1929!). La prospettiva cozzava frontalmente con la linea di Albertario.
La polemica fu aspra e forte. Il clima, rovente. Tra gli storici c’è chi ha parlato di intemperanza degli "integralisti", che giunsero "ad accusare di spirito liberale uomini degnissimi, come il Bonomelli, lo Scalabrini, l’abate Antonio Stoppani […]; ciò diede occasione di oscurare gli intenti battaglieri di Don Albertario", e creò "un clima d’inevitabili dissapori"(10).
Nel 1881, don Davide Albertario fu accusato di fornicazione, che egli avrebbe compiuta nel paese di Viadana. Per di più, avvenne che il parroco del luogo, segnalato da Albertario, a sua volta, come autore del "peccato", si suicidò(11). Il caso diede luogo a processo giudiziario. Poi, nel maggio del 1882, fu accusato di aver infranto il digiuno eucaristico. In questa vicenda, pesava la testimonianza di un ragguardevole signor conte: costui, passando davanti ad un bar di via Torino, a Milano, avrebbe notato, per avventura, don Albertario trangugiare "avidamente" un caffè cappuccino, esattamente poco prima che costui celebrasse la messa delle ore 9, in Santa Maria Segreta. Il conte sentì il dovere di riferirlo alla Curia episcopale(12), e la degustazione finì in tribunale ecclesiastico.
In realtà, lo scalpore per quest’ultima vicenda, in particolare, traeva motivo dalle posizioni ideologiche del soggetto. Sta di fatto che l’Albertario, scrivendo al solidale vescovo di Vigevano, Pietro Giuseppe Gaudenzi, parlò di "menzogne" a proprio carico lanciate da Bonomelli. Lo scontro toccò il culmine nel 1897, quando, in agosto, Bonomelli proibì nella sua diocesi di Cremona le adunanze di laici nelle chiese, osteggiando i comitati promossi da Albertario. Costui reagì con durezza, dando l’impressione di prevaricare contro l’autorità episcopale.
Ma la staffilata, che diede motivo alle lettere in oggetto, fu inferta da Giuseppe Grabinski con la Storia documentata del giornale "L’Osservatore cattolico" di Milano, edito nel 1887 a Milano dalla Tipografia A. Lombardi. Si tratta di un libro voluminoso, chiamato "libello" dall’Albertario per il taglio, certamente, da pamphlet. L’autore, nella Premessa, vergata il 10 maggio 1887, tacciò di "spirito infernale" il giornale di Albertario, e in Albertario stesso vedeva "nequizia" e "profondo disprezzo per la gerarchia ecclesiastica". Poi, oltre all’ampia narrazione delle succitate "infrazioni", l’autore sviluppò l’impianto denigratorio con serrate sequenze accusatorie: Albertario aveva "coperto di lurido fango […] con abbominevoli calunnie" il vescovo di Cremona; aveva attaccato direttamente la suprema autorità della Chiesa; aveva ingannato i vescovi o prevaricato contro di loro. Basti il titolo di un paragrafo del cap. XIII: "Albertario che nuota in un brago di diffamazione e di ricatti".
L’anno successivo, il medesimo Giuseppe Grabinski rintuzzò le controaccuse di Davide Albertario e scrisse la Risposta alle accuse mosse dai difensori dell’"Osservatore cattolico" di Milano contro la storia documentata di quel giornale, opera edita a Firenze per i tipi di U. Cellini.
Corrispondenza
[1r] [D’altra mano: D. Albertario 1887]
Al R.mo Padre Provinciale dei RR. PP. Cappuccini / a Porta Venezia / Milano
In codesto convento si è esibito e dona/to un libretto tessuto di calunnie e / di villanie innominabili a sacerdoti; / l’oltraggio al mio lavoro e alla mia / persona, consistente in tale fatto, mi / ha costretto a rivolgermi a chi di dovere / perché provvedesse a impedire si / rinnovasse. Graziosamente mi fu / risposto che reclamassi presso Vostra / Paternità R.ma, la quale, dice la risposta, / sono ben certo piglierà tutto l’impegno / che merita il fatto perché alla S. P. M. R. / sia data la dovuta soddisfazione e cessi / ogni indegnità.
Eccomi dunque a pregarla / vivamente sul proposito; anch’io / [1v] nutro speranza che vorrà prendere un / opportuno provvedimento e rendermene / consapevole; io ho sempre amato i / PP. Cappuccini, e non ebbi mai nulla / contro di loro, e sarebbemi di grande / afflizione se mi vedessi obbligato / dal silenzio di Vostra Paternità R.ma / a difendermi coi mezzi che saranno / convenienti contro un iniquo atten/tato all’onor mio e del mio lavoro, / consumato in codesta Casa.
Col più profondo augurio mi professo di V. P. R.ma
Milano 12 settembre 87
Devotissimo servo
S.te Davide Albertario
[Minuta di lettera di risposta]
M. R. Signore,
appena ricevuta la Sua preghiera di ieri, / la quale mi tornò di dolorosa sorpresa, feci subito le necessarie / indagini [per sapere se in Casa](13) presso dei nostri / Religiosi trovavasi deposito del libro di cui nella Sua, / e posso assicurarLa che non ve ne sono, e che dei nostri / neppure ha dato in [dato](14) dono il libro né a sacerdoti né a secolari(15).
Sarà mia premura prendere tutto l’impegno che / merita il caso, perché Ella non abbia a deplorare che dai / nostri Le sia dato dispiacere alcuno(16).
Tanto in risposta alla Sua sullodata e per sua norma / e quindi(17). Con la massima considerazione mi prefissai / come stesse il fatto V. S. M. R. deplorato e posso / assicurarLa che del libro da Lei indicato non vi è / alcun deposito in convento. Ma ad ogni modo io presi / le debite misure perché la troppo giusta sua domanda / abbia ad avere il primo suo effetto.
Riconoscente ai sentimenti di affezione che la V. S. / M. R. nutre verso l’Ordine nostro con la massima / considerazione mi professo / di V. S. M. R.
Dev.mo Servitore
Dal Convento lì 14 settembre 87
[1r] [D’altra mano: 1887]
R.mo Padre,
La sua del 14 in risposta alla mia del 12 mi / ha fatto piacere, perché mi assicura che nel / convento del S. Cuore non esiste alcun deposito / del libello contesto di calunnie del quale Le / ho parlato, e che Ella ha preso le debite misure / perché abbia effetto la mia domanda.
Di ciò ringrazio vivamente la Paternità / Vostra; aggiungo che il libello in questione / fu donato da uno dei Padri di codesta (?)/ta Casa ad un prete pavese, D. Ambrogio Piroli, / il quale scandalizzato ne parlò al Prevosto / di Corteolona e a me personalmente, e così / venne divulgatasi notizia di un atto che / non reca vantaggio al convento.
Io ne scrissi al R.mo P. Generale a Roma, / il quale cortesemente mi rispose di rivolgermi / a Lei, come feci. Fiducioso nella di lei equità / e rettitudine non darò pubblicità alla cosa, / e ritengo che non si ripeterà. Ho compassio/nato Fra Gaudenzio in Tribunale, ma Ella ben /[1v] vede che non dovrei tacere di fronte a / chi divulga il libello, nel quale mi si / provoca a difendermi di accuse vagliate / in tribunali competenti e solute con / piena ricognizione dell’innocenza mia, / e si ripetano in degnissime personalità.
Ripeto le espressioni del mio / costante affetto all’Ordine tanto benemerito / dei Cappuccini, e disposto ai di Lei coman/di, mi professo di V. P. R.ma
Milano 14 settembre 87
Dev.mo servo
S.te Davide Albertario
NOTE
(1) Le persecuzioni contro i socialisti, "L’Osservatore cattolico", 11-12 gennaio 1897; cfr. Il governo e i socialisti, "Osservatore cattolico", 12-13 gennaio 1987.
(2) Pane e sangue, "L’Osservatore cattolico", 4-5 maggio 1898.
(3) L’azione politica dei cattolici, " L’Osservatore cattolico ", 17-18 marzo 1896. Articolo attribuito a Filippo Meda, alter ego laico di Albertario.
(4) Rudolf Lill, Le controversie all’interno del cattolicesimo alla luce del liberalismo, cap. XLI, Storia della Chiesa, diretta da Hubert Jedin, vol. VIII/2, Liberalismo e Integralismo, Milano 1971, p. 445.
(5) Alfredo Canavero, Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), Milano 1976, pp. 37 e 65.
(6) Alfredo Canavero, op. cit., p. 95. In particolare, in vista delle elezioni politiche del 1897.
(7) Ornella Pellegrino Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La "Rassegna Nazionale" dal 1898 al 1909, Bologna 1971, pp.129 ss.
(8) Alfredo Canavero, op. cit., p. 69.
(9) Preparazione nell’astensione, "L’Osservatore cattolico", 1-2 marzo 1897 e 26-27 marzo 1897; L’astensione, "L’Osservatore cattolico", 21-22 maggio 1900, L’astensione dei cattolici. Ragione e significato, "L’Osservatore cattolico", 26-27 maggio 1900.
(10) Agostino Saba, Storia della Chiesa, tomo III, vol. II, Torino 1943, p. 793.
(11) Giuseppe Grabinki, Storia documentata del giornale "L’Osservatore cattolico" di Milano, Milano 1887, pp. 47 ss.
(12) Giuseppe Grabinki, op. cit., p. 135.
(13) Frase cancellata.
(14) Parola cancellata.
(15) Segue parola cancellata, illeggibile.
(16) Parole cancellate, illeggibili, e sostituite da quelle riportate.
(17) Il testo riportato, dalla parola "indagini" fin qui, è depennato con righe verticali.
"…Quel tipo di letterato, avversario intellettuale di cui il Risorgimento deve
trionfare non si riduce però a quell’immagine di frivolezza retorica, spirito
servile e cortigiano che il termine sembra evocare. Nella sua figura c’è grandezza
e miseria, in riscontro esatto con la storia italiana di quei secoli".
A. Del Noce
1. Il confronto con Gentile
Da un’attenta lettura degli scritti di e su Augusto Del Noce e della sua produzione filosofica emerge che l’interesse manifestato dal pensatore pistoiese nei riguardi di tematiche e di contenuti propri dell’età rinascimentale s’inserisce in un contesto piú ampio di studia, relativi alle discussioni sulle origini della modernità. Il problema è rilevante: se la sensibilità moderna rintraccia le proprie radici nella tradizione umanistico-rinascimentale, quali aspetti critici della cultura dei secoli XV e XVI devono essere tenuti in considerazione, per comprendere le matrici speculative da cui discende la sensibilità contemporanea? È da questo approccio morfo-genetico che muovono le meditazioni di Del Noce tanto sull’età rinascimentale propriamente detta, quanto sul suo referente principale in quest’ordine di studi: Giovanni Gentile, studioso e critico del Rinascimento(1). Il presente saggio vuol essere un primo tentativo di analisi delle riflessioni elaborate da Del Noce sul problema filosofico del Rinascimento, nella prospettiva di fornire qualche osservazione sul contributo apportato dalla lettura delnociana alla storiografia filosofica in questo campo di studi.
Quando si tenta di definire l’orizzonte critico, entro il quale si situa e matura la riflessione e la concezione storiografica di Del Noce sul Rinascimento e ci s’interroga sul rilievo, che tale lettura ha assunto nello sviluppo del suo pensiero, non si può fare a meno di prendere come punto di movenza le ricerche e le prospettive teoriche contenute in una delle opere piú significative, quella su Giovanni Gentile(2). Cosí, si avrà modo, in forma indiretta, di fare il punto sul giudizio espresso da Del Noce intorno all’epoca rinascimentale.
Per Gentile - scrive Del Noce - "l’opera […] dell’Umanesimo è consistita […] nello spiantare dagli animi quel concetto del trascendente, che era stato il fulcro di ogni filosofia medievale ed era il presupposto essenziale della dottrina cristiana cattolica…"(3). L’Umanesimo, demolendo, al pari della sofistica, antiche certezze, distruggendo sistemi tradizionali e schemi fissi del pensiero, ha sviluppato la tendenza e l’atteggiamento all’"indifferentismo religioso" e all’"insensibilità verso il divino, che resterà una nota caratteristica predominante della vita spirituale italiana"(4).
Risulta chiaro come il problema, che alimenta la "disputa" Del Noce-Gentile, verta su uno dei leitmotiv caratterizzanti la controversia sul Rinascimento, la quaestio intorno alla presenza di convinzioni o di tendenze religiose o irreligiose, di istanze pagane o anticristiane, di atteggiamenti di indifferenza religiosa o, come afferma Kristeller, "di adesione meramente nominale alle dottrine della chiesa"(5). I termini, intorno ai quali si svolge la querelle, sono l’ateismo, il panteismo, la religione naturale, il concetto di trascendenza, quello di immanenza.
Ciò rinvia al delicato problema, innanzitutto, di individuare e di interpretare dal punto di vista storiografico il significato attribuito dalla cultura rinascimentale a questo concetto, di contestualizzarne la prospettiva e di comprenderne le connessioni con questo àmbito culturale. In secondo luogo induce a riflettere sul ruolo svolto dall’ateismo nel pensiero di Del Noce e consente di confrontare questa posizione con l’interpretazione gentiliana, al fine di chiarire a quali esiti e risultati è pervenuto il "dibattito" storiografico Del Noce-Gentile, anche sul tema dell’ateismo.
Kristeller, in uno dei suoi preziosi studi sulla cultura rinascimentale, sottolinea che il termine ateismo assume una distinzione ed un significato chiaro e preciso soltanto a partire dalle polemiche del tardo XVI secolo e quello di panteismo dal XVIII secolo. Durante il Rinascimento, osserva Kristeller, "non vi furono probabilmente veri atei e solo pochi panteisti"(6) e l’affermarsi di esperienze intellettuali considerate religiose o irreligiose sono espressione di una società che, talvolta, nella vita pubblica o privata, contravveniva ai dogmi della dottrina cristiana. Senza entrare nel merito della questione particolare, è sufficiente ricordare che la parola ateismo non è presente prima del tardo Cinquecento e che si tratta di un concetto invalso nella storiografia moderna.
Sulla base di queste premesse, occorre soffermarsi sull’idea di ateismo maturata da Del Noce, facendo riferimento, in particolare, a due studi significativi, meritevoli di aver tracciato un profilo della questione e di aver dato l’avvio all’"incontro" fra Del Noce e Gentile, quello sull’ateismo(7) e quello già citato su Giovanni Gentile.
Sono gli anni in cui il dibattito filosofico in Italia è in fermento per l’intreccio di diverse componenti e ricostruirne le sue dinamiche risulta assai complesso. Un forte impulso al determinarsi delle vicende intellettuali del periodo proviene dall’influenza e dai condizionamenti del Regime fascista, dal tentativo di conciliare lo spirito del Regime con le esigenze della chiesa cattolica, dall’emergere di nuove correnti filosofiche o di vecchie scuole di pensiero "riformate", dall’affermarsi dell’ideologia marxista. Su questo scenario si vedono schierati intellettuali cattolici e laici e si profilano orientamenti assai diversi e approcci originali ai problemi della filosofia, non riducibili ad un’unica posizione, né a sintesi omogenee.
Nel clima culturale dell’epoca si avverte la necessità di rintracciare una tradizione filosofica tipicamente italiana nell’àmbito della storiografia idealistica, di cui Gentile è protagonista. Ha scritto a tal proposito Pietro Rossi: "Il pensiero filosofico italiano […] si richiamava al mito di un’antica sapienza italica che dal Rinascimento giunge – attraverso il Vico del De antiquissima Italorum sapientia – fino all’Ottocento…"(8). In contrapposizione a questo "mito"(9), convergono opposte tendenze di matrice cattolica che, ricuperando la tradizione filosofica del Medioevo, la filosofia Scolastica, spostavano il loro interesse sul carattere cattolico del pensiero italiano(10).
Proprio dall’area cattolica provengono spinte innovative e suggestioni originali rintracciabili nel pensiero e nell’opera di Augusto Del Noce, assertore, in antitesi al percorso storico-critico maturato da Gentile, della philosophia perennis, le cui radici andavano ricercate nelle dottrine della Scolastica. Egli da intellettuale cattolico rifiuta l’ideologia dominante e s’impone sulla scena, portando avanti una critica contro il marxismo, polemizzando soprattutto contro quanti accarezzavano l’idea di una conciliazione fra cristianesimo e marxismo, promuovendo un nuovo atteggiamento nell’àmbito del cristianesimo volto verso il ricupero dell’ateismo e del marxismo. Sono questi i presupposti filosofici sui quali Del Noce fonda la sua interpretazione del marxismo in chiave ateistica.
Con Del Noce, osserva Rossi, sopravvive quel filone del pensiero italiano che, riallacciando la filosofia italiana a quella francese, riporta la tradizione cattolica ottocentesca a Malebranche ed ad altri pensatori della Restaurazione. A giudizio dell’autore, nel pensiero di Del Noce si può ravvisare un orientamento speculativo opposto alla tendenza "immanentistica" dell’idealismo tedesco e contrapposto al razionalismo e all’Illuminismo. Per lo studioso pistoiese non il Rinascimento, bensì il "contro-rinascimento" era strettamente connesso con la riforma cattolica e le sue istanze religiose con la metafisica cartesiana, alla quale egli attinge, traendo originali spunti di riflessione(11). Lungo queste coordinate si snoda la sua vicenda teoretica che, rivendicando il peso della dimensione cattolica nella filosofia della nostra Penisola, individuava una linea di sviluppo e di continuità, che dal Rinascimento, con la sua riforma religiosa, culminava in Cartesio(12), Malebranche(13), Vico e Rosmini e connetteva le correnti religiose rinascimentali con la filosofia del Seicento e con un Vico rinnovato, o meglio "riformato" dal punto di vista religioso. Ridisegnando e ripercorrendo la storia del pensiero "italico" in chiave cattolica, Del Noce attua una revisione critica, attingendo agli schemi storiografici adottati da Gentile, dai quali, poi, prende le distanze, per sottolineare e rimarcare la componente religiosa della filosofia italiana rispetto alla storia del pensiero d’oltralpe. Egli condivide con Gentile la dottrina dell’attualismo concepito come il termine conclusivo dell’immanentismo, sebbene dimostri e comprovi l’insuccesso dell’attualismo e dell’immanentismo stesso(14).
Come è stato, già, sottolineato, l’interesse e l’approfondimento di Del Noce per il Rinascimento si inquadra in una prospettiva piú ampia, che è quella della riflessione sul modernismo, sulle dottrine del pensiero moderno(15), in particolare, su quelle del cartesianesimo e sulla "riforma cattolica" attuata da Cartesio(16). Il pensiero del XVI secolo costituisce una delle fonti per arrivare a comprendere lo sviluppo e il carattere della "modernità", stimolando e sollecitando l’autore ad indagare la filosofia in piú direzioni(17). Per una contestualizzazione storica del cartesianesimo e per un’esatta comprensione dei suoi sviluppi è opportuno collegarlo all’antiRinascimento di tipo cattolico(18).
Nella sua disamina sul concetto di "moderno" egli scandaglia le matrici culturali di questa categoria, individua la sua aurora nei termini della rottura con "il passato e la storia"(19) e non nella matrice umanistica considerata come elemento di incontro con l’antico, coglie nel rapporto fra religione e politica un contrasto irrimediabile, contrappone al cattolicesimo l’ateismo e non piú lo spirito eretico, ritiene, infine, che le "moderne" filosofie, soprattutto, il cartesianesimo, siano minate dall’ateismo, pur essendo profondamente influenzate da esso.
Il punto centrale, intorno al quale ruota il filone della sua ricerca, è quello dell’ateismo20), che induce il pensatore a riflettere sul problema della religio, nella sua duplice accezione di laica e di cattolica e della irreligio(21).
In una delle pagine de Il problema dell’ateismo Del Noce scrive che "l’ateismo è il termine conclusivo a cui deve necessariamente pervenire il razionalismo al punto estremo della sua coerenza, che è anche il punto della sua crisi: del trapasso, cioè, dal razionalismo metafisico al razionalismo scettico o al razionalismo storicista o all’irrazionalismo"(22). Esistono diverse forme di ateismo, quello negativo o nichilistico, una forma di ateismo positivo o politico e, infine, l’ateismo tragico. Mutando lo scenario e i paradigmi filosofici, alle soglie del XX secolo, l’ateismo trasforma la sua condizione da una forma scientista ad una forma postulatoria, sicché esso diventa espressione, nel suo divenire storico, di un orientamento filosofico noto come razionalismo. Del Noce, interrogandosi sul fenomeno, lo problematizza e la questione assume particolare rilievo, perché tale prospettiva modifica le categorie, attraverso le quali è possibile leggere la storia della filosofia ed interpretarne le tensioni e le crisi. È emblematico il fatto che, al di là di ogni confessione religiosa e di ogni concezione metafisica o antimetafisica, nella storia del pensiero dei secoli precedenti esisteva una profonda unità morale ed etica, oggi completamente sgretolata e messa in crisi anche dal sorgere dei molteplici modelli filosofici, che via, via, si andavano affermando. Un orientamento, questo, che si configura completamente mutato e che impone allo storico della filosofia di riflettere in termini problematici sul fenomeno dell’ateismo nella storia del pensiero contemporaneo, perché tutto ciò suggerisce un nuovo modo di approccio alla ricerca filosofica e orienta l’indagine verso La storia della filosofia come problema(23).
Per Del Noce, l’ateismo contemporaneo può essere accostato a quello di Cartesio - che scrive la sua prima opera contro gli atei, le Meditationes – per il quale ateismo è sinonimo di scetticismo, che nega non soltanto la religione, ma anche la scienza e la morale e ateo è negatore della scienza, del mondo esterno e dell’esistenza dell’io. La filosofia moderna, invece, intende ricuperare e salvare la scienza e la morale e lo stesso concetto di razionalismo, al quale approda l’ateismo nel pensiero contemporaneo, risente molto dell’eco del razionalismo cartesiano. Il razionalismo, cosí inteso, si fonda su una religione razionale, che confida assolutamente nei poteri della ragione, che nega la trascendenza, che rivendica il concetto di immanenza, che esclude dal proprio àmbito l’elemento soprannaturale(24).
Precedono la composizione di tale opera, oltre agli studi su Malebranche, su Gassendi e su Pascal, alcuni scritti su Cartesio e sull’inizio della filosofia moderna, su La crisi libertina e la ragion di Stato. Essi sono testimonianza dei suoi interessi filosofici protesi verso i temi della libertà, del rapporto dialettico fra fede e ragione, dell’inquietante problema teologico e dell’affermarsi di nuove concezioni epistemologiche sullo scenario di un marxismo ideologico dominante. Nella prospettiva di interpretare la filosofia contemporanea si inserisce il problema dell’ateismo, il cui termine si configura come razionalismo, in particolare, come razionalismo metafisico.
Tale orientamento speculativo merita particolare attenzione per le riflessioni che ne scaturiscono relativamente al carattere religioso o irreligioso del Rinascimento. Del Noce, riprendendo la posizione dello storico francese Febvre tesa a rivalutare la dimensione religiosa nel pensiero del XVI secolo, chiarisce che l’origine dell’ateismo risiede "soltanto nella conclusione-dissoluzione del Rinascimento"(25), che l’ateismo è un concetto presente solo a partire dalla filosofia di Machiavelli e che il suo sviluppo coincide con l’inizio dell’età moderna(26). Il Cinquecento, a giudizio dell’autore, è "un secolo complessivamente cristianissimo"(27), nel quale si manifestano le prime radici di quelle dottrine ben sintetizzate dal brunismo, che, poi, volgono verso le concezioni dell’ateismo caratterizzanti il movimento del libertinisme. Proprio il movimento libertino costituisce il prodotto di quella irreligiosità già manifestatasi nella filosofia di Bruno. In quest’ottica egli analizza il problema teologico, la reazione di Bruno, l’inizio della filosofia moderna, la posizione reazionaria dei libertini.
L’ateismo del Rinascimento è definito da Del Noce una forma di eresia differente da quella medievale. Nel Medioevo esso rappresenta lo sforzo compiuto dai teologi di restaurare il cristianesimo delle origini, in epoca rinascimentale, invece, costituisce un tipo di eresia che, privilegiando la dimensione umanistica ed il carattere mondano, si traduce in "una ricomprensione pagana del cristianesimo"(28), della quale Bruno con la sua vicenda intellettuale è la sintesi piú significativa.
Ricercando "i momenti ateistici" nella storia della filosofia, egli si sofferma sul pensiero rinascimentale e moderno, sviando dal trattare la questione dell’ateismo nel mondo antico, non essendoci, a giudizio dell’autore, "ateismo completo che dopo il Cristianesimo", giacché esso "è caratterizzato da un rifiuto iniziale del soprannaturale"(29). Si comprende bene come la posizione delnociana, sebbene attui una distinzione fra le manifestazioni di ateismo o di eresia presenti nel Medioevo e quelle del Rinascimento, talvolta non consenta di cogliere in modo chiaro quale sia l’orientamento che scaturisce dalla sua riflessione sull’opzione ateistica. Egli insiste sulla presenza del concetto di ateismo non prima della filosofia di Machiavelli, pur sottolineando che alcune manifestazioni del pensiero religioso del Medioevo, come per esempio l’aristotelismo eterodosso, nel corso della loro evoluzione possono essere definite atee(30). Tuttavia le stesse prove della dimostrazione dell’esistenza di Dio, elaborate dai filosofi medievali, confermano che non esistono posizioni di ateismo nel Medioevo, giacché le dimostrazioni dell’esistenza di Dio presuppongono già una certezza, che Dio esiste. Ciò significa che i pensatori del Medioevo, avendo sviluppato una coscienza religiosa e mirando a definire il rapporto fra Dio e il mondo, "si muovono all’interno di una concezione già sacrale", sicché, per Del Noce, l’ateismo nel Medioevo è "piuttosto una possibilità logica […] che una posizione reale"(31).
Sulla base dell’intreccio fra questi elementi si costruisce il complesso rapporto fra Del Noce e Gentile relativamente al carattere religioso ìnsito nella rinascita.
È noto che nel Rinascimento confluiscono opposte tendenze in campo religioso e accanto al devoto cattolico si pongono il protestante e l’"ateo" ed emerge la figura di un nuovo tipo di uomo di lettere, che, saziandosi di cultura e di erudizione, non cerca più conferme nella fede, è, come afferma Del Noce, "senza la fede, senza un contenuto morale, senza un orientamento nel mondo"(32).
Eppure, per Gentile, l’Umanesimo non ebbe carattere né "pagano", né "cristiano", ma mirò a ricuperare "il problema cristiano, che la filosofia medievale aveva piuttosto soppresso che risoluto"(33) e la sua religiosità rappresentò un ritorno alla "primitiva ispirazione cristiana della realtà da intendere come spirito"(34). Gentile, fedele alla corrente idealistica nel campo della gnoseologia, elabora il concetto dell’Umanesimo dello "spirito", considerando l’atto libero come il manifestarsi di ogni aspetto della realtà storica e definendo la realtà stessa come spirito. I motivi ispiratori della sua speculazione sono l’esaltazione e la celebrazione dell’uomo, della sua libertà, il concetto della dignitas hominis, l’affermazione della dimensione individualistica, temi che egli ascrive soltanto al Rinascimento, definito come l’età dell’uomo, che confida nelle sue capacità, dell’individuo concepito come nuovo spirito. Al posto del carattere trascendente, che connotò tutta la tradizione medievale, nel Rinascimento subentra il concetto di immanenza del divino nell’uomo. L’individuo realizza la propria soggettività e, sviluppando l’intuizione, la fantasia, la libera creatività, afferma la sua personalità nel mondo dell’arte, che rappresenta il fondamento etico e filosofico della sua vita. Tale conquista della libertà significa non solo affrancamento dal concetto della trascendenza, ma anche "affermazione di sé come realtà spirituale, individualità, libertà"(35) e si riverbera nell’immagine del filosofo umanista, la cui filosofia consiste proprio nell’"affermazione della realtà universale"(36).
Il testo, nel quale Del Noce si confonta con Gentile(,37), si colloca nell’àmbito delle ricerche sul neoidealismo italiano, del quale il filosofo siciliano, come è noto, è l’espressione piú autentica, ne è il "caposcuola", alla genesi dell’attualismo, quando cioè si tenta di dare una definizione all’idea di modernità, perché entrano in crisi, eclissandosi e tramontando, i paradigmi precedenti e i modelli, a cui fare riferimento, non sono piú in grado di fornire nuove risposte per il presente(38).
La categoria filosofica, attraverso la quale è possibile leggere e interpretare l’attualismo, è rappresentata dall’idea di Risorgimento, "nella sua distinzione dalle idee di rivoluzione, di reazione, di eresia"(39), di un Risorgimento concepito in antitesi allo hegelismo derivato dalla Rivoluzione francese(40). Del Noce individua i principali punti chiave e le coordinate, entro le quali inserire l’idea di Risorgimento di Gentile, in cui, come è noto, il filosofo si distacca da Croce, con il quale entra in polemica. Innanzitutto, "il rapporto fra Risorgimento e Restaurazione", i giudizi sui maggiori scrittori e pensatori del Risorgimento", l’idea che questa riflessione condiziona ed influenza ampiamente la comprensione di tutta la storia della filosofia italiana, anche in relazione a quella del pensiero europeo, e l’esigenza di affermare, al di là di ogni differenza culturale regionale, l’unificazione ìnsita nel programma risorgimentale. Per Del Noce, osserva Armellini, il Risorgimento come categoria filosofica viene a coincidere con il concetto di "restaurazione creatrice"(41), di derivazione giobertiana, in cui le esigenze della tradizione cattolica si saldano perfettamente alle nuove istanze della storia(42).
Emerge una lettura dell’idea di Risorgimento come fenomeno avente carattere universale, concepito come "inizio di una nuova epoca"(43) e soprattutto come fenomeno essenzialmente italiano. A giudizio dello storico, le idee rivoluzionarie e reazionarie, che caratterizzarono il suo sviluppo, non allignarono su un terreno arido, sterile, né tanto meno furono il prodotto, il risultato di atteggiamenti innovatori avulsi dai contesti del passato. Egli, al fine di comprendere la genesi del pensiero risorgimentale e rintracciare le cause della sua decadenza, denunciata dagli stessi intellettuali, scorgeva e ricercava i points d’attache con il Rinascimento italiano, richiamandosi agli stessi principî ispiratori, che avevano permesso all’Italia fra Quattrocento e Cinquecento di uscire dalla decadenza, di "rinascere" e di "rinnovarsi.
Nella prospettiva delnociana il terreno sul quale si sviluppa la civiltà risorgimentale, è quello della tradizione italiana ed è possibile interpretarne e comprenderne i contenuti, soltanto se si rivolge uno sguardo ravvicinato alla storia del pensiero del Rinascimento, che fu fenomeno essenzialmente italiano, come, d’altronde, fu considerato dallo stesso Burckhardt, che contrassegnò un’epoca, nella quale l’Italia aveva dominato rispetto alle altre nazioni(44). Egli pone l’accento sulla posizione gentiliana del Risorgimento italiano come di un movimento di pensiero, le cui radici vanno ricercate nella profonda unità interiore realizzata dal Rinascimento, di cui Dante costituiva l’esempio piú tipico. Esiste, per Gentile, fra Quattrocento e Cinquecento - scrive Del Noce - un paradigma italiano; occorre indagare la storia del pensiero filosofico italiano, privilegiarne i contenuti e le spinte al rinnovamento(45).
L’idea, che guida Del Noce, interprete del pensiero di Gentile sul Rinascimento, è tesa nella direzione della valorizzazione della categoria dello spirito ed è orientata a ricuperare il mondo dell’uomo, la sua dignità e la sua libertà(46). Per Gentile, Umanesimo è fede nell’azione rigeneratice della rinascita, filologia, amore per la parola, esplorazione filologica di un mondo nuovo, riscoperta storica ed erudita dell’antico pensiero e dell’arte, revisione critica del passato. Muovendo dall’idea di un Rinascimento concepito in antitesi ed in opposizione al Medioevo, egli privilegia la rinascita del mondo in senso spirituale, propugnando un ritorno al Cristianesimo originario, ovvero all’ideale di veritas christiana, libero dalle "sovrastrutture" della teologia medievale, dalle sistemazioni scolastiche e dalle interpretazioni della Chiesa. Gentile sottolinea con forza il concetto di un mondo culturale, che si rinnova, che esce dagli aridi ambienti delle scholae e dagli angusti limiti del sapere teologico ed esalta il desiderio dell’umanista di volgere l’interesse verso gli antichi, "per non sentire più la noia, dimenticare ogni affanno, non temere la povertà, e non essere sbigottito più dalla morte: per vivere cioè la vita beata dello spirito che dal tempo delle cose finite si eleva all’eterno e infinito delle idee o dei fantasmi che hanno virtù di affratellare ed unificare gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi"(47). Egli identifica la cultura umanistica con un ritorno alla vera essenza spiritualistica e contesta la tradizione medievale, che aveva portato come conseguenza all’affermazione della certezza oggettiva e del naturalismo, ad una ricaduta dei valori morali ed etici, nonché alla negazione del carattere della soggettività e della spiritualità, che erano alla base dell’originario messaggio evangelico. A tali esiti il filosofo contrappone la rinnovata esigenza e la necessità di valorizzare il carattere della libertà e della soggettività, negati dalle formule astratte, dai dogmi della Scolastica e dalla dialettica rigorosa e formale della disciplina teologica medievale, propugnando la libertà dei valori e la libertà dello spirito(48). E "il germe di vita proprio del Cristianesimo" - osserva Gentile - "era stato il concetto dello spirito, come vera realtà, che non è oggetto di conoscenza, ma di fede e di amore: dello spirito come realtà che l’uomo non presuppone a se stesso, ma realizza, o fa essere nel proprio animo in quanto l’afferma e vuole"(49).
Alla fides incrollabile ed inflessibile dei dogmi, che rappresenta il nerbo della speculazione teologica medievale, si sostituisce l’ansia di ricerca spirituale, una forte ispirazione etico-religiosa, un desiderio di misticismo, che emana dal ricupero della filosofia platonica e che si riverbera nella docta religio di Marsilio Ficino. L’uomo del Rinascimento, bisognoso di verità, di una fede pura, autentica, grazie al supporto che gli viene offerto dalla filologia e che gli spiana il cammino per un’esegesi dei testi, anche di quelli biblici, compie la sua ricerca e, abbandonandosi "candidamente" agli scritti cristiani del Vangelo, dei Padri, s’illumina, ricuperando l’insegnamento delle piú antiche opere classiche, dei veteres sapienti e dei "sacerdoti". Si profila l’immagine di un uomo "riformato" sia in senso religioso, metafisico e teologico, sia in senso etico e morale, di un uomo che esce dai chiostri e trionfa con la sua humanitas, che è soggetto, che prende coscienza del suo essere, che partecipa a se stesso, che brama il dominio su se stesso, che è in grado di autodeterminarsi, secondo il celebre motto pichiano, che è artefice del proprio destino. Un uomo che è spirito, che vede fluire la sua vicenda, profondendo vitalità, energia, impeto e che, acceso da un’entusiastica illuminazione, trova appagamento e si completa, distaccandosi dalla sua mediocre razionalità, nella vita dello spirito. Dotato di acume storico e critico, l’uomo fa la sua storia e, in quanto individuo immerso nella natura, ricerca in essa l’intima connessione attraverso i rapporti di simpatia e di antipatia, le affinità e l’equilibrio; in quanto faber sui, crea se stesso e la sua attività si esplica nella libera creazione artistica ed estetica, nonché nell’affermazione dell’individualismo come riconquista della propria personalità e della ricerca interiore di se stessi. La natura concepita come immanente, dotata di carattere divino, attraverso l’uomo si "umanizza".
Si evidenzia in tal senso l’influenza, che Hegel esercita sul pensiero di Gentile, sia in relazione all’antitesi fra Medioevo e Rinascimento, sia in riferimento all’idea tesa a valorizzare l’individuo, la vita dello spirito e la forma piú alta della coscienza, la politica e lo Stato. Per Hegel l’uomo acquista fiducia in se stesso e si rinnova, ricuperando se stesso, non il mondo dell’aldilà, della trascendenza, perché egli possiede il divino dentro di sé. La vera rinascita si realizza nella libertà dello spirito, nel mondo della cultura e dell’arte, nel quale l’uomo afferma la sua individualità ed autonomia.
Nella prospettiva, che privilegia l’antitesi fra arte e religione(50), arte considerata "non [...] un elemento, ma una forma, o un momento della vita spirituale"(51), Del Noce inserisce il concetto storiografico gentiliano del Rinascimento italiano, che si configura, alla maniera di Burckhardt, come una feconda fioritura in ogni campo dello scibile umano, sia sul piano speculativo, sia su quello letterario ed artistico, come esaltazione della creatività produttiva della fantasia, dell’intuizione, affermazione "della soggettività estetica"(52). Poste tali premesse, il "dibattito" delnociano si orienta ad evidenziare la distinzione fra le posizioni di Gentile, di De Sanctis e di Spaventa, che egli svolge a partire dalle riflessioni sulle prime opere gentiliane sul Rinascimento, i saggi su Petrarca e su Bruno.
Del Noce, fortemente spinto e motivato dai suoi interessi prevalentemente politici, disegna un affresco della filosofia petrarchesca, concentrandosi soprattutto sulle interpretazioni fornite dal filosofo idealista al pensiero politico di Petrarca. Il pensatore pistoiese si sofferma sull’analisi condotta da Gentile sulla figura e sul pensiero petrarchesco, ponendo in risalto alcuni caratteri peculiari dell’opera dell’umanista, individuabili in queste linee essenziali: la valutazione di Petrarca cristiano e la sua avversione all’averroismo e al suo carattere irreligioso a favore di un’accesa ispirazione e di un profondo anelito religioso; il suo distacco dal pensiero medievale e la lotta contro la filosofia Scolastica, che aveva proiettato su un piano razionale il rapporto fra Dio e l’uomo; l’esaltazione della virtú, che significa celebrazione del vir, la creazione che l’uomo fa da se stesso del suo proprio valore"(53); la rivendicazione della poesia e dell’arte, come momento di affermazione dello spirito estetico e l’ammirazione maturata per il ritorno alle auctoritates dell’età pagana, richiamate "da una coscienza, che è pura coscienza estetica"(54), che si traspone "in un mondo di sogno"(55).
Gentile, poi, non manca di accostare a Petrarca Dante, che egli sente piú congeniale alle istanze della sua filosofia dello "spirito" e dell’"arte", perché nell’universo dantesco rifulge una luce piú vivida e uno slancio piú profondo, che dànno libero sfogo alla fantasia e all’intuito creativo. Dante, agli occhi di Gentile, rappresenta l’unità interiore in chiave immanentistica.
L’analisi gentiliana su Petrarca induce Del Noce a sottolineare e a far emergere, ancora una volta, il carattere della soggettività, "in sé cristiana"(56), della filosofia dell’Umanesimo e del Rinascimento, soggettività che si identifica, innanzitutto, con la soggettività della realtà estetica, dell’arte. L’uomo, rinchiudendosi in se stesso, si isola e si interiorizza, e, penetrandosi, ritrova se stesso, per, poi, esaurire, secondo la concezione petrarchesca, la sua vicenda umana nell’arte "come il sogno che astrae dalla realtà e spazia nel mondo della fantasia, dove l’individuo è creatore e signore"(57).
2. Il Rinascimento e la fondazione della filosofia dell’individuo
L’individualismo e l’autonomia dello spirito costituiscono i punti d’approdo di questa vicenda teoretica e la centralità attribuita all’uomo, l’esaltazione e la celebrazione della sua dignità traggono origine dal Cristianesimo e sono temi tipicamente cristiani, rivisitati nel Rinascimento. Sicché, mentre la cultura umanistica mirava a ricuperare i principî cristiani, nello stesso tempo proclamava il distacco dell’individuo dalla vita e si diffondevano tendenze e convinzioni opposte in campo religioso, espressioni della vitale conflittualità di quei secoli. All’interno di tale percorso teorico, Del Noce, non senza una punta di ironia, individua alcune contraddizioni presenti nell’interpretazione gentiliana. Se il Rinascimento è celebrazione ed esaltazione dell’individuo, delle sue capacità, delle sue potenzialità, della sua libertà e l’uomo viene riscoperto nella sua identità originaria, nelle manifestazioni dello spirito, nella purezza del sentimento e dell’atto umano, anche in rapporto alle spinte di rinnovamento religioso, come si giustifica il distacco dell’uomo dalla vita? Come può la vicenda umana sfociare nel momento estetico e quale spiegazione trova l’indifferentismo religioso propugnato da Gentile? La questione va considerata in un quadro piú ampio, tenendo conto dei contesti, che offrono una chiave di lettura utile per comprendere la posizione gentiliana. Ciò si realizza, a giudizio di Del Noce, in considerazione dell’adesione del filosofo dell’attualismo alla contrapposizione classica fra due differenti mondi, espressione di due diversi periodi storici, il Medioevo ed il Rinascimento: "al medievale ritrarsi ascetico del mondo, si sostituisce un ritrarsi estetico, nella pura soggettività"(58). Presupposto ineliminabile di questo percorso speculativo è l’individuo nella sua dimensione astratta, soggettiva, nell’umano ritrovamento di se stesso. Non esiste piú la grazia divina, che guida le azioni degli uomini, ma tutto gravita intorno "all’umana volontà"(59) e dall’individuo dipendono le altre forme della vita, la politica e l’arte. L’uomo per mezzo della virtus crea lo Stato e le esigenze e i problemi della res pubblica non sono di-sgiunti da quelli dell’individuo.
In questa prospettiva matura il confronto dialettico fra Del Noce e Gentile. Egli, senza pronunciarsi esplicitamente sul carattere della filosofia gentiliana, non rinunzia a indicare nella dissoluzione dei costumi gli aspetti negativi della cultura italiana dei secoli XV e XVI, che, dimostratasi fin troppo sensibile alle suggestioni del bello artistico, si abbandonava alla ricerca del buon gusto e dello stile raffinato in ogni campo dello scibile umano, arretrandosi militarmente ed esponendo la propria patria alle lusinghe dei predatori. Del Noce, richiamandosi con toni polemici, alle categorie dell’individualismo e dell’estetismo adottate da Burckhardt, per definire il problema storiografico del Rinascimento, individua e scorge nel carattere estetico, da cui dipende l’esaltazione dell’uomo, la ragione della decadenza dell’Italia(60). Di fronte alla costruzione delle belle e maestose cattedrali, alla meraviglia delle opere artistiche, al genio dei letterati, dei poeti, degli artisti italiani, alla perfezione stilistica dei grammatici, egli coerentemente con le posizioni di Gentile, deplora la perdita dei valori e la dissoluzione della morale e dei costumi, nonché il ruolo convenzionale svolto della religione.
Anche la nuova figura dell’intellettuale, del nuovo uomo di lettere esprime questa crisi e decadenza: in lui albergano grandezza e miseria insieme e grandezza e miseria connotano quei secoli di rinascita, in esatta contraddizione alle inquietudini e ai contrasti ìnsiti nell’epoca.
Il Rinascimento, scrive Del Noce, per Gentile, prelude all’età moderna, "preannuncia la filosofia moderna"(61). Tale disegno storiografico si definisce meglio, quando Gentile accosta i filosofi rinascimentali a quelli dell’età moderna e ricostruisce i momenti essenziali di questa linea di precorrimento e/o di continuità fra le due epoche, collocando accanto a Telesio Bacone, a Campanella Cartesio e, poi, Leibniz, gli esponenti del platonismo rinascimentale, Bruno e Spinoza(62). Questo giudizio critico, secondo Del Noce, costituisce uno dei maggiori meriti ascrivibili alla filosofia gentiliana.
Su questo terreno le posizioni di Del Noce e di Gentile sembrano fortemente divaricate e il filosofo pistoiese tenta di ricostruire e di ripercorrere i passaggi della posizione storiografica gentiliana.
Gentile formula una rigorosa suddivisione fra la sfera privata e quella pubblica, fra l’esigenza di affermare la libertà dello spirito, che si realizza nell’attività artistica e filosofica e "l’abbandono della condotta esteriore allo stato"(63). Il primo problema concerne l’esercizio dell’attività pubblica, il rapporto fra le leggi e la Chiesa, fra libertà morale e libertà politica. Essendo lo stato senza etica, esso necessita dell’ausilio della Chiesa, nella sostanziale convinzione che soltanto attraverso la disciplina teologica ecclesiastica si possano placare e sedare gli animi. Da ciò consegue l’altro grande problema, l’insanabile contrasto fra ragione e fede, fra filosofia e religione. Grande impulso, poi, al determinarsi di un’altra contraddizione proviene dal concetto di naturalismo, incline, sí, a proiettare l’uomo nella natura, ma a rivendicare anche la sua autonomia nei riguardi della stessa. Si genera, cosí, un dissidio fra il principio della realtà umana e quello della realtà come natura.
Del Noce, sollecitato e fortemente motivato dal problema di risolvere il rapporto fra umanesimo e cristianesimo, richiamandosi alla teoria averroistica della doppia verità, fondata sulla verità di ragione e verità di fede, sottolinea con veemenza come questa dottrina sia congeniale agli interessi del filosofo rinascimentale, assurgendo a vero e proprio paradigma convenzionale. La religio si esprime nell’osservanza alla lex, si esplica, soprattutto, sul piano pratico, sociale e politico, serve allo stato. Soltanto in questa prospettiva, osserva Del Noce, la distinzione gentiliana fra intelletto e volontà e gli esiti a cui essa volge, l’intellettualismo, concepito come rivendicazione del valore pratico della religione, possono essere validi, permettendo di comprendere l’ateismo e l’assenza di morale nella vita pubblica.
L’analisi delnociana, lucida e rigorosa, si sofferma su una personalità, che piú di ogni altra espresse, nel carattere innovativo e polemico, questo tentativo proprio del Rinascimento di armonizzare filosofia e religione, Giordano Bruno. L’esperienza del filosofo nolano rappresenta l’insanabile contraddizione, che alimentò lunghi e accesi dibattiti per tutto il corso del pensiero del XV e XVI secolo, la pretesa di conciliare i dogmi della religione cattolica con la verità filosofica. Del Noce legge ed interpreta il Bruno di Gentile, indicando nell’immanentismo naturalistico bruniano una delle cause che avevano contribuito al determinarsi del risentimento antiecclesiastico del filosofo di Nola e alla sua condanna. Bruno è espressione del dualismo teso a riconoscere un Dio dei filosofi, il Dio-natura, e un Dio inattingibile, se non per rivelazione naturale(64). Il filosofo nolano non nega il Dio professato dal cattolicesimo, ma ravvisa in questo la mens insita omnibus, la Natura, un Dio che, come afferma Gentile, è "vivo e essenzialmente creatore o l’infinito Spirito, a cui la mente non può salire che mediante la contemplazione della infinita Natura"(65).
L’immanentismo bruniano si compie e si realizza nell’universo gentiliano con l’approdo alla filosofia cristiana e l’interpretazione di Gentile su Bruno costituisce, sottolinea Del Noce, "la rottura del neoidealismo italiano con l’anticlericalismo"(66). Tale contraddizione derivante dall’impossibilità di risolvere il rapporto fra filosofia e religione ha prodotto la decadenza della civiltà italiana nel Rinascimento, i cui effetti e conseguenze si avvertiranno soprattutto in età risorgimentale. Nell’esperienza di Bruno, conclusasi tragicamente con il rogo, si esprime, secondo Del Noce, una delle numerose contraddizioni dell’epoca rinascimentale, che egli ravvisa nell’impossibilità di affermare l’autonomia dell’uomo dinanzi alla natura. Ciò che Del Noce critica è proprio il concetto sul quale gli umanisti fondarono la "nuova" filosofia, espressione della conflittualità tesa, da una parte, a rivendicare l’uomo come soggetto, come spirito, come individuo, libero dinanzi alla natura e, dall’altra, a riconoscerlo come parte della natura. La rivendicazione dell’uomo come spirito posta di contro a quella dell’uomo come individuo "particolare", "parte della natura", è il segno piú evidente di quanto contraddittoria e complessa sia stata l’età rinascimentale e rende ragione dello sforzo compiuto invano dai filosofi dell’epoca di "sottrarsi alle conseguenze naturalistiche, trasferendo alla natura la spiritualità dell’uomo"(67). A partire da questa riflessione Del Noce individua una linea diretta di successione e di continuità fra le suggestioni promanate dall’individualismo, dal materialismo, quelle del sensismo, dello spirito rivoluzionario, fino alle conseguenze estreme del pessimismo. Per il pensatore pistoiese, "nell’inadeguata affermazione rinascimentale dell’uomo" risiede il germe della decadenza della civiltà italiana, che risorge con Vico "solitario nel suo secolo, critico del naturalismo, scopritore della storia"(68), in contrapposizione alla posizione di Gentile, per il quale Vico è erede del Rinascimento, rappresentante della continuità fra Rinascimento e Risorgimento, nonché promotore dell’incontro e del dialogo fra il pensiero filosofico italiano e quello europeo(69). La sua critica nei confronti del naturalismo rinascimentale e della posizione, che l’uomo assume nei riguardi della natura, si estende e si dilata sino ad abbracciare il problema della dimensione dell’individuo dinanzi alla realtà del mondo esterno, la questione teologica e il concetto di immanenza del divino.
Muovendo da queste considerazioni, risulta chiaro come il Rinascimento, per Del Noce, presenti molte zone d’ombra, e sia concepito come un secolo di decadenza, che investe la società civile e, di conseguenza, tutte le manifestazioni del pensiero italiano, risorto, poi, con il Risorgimento. Il suo giudizio fortemente critico, pur tenendo conto dei profondi contrasti esistenti in quest’epoca, delle contraddizioni che si riverberano nella figura del nuovo intellettuale, non si esime dall’investire ogni aspetto del pensiero, in particolare, il carattere del naturalismo, i cui esiti hanno influenzato e inciso in modo negativo sulla nuova immagine del mondo e dell’uomo.
Senza considerare, però, è opportuno sottolinearlo, che è proprio il naturalismo del Rinascimento ad aver preparato il terreno ed aver prodotto le nuove concezioni fisiche, metafisiche e cosmologiche, la nuova idea di scienza e le nuova visione dell’uomo. Come pure va ricordato, che i risultati, ai quali perviene il razionalismo cartesiano relativamente al rapporto fra fede e ragione o il tentativo della filosofia del Seicento di risolvere il problema metafisico, le nuove indagini, i nuovi apporti filosofici e scientifici moderni, non sono altro che il prodotto delle crisi e delle riflessioni critiche maturate nel corso del Cinquecento sul tema della sua religiosità o irreligiosità, sulla presenza di istanze pagane, cristiane, di scetticismo, di forme di eresia o di manifestazioni di ateismo.
3. Qualche osservazione per un bilancio
Dopo questa analisi, occorre chiedersi qual è il contributo che Del Noce ha offerto alla storiografia filosofica sul Rinascimento e quali i meriti da ascriversi all’opera del filosofo pistoiese. Innanzitutto, la sua ricerca offre un quadro critico della visione gentiliana della filosofia rinascimentale, ponendo in rilievo luci ed ombre che s’annidano in essa, contraddizioni e posizioni teoriche piú o meno degne di validità critica; in secondo luogo, essa presenta elementi di novità e di originalità rispetto all’itinerario prospettato da Gentile, configurandosi come alternativa all’interpretazione idealistica; contribuisce, come ha osservato Rossi, a dissolvere il "mito" di una tradizione filosofica specificamente italiana(70), collegando in stretto rapporto di sviluppo la filosofia italiana con la tradizione francese, anziché con quella tedesca promossa dall’idealismo, riscuotendo questa posizione "un successo insperato"(71); pone l’accento sulla dimensione religiosa e filocattolica della filosofia italiana e consente di comprendere il ruolo determinante e il peso rilevante, che ebbe la Scuola Cattolica sul nostro pensiero; offre una chiave di lettura in piú alla comprensione del carattere religioso o irreligioso dell’epoca rinascimentale, traducibile in termini delnociani nella parola di ateismo, concentrando l’attenzione, soprattutto, sulle dottrine del brunismo e sulla vicenda intellettuale di Bruno, nella quale si concreta l’espressione della crisi religiosa tipica dell’epoca.
Quelle stesse idee, che avevano ispirato, sollecitato e mosso Del Noce ad attuare una revisione critica delle concezioni storiografiche gentiliane, favoriscono la sua ricerca sul Rinascimento, che, pur sollevando molti dubbi e perplessità, può essere considerata per alcuni aspetti originale e innovativa rispetto al percorso storico-critico delineato da Gentile.
Quanto al carattere religioso del Rinascimento, Gentile e Del Noce sposano la tesi di un’epoca assolutamente cristiana, sebbene avviino la loro riflessione da premesse differenti. Gentile, aderendo alla teoria della contrapposizione classica fra Medioevo e Rinascimento, ritiene che nei secoli XV e XVI non convivono esperienze pagane o cristiane, ma si manifesta soltanto un nuovo atteggiamento di scetticismo nei riguardi delle credenze e dei modelli del passato e un nuovo spirito con una sua fede. Del Noce, individuando nella matrice scolastica della filosofia medievale il germe del cristianesimo rinascimentale, sembra che rovesci questa posizione storiografica, sostenendo, probabilmente, non la teoria della frattura, bensí quella della continuità fra le due epoche. Mentre, agli occhi di Gentile, l’Umanesimo si richiama alla primitiva purezza del concetto cristiano di spirito, entro il quale si scandisce la realtà, a giudizio di Del Noce, il Rinascimento è un secolo, sí, cristiano, ma in cui sono presenti tracce e forme di ateismo concepito come un’interpretazione del cristianesimo in chiave pagana e nel quale si manifesta la continuità di esperienze religiose maturate nel Medioevo.
Egli, muovendo dall’idea di collegare e di porre in relazione il Rinascimento al Risorgimento, identifica la renascentia con la decadenza, della quale la figura dell’uomo dotto è l’espressione, e definisce il Risorgimento come l’età in cui il pensiero italiano trionfa, pur sottolineando, che l’immagine del letterato rinascimentale, nella quale si riflette una grande crisi, non è riducibile ai concetti di "frivolezza retorica, spirito servile e cortigiano che il termine sembra evocare"(72).
Soffermandosi e riscoprendo i temi essenziali dell’età moderna, egli non individua le sue origini nell’Umanesimo, giacché, mentre la modernità rompe con il passato, l’Umanesimo si incontra e dialoga con esso. Gentile aveva definito il Rinascimento preludio all’epoca moderna. Del Noce, forse, allude ad una vera e propria frattura epocale, ad una cesura fra la cultura rinascimentale e quella moderna e, probabilmente, si fa promotore della continuità fra Medioevo ed età moderna, sulla scia di quanti, come Sarton, o Bruno Nardi, avevano sostenuto di "saltare a piè pari il periodo umanistico", se si vuole comprendere la genesi del pensiero moderno(73).
Si può dedurre, che in queste contrapposizioni volte a rintracciare elementi di religiosità o di irreligiosità nel Rinascimento, a considerarlo erede della tradizione medievale, a porre in luce posizioni speculative piú o meno originali, a ritenere l’uomo come parte della natura e ribelle dinanzi ad essa, a negare il contributo da esso arrecato alla genesi del pensiero moderno, a ricondurre gli sviluppi della cultura del XVI secolo al Risorgimento, sono venuti a convergere i temi della polemica delnociana e si è definita la sua visione critica del Rinascimento. I secoli XV e XVI sono secoli di decadenza e di profonde crisi, nei quali il pensiero italiano volge al suo tramonto, per, poi, risorgere in età moderna.
Il giudizio elaborato nel corso di vari secoli di critica in questo campo di studi è, ormai, maturo e consente di fare un "bilancio", sottolineando che anche l’interpretazione delnociana ha contribuito a far maturare quel "senso storiografico" sul Rinascimento e al consolidarsi di talune prospettive, con le quali, comunque, bisogna fare i conti, per comprendere i termini di questa querelle.
Un radicale rinnovamento agli studi sulla cultura rinascimentale è stato recato da Eugenio Garin, il quale, collocandosi "al di là dell’interpretazione idealistica"(74), con la sua indagine scaltrita sul carattere filosofico dell’Umanesimo ha dominato e domina tuttora il panorama della storiografia moderna e contemporanea(75). Egli, innanzitutto, prende le distanze dalla prospettiva storiografica di Gentile e in generale dall’idea dominante di chi scorgeva in questa età "precorrimenti" o anticipazioni nella storia della filosofia italiana; dalla contrapposizione, ormai, convenzionale fra Medioevo ed età moderna, che aveva influenzato ed inciso, in modo cosí negativo, sulla comprensione del pensiero del Rinascimento; dalle posizioni classiche che tendevano ad individuare rispettivamente nelle due epoche il carattere della trascendenza e dell’immanenza(76). La sua nutrita riflessione, fondandosi su un’attenta e rigorosa esplorazione dei testi e delle fonti, si connota per il notevole equilibrio critico, per il vigore di massima intransigenza nei riguardi di apparati categoriali, di strutture pregiudiziali, di posizioni prive di fondamento oggettivo, di schemi precostituiti, nonché per la grande lezione di metodo rintracciabile nei criteri filologici e storici da lui adottati e suggeriti. Rimeditando sulla storia del pensiero dei secoli XV e XVI, Garin ricostruisce con lucidità i processi storici e le matrici culturali dell’epoca, rivaluta molte figure di pensatori e di filosofi negletti dalla critica storiografica precedente, riconosce nell’acquisizione della coscienza storica la vera radice dell’età moderna. La natura della "nuova" filosofia risiede, per Garin, nella compresenza di varie esperienze intellettuali, di tendenze e concezioni filosofiche differenti, nella convivenza di matrici culturali assai diverse. La storia di quei secoli si potrebbe definire come un grande mosaico di idee caratterizzato da varie tonalità.
Testimoniano l’eccezionale ricchezza e originalità della sua interpretazione i numerosi studi, che egli dedica al pensiero filosofico di quei secoli, la circolazione nazionale ed europea delle sue concezioni storiografiche, la loro validità storico-critica, attualità e modernità, la fortuna delle sue opere, a distanza di oltre mezzo secolo, nonché le loro innumerevoli riedizioni e ristampe.
Nel solco di tale tradizione storiografica si muove Cesare Vasoli, erede e allievo di Garin, il quale si fa promotore della lezione del suo maestro, arricchendola ed apportando un contributo significativo agli sviluppi della recente storiografia(77). La Renascentia, per lo studioso, è sinonimo di tensioni, di aporie, di conflittualità, di contraddizioni tipiche di quel tempo, sicché, come egli sottolinea, in uno dei suoi pregevoli e recenti studi, essa non produce una "generica filosofia", bensí le "filosofie"(78). Si tratta di un’epoca assai ricca e sfaccettata, caratterizzata da una poliedricità di aspetti, concepita come sintesi di vari conflitti, che producono molteplici e fecondi orientamenti e proprio sul terreno lastricato da ambivalenze e da contraddizioni si fonda e si sviluppa la "civiltà moderna dell’Occidente"(79). In ciò consiste l’originalità e la fecondità del pensiero del Rinascimento, nel quale, osserva lo studioso, "tra crisi e conflitti di ogni genere, avvenne uno straordinario mutamento nell’esistenza e nella coscienza umana, e iniziò la vita del "mondo moderno", che, nonostante tutti i pronostici sul suo "tramonto", ancora continua"(80). Non si può, altrimenti, comprendere lo spirito della cultura rinascimentale, se si sottovaluta, afferma Vasoli, che in quell’epoca coesistono "concezioni della realtà, del sapere e dell’operare umano" che apparentemente sembrano inconciliabili, "ma che allora si influenzarono reciprocamente, producendo idee e atteggiamenti intellettuali non sempre facilmente decifrabili, ma comunque ben diversi da quelli descritti o stigmatizzati a lungo da giudizi storiografici"(81).
Questa revisione della storiografia moderna, della quale, come è stato già sottolineato, è precursore Garin, e che viene corroborata e sostenuta da Vasoli, pur tra polemiche e dibattiti, non può non trovare, ormai, che il pieno consenso da parte degli studiosi, avendo sgombrato il terreno dai condizionamenti ideologici e categoriali. La discussione sul Rinascimento va considerata con cautela, evitando di incorrere in critiche distruttive, senza indulgere a schemi precostituiti, privilegiando l’originalità e la molteplicità della riflessione filosofica. La sua valenza storica risiede proprio nella diversità di approccio ai problemi, nella varietà delle dottrine, che riflettono la molteplicità delle tendenze, nella ricchezza della produzione filosofica, nella confluenza e convergenza di diversi filoni, nella compresenza e convivenza di metodi differenti, in un’istanza pluralistica(82). La lezione di Vasoli ci invita a modificare le nostre valutazioni storico-critiche, disfacendoci dei pregiudizi e delle etichette, che vincolano e deformano il nostro giudizio.
Chi volesse rintracciare un pensiero unico, classificare in modo univoco il Rinascimento, individuare un paradigma, un modello di "scuola", ravvisare nella filosofia della Rinascenza un’unità sistematica, ricercare un solo metodo, ridurre ad un quadro interpretativo assoluto questa età, in cui una sola filosofia diventa la sua espressione, elude un problema e si aggroviglia fra apparati categoriali e falsi pregiudizi che, sovente, condizionano ed inficiano la comprensione di questo movimento del pensiero.
Che, è, poi, la lettura gentiliana-delnociana, che scaturisce dagli schemi storiografici accolti dal tempo, quelli di matrice idealistica e quelli d’impronta cattolica. Sicché, se si ripercorre e si rilegge l’interpretazione di Del Noce entro questi paradigmi, essa ha una sua valenza storica, perché arricchisce l’orizzonte storiografico ed aiuta a comprendere la genesi del pensiero moderno e il contesto entro il quale matura la filosofia del XX secolo, pur, sempre, riconoscendo, che si tratta di una prospettiva fortemente condizionata dall’ideologia dominante e che deve essere contestualizzata in quel preciso momento storico.
I concetti, che avevano contribuito ad una classificazione della cultura del Rinascimento e avevano generato la "crisi", tramontano ed orientano l’indagine verso un’interpretazione storiografica ben definita, l’idea che il Rinascimento, come afferma lo studioso Bouwsma, è un’epoca tutt’altro che compatta, con un suo declino ed una sua fine, che le grandi figure esprimono questi dissidi e ambiguità e che esso va considerato nel contesto generale del pensiero europeo, non esclusivamente di quello della realtà nazionale. È degno di rilievo il suo contributo recato alla riflessione sulla ricerca storiografica di quest’epoca e raccolto nel volume, L’autunno del Rinascimento(83), che, ricalcando, quasi fedelmente, il titolo dell’opera di Huizinga, Autunno del Medioevo(84), risponde all’esigenza di sottolineare, in contrapposizione al "tramonto del Medioevo", i conflitti e le contraddizioni, che albergano nella cultura rinascimentale e di porre attenzione non tanto alla genesi e agli inizi del periodo in questione, quanto al suo tramonto. L’autore, considerando lo sviluppo del pensiero del XVI secolo nell’àmbito del panorama culturale europeo ed esprimendo, attraverso lo studio delle personalità piú illustri ed originali dell’epoca, le irrequietezze e le controversie, che si agitano in quest’età, si fa portavoce del cambiamento della prospettiva storiografica, svecchiando e rinnovando le concezioni precedenti. La griglia interpretativa, per mezzo della quale giudicare la storia del pensiero rinascimentale, è un’idea di complessità e di profonde contraddizioni. I suoi stessi personaggi testimoniano questi contrasti, le ansie, i dubbi, i problemi e, come osserva lo storico, "il fatto che quasi tutti mancassero di trasparenza è forse una delle chiavi che ci permetteranno di giudicare i risultati culturali dell’epoca"(85).
In definitiva, si può concludere, che dal punto di vista storiografico la posizione delnociana sul Rinascimento è sicuramente superata rispetto ai prossimi sviluppi della storiografia in questo campo di studi, e presenta qualche limite generato dall’aver sottovalutato le prospettive interpretative a lui contemporanee, quelle di Garin o di Vasoli. Egli ignora la ricchezza e la molteplicità di istanze, la compresenza di vecchie tradizioni, che si consolidano o si rinnovano, e di nuovi e originali atteggiamenti, che si sviluppano e dànno origine alle filosofie del Rinascimento. La lettura, che ne scaturisce, si inserisce nel solco di una tradizione, ormai obsoleta, tesa a ricuperare vecchie categorie storiografiche, che intravedono nel Rinascimento la frattura o, come sostiene Del Noce, la continuità con il Medioevo, o anticipazioni e precorrimenti dell’età moderna, o, perfino, secondo il giudizio del filosofo pistoiese, il "salto" epocale fra età medievale ed età moderna.
Né tanto meno può essere accolta l’idea di una filosofia avente caratteri tipicamente italiani, che si differenzia da quella degli altri paesi europei(86). E ciò viene sottolineato molto chiaramente da Pietro Rossi, il quale, nel ricostruire i percorsi della storiografia filosofica, guarda alla cultura europea in generale e non alle "singole culture nazionali"(87), essendo, quasi, venuta meno l’idea di stato nazionale ed affermandosi il carattere sopranazionale.
Un merito ascrivibile a Del Noce consiste nell’aver colto con profondità il nesso fra Rinascimento e Risorgimento, senza dimenticare, osserva Rossi, che questo giudizio si colloca nel solco della tradizione della Storia della letteratura italiana perseguita da De Sanctis e che può essere spiegato e giustificato, inserendo il pensiero italiano in un contesto piú ampio, che è quello europeo, se, soprattutto, ad esso si vuole riconoscere il primato(88).
Che la revisione critica di Del Noce non sia piú attuale, che, per comprenderne i pregi, bisogna tenere conto della categoria del superamento, è superfluo anche ricordarlo, che, però, abbia stimolato e sia stata sprone ad orientare la ricerca in una nuova direzione, nonché ad ampliare l’orizzonte della critica rinascimentale è un dato altrettanto certo, giacché si deve riconoscere che la recente interpretazione storiografica è sempre debitrice nei confronti della querelle dei secoli precedenti.
Non si deve, tuttavia, dimenticare, che dietro queste posizioni ed inclinazioni è sotteso un grande dibattito ideologico, le cui implicazioni non consentivano di valutare e comprendere la storia del pensiero filosofico italiano con la stessa serenità olimpica di un Garin o di un Vasoli. Ciò costituisce il nucleo centrale della questione e il concetto, sul quale occorre riflettere e confrontarsi, per inquadrare e comprendere nella giusta prospettiva il pensiero di Del Noce a confronto con Gentile e la sua interpretazione del Rinascimento, al fine di porre in luce le peculiarità e i pregi, se effettivamente ci sono, della sua visione critica!
NOTE
(1) Cfr. g. m. pozzo, Augusto Del Noce di fronte a Giovanni Gentile, in AA.VV., Augusto Del Noce. Il pensiero filosofico, a cura di D. Castellano, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1992, pp.275-83; inoltre, si tenga presente il contributo critico di v. possenti, Giovanni Gentile nell’interpretazione di A. Del Noce, in "Studium", XC (1994), pp. 517-32.
(2) Cfr. a. del noce, Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1990.
(3) Ivi, p.145.
(4) Ibidem.
(5) P. O. Kristeller, La tradizione classica nel pensiero del Rinascimento, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 87.
(6) Ibidem
(7) Cfr. a. del noce, Il problema dell’ateismo [1964], Bologna, Il Mulino, 1970.
(8) p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, in AA.VV., Antonio Corsano e la storiografia filosofica del Novecento, Atti del Convegno di Studi, Lecce-Taurisano 24-25 settembre 1999, a cura di G. Papuli, Galatina, Congedo, 1999, pp.19-41:19.
(9) Sulla tradizione della antiquissima italorum sapientia e sulle origini del "mito" si consulti p. casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Bologna, Il Mulino, 1998.
(10) Cfr. p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, cit., p.24.
(11) Cfr. Ivi, p.28.
(12) Cfr. a. mina, Augusto Del Noce e l’incontro con Cartesio, in "Filosofia", LII (2001), pp.3-34.
(13) Cfr. a. mina, Augusto Del Noce e l’incontro con Malebranche, in "Annuario filosofico", XIV (1998), pp. 397-448.
(14) Cfr. p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, cit., p. 28; si rinvia, inoltre, al volume di a. del noce, Giovanni Gentile..., cit.
(15) Cfr. g. dessì, Augusto Del Noce e la modernità. Il momento genetico della riflessione delnociana, in "Annali della Fondazione Ugo Spirito", 1992, pp.333-41.
(16) Cfr. v. possenti, Metafisica e modernità in Augusto Del Noce, in AA.VV., Augusto Del Noce. Il pensiero filosofico cit., pp.45-72.
(17) Sull’argomento si consulti a. del noce, Spiritualità cartesiana e Machiavellismo, in Umanesimo e Scienza Politica, "Atti del I Congresso Internazionale di Studi Umanistici", Milano, Marzorati, 1951, pp.106-28.
(18) Cfr. a. del noce, Il problema dell’ateismo ..., cit. p.432.
(19) c. cesa, Augusto Del Noce e il pensiero moderno, in "Giornale critico della filosofia italiana", LXXII (1993), pp.185-211:194.
(20) Cfr. g. de rosa, Augusto Del Noce e la storia dell’ateismo, in "Humanitas", I(1996), pp.39-51.
(21) Sull’argomento si consulti v. possenti, Ateismo, filosofia e cristianesimo in AA.VV., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Roma, Edizioni Studium, 1995, pp.73-94.
(22) a. del noce, Il problema dell’ateismo, cit., p.14.
(23) Cfr. Ibidem
(24) Cfr. Ivi, p.18.
(25) Ivi, p.28.
(26) Cfr. Ivi, p.347.
(27) Ivi, p.28.
(28) Ivi, p.64.
(29) Ivi, p.346.
(30) Per un’analisi delle riflessioni delnociane sulle dottrine teologiche medievali ed, in particolare, su quelle del tomismo si rinvia al saggio di a. poppi, Augusto Del Noce e il tomismo, in AA.VV., Augusto Del Noce. Il pensiero filosofico, cit., pp.73-82.
(31) a. del noce, Il problema dell’ateismo, cit., p.346.
(32) a. del noce, Giovanni Gentile …, cit. p.145.
(33) g. gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 19674, pp.17-45:34.
(34) Ibidem.
(35) Ivi, p.33.
(36) Ibidem
(37) Sulle riflessioni delnociane su Giovanni Gentile cfr. a. marchesi, Attualismo gentiliano, modernismo e metafisica classica nella riflessione di Augusto Del Noce, in AA.VV., Filosofia, dialogo, amicizia. Studi in memoria di D. Faucci, a cura di A. Scivoletto, Milano, Franco Angeli, 1998, pp.294-311.
(38) Frutto di una serie di contributi apparsi, a piú riprese, fra il ’64 e il ‘69 sul "Giornale critico della filosofia italiana", tale saggio pubblicato soltanto negli anni ’90, quando sono, ormai, mature le condizioni per le quali è possibile parlare di fascismo come temperie politica e culturale priva della vis che lo aveva caratterizzato, ci propone la figura di Gentile quale filosofo, "riformatore religioso e politico" insieme. Egli, guardando al divenire della storia e all’analisi dei fenomeni, ne coglie i tratti simbolici, i contesti, non isolandosi e astraendosi dalle vicende politiche del tempo, bensí tessendo una fitta trama di relazioni fra il momento dell’agire, del poiéin e quello della prassi, del prattein. Del Noce intravede in Gentile il riformatore religioso e politico, nei disegni del quale si evidenziava costantemente l’esigenza di unificazione delle culture delle regioni italiane e la necessità di proseguire l’attività promossa dal Risorgimento. In tal senso la lettura delnociana di Gentile è originale ed innovativa e, aprendo nuovi orizzonti, postula nuovi sviluppi nella storia del pensiero filosofico italiano. Cfr. a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit.
(39) Ivi, p.130.
(40) Sull’argomento cfr. anche a. del noce, L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, "Giornale critico della filosofia italiana", XLVII (1968), pp.163-215.
(41) Cfr. c. vasale, "Riforma cattolica" e "restaurazione creatrice", in AA.VV., Augusto Del Noce. Essenze filosofiche e attualità storica, a c. di F. Mercadante-V. Lattanzi, vol. II, Spes-Fondazione Capograssi, Roma 2001, pp.913-20.
(42) Sul concetto di Risorgimento in Augusto Del Noce si consulti il contributo di p. armellini, L’idea di Risorgimento in Augusto Del Noce, in "jArchv", V(2003-04), pp.15-57, il quale, oltre ad essere autore di vari saggi su questo pensatore, ha anche curato un’ampia rassegna bibliografica degli scritti di e su Augusto Del Noce.
(43) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.144.
(44) Cfr. j. burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia [1860], Roma, Newton Compton, 2000.
(45) È noto che Gentile dedica alla cultura del Rinascimento i volumi della Storia della filosofia italiana sino al Valla, opera rimasta incompiuta e interrotta con il capitolo su Lorenzo Valla. In tale prospettiva di studi si inseriscono anche le altre opere gentiliane sul Rinascimento, quali Il pensiero italiano del Rinascimento, Giordano Bruno nella storia della cultura, i saggi su Il carattere dell’Umanesimo e del Rinascimento, Studi sul Rinascimento ed altri contributi su alcuni filosofi del XVI secolo.
(46) Cfr. v. possenti, Giovanni Gentile nell’interpretazione di A. Del Noce, in "Studium", XC (1994), pp.517-32.
(47) g. gentile, Il pensiero italiano ..., cit., pp.6-7.
(48) Sul problema e sul concetto di libertà si consulti AA.VV., Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, a cura di C. Vasale e G. Dessì, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996 ed, in particolare, sui concetti di filosofia della libertà e filosofia dello spirito si tenga presente lo studio di c. vasale, Augusto Del Noce: una "filosofia della libertà e dello spirito", in AA.VV., Augusto Del Noce e la libertà ..., cit., pp.3-25.
(49) g. gentile, Il pensiero italiano ..., cit., p.18.
(50) a. del noce, Giovanni Gentile …., cit., p.145.
(51) g. gentile, Il pensiero italiano ..., cit., p.26.
(52) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.145.
(53) g. gentile, Il pensiero italiano ..., cit., p.435.
(54) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.146.
(55) Ibidem
(56) Ivi, p.147.
(57) Ibidem.
(58) Ivi, p.148.
(59) Ibidem
(60) Cfr. j. burckhardt, La civiltà del Rinascimento ..., cit.
(61) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.148.
(62) Si osserva come anche Del Noce, per spiegare l’origine dell’ateismo, accosti Spinoza a Bruno e ponga in risalto la loro identità per quel che riguarda l’interpretazione e la natura del peccato. Egli confronta la concezione bruniana del peccato, secondo la quale la caduta dell’uomo è necessaria, perché, afferma l’autore, la sua moralità "non è innocenza, ma conoscenza del bene e del male", con il pensiero di Spinoza, per il quale il peccato non esiste, perché ammettendo l’esistenza di Dio causa di tutto, bisogna escludere il peccato. Cfr. a. del noce, Il problema dell’ateismo, cit., pp.24-25.
(63) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit p.149.
(64) Ivi, p.150.
(65) g. gentile, Il pensiero italiano ..., cit., p.303.
(66) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.151.
(67) Ibidem
(68) Ibidem.
(69) Cfr. Ivi, p.152n.
(70) p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, cit., pp.19-41.
(71) Ivi, p.27.
(72) a. del noce, Giovanni Gentile ..., cit., p.148.
(73) b. nardi, Il problema della verità. Soggetto e oggetto del conoscere nella filosofia antica e medievale, Roma, Universale di Roma, 1951, pp. 58-59.
(74) Cfr. p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, cit., p. 27. In questo contributo Rossi dedica alcune pagine alle posizioni storiografiche di Garin, ponendo in risalto l’attenzione di Garin nei riguardi di una visione complessiva della filosofia italiana, evidenziando i pregi e le peculiarità delle sue concezioni nel campo degli studi umanistici, ma nel contempo, criticando la sua tesi "della continuità tra cultura umanistica e Illuminismo" (Ivi, pp. 33-39).
(75) Si ricordano qui soltanto alcuni fra gli studi piú significativi dell’intensa e copiosa attività storiografica di Garin sulla cultura rinascimentale: e. garin, Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrine, Firenze, Le Monnier, 1937; Il Rinascimento italiano, Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale, 1941; AA.VV., Filosofi italiani del ‘400 (a cura di E. Garin), Firenze, Le Monnier, 1942; L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1952; Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 1954; La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze, Sansoni, 1961; Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1965; L’età nuova. Ricerche di storia della cultura dal XII al XVI secolo, Napoli, Morano, 1969; Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Pisa, Nistri-Lischi, 1970; Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari, Laterza, 1975; Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1976; AA.VV., L’uomo del Rinascimento, a c. di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1997.
(76) È opportuno sottolineare che Garin nel 1947 pubblica presso Vallardi La filosofia in due volumi intitolati rispettivamente Dal Medioevo all’Umanesimo e dal Rinascimento al Risorgimento, che si collocano in diretta continuità di tradizione con la storia della filosofia di Gentile interrotta col capitolo su Lorenzo Valla. In essi lo storico fonda la sua interpretazione su premesse differenti da quelle della visione gentiliana. L’opera completa è stata, poi, ripubblicata in tre volumi sotto il titolo di Storia della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 1966.
(77) Su una sintetica ed aggiornata ricostruzione del dibattito storiografico intercorso fra gli studiosi e sulla genesi del Rinascimento, nonché sulle tendenze critiche piú accreditate cfr. c. vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, in AA.VV., Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Milano, Mondadori, 2002, pp.3-25.
(78) c. vasoli, Introduzione a AA.VV., Le filosofie del Rinascimento, cit., p.XVI.
(79) Ibidem.
(80) c. vasoli, Il Rinascimento tra mito e realtà storica, cit., p.25.
(81) c. vasoli, Le tradizioni magiche ed esoteriche nel Quattrocento, in AA.VV., Le filosofie del Rinascimento, cit., pp.133-53:33.
(82) Sugli aspetti e sulle problematiche della filosofia rinascimentale offre un quadro d’insieme, nonché un’efficace sintesi, il volume di AA.VV., La filosofia del Rinascimento, a c. di G. Ernst, Roma, Carocci, 2003, il quale passa in rassegna le numerose "correnti" del XV e del XVI secolo e si sofferma sui maggiori pensatori dell’epoca.
(83) Cfr. w. j. bouwsma, L’autunno del Rinascimento (1550-1640), Bologna, Il Mulino, 2003.
(84) Cfr. j. huizinga, L’Autunno del Medioevo [1919], Roma, Newton Compton, 1992.
(85) w. j. bouwsma, L’autunno del Rinascimento, cit. p.17.
(86) Cfr. p. rossi, Il mito della tradizione filosofica italiana e la sua dissoluzione, cit., p.39.
(87) Ivi, p.41.
(88) Sull’interpretazione di Gentile elaborata da Del Noce si rinvia alla lettura del contributo critico di p. rossi, Gentile secondo Augusto Del Noce, in "Rivista di filosofia", LXXXII (1991), pp.151-59:156.
Il venticinquesimo numero della nostra rivista si apre con il doveroso quanto doloroso ricordo del prof. Salvatore Riccobono, già eminente docente di Storia del Diritto romano nell’Università palermitana, elevato studioso di storia e civiltà romana, uomo profondo negli affetti e nei sentimenti, delicato e romantico poeta, nonché componente del Comitato scientifico della "Rassegna Siciliana", suo assiduo e appassionato lettore. Egli oggi non è più tra noi, ma forse in una dimensione diversa dove finalmente potrà saziarsi di quella "visione di infinito"di cui tanto spesso parlava nelle sue meditazioni poetiche.
"Gentiluomo elegante e garbato che soleva offrirti due lilium del suo giardinetto come una stupenda corbeille" – così lo ricorda un’amica – incarnava il carattere di quella borghesia siciliana che, grazie all’ingegno e agli studi, aveva conquistato la città, pur non dimenticando la civiltà contadina da cui proveniva e la semplicità della vita della piccola provincia palermitana. Salvatore Riccobono portava nei modi eleganti, nella pacatezza del parlare, nella gentilezza dei modi, le stimmate di una classe sociale che aveva strappato la Sicilia dal quel sequestro culturale secolare di cui parla Giovanni Gentile, reinserendola nel circuito intellettuale europeo.
Il prof. Riccobono aveva respirato nella sua casa di Mezzomonreale, quell’amore per gli studi, quell’ammirazione per la grandezza romana che gli aveva trasmesso l’eminente zio Salvatore Riccobono senior, già rettore dell’Università palermitana, preside della facoltà di Giurisprudenza, insigne romanista, accademico d’Italia, il cui ricordo mai sarebbe sbiadito nella mente del nipote.
La mia frequentazione con il prof. Riccobono iniziò alla fine degli anni ottanta, quando sempre più spesso veniva a trovare il mio maestro, il prof. Giuseppe Tricoli, nella stanza che condividevo con lui al primo piano della palazzina di piazza Bologni occupata dalla facoltà di Scienze Politiche. Quelle visite, dapprima timide, poi sempre più confidenziali, avvenivano in un periodo particolare, sia per lui che per il prof. Tricoli. Il primo era da poco andato in pensione e, pur continuando a frequentare nei primi tempi del suo collocamento a riposo il suo vecchio Istituto di via Maqueda, se ne era a poco a poco allontanato, forse per rassegnarsi all’accettazione del suo nuovo ruolo nella società e nell’Università e forse anche per scacciare la nostalgia del passato e l’incalzare dei ricordi. "L’anima si piega/ in pensosa malinconia/-nostalgia di sfiorita giovinezza/di lunga affettuosa amicizia-/ripercorre nel tempo il passato/ i ricordi della fanciullezza/ il travaglio della vita/ e del presente la tristezza/ di amaro destino."(1) Il secondo lottava con una terribile malattia che l’avrebbe portato ben presto alla morte. Tutti e due cercavano qualcosa e forse trovavano conforto ai dolori dell’anima e del corpo in quei colloqui che si protraevano per ore e durante i quali io mi imbevevo della, loro cultura e della loro umanità. Ricordo con dolcezza quei suoi occhi azzurri così bonari, dietro cui, malgrado il sorriso sereno, si nascondevano il ricordo di grandi dolori ed una profonda tristezza pervasa di rassegnazione cristiana. La vita aveva fortemente provato quest’uomo, con la lunga e penosa prigionia di guerra in India, con la perdita dell’unico figlio maschio, a soli undici anni, con la dolorosa recente fine della figlia minore Francesca e con la scomparsa della moglie Elisa. Egli trovava refrigerio ai tanti dolori che gli avevano dilaniato l’anima nel calore della famiglia, dei tanti amici e negli studi classici in cui rinveniva la fonte di quella humanitas ciceroniana che riteneva alla base dell’evoluzione sociale.
Nella sua conversazione era spesso presente il ricordo dello zio, i suoi viaggi con lui a Roma, il suo accompagnarlo alla sede dell’Accademia d’Italia, la sua partecipazione al Congresso sull’Europa del 1932, i colloqui sull’avvenire dell’Italia e del mondo alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Ricordo quando ci raccontava delle sofferenze patite nei sei anni della sua prigionia sotto gli inglesi, alle falde dell’Himalaya; riuscì a sopportare la lontananza dalla patria, dalla famiglia, dalla sua confortevole casa pregna di ricordi e dell’odore inconfondibile dei libri, nonché le umiliazioni subite dai vincitori, organizzando fra i soldati e gli ufficiali prigionieri un vero e proprio corso di lezioni di Storia del diritto romano che dava sollievo sia a lui che ai suoi discenti. Ci raccontava che nelle ore passate ad insegnare la civiltà dell’antica Roma, si dimenticava del presente doloroso e si sentiva trasportato in un mondo ideale e perfetto dominato da quell’humanitas classica che fu costantemente alla base delle sue scelte di vita: "Erano gli anni in cui tutta la terra veniva travolta da inumane atrocità, – avrebbe poi scritto in un suo saggio intitolato appunto Humanitas - da infiniti lutti, quando milioni di uomini morivano sui campi di battaglia o languivano nei campi di concentramento, e le popolazioni civili vivevano sotto l’incubo angoscioso di incessanti bombardamenti aerei: il mondo intero trasformato in un mare di sangue. Durante quel tempo, gli animi avviliti e smarriti si esaurivano nella vana ricerca del perché di quell’universale carneficina fratricida. La crisi di tutti i valori spirituali era al colmo; le basi fondamentali della nostra medesima civiltà apparivano d’un colpo annientate". Fu quella considerazione che lo riportò indietro agli anni dei suoi studi giovanili sull’humanitas romana, alla ricerca delle origini di quel sentimento che precede la stessa pietas cristiana e che trova la sua fonte nelle relazioni umane attraverso le quali l’uomo acquista la coscienza della propria dignità, della sua superiorità rispetto agli animali sprovvisti di ragione e dell’affinità con gli individui della sua specie, "homo sum, umani nil a me alienum puto". Da tale considerazione deriva l’impossibilità di infliggere agli esseri della sua stessa specie trattamenti non consoni alla dignità umana. Il naturale sviluppo di tale sentimento consente alla società di evolversi sollevandosi dalla barbarie originaria con la comprensione che l’altruismo "reca vantaggi più immediati e duraturi degli atti ed atteggiamenti egoistici e primordiali". In Cicerone il termine humanitas si arricchì di una vasta gamma di significati: cortesia, liberalità, cordialità, generosità, cultura e civiltà. E mentre negli anni dell’Impero, con la ricezione dello stoicismo, il termine si sarebbe permeato di aspetti etici, con la diffusione del cristianesimo finì per illuminarsi dei riflessi del divino, diventando amore per il prossimo, pietà e carità verso tutti.
Così spiegava l’assenza d’umanità con cui gli anglosassoni trattavano i prigionieri di guerra, con la loro mancanza d’educazione e cultura classica che invece avrebbero sempre distinto nei secoli gli italiani come i veri eredi della grandezza morale romana.
L’umanità ciceroniana e cristiana era il sentimento che più colpiva nel prof. Riccobono, quel sentimento che gli stessi studenti leggevano nei suoi occhi azzurri al momento degli esami e che lo faceva apparire disponibile e fornito – come afferma il suo allievo prof. Cerami – di un’innata arte maieutica, cioè della capacità di cavare il meglio da ognuno di loro.
Addio caro e indimenticabile maestro; la sua anima starà ormai solcando i mari in vista della sospirata Itaca, il ritorno al Padre, la meta agognata del riposo e della fine delle sofferenze, di cui i suoi commoventi versi in occasione del ritorno in Sicilia, dopo la lunga e dolorosa prigionia, appaiono oggi una metafora:
Dalla nave la prua volge all’Occidente.
Improvvisa – come d’incanto –
Una macchia enorme si profila
All’orizzonte, ove tramonta il sole.
Pallidi si stagliano nel cielo
I contorni di quella massa oscura
Che segnano le linee maestose
Di una montagna eccelsa
Gigante mirabile fino alle stelle.
L’Etna appare ai nostri occhi
Increduli, primo saluto
Ai reduci di lungo, doloroso esilio
Nella indica terra.
Ritorno triste e stanco dopo estenuante vigilia.
Ma sacra è la scia della nave che torna.
NOTA
S. Riccobono Nebbia a mezzanotte componimento scritto nel novembre del 1988 in occasione della morte di Riccardo Orestano.