aa.vv., Il potere come problema nella letteratura politica della prima età moderna, a cura di Saffo Testoni Binetti, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005, pp. 214.
Il potere come problema nella letteratura politica della prima età moderna è un ricco e pregevole lavoro collettaneo, risultato degli interventi presentati al seminario di studio svoltosi nel dicembre del 2003 all’Università di Bologna e nato nell’ambito della ricerca coordinata da Vittorio Conti Strutture sociali e poteri di governo in età moderna e contemporanea. Nella prefazione, la curatrice Saffo Testoni Binetti osserva come "le riflessioni sul problema del potere politico della prima età moderna appartengono ancora alla discussione infinita su tale soggetto" e, anche se il volume in oggetto non fornisce "una mappa completa delle concezioni del potere", esso rappresenta "una prosecuzione di un dialogo intellettuale che si vorrebbe continuare in futuro e osservatorio da cui aprirsi al dibattito sui grandi temi civili e politici" (p. 20).
Il lavoro si apre con il saggio di Giovanni Giorgini su L’assenza di potere come problema: le conseguenze dell’anarchia secondo Machiavelli. L’autore intende dimostrare come la "visione machiavelliana dell’anarchia" dipenda dall’influenza del pensiero politico classico e, in particolare, di Aristotele. Per Platone la tirannide era l’inevitabile risultato della lotta tra le fazioni di una città, risultato della dinamica tra rivoluzione e controrivoluzione che poteva essere risolta solo attraverso l’armonia "tra ineguali", "quella virtù di "assennatezza" che induce ciascun individuo a "rimanere al proprio posto"" (p. 22). La democrazia degenerata conduce, infatti, ad uno stato di anarchia che si "traduce in una erronea eguaglianza tra cittadini e meteci, stranieri e schiavi", un eccesso di libertà che finisce per coinvolgere gli stessi animali: "perfino i cavalli e asini sono abituati a camminare per strada in piena libertà e solennità". Da ciò deriva la necessità di ripristinare l’ordine e, in tal senso, il tiranno platonico "appare il punto di arrivo di un processo di degenerazione che dissolve l’armonica comunanza di elementi diversi presente nella città perfetta retta dai filosofi" (p. 25). Su questa scia, il discepolo di Platone, Aristotele, individua l’origine della stasis, della rivoluzione, nella "disuguaglianza esistente tra i cittadini e nella lotta per l’eguaglianza". Secondo il filosofo di Stagira la migliore delle costituzioni, quella capace di garantire meglio la stabilità, è la politia, cioè la costituzione tenuta dal ceto medio detentore della virtù civica. Giorgini ricorda che Machiavelli aveva letto la Politica di Aristotele, come dimostrano le citazioni nei Discorsi e le lettere a Francesco Vettori. La convinzione dell’autore è, però, che Machiavelli utilizzasse le fonti di Platone, Aristotele, Cicerone "con grande libertà, riprendendo idee che egli plasmò in maniera originale nella propria concezione del mondo e della politica" (p. 31). Il pensatore fiorentino, convinto che è impossibile indicare la migliore forma di governo è, comunque, persuaso che, nonostante il suo pessimismo antropologico, si possa educare il cittadino, e il compito del buon governante diventa quello di saper "reagire alle continue sfide della realtà politica valutando correttamente la situazione e prendendo la giusta decisione" (p. 42).
Legato da uno "stretto legame intellettuale" con Machiavelli, è Francesco Guicciardini cui Paolo Carta dedica alcune considerazioni sul problema politico della giustizia. Nel Dialogo del reggimento di Firenze, composto tra il 1521-26, uno degli interlocutori, Bernardo, distingue il governo legittimo da quello illegittimo. Ma dal momento che tutti gli Stati, se considerati nella loro origine, sono "violenti nessuno escluso", la tirannide ex parte exercitii finisce per guidare "la riflessione" guicciardiniana poiché è la stessa realtà degli Stati a "porre in crisi" la definizione del tiranno ex defectu tituli. Attraverso Bernardo, Guicciardini esamina il governo dei Medici che egli giudica "tirannico" in quanto "loro dominavano […] perché si davano e’ magistrati a chi loro volevano, e chi gli aveva, gli ubbidiva a’ cenni" (p. 57). Carta osserva come l’uso dell’espressione ad nutum, obbedienza a cenni, è "insistente" negli scritti di Guicciardini tanto che l’autore giudica ormai indispensabile "un lavoro intorno al lessico guicciardiniano" per evitare di "cadere nel tranello di quanti hanno veduto in lui e nei suoi scritti sia il demolitore di una tradizione, sia l’espressione di una crisi psicopatologica della politica, così come unicamente il politico scaltro o ancora il solo giurista pratico" (p. 58).
Insieme a Machiavelli, Claude de Seyssel - come scrive il compianto Enzo Sciacca nel suo contributo su I teorici della monarchie réglée - "rappresenta una testimonianza fondamentale per la comprensione del profondo travaglio del pensiero politico dei primi decenni del XVI secolo alla ricerca di nuovi e più adeguati criteri con i quali affrontare lo studio delle forme politiche" (p. 77). Per Seyssel la monarchia è la migliore delle forme di governo se il principe possiede "ragione, esperienza e volontà di governare correttamente" (p. 60). La storia di Roma appare così fondamentale poiché l’esperienza della costituzione repubblicana poteva essere utile per esaltare la bontà della monarchia come migliore forma di governo. Se, infatti, per Polibio la respublica romana era stata motivo di grandezza e di stabilità, Seyssel ricorre alla storia di quella costituzione "per dimostrare i limiti della democrazia, e la sua inaffidabilità come sistema di governo" (p. 63). E se Machiavelli giudicava i "dissensi" tra plebe e senato come una delle cause della forza di Roma, Seyssel vede, piuttosto, nell’elemento popolare un fattore di "disturbo politico". Al contrario, la monarchia réglée ha la sua bontà nei tre freni della religione, giustizia e polizia. E al di fuori delle regole, si trova la tirannide nella quale il governo è espressione dell’arbitrio di un sovrano.
Maria Antonietta Falchi Pellegrini studia il contributo del teologo e umanista alsaziano Martin Bucer che svolse un ruolo fondamentale nella riforma religiosa di Strasburgo. Bucer ritiene che il potere "è ufficio attribuito da Dio per il bene del popolo" e il potere serve per conseguire la pace e garantire l’ordine (p. 82). Magistrati e Principi devono realizzare il bene dei sudditi poiché "l’autorità politica cristiana non è dominio, ma ufficio costituito da Dio, e servizio per il popolo" (p. 86). Bucer, pertanto, condanna l’assolutismo, l’illegalità e ogni abuso di potere espressione di un esercizio di potere eccessivo che merita la punizione divina (p. 89).
Il problema del potere in Jean Bodin è l’argomento affrontato da Anna Maria Lazzarino del Grosso la quale, sin dall’inizio, precisa che se "per problema del potere" si intende l’origine, la struttura, la finalità e i modi in cui il potere si manifesta, allora tra gli scritti del grande giurista francese la Methodus deve essere considerata una sintesi compiuta. L’uomo per Bodin ha ricevuto dalla natura, e pertanto da Dio, "la capacità di comandare a se stesso", una capacità che si manifesta nella moralis disciplina. Il giurista francese afferma che "il potere di comando che l’uomo libero ha su se stesso deve essere quello della ragione" conforme alla volontà di Dio (p. 94). Bodin usa il termine puissance per riferirsi al potere legittimo dei sovrani, e quello di domination per indicare un potere illegittimo come quello del tiranno. Il potere sovrano – scrive l’autrice - "si autoimpone sempre con la forza, pur dovendosi necessariamente legittimare, salvo nel caso limite della tirannide assoluta" (p. 109).
La ‘filosofia’ del principe nei Pourparlers di Etienne Pasquier, è il contributo di Saffo Testoni Binetti. Il giurista parigino del XVI secolo, autore delle famose Recherches de la France, nei tre dialoghi Pourparler du Prince, Pourparler de la Loy e L’Alexandre riprende gli antichi dibattiti "sui problemi eterni della politica, quali le forme di governo e la certezza della legge, […] il problema del potere e i suoi aspetti fondamentali: le tipologie, la natura, l’esercizio, le condizioni, le aporie, le ambiguità" (p. 114). Nel Pourparler du Prince la disputa si svolge tra un Escolier, un Philosophe, un Courtizan e un Politic al quale Pasquier affida il compito di chiudere la disputa sulla filosofia del principe opponendosi alle opinioni degli altri interlocutori. Politic attribuisce alla storia la funzione istruttiva di raccontare il "vero" e spiega come la filosofia del principe, coincidendo con "l’utilità del suo popolo", si traduce in una "questione di proporzioni" spiegate attraverso la metafora del corpo umano e del parallelismo tra re-capo e sudditi-membra. Politic idealizza una monarchia nella quale il Parlamento svolge il ruolo di controllore dal momento che il re non usa la forza ma si sottomette alle leggi che garantiscono il popolo dagli abusi di potere. Ne L’Alexandre, il potere "è sempre ambiguo" e il "punto focale […] riguarda i giudizi storici come problema metodologico, in quanto essi non dipendono solo dai fatti, ma anche e soprattutto dalla capacità di intenderli" (p. 138). L’autrice osserva come in Pasquier i problemi della storia sono profondamente connessi con i "problemi della natura e dei limiti del potere" e i Pourparlers costituiscono una importante chiave di lettura "utile per scoprire il senso attuale della storia politica delle istituzioni e del popolo di Francia" (p. 139).
Il tema della simulazione è studiato da Vittor Ivo Comparato attraverso l’analisi del De arcana rerum publicarum di Arnold Clapmar, il quale innesta l’argomento politico della simulazione nello schema delle forme di governo presentando i "simulacra della monarchia nei regimi popolari e aristocratici, simulacra dell’aristocrazia in quelli monarchici e popolari, simulacra della democrazia in quelli monarchici e aristocratici" (p. 145). Clapmar finisce per intendere le simulazioni come vere e proprie pratiche di governo che nei regimi democratici si traducono "nell’usare i ricchi come consiglieri, nell’affidare loro certi uffici, purché la sovranità resti […] al popolo". Al contrario, gli aristocratici provvederanno a lasciare al popolo incarichi "minori ma lucrosi" accontentandolo, soprattutto, con la promozione della cittadinanza.
Diego Quaglioni si occupa del Breviario politico di Johann Angelius Werdenhagen, giurista, politico e diplomatico tedesco della fine del XVI secolo, il cui ideale politico risentiva degli influssi platonici ed erasminiani. Il lavoro di Werdenhagen è "un breviario di politica alla ricerca della pace religiosa e di un sicuro fondamento del potere terreno" (p. 162) e il proemio è giudicato da Quaglioni "un vero compendio di temi politici" nel quale il princeps è considerato un supremo magistrato "modello di virtù cristiane per i suoi soggetti e padrone della nuova dottrina dello Stato" (p. 164) e la politica è "scienza degli imperatori, dei re, dei principi e dei magistrati, e perciò del nome di "politico" sono degni coloro che possiedono la civilis doctrina" (pp. 164-165).
La Bibbia, osserva Lea Campos Boralevi nel suo saggio su Il problema del potere nel XVII secolo, contiene la Politia Judaica o Respublica Hebraeorum, cioè, "la storia epica di un popolo, gli antichi ebrei, che diventano il popolo di Dio, attraverso il patto e la legge, del loro stato, delle sue diverse forme di governo, delle sue divisioni interne, degli scontri e delle lotte, fino alla sua dissoluzione, distruzione e all’esilio" (p. 170). Nel dibattito politico europeo del ‘500, il Giubileo era una istituzione sociale dell’antico Israele molto discussa e presente. La proclamazione del Giubileo riproduceva "il paradigma della storia biblica della liberazione dall’Egitto, a beneficio degli schiavi, che avevano perduto la libertà personale cioè la proprietà del proprio corpo; dei debitori insolventi, dei proprietari che avevano perso la terra loro […] assegnata per eredità, secondo la linea: schiavitù-liberazione-patto-legge-proprietà-diritti di cittadinanza-libertà" (p. 173). Petrus Cunaeus, ricorda Lea Campos, fu il più importante studioso cristiano che approfondì le leggi bibliche del Giubileo e che nel 1617 pubblicò un’opera in tre libri dal titolo De Republica Hebraeorum. Cunaeus chiama lex agraria le leggi ebraiche sul Giubileo esaltando la Respublica Hebraeorum come l’unico Stato dell’antichità – rispetto ad esempio ai Greci e ai Romani – che era riuscito a dotarsi di efficaci leggi agrarie. Ogni cinquanta anni, infatti, la terra tornava ai proprietari originari "limitando le disuguaglianze e favorendo la stabilità sociale" (p. 178). La superiorità della legge agraria mosaica era stata, tra l’altro, riconosciuta da James Harrington nella sua Repubblica di Oceania. E Lea Campos precisa che il concetto di libertà in Harrington non è "propriamente né solo aristotelico, né solo neo-romano" ma risente di "un forte influsso proveniente dagli studi di ebraistica del tempo" (p. 181).
Marco Barducci con il suo saggio Oliver Cromwell tra "despotismo" e "dittatura" negli scritti italiani del Seicento, evidenzia come la storiografia italiana nel XVII secolo ebbe un ruolo rilevante nella "diffusione di una certa immagine di Cromwell". Gli autori italiani, forgiatisi sugli scritti di Tacito e dei tacitisti, presentano la figura del Protettore inglese come "proveniente da umili origini, e dotato sin dalla giovinezza di grande ambizione e di mancanza di scrupoli" (p. 185). La pubblicistica italiana si avvalse dei grandi temi della dissimulazione, ambizione per il potere, opportunismo nella religione, usando i termini potestà assoluta, dispotismo e tirannia come sinonimi o complementari. Per il suo potere illimitato, Cromwell appare negli scritti italiani come il despota, il tiranno ex parte exercitii, e, inoltre, la sua dittatura viene considerata espressione di un potere eccezionale ma, al tempo stesso, di un governo militare che si era imposto al popolo con le armi.
Chiude il volume il contributo di Stefania Stoffella su Pufendorf lettore di Charron. L’autrice parte dai preziosi suggerimenti di Anna Maria Battista che, nel suo lavoro del 1979 Alle origini del pensiero politico libertino, sollecitava uno studio sui rapporti tra Pufendorf e Charron. Nella seconda edizione, l’autore del De iure naturae et gentium arricchì l’opera con richiami alla Sagesse di Charron, ma anche a Machiavelli, Guicciardini, Montaigne e Bodin.
Attraverso gli undici contributi degli autori e i vari pensatori da loro studiati, è possibile, pertanto, ricostruire alcuni interessanti aspetti del dibattito che si ebbe nella prima età moderna. Si tratta, come scrive la curatrice, di un dibattito ricco di "inquietanti questioni" (p. 10): su quali fossero "le ragioni filosofiche e storiche dell’esistenza del potere, quale il suo fondamento […] la sua legittimazione, […] i modi, estensioni e limiti del suo esercizio".
Claudia Giurintano
Luigi Marco Bassani, Marxismo e liberalismo nel pensiero di Enrico Leone, prefazione di Franco Livorsi, Milano, Giuffrè Editore, 2005, pp. 252.
Con questo attento lavoro - preceduto da una ricca e ampia prefazione di Franco Livorsi (pp.xi-xli) - Luigi Marco Bassani rende giustizia all’esponente sindacalista del socialismo italiano Enrico Leone (1875-1940) che, in vita e anche dopo la morte, ebbe scarsa fortuna. Si tratta di una ricerca incentrata nella prospettiva economico-politica che studia a fondo l’opera Teoria della politica, redatta tra il 1920-24 ed edita a Torino nel 1931 grazie all’interessamento dell’ex sindacalista Paolo Orano.
Leone, vicino al gruppo studentesco anarchico negli anni giovanili, diventa, tra il 1897-1898, caporedattore della rivista settimanale "La terra" e della "Rivista critica del socialismo"; collabora anche con il periodico "Germinal" partecipando con i suoi articoli al dibattito sulla teoria del valore di Marx che aveva visto impegnati Croce e Labriola. Nel novembre 1900 viene eletto consigliere comunale insieme a Labriola ma, a partire dal 1904, si allontanerà dalla corrente di questo "per le vere o presunte tendenze anarcoidi e la propensione a considerare la violenza come uno strumento di lotta" (p. 24). Dal 1910 comincia a dare segni di squilibrio mentale in seguito alla morte di un figlio e, anche, per l’isolamento all’interno del movimento sindacalista rivoluzionario. Tra il 1911 e il 1916 egli perfeziona il suo pensiero economico. Nel 1923 si distacca dalle teorie di Sorel e nell’opera di quello stesso anno, Anti-Bergson, prende le distanze "dal mito della violenza e dall’irrazionalismo" (p. 33). Nel 1925, aggravatosi, viene ricoverato nel manicomio provinciale di Napoli e, successivamente, in altre case di cura. Si spense il 18 giugno 1940.
Enrico Leone si propose una "sintesi del pensiero liberale economico e della prassi rivoluzionaria socialista" al fine di dare basi più solide alla riflessione ideologica socialista del suo tempo. La scarsa fortuna di Leone è attribuita da Bassani all’assenza di una cultura liberale e liberista di sinistra. E, inoltre, socialdemocratici e comunisti preferivano tacere su un marxista revisionista come Leone che apprezzava Pareto e Gustave de Molinari. Leone, osserva l’autore, non fu un "marxista di facciata". Egli contrastò in più punti Marx e se si considerano il materialismo storico e il plusvalore come le grandi scoperte di Marx "allora Leone si trova […] ai margini del marxismo" poiché egli giudicava non scientifica la teoria del valore-lavoro. Le critiche a Marx sono definite dall’autore "ardite per un socialista" (p. 222) anche se Leone fu marxista su tre punti fondamentali: il "carattere parassitario del capitale, la natura di classe degli interessi […], l’autonomia del proletariato" (p. 222).
Leone si discosta, anche, dagli altri sindacalisti rivoluzionari ad esempio durante la guerra in Libia. Contrario all’intervento dello Stato e all’uso della forza, egli auspicava la libera colonizzazione convinto che tutti i conflitti finiscono per danneggiare l’economia di mercato. Qualche anno dopo, in occasione dello scoppio della prima guerra mondiale, egli sosterrà che il conflitto era nato "dallo spirito guerrafondaio della borghesia e del suo strumento, ossia lo Stato, in un quadro di lotta per il predominio nell’ambito del capitalismo" (p. 163).
Sul rapporto liberismo-socialismo, Bassani precisa che Leone coglie in quel rapporto il carattere comune che si trova nella lotta agli ostacoli alla libertà economica (p. 109). Il connubio tradizione liberale e tradizione socialista era stato definito da Benedetto Croce incrocio tra cervo e caprone, "ircocervo" o "traghelafo", cioè, un incrocio impossibile. Bassani, invece, osserva come per Leone, e per altri sindacalisti rivoluzionari, "lo Stato è l’espressione di un dominio di classe" e, in quanto tale, esso non deve essere semplicemente riformato ma abbattuto. Tale concezione di uno Stato "strumento per garantire privilegi" di una borghesia parassitaria, non è "affatto in contrasto con la nozione di Stato elaborata dai liberali più energici". Se i marxisti si pongono come scopo la fine del capitalismo, i liberisti ritengono che si debba perseguire la privatizzazione di "ogni ambito statale". Entrambi, pertanto, considerano lo Stato come "forza ostile ai produttori, ma mentre per i primi lo svuotamento del ruolo dello Stato nella vita sociale passa attraverso il rovesciamento dei rapporti di produzione, per i secondi è proprio lo sviluppo di logiche di mercato che potrebbe portare ad una diminuzione del peso dell’apparato pubblico nei rapporti fra gli uomini" (p. 9).
Una precisazione interessante la si coglie nella definizione di socialismo che, secondo Leone, non è necessariamente sinonimo di abolizione di proprietà. Il parametro per misurare l’uguaglianza sociale può non essere la proprietà quanto, piuttosto, l’utilità. La "società socialista" di Leone è una comunità nella quale non vi è sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non vi sono lotte e distinzioni di classe, non ci sono "organiche e sistematiche disuguaglianze nella distribuzione" (p. 135). L’uguaglianza di Leone, pertanto, si riferisce alle opportunità e non ai beni materiali.
Claudia Giurintano
Rocco D’Alfonso, Costruire lo stato forte. Politica, diritto, economia in Alfredo Rocco, Milano, Franco Angeli Editore, 2004, pp.224.
Il libro di Rocco D’Alfonso ci propone la figura di Alfredo Rocco (1875- 1935), uno dei maggiori protagonisti della vita culturale e politica italiana nel primo trentennio del Novecento. Attraverso una attenta e documentata biografia politica, l’autore è riuscito nel suo intento: porre in evidenza lo stretto legame tra l’opera teorica e l’attività politica di Rocco, tra il giurista, lo studioso e il propagandista e l’uomo di governo, e soprattutto l’influenza determinante che esercitò sul regime e la cultura fascista.
Rocco, dopo una breve esperienza nelle file del partito radicale, nel 1913 inizia una attiva e significativa militanza all’interno dell’Associazione Nazionalista Italiana, per arrivare alla definitiva adesione al fascismo, che lo vedrà coinvolto nel "triplice ruolo di ideologo, propagandista ed esponente di governo" (sarà ministro guardasigilli dal 1925 al 1932). Sin dal 1907 il giurista napoletano manifesta una posizione di rigida chiusura nei confronti di ogni forma di protesta e di conflitto di classe ed elabora una dottrina dello stato garante dell’ordine pubblico e della coesione sociale. A tal fine auspica la costruzione di uno stato forte, superiore sia agli individui sia ai gruppi sociali. Col passare degli anni il tema dominante dei suoi scritti diventa la polemica contro lo stato liberale ritenuto incapace di una reazione adeguata nei confronti delle agitazioni sindacali. Si fa promotore dell’idea di un partito dei ceti medi, espressione delle istanze più genuine della piccola e media borghesia. Nel campo più strettamente economico Rocco vuole difendere le imprese nazionali attraverso rigide misure protezionistiche e incoraggiare la concentrazione industriale sull’esempio tedesco. Considera lo stato come il motore dello sviluppo produttivo e baluardo degli interessi nazionali contro la concorrenza economica dei paesi stranieri.
Alle elezioni del 1914 il blocco clerico-moderato all’interno del quale erano confluite le forze nazionaliste ottiene la vittoria e Rocco entra a far parte del consiglio comunale di Padova. Ma l’attività principale, oltre all’insegnamento universitario e all’indagine giusprivatistica, resta quella di ideologo e propagandista politico, che lo porta ad elaborare un’organica dottrina nazionalista basata su una critica serrata delle ideologie liberali, democratiche e socialiste. Secondo Rocco la forza disgregatrice di queste ideologie discende dall’estremo individualismo su cui si basano. Esso ha la sua radice nella riforma protestante e nelle dottrine giusnaturalistiche e contrattualistiche. Cause dell’indebolimento dell’autorità statale, queste ideologie devono essere combattute. Rocco propone un progetto di riorganizzazione della società e dello stato contenente numerosi elementi di novità rispetto alle precedenti teorie del nazionalismo italiano.
In primo luogo di fronte ad una società caratterizzata da una economia capitalistica nella sua fase più avanzata dove profondi sono i conflitti di classe, egli guarda al sindacato come potenziale fattore di disciplina sociale. Propone le associazioni miste di datori di lavoro e lavoratori di uno stesso settore produttivo destinate a comporre i conflitti sociali e a favorire lo sviluppo economico sotto la direzione dello stato. In altri termini lancia l’idea delle corporazioni che di lì a poco diventeranno "uno degli obiettivi politici più ambiziosi del governo mussoliniano". La concezione organicistica dello stato elaborata dal giurista napoletano considera la nazione come un organismo vivente in cui tutti gli individui concorrono allo "sviluppo e al rafforzamento dell’organismo nazionale". Ogni individuo, seppur necessario, è "un semplice mezzo per realizzare quei superiori fini nazionali che per Rocco si identificano nello sviluppo della produzione industriale e nel potenziamento dell’apparato militare in funzione di un’aggressiva politica espansionistica" (p. 87).
Rocco è dichiaratamente per l’autorità dello stato, contro la libertà dell’individuo. Lo stato deve controllare e regolamentare i processi sociali ed economici, anche attraverso un uso pressocchè illimitato dello strumento legislativo. Egli vede nello stato "la massima persona giuridica" capace di esprimere una propria volontà tramite il diritto. E’ l’"idea dello stato- forza", in netta contrapposizione con il costituzionalismo liberale teso a garantire i diritti dell’indivinduo dall’ingerenza statale. Su queste premesse teoriche, Rocco condividerà pienamente le due leggi "fascistissime" emanate tra il 1925 e il 1926, tendenti entrambe a rafforzare il ruolo e le funzioni dell’esecutivo ( l’una aumentava le attribuzioni e le prerogative del capo del governo, l’altra dava al potere esecutivo la facoltà di emanare norme giuridiche), restituendo allo stato il pieno esercizio della sua sovranità. Nella sua elaborazione dottrinale Rocco è fortemente influenzato dalla cultura giuridica tedesca; sarà invece osteggiato e criticato dai maggiori giuristi italiani dell’epoca. Questi ultimi pur condividendo l’analisi che mette in luce la condizione di crisi e di difficoltà in cui versa lo stato liberal- parlamentare, non prospettano la sua sostituzione con un’altra forma di stato, ma propongono dei rimedi per arginare le numerose disfunzioni.
Il filo conduttore, in tutta la produzione politica e giuridica Rocchiana e nella sua attività legislativa all’interno del governo fascista, è una concezione statocentrica della politica e del diritto, a cui naturalmente si accompagna l’idea di una economia nazionale che avrebbe dovuto basarsi su tre punti: "rafforzamento del protezionismo agricolo e industriale, accelerazione dello sviluppo produttivo, politica di espansione coloniale". Dunque già negli anni precedenti all’affermazione del regime fascista, Rocco aveva elaborato una organica dottrina fondata sull’idea dello stato-forza, su una economia nazionale e sul sistema corporativo. Bisognava adesso realizzare questo progetto e l’occasione propizia si presentò a Rocco nel momento in cui entra a far parte del governo fascista. Nominato ministro guardasigilli nel 1925, in un momento in cui è in atto il processo di "fascistizzazione" dello stato, Rocco avrà l’opportunità, attraverso una serie di provvedimenti legislativi, di trasferire "le proprie formulazioni giuridico-istituzionali dal campo teorico a quello pratico". In un discorso pronunciato alla camera dei deputati nel dicembre del 1925, Rocco dirà:" il compito storico del fascismo" è quello di "… costruire lo stato forte e far trionfare il principio di organizzazione, non basandosi sul privilegio di pochi, ma sull’inquadramento delle masse sulla loro partecipazione alla vita dello stato" (p. 187).
Dopo aver ricoperto per quasi otto anni un ruolo di primo piano,quale ispiratore di una serie di provvedimenti legislativi tesi soprattutto a rafforzare le prerogative dello stato e ad accentrare i poteri del capo dell’esecutivo, Rocco fu estromesso dal governo e nominato, nel 1932, rettore dell’università di Roma, incarico che ricoprì sino alla morte.
Rosanna Marsala
Umberto Chiaramonte, Luigi Sturzo nell’Anci, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 362.
Ripercorrere la storia dell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e in essa scoprire il contributo dato da Luigi Sturzo è quanto si propone Umberto Chiaramonte con questo interessante libro. L’Anci nasce con l’obiettivo di "contrastare l’accentramento sempre più evidente dello Stato, che rendeva difficile la vita autonoma dei governi locali e che ne frenava quindi lo sviluppo" (p.7). Già nel periodo risorgimentale, nel dibattito sull’assetto da dare al futuro stato unitario, gli scrittori politici si posero il problema di garantire uno spazio di autonomia ai comuni. Mazzini sostenitore dell’unità ma non dell’accentramento, teorizzò "sole tre unità politico-amministrative: […] il Comune, unità primordiale, la Nazione […] e la Regione, zona intermedia indispensabile tra la Nazione e il Comune" (p.12). Ma il più fervente sostenitore dell’autonomia comunale e della sua importanza all’interno della società civile fu Carlo Cattaneo "i Comuni – scriveva Cattaneo- sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà" (p.12).
Nonostante queste spinte autonomistiche, la legislazione del nuovo stato unitario fu fortemente accentrata e si limitò a concedere ai comuni una sorta di decentramento burocratico e amministrativo. Per discutere e confrontarsi sui problemi della finanza locale, contro la politica del governo centrale si riunirono in congresso, nel 1879 a Torino alcuni sindaci e delegati di comuni del nord Italia. Fu il primo abbozzo di un movimento municipalista, che, pur non raggiungendo risultati concreti, riuscì a porre all’attenzione della classe politica le problematiche inerenti la gestione delle amministrazioni locali e l’ingerenza soffocante del governo centrale. Negli anni successivi si terranno altri convegni nelle varie città d’Italia ( Foligno, Firenze, Ancona, Perugia, Forlì, Roma) su iniziativa soprattutto dei radicali e dei repubblicani. Anche i socialisti diedero un fondamentale contributo, considerando il loro "localismo amministrativo" in funzione antiborghese e contro lo stato liberale.
Si deve proprio a un socialista, Ferdinando Laghi consigliere del comune di Parma e docente di diritto, la nascita dell’associazione nazionale dei comuni d’Italia, avvenuta a Parma nel 1901, in occasione del I congresso al quale aderirono 1.044 comuni. A presiedere l’associazione fu chiamato il sindaco di Milano Mussi (radicale), vice presidenti vennero nominati il sindaco di Parma Mariotti (radicale) e quello di Messina, Martino (repubblicano), a segretario fu chiamato il socialista riformista Emilio Caldara. Sebbene i cattolici non avessero direttamente partecipato alla nascita dell’Anci, tuttavia essi furono presenti al dibattito sulla formazione istituzionale dello stato con proprie tesi sulle autonomie locali.
Uomini come Balbo, Gioberti, Rosmini, Ventura, D’Ondes Reggio, avevano dato un valido contributo "sia all’idea di unità che all’idea di federalismo." La valutazione negativa di gran parte della storiografia risorgimentale sul pensiero autonomista cattolico a base interclassista si deve in buona parte al non expedit che aveva prodotto posizioni intransigenti e antiliberali rispetto all’idea di nazione. Ma già all’interno dell’Opera dei Congressi (la massima organizzazione cattolica nell’ultimo scorcio del secolo XIX), il gruppo dei giovani democratici cristiani, abbandonate le posizioni di scontro frontale con lo stato liberale, discutevano "sulla necessità di una partecipazione alle elezioni amministrative con uomini e programmi propri" (p.35).
Il pensiero di Giuseppe Toniolo e la enciclica Rerum novarum di Leone XIII diedero la spinta finale per un impegno diretto dei cattolici nelle amministrazioni locali. Nel 1899 sulla rivista "Cultura sociale" Romolo Murri presentava "un programma democratico- cristiano o cristiano-sociale che annoverava, tra gli altri principi, le conquiste del progresso, la limitazione dell’ingerenza dello stato nella vita amministrativa degli enti locali; […] larghissimo decentramento amministrativo e la riforma tributaria" (p.37). Nel 1902 Luigi Sturzo varava il suo programma municipale. Dalla teoria si passava alla pratica amministrativa in quanto il sacerdote calatino, già consigliere comunale nel 1898, sarà per quindici anni pro-sindaco di Caltagirone, anche se il suo impegno a favore delle autonomie locali risale al 1897 anno in cui iniziava la pubblicazione de "La croce di Costantino". Dalle colonne di questo giornale Sturzo "andò esplicitando la sua posizione in merito all’ente comune e alla necessità di dargli ampie autonomie evitando gli slogan "conquistiamo i comuni", che adottarono tanto i socialisti quanto lo stesso Murri, ma con analisi puntuali sui temi concreti che implicava la gestione dei municipi" (p. 40).
Il comune, per Sturzo, rappresentava l’ente concreto per eccellenza, naturalmente democratico, la casa trasparente di tutti i cittadini, e doveva porsi al servizio del bene comune, lontana da qualsiasi interesse personale. Bisognava evitare che esso fosse ridotto ad un mero "ente burocratico", e per far ciò era necessaria l’autonomia e un ampio decentramento, funzionale agli interessi municipali, e in armonia con la nazione. L’uso corretto di tale autonomia sarebbe stata garantita dai cittadini attraverso un referendum popolare con funzione consultiva e deliberativa; inoltre riguardo al sistema elettorale amministrativo, Sturzo proponeva la rappresentanza proporzionale. In linea con il dibattito che l’Anci aveva iniziato a proporre ai comuni italiani sulla gestione finanziaria, Sturzo riteneva giusto il criterio progressivo "far pagare di più a chi più aveva", l’abolizione graduale del dazio sui consumi popolari ecc….In altri termini l’autonomia diventava "il pre-requisito imprescindibile di una corretta amministrazione".
A proposito della neonata Anci Sturzo riteneva opportuno far aderire il comune di Caltagirone all’associazione, in quanto pur essendo "stata promossa e sia diretta da persone appartenenti ai partiti estremi, è doveroso da parte nostra parteciparvi e sostenerla, perché l’ideale ch’essa prosiegue è il nostro ideale" e perché "abbiamo sul riguardo criteri più esatti, mire più obiettive e disinteressate, […] e affermazioni non di ieri, dei diritti dei comuni contro la invadenza dello stato" (p.49). Nel 1902 al II congresso dell’Anci di Messina c’era anche Sturzo, avendo ottenuto la delega a rappresentare il sindaco di Caltagirone, pur sedendo nei banchi dell’opposizione. Da quel momento la presenza di Sturzo non rimase inosservata. I suoi interventi, le sue relazioni furono sempre puntuali e propositive; sebbene spesso si trovasse in sintonia con la sinistra, egli volle chiarire le differenze esistenti tra sinistra e cattolici, affermando che "lo scopo generale del programma democratico cristiano è perciò una intima riforma sociale in nome di due principi fondamentali: cristianesimo e democrazia" (p. 58).
Nel 1904, al congresso di Napoli, Sturzo venne nominato membro del consiglio direttivo dell’Anci. In tale ruolo il sacerdote calatino dimostrò oltre ad una capacità tecnico-organizzativa, una eccellente competenza giuridica in campo amministrativo. La sua presenza all’interno dell’associazione divenne sempre più incisiva e preziosa. La sua elezione a pro sindaco di Caltagirone nel 1905, arricchiva il suo contributo all’interno dell’Anci. Si sarebbe giovato del metodo pragmatico e scrupoloso che egli praticava nelle sue molteplici iniziative. Aveva acquisito un carisma che gli derivava dalla capacità di cogliere il nodo dei problemi immediatamente e di indicare le proposte adeguate. Ebbe sempre una particolare attenzione per i problemi del sud (ad esempio fu relatore al IX congresso di Palermo nel 1910 su Il problema della viabilità comunale specialmente nel mezzogiorno). Ben presto, il consiglio direttivo si rese conto che in lui l’esperienza di amministratore comunale espandeva e rafforzava le sue competenze nel diritto e nel contenzioso amministrativo.
Al XIII congresso di Roma nel 1915, Sturzo viene eletto vice presidente, carica che manterrà sino al 1923. Nel frattempo l’Anci tra successi e battute d’arresto era riuscita a raggiungere qualche obiettivo concreto, come ad esempio lo sgravio delle spese di competenza statale, questione essenziale per la sopravvivenza di molti comuni italiani. Ma, soprattutto grazie all’impulso di Sturzo, l’associazione divenne una vera e propria fucina di studi e ricerche come base di discussione alle riforme riguardanti la pubblica amministrazione. Nei convegni successivi (soprattutto dopo la rottura dei socialisti riformisti che nel 1916 formarono la lega dei comuni socialisti) la maggioranza fu moderata e cattolica. L’Anci continuò la sua attività sostanzialmente in due direzioni: "la prima, nei confronti delle tematiche che coinvolgevano la vita dei comuni, soprattutto in preparazione o in concomitanza con le discussioni parlamentari, […] la seconda, nei riguardi delle segnalazioni di contenziosi o di problemi che i comuni incontravano nei rapporti con l’autorità tutoria, facendo un servizio di consulenza, ma anche facendo proprie alcune istanze che, dopo uno studio giuridico, venivano inserite nelle discussioni del consiglio direttivo o dei congressi" (p. 145).
La prima guerra mondiale e i problemi che ne seguirono segnarono una battuta d’arresto per le attività dell’Anci. Nel 1921 si tenne il XIV congresso nazionale a Parma, dove Sturzo svolse la relazione su La riforma dell’ordinamento tributario dei comuni. L’avvento del fascismo mise finì ai primi 25 anni di vita dell’Anci, che aveva avuto il grande merito di formare il ceto politico periferico, di approfondire le questioni riguardanti il governo locale, reclamando nell’armonia con il governo centrale autonomia politica e finanziaria. Con gli stessi intenti l’Anci è stata ricostruita nel secondo dopoguerra, e continua ad operare. E’ improprio, conclude Umberto Chiaramonte, parlare dell’Anci come di un partito dei sindaci; sebbene abbia avuto le caratteristiche di un partito (iscrizioni, congressi annuali, organo di stampa "Autonomia comunale"), e un programma con finalità dichiarate (autonomie locali, riforma della pubblica amministrazione, libertà d’insegnamento e scuola laica, moralizzazione della politica e dell’economia) non è stato il partito riformista che avrebbe potuto essere e che mancava alla nazione perché ha scelto di essere super partes. Tuttavia, "l’Anci avrebbe potuto essere il modello della convivenza dei partiti superando le asprezze della partitocrazia, facendo passare il messaggio di un gruppo che lavorava esclusivamente per il bene di tutte le amministrazioni di qualsiasi colore fossero. Un’Associazione dei Comuni, appunto, non un "partito dei sindaci".
Il libro si conclude con un’appendice contenente commenti e relazioni che Luigi Sturzo tenne ad alcuni Congressi dell’Anci, precisamente dal V congresso di Torino (1906) al XIV di Parma (1921). Tali relazioni, pur trattando problematiche del tempo, mostrano quanto attuale sia il pensiero di Luigi Sturzo, e ancora una volta, evidenziano il grande lavoro che il sacerdote calatino svolse a favore dell’Associazione dei Comuni Italiani.
Rosanna Marsala
François Poullain de la Barre, De L’éducation Des Dames (1674), a cura di Maria Corona Corrias, Cagliari, Edizioni AV, 2005, pp. 163.
Con questo libro, Maria Corona Corrias (ordinaria di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari) ripristina una collana "La Collectanea Caralitana", a suo tempo fondata da Paola Maria Arcari, riguardante l’edizione di testi inediti o rari. L’opera curata dall’autrice, dal titolo De l’èducation des dames (1674), appartiene ad un autore francese, François Poullain de La Barre. In Italia l’interesse per i suoi scritti è stato recentemente dimostrato dal lavoro di Ginevra Conti Odorisio, Poullain de la Barre e la teoria dell’uguaglianza, Roma, 1996, con la traduzione integrale di De l’ègalitè des deux sexes (1673), e da un’altra opera della Corrias Alle origini del Femminismo moderno, Il pensiero politico di Poullain de la Barre, Milano 1996. Come ben si evince dai titoli di queste opere Poullain de la Barre si occupa di un argomento inusuale e innovativo per il secolo XVII: l’eguaglianza tra i due generi e il diritto delle donne all’istruzione completa. Il volume consta di due parti: nella prima parte l’autrice fa un affresco della cultura del tempo e di quanto questa abbia influenzato il pensiero del filosofo francese. Nella seconda parte vi è la traduzione dell’opera di Poullain de la Barre: L’educazione delle donne per la guida dello spirito nelle scienze e nei costumi.
De l’èducation des dames viene pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1674. Si tratta di un periodo contraddistinto dall’assolutismo di Luigi XIV e dalle grandi conquiste intellettuali, scientifiche e artistiche. Il "secolo di ferro" vede lo stretto nesso tra il concetto di autorità e quello di assolutismo. Chiunque deteneva l’autorità, fosse questi il padre di famiglia o il re, in entrambi i casi "un dieu en terre", era titolare della sovranità. Luigi XIV si considerava il rappresentante di Dio in terra. Sicchè la disobbedienza al re diventava un atto sacrilego con conseguenze religiose oltre che politiche. Era naturale che la Chiesa "diventasse il più forte sostegno ideologico e morale della monarchia". Entrambe le istituzioni condividevano l’interesse per la gerarchia e per l’ordine. Iniziano una lotta attiva contro la diffusione del cartesianismo che per la sua natura dubitativa e critica nei confronti del sapere tradizionale e del costume consolidato rappresentava un potenziale attentato all’ordine. Con le grandi conquiste intellettuali, si faceva strada la preoccupazione per una adeguata istruzione delle donne che, con la loro emancipazione potevano realizzare il progresso democratico di tutta la collettività. Il dibattito culturale provocato in quegli anni dal cartesianismo investiva un’intera generazione di filosofi e scrittori.
Anche Poullain de la Barre da un lato recepisce la costante preoccupazione per l’ordine; ritiene essenziale garantire la pacifica convivenza fra gli uomini, e per questo bisogna eliminare tutto ciò che può costituire un attentato all’ordine politico. Dall’altra parte la sua teoria dell’uguaglianza tra i due sessi sconvolge il costume tradizionale, comporta "la lotta al pregiudizio, e la necessità della istruzione femminile, presupposto indispensabile per l’inserimento della donna in ogni ambito sociale con un ruolo paritario a quello maschile" (p. XXVIII). E’ la contraddizione del secolo: si cerca di combattere teoricamente il pregiudizio, di criticare il costume, ma non si osa intaccare concretamente l’ordine politico. Poullain de la Barre, nella sua affannosa ricerca della verità, intorno al 1670 viene colpito dalla nuova filosofia che rivoluziona la sua vita e la sua visione del mondo.
Egli seguendo il metodo cartesiano, proclama la supremazia della ragione quale soluzione per tutti i problemi: "stabilire tra gli uomini una ragione sovrana che li renda capaci di esaminare tutte le cose con giudizio e senza prevenzione" (XLV), contesta il principio di autorità in ogni attività intellettuale e teorica. Sempre il 1670, considerato l’anno della conversione di Poullain al credo cartesiano, è indicato come l’anno della "rivoluzione pedagogica" che il filosofo francese recepisce interamente applicandola anche all’educazione femminile. Siamo difronte a un processo iniziato nel 1500 secondo il quale ogni riforma della società passa attraverso l’educazione, non più destinata a trasmettere conoscenze ma a trasformare l’uomo e la collettività in cui vive. Per i maggiori rappresentanti dell’umanesimo cristiano (Tommaso Moro, Erasmo da Rotterdam, Jean Luis Vives), l’educazione rimane connessa con l’etica, considerata come strumento essenziale per "plasmare un buon cittadino e per conservare una buona società".
Poullain rigetta completamente la tesi della inferiorità naturale, dimostrando che questa ultima deve attribuirsi esclusivamente alla cultura, al costume ed alla tradizione. Afferma che "solo motivi di interesse hanno guidato gli uomini a conculcare i diritti delle donne impedendo la loro istruzione, mentre non vi è che un unico metodo da adoperarsi per gli uni e per le altre, in quanto entrambi esseri appartenenti alla medesima specie umana" (p.LIII). Supera la tradizione classica e gli umanisti in quanto la sua opera educativa è volta a promuovere lo spirito critico, la responsabilità e la maturazione del singolo individuo, in particolare quello femminile. Contesta la distinzione tra l’educazione maschile e quella femminile derivante dalla diversa destinazione sociale dei due generi, affermando che il fine dell’educazione femminile non deve più essere quello di formare delle spose e delle madri cristiane, ma esseri pensanti in grado di conoscere e di avere idee chiare e distinte.
La piccola opera di Poullain de la Barre si apre con una dedica ad Anne Marie Luise d’Orléans, cugina in primo grado del futuro re di Francia Luigi XIV, e forse destinata a diventarne la moglie. Per Poullain ella "rappresentava il modello di una dama colta, di alto lignaggio, ma dal giudizio profondamente indipendente, e assai anticonformista" (p.3). Seguono delle conversazioni fra quattro personaggi ( Sofia, Eulalia, Timandro e Stasimaco ), attraverso le quali, Poullain de la Barre per bocca di Stasimaco si fa sostenitore della nuova pedagogia: l’educazione deve essere la stessa per entrambi i generi che hanno la medesima natura umana composta di corpo e di spirito. L’affermazione viene supportata da una esplicita adesione al razionalismo (tramite la ragione sovrana si potrà giudicare senza pregiudizi e prevenzioni), attraverso i riferimenti ai primi secoli dell’era cristiana quando molte donne rivestivano ruoli importanti (diaconesse) all’interno delle comunità, nonché dal principio dell’uguaglianza secondo natura di tutti gli uomini. Da questo principio deriva che nessuno deve essere sottomesso all’altro, anche se nel contesto dell’opera de la Barre lo adopera per "affermare che non si deve aderire alle affermazioni di nessuno in quanto tutti sono soggetti all’errore; l’unica autorità riconosciuta è quella della ragione" (p.42).
Il volume risulta molto interessante, sia per l’argomento trattato (la difesa a favore dell’istruzione femminile che scardina l’idea dell’inferiorità della donna dovuta alla natura e non alla cultura) , sia per la conoscenza di un autore che ben incarna il dibattito culturale della seconda metà del XVII secolo.
Rosanna Marsala
Paolo Bagnoli, Elogio della Politica. Profilo critico dei partiti nella Prima Repubblica, Gorgonzola-Milano, European Press Academic Publishing, 2005, pp. 145.
I partiti, nerbo vitale di ogni vera democrazia, sono al centro di questo prezioso quanto efficace libro di Paolo Bagnoli. L’autore non si prefigge di fare la storia di quello che impropriamente è stato definito periodo della Prima Repubblica, bensì di offrire spunti per una riflessione critica su quelle organizzazioni sociali che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato gli ultimi 50 anni della storia d’Italia. Con la nascita della Repubblica, va ad impiantarsi un sistema democratico basato sui partiti politici, "forme attraverso le quali la gente partecipava al proprio governo ed a cui pure, grandi masse affidavano il proprio destino" (p.7) .
La realtà odierna ci mostra uno scenario diverso. Ed è legittimo, secondo l’autore, avere nostalgia per un sistema politico rappresentato e interpretato dai partiti politici, caratterizzato da forti ideologie in cui credere e per le quali lottare, e da personalità di grande spessore. Nonostante non mancassero le disfunzioni, gli opportunismi, i conflitti, si era pur sempre nel campo della "Politica", oggi, invece, "alla repubblica dei partiti è succeduta la repubblica dei leaders e dei media" (p.17). I partiti non sono scomparsi, ma hanno perso quel ruolo e quelle funzioni che già avevano iniziato a svolgere nel periodo pre-repubblicano. Fu allora che iniziò, attraverso una ferma opposizione al regime, quel lungo processo politico che condusse il popolo italiano " a farsi stato a divenire realmente padrone del proprio destino, di autogovernarsi e di convivere liberamente e pacificamente" (p.20).
Le elezioni del 1946 registrano il successo della DC, definita dall’autore il "partito degli Italiani". Essa ha rappresentato un fenomeno più unico che raro, in quanto, per mezzo secolo, è riuscita a governare l’Italia. Sarebbe troppo riduttivo considerare la sua lunga permanenza al potere soltanto una naturale conseguenza del rapporto privilegiato che la D.C. ha sempre avuto con la chiesa cattolica. Bisogna riconoscere che la DC è stata il partito, grazie anche alla sua vocazione interclassista, che meglio e più di altri ha saputo interpretare le aspirazioni e le esigenze dei ceti medi permettendo la loro politicizzazzione; ha avuto la capacità di saper mediare senza riserve e senza chiusure invalicabili nei confronti di nessuno. All’interno della DC si sono ritrovate le personalità più varie (Gedda, La Pira, Scelba, Zaccagnini, Forlani, Dossetti), ma tre sono, secondo Bagnoli, gli uomini che hanno segnato la storia della DC: Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro.
De Gasperi fu l’uomo che seppe credere nel futuro del paese, l’eroe della conferenza di pace di Parigi dove, tenendo un discorso memorabile, riuscì a ridare dignità a un paese sconfitto e farlo rientrare a testa alta nel consesso internazionale. Con la rinascita dell’Italia iniziò anche il cammino della D.C. che per De Gasperi doveva rappresentare il partito di centro, "che significa moderatezza, condivisione, fermezza, disponibilità, senso del governo del paese; significa la filosofia che la DC ha fatto propria, interpretato, praticato o cercato di praticare e mai smentito qualunque stagione politica abbia vissuto" (p.34). Fanfani fu il politico per eccellenza, un vero leader. Per lui era importante organizzare il partito e rafforzare il ruolo egemone della DC. Riuscì nel suo progetto e la DC divenne una specie di "partito stato" realizzando una vera egemonia sulla politica, sull’economia e persino sull’informazione pubblica. La figura di Aldo Moro rimane legata alla stagione del centro sinistra. Egli seppe realizzare una lunga coalizione con il PSI. I tragici eventi del 1978 (Moro fu rapito e poi ucciso dalle brigate rosse) non gli consentirono di portare a termine il suo disegno ossia l’apertura ai comunisti. Forse la mancata realizzazione di tale progetto, la fine prematura di Aldo Moro hanno condotto al disfacimento di quel sistema politico al quale abbiamo assistito in questo ultimo decennio? A questa domanda l’autore non dà una risposta, ma ritiene verosimilmente che la mancanza di un pilastro portante non può che indebolire l’intero edificio.
L’altro grande partito che ha contribuito a dare un contenuto alla democrazia italiana è il PCI, "il grande capolavoro " di Palmiro Togliatti, ideologo e leader politico. Fu il partito d’opposizione per antonomasia ed è definito dall’autore "partito nazionale" "ossia forza che sta dentro la storia del paese nella quale si è conquistato un ruolo, una funzione, una fisionomia; praticamente una missione di ordine nazionale" (p. 43). Togliatti, rientrato in Italia nel 1944, dopo una lunga permanenza in Russia, resosi conto che per raggiungere l’obiettivo rivoluzionario sarebbe stato necessario inserire il partito nei gangli dello stato, concepì la teoria del "partito nuovo" ossia partito della classe operaia e del popolo che non si limita più soltanto alla critica ma interviene nella vita del paese in modo costruttivo. Alla DC "partito Stato" si contrappose il PCI "partito sistema", alla DC partito interclassista, il PCI partito classista che si propose di modificare le strutture della società ma senza provocare rotture insanabili. Per realizzare tale disegno Togliatti attuò una strategia: l’intesa politica con la DC e la ricerca del dialogo con i cattolici. Dalle convergenze in sede di assemblea costituente al compromesso storico i rapporti tra i due partiti furono caratterizzati da momenti alterni. In particolare, Bagnoli si sofferma sulla proposta del compromesso storico, lanciata da Enrico Berlinguer nel 1974. L’obiettivo del segretario del PCI era rilanciare il dialogo con la DC per consentire al suo partito di passare da forza di opposizione a partito di governo. L’idea non trovò accoglienza né nella DC (tranne la corrente di sinistra), né all’interno del PSI (che aspirava a diventare partito alternativo alla DC), né tantomeno fra gli elettori.
In questa carrellata attraverso la democrazia dei partiti l’autore considera anche il partito d’azione, che pur essendosi sciolto nel 1947, "ha alimentato una vitalità politica e storiografica che non è esagerato definire unica" (p.69). Esso ha lasciato in eredità il rigore morale e l’intransigenza a salvaguardia della libertà e dell’autonomia intellettuale. Il terzo partito, in ordine d’importanza, è il PSI. La storica diatriba interna tra riformisti e rivoluzionari non ha consentito al PSI di avere una funzione autonoma nella storia d’Italia. Il socialismo italiano ha vissuto sempre appoggiandosi ad altri: prima al PCI con il quale ha condiviso la sconfitta del Fronte popolare, poi alla DC, diventando partito di governo, sino a quando non è stato travolto da tangentopoli. Il PSI, a detta dell’autore, pur essendo stato "il soggetto che più di ogni altro ha arricchito la politica italiana con tematiche di innovazione" (p.87), non ha saputo cogliere i cambiamenti epocali che stavano verificandosi e la sua disattenzione per la questione morale, divenuta il vero problema della politica italiana, ha provocato la sua scomparsa.
Gli anni ’70, detti anche anni di piombo, furono caratterizzati dal fenomeno del terrorismo. Le brigate rosse costituirono un vero e proprio "partito armato" che ergendosi a paladini della giustizia e dell’eguaglianza, si proponevano con l’uso della violenza di stravolgere la "democrazia dei partiti" ormai entrata in una fase di immobilismo e stagnazione. Il terrorismo fu marcatamente rosso, e di fronte a un tale fanatismo ideologico "la sinistra stenta a capire; dapprima ritiene che si tratti di fascisti che si camuffano, poi ritiene che siano dei compagni che sbagliano, eppure non ci vuol molto a comprendere che alla violenza predicata segue sempre quella praticata" (p.97).
Nel 1987 esordisce sulla scena politica italiana la Lega Nord di Umberto Bossi. Si connota subito come "il Partito del Nord" in quanto espressione degli interessi delle regioni dell’Italia del nord (la parte del paese più produttiva e vitale). I leghisti rivendicano l’ autonomia da Roma ladrona, la difesa delle tradizioni locali, criticano l’accentramento burocratico e un sistema economico basato sulla ricchezza del nord "chiamata a sostenere il gravame di un’Italia improduttiva, assistita e parassitaria". Di fatto, nel 1994 la Lega Nord va al governo entrando a pieno titolo in quel gioco partitocratico che tanto aveva criticato.
Nel periodo della Prima Repubblica si possono distinguere sostanzialmente tre momenti: il centrismo, il centro-sinistra ed il pentapartito. Il centrismo va dal 1948 al 1960. Si tratta di una coalizione guidata dalla DC e composta da PLI, PSDI e PRI; il centro-sinistra va dal 1962 al 1976; (usciti i liberali dal governo vi entra il PSI); infine dal 1981 al 1991 si afferma il pentapartito con il recupero della frattura fra liberali e socialisti. In quest’arco di tempo la democrazia dei partiti si trasforma progressivamente in partitocrazia ossia eccessivo potere dei partiti a scapito delle istituzioni e dei cittadini. Le cause di questa disfunzione risiedono, sostanzialmente, nella debolezza delle nostre istituzioni, non autonome rispetto ai partiti, e della società incapace di autorganizzarsi per impedire che gli interessi dei partiti prevalgano su quelli della comunità civile. Conseguenze della eccessiva invadenza dei partiti sono i fenomeni del cosiddetto sottogoverno,della lottizzazione e, attraverso l’utilizzo delle risorse pubbliche per fini meramente particolari e personali, dell’abuso sino alla degenerazione dell’intero sistema. Gli anni del CAF (intesa tra Craxi, Andreotti e Forlani) rappresentano l’ultimo tentativo per rigenerare un sistema ormai in frantumi e che presto sarà travolto da tangentopoli.
Il vero protagonista della cosiddetta Seconda Repubblica è Silvio Berlusconi. Con lui inizia la fase della "politica senza partiti", l’era di un bipolarismo che si organizza intorno ad un leader. Il nuovo sistema politico appare più frammentario del precedente e non ha ancora compreso se "una politica riformata possa essere uno strumento per migliorare le istituzioni, o se istituzioni ben funzionanti" (p.133) potrebbero impedire la degenerazione della politica. Di fatto politica ed istituzioni "vanno a braccetto ed esse non possono essere riformate che nel campo di una corretta concezione della public ethics" (p.134). In altri termini le scelte politiche devono sempre essere ispirate al bene collettivo. La conclusione dell’autore che non vuole essere pessimistica ma realistica non riconosce questa capacità alla Seconda Repubblica che, a ben guardare, è molto meno liberaldemocratica della Prima Repubblica. Tale affermazione non è un paradosso se si concepisce la liberaldemocrazia come il valore, comune a tutte le aree ideologiche, che deve precedere ogni concreta scelta politica nel rispetto della libertà e del sistema democratico.
Rosanna Marsala
Paolo Mazzarello, Il genio e l’alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 127.
Il viaggio di Cesare Lombroso in Russia e l’incontro con Lev Tolstoj a Jasnaja Poljana era già noto per la testimonianza che l’insigne criminologo aveva reso nel novembre 1901 sul periodico "La Vita internazionale" di E. Teodoro Moneta. Quella visita, esaurita in poche righe nella classica biografia di Luigi Bulferetti (Cesare Lombroso, Torino, Utet, 1975, p. 400), è analizzata ora da Mazzarello, che ricostruisce con dovizia di particolari l’incontro che alla fine di agosto 1897 Lombroso ebbe con lo scrittore russo. Più che dal fatto cronachistico, l’incontro assume un’importanza particolare per le ragioni culturali che indussero lo scienziato italiano ad abbandonare il Convegno medico internazionale e lo spinsero a compiere quel viaggio scientifico-naturalistico.
Preceduto da un ritratto di Lombroso e da un’analisi non sempre lineare delle sue teorie criminologiche, il volume – già apparso per i tipi di Biblopolis (Napoli 1998) – introduce alcune novità stilistiche nei contenuti e presenta una nuova bibliografia. L’autore analizza il profondo legame fra genio e follia come facce della stessa realtà psicobiologica che Lombroso aveva dedotto da un enorme corpus di materiale storico, letterario e biografico. Quella "verità scientifica", intesa a considerare la follia del genio come aspetti degenerativi di un’evoluzione a ritroso e interpretata come "regressione ativistica", rientrava infatti in una visione antropologica, che traeva origine dalla scoperta della "fossetta occipitale mediana" "nel cranio del brigante Giuseppe Villella". Durante l’autopsia eseguita nel dicembre 1870, Lombroso rimase folgorato da quell’insolita fossetta, che – oltre a segnare un ritorno ai caratteri ancestrali "atavici", accomunava in un carattere regressivo geni, folli e delinquenti, seppure in un grado differente di qualità positive.
Da questo presupposto teorico sorgeva "il sistema Lombroso", che stabiliva la genesi naturale del delitto e la necessità della pena come forma di difesa sociale in antitesi a quanti indicavano le sue cause non nel carattere biotipologico del delinquente, ma nella struttura sociale. Questi due indirizzi, trasformatisi ben presto in due scuole di antropologia criminale, furono dibattuti nella stampa e nei congressi scientifici, dei quali l’autore ricorda quelli tenutisi a Parigi nel 1889 sull’eziologia del delitto, a Ginevra nel 1896 sulla questione del libero arbitrio, a Mosca nell’agosto 1897 sulle razze asiatiche e su altri temi connessi al delitto.
In questo contesto si colloca la visita a Tolstoj, le cui opere letterarie esercitavano un particolare fascino su Lombroso, attratto non dall’etica cristiana o dalla pedagogia antiautoritaria dello scrittore russo, ma dalla ricerca esplicativa delle sue tesi antropologiche e dalla verifica di alcuni aspetti comuni come l’interesse per le stranezze del genio, per l’eccitazione psichica e le malattie ereditarie. Quell’attrazione irresistibile verso il genio letterario di Tolstoj, tormentato dal dubbio e affetto da "misticismo", impediva a Lombroso di cogliere la diversità di idee sulla storia, sulla società e sulla genesi del delitto. La loro visione antropologica, seppure ispirata a un ferreo determinismo, poggiava infatti su un’eziologia diversa del comportamento deviante, come scaturiva dalla diversa considerazione del reo e della sua imputabilità, ma anche dalla dissonanza del legame tra genio e follia, su cui Lombroso e Tolstoj non trovarono alcun accordo per la diversa fede ideale, l’uno ancorato ad un positivismo ateo e l’altro a una forma di cristianesimo primitivo.
Nunzio Dell’Erba
Mirella Serra, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005, pp. 371.
Corredato da un apparato bibliografico molto vasto, il volume arricchisce un argomento controverso della cultura italiana, quello degli intellettuali fascisti che approdarono alla sinistra dopo la caduta del regime mussoliniano. L’autrice, che non ha alcuna pretesa di esaurire un tema così dibattuto nella storiografia contemporanea, attribuisce la definizione di "redenti" a quegli intellettuali che, dopo aver ricevuto laute ricompense dal governo fascista, passarono a sponde opposte. Si tratta di un termine coniato da Velio Spano per definire il ruolo che gli intellettuali assunsero nell’ultimo decennio del regime fascista e in quello successivo alla sua caduta e al ritorno della libertà culturale. Più appropriata sembra la definizione di "servitù volontaria" che Carlo Morandi enunciò nel 1945 per descrivere il ruolo degli intellettuali che collaborarono alla rivista Primato, fondata da Giusaeppe Bottai e pubblicata dal 1° marzo 1940 al 1° luglio 1943.
La rivista, cui l’autrice dedica particolare attenzione per la varietà di contributi e per lo stuolo dei collaboratori, apparve durante i preparativi dell’entrata in guerra da parte dell’Italia a fianco della Germania nazista. Gli argomenti più dibattuti non furono solo quelli connessi all’evento bellico come la legislazione antisemita, ma si estesero alla politica, alla letteratura, al cinema e ad altre materie con la precipua funzione di "modernizzare" il fascismo. Come collaboratori del quindicinale troviamo gli scrittori Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Riccardo Bacchelli, Vitaliano Brancati, Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Ercole Patti, Cesare Pavese, Guido Piovene, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Cesare Zavattini; l’antropologo Ernesto De Martino; i filosofi Nicola Abbagnano, Antonio Banfi, Galvano Della Volpe, Cesare Luporini, Enzo Paci, Sebastiano Timpanaro; e poi artisti, architetti e critici d’arte come Giulio Carlo Argan, Felice Casorati, Renato Guttuso, Mario Mafai, Antonello Trombadori; giornalisti come Enzo Biagi, Indro Montanelli; storici come Carlo Morandi, Giorgio Spini e Luigi Salvatorelli.
Questa vasta adesione degli intellettuali italiani fu arricchita anche dai contributi di giovani esordienti come Mario Alicata, Giansiro Ferrata, Giaime Pintor, che nel loro coinvolgimento all’esperienza culturale di Primato costituirono "un gruppo abbastanza coeso sottomesso alla disciplina e al rapporto" con il suo promotore carismatico. Il progetto di Bottai esercitò un grande fascino su quei giovani, che durante la loro intensa collaborazione non furono spinti da spirito di fronda o da intenti antifascisti, ma da un vivo desiderio di successo e di immediato guadagno. Un’attenta lettura dei loro scritti ci induce ad accogliere la tesi di Renzo De Felice, secondo cui Primato non fu certo una palestra di antifascismo per il loro tardivo distacco dal regime e dalla folle esperienza di guerra. Fatto sta che la rivista, per l’impronta impressa da Bottai, si allineò alla politica guerrafondaia del governo fascista, in un’assordante propaganda contro i "perfidi giudei" e contro "l’orrore della minaccia asiatica" sulla base dei suoi ideali razzisti che egli cercò di coniugare con l’"impulso vitale" dei giovani e di utilizzarli per affermare all’estero la cultura fascista.
In questa cornice razziale si inserirono scrittori e giornalisti, molti dei quali avevano abbracciato la causa antisemita già prima del loro approdo all’esperienza di Primato, come mette in rilievo l’autrice in una linea di connessione con riviste fasciste come La Difesa della Razza, Critica fascista, o Campo di Marte. Galvano Della Volpe, il cui pensiero influenzerà il marxismo italiano fino agli anni Settanta, esaltò il razzismo mussoliniano, scrivendo parole demenziali sull’"Estetica del carro armato" (Primato, 15 luglio 1940) e sull’"operazione chirurgica in corso" attuata dai "carri armati tedeschi sulla strada di Calais". Lo scrittore, sostenitore di un "Ordine nuovo" modellato sui princìpi nazisti, manifestò un acceso ardore per la flotta aerea e i cingolati tedeschi da far arricciare il naso perfino a Bottai. Le idee dell’avventato filosofo furono sostenute anche da Carlo Morandi, che per tutta la durata della rivista si sobbarcherà sul piano storico l’onere di dimostrare il valore di quel progetto di "Ordine nuovo" e di quella "gerarchia dei popoli", così cari all’establishment fascista. Le sue elucubrazioni storiche del Mediterraneo diventarono così la piattaforma democratica della "Nuova Europa" teorizzata dal Reich: un disegno di politica estera condiviso anche da Delio Cantimori e da Manlio Lupinacci, l’uno autore di numerose voci per il Dizionario di politica del Partito Nazionale Fascista e l’altro sostenitore entusiasta del militarismo nazista e del razzismo tedesco. Persino linguisti come Giorgio Pasquali e Bruno Migliorini espressero il loro entusiasmo per l’esercito nazista.
Ma al fascino della "Nuova Europa" non si sottrassero neppure giovani come Mario Alcata, la cui dedizione alla realizzazione del totalitarismo fascista si ispirerà alla robusta etica di Mussolini, rappresentato dal Diario di guerra e indicato come "grande esempio di scrittura politico-letteraria" (p. 165). L’esaltazione di Mussolini, considerato l’autore dei libri più importanti del secolo, troverà ampio risalto non solo sulle pagine di Primato, ma anche in libri scolastici nati e ideati specificamente per diffondere e far sedimentare l’immagine di un nuovo umanesimo in camicia nera. L’antologia Avventure e scoperte (1941), pubblicata da Alicata e Muscetta, innalzò un inno appassionato alle gesta eroiche del duce, di Bottai, di d’Annunzio, i cui testi saranno illustrati da Antonello Trombadori. Ancora nel 1942 Muscetta si lascerà andare a una esaltazione sperticata di Bottai, che per rettitudine morale e per dati culturali si eleva su tutti gli altri artisti contemporanei come un astro-guida. Il ministro dell’Educazione nazionale è presentato come un fine letterato e un vigoroso uomo politico in un profluvio di elogi che troveranno ampio spazio nelle pagine di Primato e nella corrispondenza privata tra l’ex gerarca fascista e il futuro intellettuale marxista.
Nunzio Dell’Erba
Amalia De Luca, Conchas legere, (Poesie), Introduzione di Nicola Di Girolamo, Edizione di Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, Roma 2004, pp. 78.
Due sono, fino ad oggi, le raccolte di sue poesie edite da Amalia De Luca: Radere litora, che è del 2002, e Conchas legere, uscita nel 2004, cioè a soli due anni dalla prima.
Verrebbe da pensare ad una improvvisa esplosione di estro poetico, ma sarebbe pensiero sbagliato. In una sua Nota sobriamente ma efficacemente autobiografica posta a chiusura di Radere litora la De Luca ci fa sapere che le prime espressioni della sua vocazione alla poesia risalgono agli anni giovanili, e continuarono nei successivi, ma che la sua ritrosia le fece rimanere chiuse nel cassetto. Ne vennero fuori solo quando Lei avvertì "fortissima l’esigenza di verità, ogni nascondimento le parve viltà e si sentì pronta ad accettare tutte le critiche, senza orgoglio, senza vanità, anzi con una piacevole sensazione di libertà" (p.116). La stessa Nota indica anche il rapporto cronologico esistente tra le varie sezioni in cui il libro è diviso e le poesie riunite in ciascuna di esse. Conchas legere ha un’articolazione diversa, a base non più cronologica ma fondamentalmente tematica, con prevalente tendenza a sensi simbolici, su cui tornerò più avanti, che fa pensare a una produzione più recente. Che tuttavia, pur possedendo in buona misura più di un motivo di distinzione, a livello di ispirazione e di stile, si mantiene su un piano di affinità e di continuità con la precedente, per altro denso di ampliamenti e di sviluppi, che viene a dare sostanziale coerenza a un’opera di poesia costituitasi via via nel tempo e rivelatrice di una personalità complessa eppure ben definibile.
Tali le caratteristiche di questo mondo poetico nel suo insieme. Vediamo ora di documentarle e valutarle.
Il primo segno di continuità viene dai titoli. Attengono entrambi al mare e alle attività che in esso svolge l’uomo. Il primo, in particolare, nasce da un’idea di viaggio rasentando le coste quasi per assicurarsi, se occorre, la possibilità di un approdo salvifico, perché (cito da Al riparo, p.40), "Fuori dal porto / in mare aperto / nella tempesta / confidare nei venti / che non ti ingannino". Nel complesso, dunque, un cabotaggio simile a quello di Enea e compagni quando furono vicini alla terra di Circe, ma qui, ovviamente, simbolico. Dal mare, però, si traggono anche tesori quali, ad esempio, quelle lucide perle che Tibullo malediceva assieme ai verdi smeraldi, perché accendono la cupidigia delle donne e pongono problemi di spesa a quanti le corteggiano, mentre qui il loro splendore, tanto ben noto che lo si può pure lasciare sottinteso, allude chiaramente ai pregi della poesia, creatura quant’altre mai idonea a volgere in bene il male, di qualunque tipo esso sia. Un po’ come "l’aurea beltà" della grazia femminile di foscoliana memoria, "onde ebbero / ristoro unico ai mali / le nate a vaneggiar menti mortali". Anche Amalia De Luca conosce e apprezza la bellezza della poesia e, presa dal suo fascino, ne ha realizzata tanta a sua volta, come ho già sommariamente ricordato, ricavandone "ristoro" per il suo "vaneggiare", che per la precisione è un vagare con i suoi pensieri – anche questa è un’immagine foscoliana – attorno alla misteriosa condizione esistenziale dell’uomo e del mondo e sul vario svolgersi della sua vita interiore.
Un vagare, dunque, che giustifica quell’idea del viaggio della mente e dell’anima che è il leitmotiv che lega alle radici le due raccolte e unisce in una sorta di traccia continua le varie soste o tappe, cioè le composizioni che da quel motivo traggono l’input particolare e concorrono a farne un itinerario completo.
Verso quale mèta? ci si chiederà legittimamente. Risposta: Verso non una ma tante. Una di queste è la verità, per cominciare dalla più ambita.
La verità è, infatti, oggetto di una ricerca che si compie in mille guise, costante e appassionata anche se, purtroppo, senza approdi validi – se si eccettua la bella poesia che esprime e che la esprime – né risultati adeguati alle attese, un vagare da "misero" viandante a cui la De Luca si rivolge con comprensione quasi pietosa e con la tristezza di chi ha provato vanamente anche lui: "Vorresti esser cieco / per contemplare / il mistero nella tua notte. / Quest’involucro rabbioso / è paravento impenetrabile / alla perfezione mai creata / radice universale / senza rami e senza foglie / parola senza voce" (p.32). Ricerca segnata da delusioni cocenti perché, quando credi di essere giunto a quella "verità che", dice il Poeta per antonomasia (Dante), "tanto ci sublima", allora "In un baleno / si frantuma in mille cocci / tutto il tuo mondo di certezze" (p.34). Sicché pare che l’unica possibile verità sia proprio l’impossibilità di una verità, con tutto il disagio che ne consegue.
Esiste tuttavia qualche rimedio contro questa che potremmo dire "caduta delle illusioni". Uno di questi, valido soprattutto contro gli effetti della constatata impossibilità di una verità razionalmente acquisita, è un momento che diresti di religiosità, forse un po’ laica, però, vissuto "presso all’altare" per una "sottile magia" (p.35). Altro rimedio o conforto è il rifugio nel sogno (anche se in esso "la gioia è solo / chiarore trasparente / nell’aria cristallina" p.29) e il suo valore si apprezza maggiormente quando esso svanisce: "Tu non saprai mai / il dolore e il pianto / per lo schianto di un sogno / stritolato dalle roventi maglie / di catene ai piedi di anacoreti stanchi: / aveva la levità dei colori / sottratti all’arco in cielo / dopo la pioggia di un’estate afosa, / aveva lo splendore delle stelle / nel candore di un fazzoletto bianco" (p.51), sicché "Non resta altro che dar corso al pianto" (p.52) o, dato che "la parola ti trafigge / col fuoco della verità" (p.64), rifugiarsi nella "magia del silenzio" (p.63), ove "l’irrealtà della visione / ti pare la sola possibile / riconciliante realtà". Ma un valido aiuto viene anche, dopo la vanità di una ricerca condotta persino "nel buio profondo / di una fossa / al centro dell’oceano / dove speri di trovare / la forma primitiva / di una qualunque vita" (p.39), nel risalire in superficie, e allora "abbracci la terra / con tutti i suoi colori / e pensi con cuore grato / che solo dolore e privazione / sono motivo / d’ogni allegrezza umana" (ibid.). È lirica, questa, in cui non si può non avvertire la presenza di una suggestione leopardiana (quiete..., piacer..., uscir di pena..., e via di seguito), ma interamente rivissuta e positivamente depurata di ogni intonazione pessimistica. A tal proposito dice Pietro Mazzamuto nella Prefazione a Radere litora: "Le proposte degli autori sono state talmente assimilate, quanto dire così innervate nel tessuto interamente improntato dalla poetica in atto della poetessa, da non lasciare traccia alcuna della loro presenza".
Del resto, come scrissi nella recensione a Radere litora (in "InSicilia", n. 20, marzo-aprile 2003), "il pessimismo di Amalia De Luca non è mai totale, perché si aprono in esso squarci di ottimismo, ora moderato ora più accentuato, in buona misura propiziato dall’intervento della sua cultura". In Conchas legere, poi, è più personalizzato, predominando nei versi di questa silloge la voce di uno spirito più inquieto, di un disagio esistenziale che si è fatto più acuto. Non certo a caso la lirica posta in apertura ha per titolo Onda anomala e per incipit un vocabolo che quando fu usato era solo una rarità lessicale e oggi evoca, purtroppo, una immane tragedia: tsunàmi. Quasi un terribile presagio. Nel linguaggio poetico di Amalia De Luca l’onda anomala compendia tutta una serie di penose "lacerazioni", come Lei stessa più volte le chiama, e le loro cause: la solitudine, la nostalgia, "l’amarezza per le lordure del mondo, / per l’abbandono degli amici" (p.47), nonché un ansioso desiderio di pace e di una "nuova Afrodite / purificata / nella sua essenza divina" (p.43), "la paura del domani, / le rughe del tempo, / la malinconia dell’ora" (p.42), la vita sentita come obbligo imposto e quindi sofferto ("improvviso fuoco / il sole / il cielo / del nuovo giorno / infiamma. / S’impone viverlo ai mortali / con le sue leggi / e tutto il suo gravare" (p.36), la perenne attesa di qualcosa che non verrà, insomma tutto un mondo di riflessioni maturate sul proprio vedersi vivere e divenute poi sentimenti sofferti e poi ancora immagini poetiche. Di questo mondo la De Luca ha acquisito lucida struggente consapevolezza e così può riferirne, dice Nicola Di Girolamo nell’Introduzione, "in un colloquio ininterrotto con l’ "altra", come a dire con se stessa, talvolta angosciato, ma sempre in sordina, fra il tenero frutto avido di vita e il proprio verme avido di morte. Da qui l’angoscia di vivere" (p.14), con "la risultante di una poetica della malinconia che incosciamente, forse, la scrittrice ha diffuso in tutta la raccolta, polarizzando qua e là" (p.13).
Ma è colloquio che, reso pubblico com’è – ed è stata decisione quanto mai legittima ed opportuna – riscuote un consenso, ben meritato, da parte della numerosa umanità che ha sensibilità e la patisce, un consenso motivato da simpatia (dal greco syn-pathos) e dalla gratitudine di quanti trovano detto in quei versi quello che essi stessi avrebbero voluto dire; nonché da compiacimento per i vari pregi espressivi che quel colloquio possiede, e sono in gran parte connessi al suo linguaggio. Infatti, se è vero che il tema dominante in questo canzoniere è quello di una sofferenza consapevole e continua, è vero anche che, quando c’è da descrivere visioni di natura seppure introdotte a significare momenti di delusione o di pena correlate con certe tesi negative, allora il senso della bellezza della natura, che nella Nostra Amalia è vivissimo, non sa tacere, anzi prevale, e dà piena accattivante espressione a tutto il suo fascino, mediante la pittura di scene che sono vere e proprie visioni. Qualche passo, a mo’ di prova anche del notevole ruolo svolto dai colori: "Nuvole basse / all’orizzonte / ultimi bagliori d’arancio / colorano il tramonto / della vivida fiamma dell’alba" (p.65); "scoprire / nel quadro desolato / della tua finestra chiusa / un colore nuovo ogni mattina: / una nuvola rosa, / una sfumatura d’azzurro / sul verde tenebroso / della distesa antica" (p.59); e, per qualche scena cupa ma anch’essa assai attraente: "Coltre di sabbia / del deserto / stende / questo vento d’aprile; / sipario / intriso di fango / offusca / il tuo orizzonte" (p.38). Analogia con quanto avveniva in Leopardi poeta degli Idilli, secondo il giudizio di Benedetto Croce valido ancora oggi nonostante tanto anticrocianesimo? No certamente se nell’analogia di un poeta con un altro s’ha da vedere un atto voluto; ma sì, pure certamente, se quell’analogia dipende da sincera e spontanea consonanza sentimentale e spirituale con le forme universali della bellezza e da capacità di esprimerla, che insieme fanno una, e certo tra le più importanti, delle condizioni da cui nasce la poesia di Amalia De Luca. Una poesia nella quale Ferruccio Centonze ha felicemente visto "Tutto un vissuto che, per la magia dell’arte, tracima dalla sua dimensione contingente per diventare espressione di un valore cosmico dei grandi temi spirituali, dei sentimenti, dell’uomo di ogni latitudine".
È, inoltre, poesia che si distingue anche perché alimentata dalla sensibilità che porta l’Autrice a vivere intensamente tanti di quei contrasti di cui è fatta la vita dell’uomo e che nel suo vasto e variegato mondo poetico si configurano in un frequente intrecciarsi di opposizioni più o meno marcate, significate simbolicamente da accostamenti quali buio–luce, tenebra–splendore, istante–eternità, seguendo un’impostazione spesso dualistica sempre dialettica che è nella sua interiorità, che non dispone di certezze assolute su cui contare ed è resa evidente dall’intervento degli ossimori e, per converso, quelle volte in cui i contrasti si compongono o c’è da significare un concorrere di elementi, dalle calibrate eppure spontanee sinestesie. Anche qui qualche esempio, tra i più efficaci: "il silenzio si fa voce" (p.24), "la segreta luce della notte" (p.23), "il tempo s’aggroviglia e si dipana" (p.62), "la separazione / è armonia di compresenza" (p.55)."il profumo della terra / riconciliata dalla liturgia del canto" (p.55); per un misto di sinestesie e contrasto: "Profumo sensuale / dal tuo cuore di luce / dai petali candidi / nel sole / di questo autunno" (p.61) e, per un contrasto sviluppato per tutta una lirica, "Piccola spiaggia" che, prima "tormentata / dalla furia dell’onda", poi "ride all’oro / dell’inoltrata Primavera" (p.48).
re di pensiero, con al primo posto la metafora, e quelle di parola (ossimori già detti, ipallagi, una a p.2), la serie di verbi all’infinito (scorrere, carezzare, pp.57 e 59) quasi a indicare il fluire del tempo e prolungare il gusto dell’immagine, l’articolazione del verseggiare con il saggio ricorso all’enjambement, ed altri ancora.
Alcune liriche, poi, invitano a considerazioni particolari per la peculiarità dei loro motivi. Una è quella che presenta la figura di un clown. Il suo volto è atteggiato a un sorriso ma cela un dolore illacrimato, da tenere invisibile, perché così vuole il suo ruolo di comico. Vale, oltre che come segno della solidarietà sentita dalla poetessa per certe categorie umane costrette a una vita di stenti, come simbolo della perdita di dignità umana cui costringono certe necessità di vita.
Un’altra ha per attore la figura di un "amico solitario" (p.45), che pare quella di un partner di un rapporto d’amore in cui, se a momenti di estasi succedono risvegli dolorosi, si può anche godere il lenimento di lacerazioni quali l’illusione dell’eternità e la delusione del transeunte, al riparo fra le "tue" braccia e con la possibilità di "ténere parole, / preludio forse" (ibid.), dice la De Luca concedendosi una punta di ammiccante civetteria, "a quella impronunciabile, / inflazionata / alla radice del mio nome" (ibid.) (Amalia è appunto derivato da "amore"). Si integra con l’altra di p.53, (Sipario), in cui si evocano le gioie dell’amore che, se fa vivere "l’illusione dell’eternità / al riparo fra le tue braccia, / sostenuta in volo dal tuo profumo, / com’erba nei prati / accarezzata / dalla fresca brezza del mattino", lascia poi, però, uno "specchio di memorie / sfocate" da cui si cerca "riparo nella tempesta" E’ una sintesi di tanti effetti dell’amore sull’animo umano, ora lieti ora tristi, che tuttavia non spengono il desiderio di viverlo almeno una volta.
Perché l’amore può essere anche felicità piena, interessi o no i sensi, quando è vissuto come sentimento puro e accordo totale. Ma come tale è una fortuna che arride solo ai personaggi dei miti, dove i violenti profanatori della purezza di gentili fanciulle vengono esemplarmente puniti anche se hanno il nome e la possanza di Efesto. È il dio Febo che tutela il diritto alla gioia della purezza, delle danze e dei canti a cielo aperto, ed è il divino Eros ad accogliere la preghiera con cui Èrato, la Musa della poesia d’amore, appunto, invoca proprio il dono di poter vivere d’amore e ispirare amore.
Con questi miti da lei inventati mettendo a profitto il suo pluriennale culto delle letterature classiche e raccontati in versi dotati di straordinaria capacità comunicativa per la ricchezza di immagini animate e colorite e per la loro musicalità, versi che con tali meriti richiamano alla mente di chi li legge, e direi quasi li ascolta, il suggestivo film Fantasia di Walt Disney, Amalia De Luca ha raggiunto, a mio avviso, un livello poetico veramente alto.
Inoltre, nella stessa sezione del libro, con il terzo di questi suoi Paradigmi, attraverso la gentile figura della giovane Mantèa che, impegnata da anni nella ricerca di amore, incontra Aristeo dal quale, ormai vecchio, non amore può ricevere ma la saggezza della Verità, legandosi a lui con tenerezza affettuosa, la De Luca pare coronare il suo ansioso desiderio, appunto, di Verità.
E nello stesso tempo insegna a noi tutti che, se il mondo in cui viviamo soffre come soffre, uno dei motivi è che non ama più le favole. Anche per questo non sa più che cosa è la bontà.
Antonino De Rosalia
In una gremita Aula Magna della Facoltà di Scienze Politiche di Palermo, il 9 dicembre 2005, in occasione della recente pubblicazione del libro di Mario d’Addio, Manzoni politico (Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2005, pp.381), Francesco Mercadante, professore emerito dell’Università "La Sapienza" di Roma, alla presenza dell’autore, ha tenuto un seminario sul contributo di Alessandro Manzoni nel Risorgimento italiano, riflessioni suscitate dalla lettura del lavoro di d’Addio, "un libro importante" - ha commentato il relatore - il "primo libro" sul pensiero politico del grande scrittore italiano poiché solo ora l’argomento è stato trattato in modo organico e in un volume così "corposo".
Il canone della storia del Risorgimento italiano, ha precisato Mercadante, non è fatto di una sola voce ma, da più voci rispetto alle quali Manzoni è un ""dio ignoto" dinanzi a cui si fa un inchino e via". E nel canone, o nelle diramazioni del canone - che, in senso lato, fornisce lo schema fondamentale, l’elenco degli autori considerati modelli per definire la correttezza di opinioni e azioni - non ci sono giudizi di autorevoli personaggi sui meriti di Manzoni storico.
Il Risorgimento italiano, nel suo momento di grazia – dal gennaio 1848 al maggio 1849 – fu anche opera dei cattolici e del pensiero cattolico. Nel 1843 era apparso Il Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti che fu un successo politico, storico, letterario con pagine dedicate proprio a Manzoni. Ma, neanche Gioberti entra nel canone tanto che quando Giovanni Gentile parla di "profeti" del Risorgimento non ha interesse a enfatizzare il Primato, opera che Pio IX, salito al soglio pontificio nel 1846, aveva già letto facendo "impazzire l’Italia" perché aveva suscitato "la grande illusione". Il canone si consolida in tutta la storiografia successiva al fallimento dell’idea guelfa; un fallimento che si consuma con l’eccidio di Pellegrino Rossi e nel 1849 con la condanna di Gioacchino Ventura, Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini "impiccati tutti – ricorda, in senso metaforico, Mercadante – allo stesso albero di Pio IX". E fu questo il dramma dell’idea cattolica.
Il romanzo di Manzoni ebbe il merito di far nascere l’epos romantico della coscienza religiosa e civile. La "coscienza di nazione" grazie a questo strumento letterario si diffonde anche tra la gente comune; gli italiani leggono I Promessi Sposi in una lingua che è la stessa "dalle Alpi al Lilibeo" e la coscienza italiana ritrova la sua identità linguistica. La lucida consapevolezza dell’importanza dell’opera manzoniana, Mercadante la riscontra in Giuseppe Verdi, anche lui creatore dell’epos della coscienza religiosa e civile della nazione, come attestano, ad esempio, la Traviata o il Rigoletto, emblemi del profondo fermento dell’animo italiano. L’identità nazionale si costruì, pertanto, con le musiche di Verdi – che dedica il suo Requiem a Manzoni e non a Cavour - e, certamente, con I Promessi Sposi, opera che, attraverso l’espediente dell’ambientazione seicentesca, raccolse le istanze politiche e linguistiche del XIX secolo.
D’Addio, professore emerito dell’Università "La Sapienza" di Roma, intervenuto al Seminario, ha ricordato come Manzoni - poeta, scrittore, storico, filosofo e teologo - avesse, per l’appunto, un pensiero a trecentosessanta gradi. E se Rosmini, dodici anni più giovane, superò l’amico scrittore - conosciuto nel 1826 tramite Tommaseo - per l’universalità degli interessi di carattere enciclopedico, Manzoni ebbe una cura "ossessiva" per lo stile letterario, scorrevole e limpido rispetto all’esposizione "faticosa" e al periodare complesso spesso riscontrabili negli scritti del roveretano.
Dal 1818 al 1870 Manzoni rappresentò il grande personaggio politico a livello europeo che con la sua autorevolezza garantiva il processo di unificazione italiana; la sua casa divenne il punto di riferimento degli intellettuali europei. Dal canto suo, Rosmini ebbe il merito di inserire il Risorgimento italiano nel Risorgimento europeo, e nel suo progetto confederale di sottrarre alla Santa Sede il diritto di pace e di guerra trasferendoli alla confederazione con sede a Roma.
Grande fu la devozione di Manzoni nei confronti della Chiesa nella quale distinse sempre la materia di fede e di morale dalle posizioni politiche. E con ciò egli dava una risposta a Sismondi che aveva sostenuto che il cattolicesimo rendeva la coscienza dei cattolici schiava dell’autorità sacerdotale. La confutazione dei giudizi di Sismondi non si traducono in un "disconoscimento dell’intera opera che deve invece essere apprezzata per i contributi essenziali ad una nuova prospettiva storiografica che riconosce il ruolo che i popoli e le nazioni hanno nella storia" (p. 76). Manzoni – come si legge nella Morale cattolica - riteneva che solo nell’ambito del cattolicesimo si potesse pervenire alla vera libertà, si potesse "essere liberali". La morale cattolica, infatti, non presuppone il servilismo quanto "l’obbligo morale di non obbedire alle leggi e ai comandi che impongono azioni contrarie al principio della giustizia" (p. 89). La religione cristiana è in grado di esercitare un’importante influenza sul sentimento di orgoglio nazionale dal momento che la sua morale "ci avverte che l’idea di patria e di nazione, ed il sentimento che vi corrisponde, se considerati nel loro giusto valore, cioè nella loro "verità" […] sono diversi dal nazionalismo che propone la nazione come supremo imperativo etico dell’individuo" (p. 102).
Manzoni è l’unico scrittore a essere stato ricordato in una enciclica, la Divini illius magisteri, nella quale Pio XI ha giudicato l’autore de I Promessi Sposi un "mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore" e, tale giudizio, precisa d’Addio, "dovrebbe risolvere il problema dell’eventuale incidenza di "venature giansenistiche" nel suo cattolicesimo" (p. 117 nota 23).
Sin dalla premessa al Manzoni politico l’autore avverte come la politica manzoniana abbia i suoi presupposti nelle Osservazioni sulla morale cattolica, nella Lettera a Cousin, nel Discorso storico su alcuni punti della storia longobardica, ne La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, ne Dell’Indipendenza italiana. Altri giudizi si trovano nelle poesie e drammi Del Trionfo della Libertà, Aprile 1814, Il proclama di Rimini, Marzo 1821, Il conte di Carmagnola e l’ Adelchi, due personaggi, questi ultimi, che con il loro dramma bene interpretavano l’asservimento della nazione italiana.
Tra il 1801 e il 1805 Manzoni manifesta l’interesse per la politica. Nel 1801, ad appena sedici anni, influenzato da Francesco Lomonaco, compone Del Trionfo della libertà nel quale il poeta esalta la Rivoluzione francese e l’amor di patria come sentimento fondamentale della moralità e dignità umana. In tale componimento "non c’è solamente l’esaltazione della libertà e dell’eguaglianza giacobina […] vi si esprime anche l’amarezza e lo sdegno per il fatto che le speranze suscitate dalle vittorie francesi di una reale indipendenza ed autonomia degli italiani […] sono andate deluse" (pp. 12-13). Manzoni, pur ammirando Napoleone, mostra un riserbo nei confronti della sua politica, nei confronti del governo imposto dal generale corso. Del Trionfo della libertà verrà presto giudicato dallo stesso Manzoni come componimento di scarso valore poetico a conferma di una "revisione dei suoi primi entusiasmi politici" (p. 13). La delusione lo conduce a riflettere meglio sui problemi italiani grazie alla frequentazione di Vincenzo Cuoco che egli considererà il suo "primo maestro di politica". Con Cuoco Manzoni comprende che "la libertà era strettamente connessa con l’indipendenza e soprattutto con l’unità politica dell’Italia", unità che si traduceva nel "mettere fuori gli stranieri".
Dal 1805 al 1808, Manzoni raggiunge la madre, Giulia Beccaria, a Parigi entrando in contatto con i rappresentanti della cultura francese che si riunivano nel salotto di Madame Cordorcet e del suo convivente, il linguista Fauriel, con il quale Manzoni instaura una profonda amicizia e, secondo d’Addio, dal quale è probabile abbia appreso i più importanti episodi sulla Rivoluzione francese influendo, anche, nell’indirizzo spiritualistico e storicistico della sua cultura. Grazie a Fauriel apprende l’opera di Germaine de Staël, De la littérature, e Il genio del cristianesimo di François-René de Chateaubriand.
Dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel, il 6 febbraio 1808, Manzoni conosce l’abate giansenista Eustachio Degola. Molto si è detto sul giansenismo manzoniano ma, l’autore osserva che "dopo circa un secolo di studi l’opinione di gran lunga prevalente è che nel cattolicesimo manzoniano non sussiste, dal punto di vista teologico-dogmatico, alcun principio o posizione eterodossa" (pp. 23-24). Tra il 1828 e il 1860 Manzoni guarda agli avvenimenti politici francesi pensando che essi possano influire sulla situazione italiana. Il 1848 riaccende in lui la speranza dell’indipendenza italiana. E il medesimo interesse lo ripone nei confronti di Pio IX, la cui vicenda politica avrebbe avuto dei riflessi sul conflitto con l’Austria e sull’indipendenza italiana.
È il periodo in cui si dibatte tra soluzione unitaria e soluzione confederale. Di quest’ultima se ne fa convinto assertore l’amico Rosmini, ma, Manzoni giudicherà l’idea del sacerdote roveretano la "brutta utopia" da contrapporre alla "bella utopia" dell’unità politica della penisola. Lo Stato rappresenta, a suo avviso, "l’unità politica sussistente di popolazione e territorio" capace di esprimere "la forza che promana dalla sua organizzazione e che si manifesta essenzialmente nella forza militare e nell’esercito" (p. 355). Sotto questo punto di vista, lo Stato piemontese, rispetto agli altri, trova la sua legittimazione nella "dignità" e può contare sulla "stima e fiducia reciproca del Re e del paese" (p. 359).
Le aspirazioni verso un’Italia unita, libera e indipendente, con una costituzione garante delle libertà civili e politiche, collocano Manzoni nel filone del liberalismo. Fu lo stesso Conte di Cavour, in un discorso nell’aprile del 1861, ad annoverare lo scrittore italiano tra i liberali, affermando che in Italia il partito liberale era il più cattolico d’Europa. Ancora più espliciti furono Francesco De Sanctis - che definì Manzoni "il capo della scuola liberale" (p. 42) - e Benedetto Croce che lo riconobbe "il capo della scuola cattolico-liberale" intendendo con cattolicesimo liberale "l’orientamento politico dei cattolici che avevano fatto proprio il programma di unità e di indipendenza del risorgimento italiano sulla base di una mera "recezione" dei principi politici del liberalismo" (p. 47). L’espressione, precisa d’Addio, manca negli scritti di Manzoni che "si dichiarò liberale senza ulteriori qualificazioni" (p. 48); un liberalismo di ispirazione cattolica certamente diverso da quello di Madame de Staël, di Guizot, di Constant e diverso dallo stesso Felicité Robert de Lamennais "perché non coinvolge nell’impegno politico la religione" (p. 51). La premessa della politica manzoniana è nella morale che deve fissare i limiti di quell’"attività finalizzata al governo della società, a coordinare, indirizzare, disciplinare l’attività dei consociati e a garantire la loro tranquillità e sicurezza" (p. 71).
Tra il 1828-1829 Manzoni approfondisce l’eclettismo di Cousin attraverso cui affronta il tema "del nesso fra la verità e le verità particolari" (p. 129). Nella seconda edizione della Morale cattolica, del 1855, lo scrittore italiano riconsidera in modo organico il problema dei rapporti tra giustizia e utilità. Non distinguere l’utilità dalla giustizia significa, riprendendo la riflessione rosminiana, legittimare il dispotismo della maggioranza sulla minoranza, sconoscere i diritti e gli interessi "senza che, paradossalmente, ne risulti offesa la morale" (p. 139). L’utile, pertanto, non può essere considerato il fondamento della giustizia e del diritto, né della politica. Ridurre la politica all’utile era stato il "triste privilegio" di Machiavelli del quale Manzoni apprezza, comunque, le qualità di storico, di studioso di fatti politici, degli ideali repubblicani de I Discorsi. Ambientando I Promessi Sposi nel Seicento, Manzoni non può non considerare le riflessioni del Segretario fiorentino ritenuto il "padre" della ragion di Stato. Nell’edizione Fermo e Lucia, don Ferrante pone una distinzione tra la "politica positiva" di Giovanni Botero e la "politica speculativa" di Machiavelli (p. 150). Nella successiva versione del romanzo la biblioteca di don Ferrante si arricchisce di ben duecento volumi tra i quali Bodin, Cavalcanti, Boccalini, Paruta anche se le sue preferenze sono riposte in Machiavelli e in Botero. Il rapporto di Manzoni con Machiavelli, osserva d’Addio, è "complesso, dato che il rifiuto dell’assolutizzazione del potere e del principio che il fine politico giustifica la violazione di ogni norma etica e religiosa è deciso e senza riserve, mentre il giudizio sulla sua opera come "politica speculativa" e la considerazione che ci troviamo dinanzi ad un autore "profondo" esprimono la convinzione che grazie a quell’opera la politica scopre la dinamica della "verità effettuale"" (p. 151). Tra i consigli "avveduti" del Segretario fiorentino, Manzoni ricorda la critica alle milizie mercenarie, l’esaltazione delle virtù civiche, l’esortazione a Lorenzo dei Medici a unificare l’Italia. Il conte di Carmagnola, ad esempio, rappresenta l’emblema del "dramma del potere, lo scontro fra quanto di nobile, di giusto il condottiero intendeva affermare con la sua generosa condotta dei vinti e la "ragion di Stato" del Senato veneziano" (p. 159). Stessa cosa, precisa d’Addio, può dirsi dell’Adelchi come "tragedia del potere", nella quale i protagonisti "sperimentano sino in fondo quanto siano illusorie la sicurezza, la fedeltà, il prestigio, gli onori che il potere sembrava garantire loro" (p. 160).
L’intimo rapporto, la reciproca integrazione esistente tra storia e politica è il criterio conduttore degli scritti Discorso su alcuni punti della storia longobardica e La Rivoluzione francese del 1789. Nel Discorso, Manzoni sostiene che la storia dei rapporti tra i Longobardi e gli italiani sia "il presupposto per intendere la genesi storica delle prime entità politiche italiane, in cui si espressero comuni istituzioni e forme di garanzia giuridica cui parteciparono i detentori del potere e coloro che ne erano soggetti" (p. 168). Il potere ha la funzione di limitare le superiorità "di fatto o naturali" e trova la sua legittimazione nella superiorità del diritto che, secondo Manzoni, riproporrebbe il principio paolino Omnis potestas a Deo. Il cristianesimo, pertanto, diventa il presupposto "per cui la superiorità di diritto acquista nel corso della storia europea, medievale e moderna, un significato forte" e lo Stato costituzionale di diritto è il "risultato di quel processo storico di continuo perfezionamento della società e della sua organizzazione politica promosso e sostenuto dal Cristianesimo" (p. 176). Tanto più la politica si avvicina alla morale tanto più la partecipazione degli individui alla vita politica si allarga. Manzoni, infatti, finisce per giustificare il "sistema della maggioranza" la quale è "entità giuridica" che esiste grazie alle leggi e all’interno delle quali si svolge la dinamica maggioranza-minoranza.
Nel saggio La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, Manzoni, ormai ottantenne, affronta il tema della Rivoluzione francese dopo avere dedicato la sua vita al costante studio della storiografia francese sull’argomento. Gli avvenimenti politici italiani tra il 1859 e il 1862 avevano spinto Manzoni ad affrontare una comparazione con la Rivoluzione francese evidenziando le diverse caratteristiche e spiegando perché in Italia gli eventi avevano fatto nascere un governo e delle istituzioni stabili. In molte altre sue opere l’89 era stato oggetto di richiamo poiché la Rivoluzione francese era da "annoverare tra i grandi avvenimenti storici" (p. 191) per avere promosso l’uguaglianza civile e politica anche se i tentativi di riforme costituzionali avevano finito per produrre un assolutismo più oppressivo di quello dell’ Ancien Régime. E il personaggio simbolo, Maximilien Robespierre, testimoniava - come emerge dal dialogo Dell’Invenzione - l’influenza della filosofia sugli avvenimenti rivoluzionari dal momento che, l’artefice del "Terrore", come aveva osservato Philippe Buchez nella sua monumentale Histoire Parlementaire, era stato il "più coerente interprete della filosofia di Rousseau" (p. 217). In questo scritto, pertanto, la Rivoluzione viene analizzata nella prospettiva filosofico-politica; nel saggio comparativo, invece, la Rivoluzione è un fatto solo politico-ideologico riferito, in particolare, alla instabilità di governo. Qui egli mostra l’interesse di studiare il modo in cui avvenne la "rottura" rivoluzionaria, di comprendere la sua origine ideologica e analizza solo i primi quattro mesi della Rivoluzione, la cui storia – secondo Manzoni - deve considerare "le reali forze politiche, i loro orientamenti e le loro convinzioni, soprattutto la loro "ideologia", e prestare particolare attenzione alle azioni e ai "soggetti" collettivi, il Terzo Stato, l’Assemblea nazionale, i gruppi, le folle, le moltitudini, le masse, che hanno un ruolo spesso determinante nella Rivoluzione: occorre analizzare la genesi e la diffusione delle attese, delle speranze, dei timori e delle paure che si traducono in azione collettiva di pesante pressione, che condiziona o impone le decisioni degli organi ufficiali" (p. 273). Tale analisi conduce lo scrittore milanese a valutare correttamente il comportamento di Luigi XVI e la sua sincera volontà di portare avanti le riforme. Il suo errore, come quello di Necker, fu quello di "confidare nello spirito di moderazione del Terzo Stato" nella convinzione che questo avrebbe svolto il suo mandato secondo le procedure indicate dal decreto di convocazione degli Stati Generali (p. 280).
La Rivoluzione francese aveva fatto emergere le masse popolari come nuovo soggetto politico e, così come Rosmini, Manzoni era stato attento studioso della "ragion pratica delle masse", della psicologia delle "folle". Egli parlava di "falsa coscienza" – che d’Addio fa corrispondere al concetto di ideologia – per definire le convinzioni astratte delle masse, le false idee che non corrispondono alla realtà. E, usando la terminologia rosminiana, poneva anche una distinzione tra gli errori "pratici" delle masse e gli errori "speculativi" degli "acculturati" i quali "conferiscono una "credibile" giustificazione razionale ai convincimenti del popolo e che sono spesso il presupposto dei provvedimenti dell’autorità assunti sotto la pressione popolare" (p. 199). Le "false coscienze" non si manifestano solo in epoche storiche caratterizzate dalla superstizione ma, anche nel mondo moderno, ispirando sia le masse che i colti. All’instabilità di governo prodotta dalla Rivoluzione francese si contrappone la Rivoluzione italiana del 1859 che aveva fatto nascere uno Stato unitario la cui sovranità non si era identificata con il "dominio" o con la sua "potenza" ma si era espressa come "superiorità del diritto, che trova nel principio oggettivo ed universale della giustizia la sua legittimazione" (p. 367).
Con Manzoni politico d’Addio ci presenta un grande pensatore collocato nel filone del liberalismo "giuridico" di ispirazione cristiana, un pensatore fortemente critico delle "false coscienze" e delle ideologie il quale da Machiavelli accoglie il realismo politico convertendolo in moderatismo, quel realismo che lo spinge a rinunziare all’elezione al Parlamento piemontese per il Collegio di Arona, confessando a se stesso di non avere le doti di carattere e di passione richieste dalla politica.
Claudia Giurintano
L’alleanza tra la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista, tra Hitler e Mussolini, conclusa sotto lo slogan propagandistico dell’"Asse Roma Berlino" e ampliata nel maggio del ‘39 come "Patto d’Acciaio", ha contribuito in misura rilevante allo scatenamento della seconda guerra mondiale. E’ opinione assai diffusa in Italia come all’estero che se Mussolini si fosse tenuto estraneo alla guerra, il paese avrebbe beneficiato di una situazione straordinariamente favorevole: oltre ad evitare gli orrori e le distruzioni del conflitto, si sarebbe assicurata un lungo periodo di benessere e di ricchezza. Perché dunque Mussolini giocò così temerariamente la sua posizione personale e la sorte dell’Italia? Tanto più che, conoscendo perfettamente le limitatissime possibilità dell’esercito, sentiva la gravità e il pericolo di una tale avventura, e tanto si dibattè in uno stato di incertezza e contraddizione? Quali dunque le circostanze, i fatti, le ragioni…La risposta per molti è la sua ambizione personale. Vero, ma solo in parte, le ragioni sono anche di altra natura, e limitarsi ad una risposta generica, ad un giudizio sommario, non sarebbe onesto. Ogni indagine storica impone un irrinunciabile rispetto dell’obiettività e della verità, ma la verità storica è spesso solo coerenza soggettiva, perché il passato che si vorrebbe narrare, ricostruire, spiegare e capire, è una trama irripetibile di eventi che stimolano diverse sensibilità culturali e politiche. Non esiste un solo modo di spiegare i fatti del passato, e nemmeno un unico metodo scientifico per trattarli e, soltanto ammettendo questo, si possono onorare quei criteri di obiettività e verità.
Per tentare di giudicare, il più imparzialmente possibile, le decisioni di Mussolini, bisogna innanzi tutto rapportarsi alla situazione dell’Italia d’allora. Dietro tutti i voltafaccia e le improvvisazioni che suscitarono e suscitano l’impressione di un opportunismo senza direzione, si può tuttavia riconoscere un piano d’azione, variabile sicuramente nei singoli obiettivi, ma coerente a lungo termine. Questo piano non si fondava solo sull’arbitrio di un singolo ma, rifletteva profonde aspettative ed aspirazioni della società italiana, connesse con il problema della "nazione in ritardo".
Mussolini non aveva neanche un vero e proprio programma di politica estera. Con certezza però riteneva che l’Italia a Versailles avesse subito dei torti, che la sua vittoria fosse stata "mutilata" e che avesse pertanto il diritto di ottenere una revisione delle condizioni imposte dagli alleati. Lo scopo era dunque quello di riaffermare la dignità italiana nel mondo ed ottenere la perfetta uguaglianza con le altre potenze.
Il suo progetto più ambizioso era quello di consacrare il fascismo alla storia e in quest’ottica è evidente che se un conflitto coloniale, a lui favorevole, era perfettamente concepibile, di certo non lo era un conflitto europeo che non avrebbe avuto né vinti né vincitori. Le mire espansionistiche italiane erano pertanto strettamente connesse ai rapporti con Inghilterra e Francia, per ottenere da questi due paesi compensi territoriali e una risistemazione dei mandati attribuiti nel dopoguerra.
Il Governo Britannico, indebolito economicamente dalla crisi e militarmente dal taglio dei bilanci della difesa, con un’opinione pubblica orientata in direzione nettamente pacifista, ma pronto a difendere con le unghie e con i denti il suo prestigio coloniale, fece un tragico errore di valutazione(1): non sentendosi minacciato direttamente dalle mire espansionistiche di Hitler, pensò invece che una serie di concessioni in Europa orientale avrebbero contribuito a fare da scudo contro il pericolo sovietico; al contrario, qualunque negoziato con l’Italia sarebbe stato recepito come una malcelata affermazione di impotenza su tutto il mediterraneo, avrebbe dato un forte incoraggiamento ai movimenti sovversivi delle colonie e messo in serio pericolo l’influenza britannica(2). Con questa logica per presupposto, si spiega da un lato l’intransigenza dimostrata dal Governo inglese di fronte alla vertenza italo-abissina, e dall’altro l’accondiscendenza e la miopia con cui fu affrontata la politica del nazionalsocialismo. L’accusa rivolta al governo italiano, per aver violato i principi su cui era basata la SdN, era un’ accusa del tutto pretestuosa, dato che nell’ambito del patto societario era ammesso, e vi erano applicazioni pratiche, (basti pensare a Palestina e Siria) che gli stati civili aiutassero stati anche indipendenti ma incapaci a ergersi da se "nelle difficili condizioni del mondo moderno" per un loro più rapido sviluppo sulla via del progresso.(3) Non si evince esplicitamente che sia contraria al patto l’occupazione militare di detti stati e il controllo, talvolta anche severo, sul loro governo e sulla loro amministrazione, tanto che, non era stato considerato contrario allo spirito del Patto il "mandato" imposto anche con la forza delle armi, a popolazioni di un livello ben superiore di civiltà alle popolazioni etiopiche! L’azione Italiana verso l’Etiopia, quindi, non indeboliva il prestigio della Lega, ma piuttosto quello britannico. Così, mentre a Mussolini fu inflitto l’onere e l’onta delle sanzioni, si permise invece a Hitler di crescere e di espandersi, stipulando il 18 giugno 1935, in assoluta malafede, un Patto Navale che fu il primo grande successo della diplomazia tedesca, perché fece ottenere al Furher una rispettabilità che solo gli inglesi potevano concedere(4). E’ la prima grande dimostrazione della miopia, per non dire dell’imbarazzante ingenuità, del governo britannico che praticamente concesse a Hitler di riarmarsi.
L’accordo navale anglo-tedesco, merita di essere considerato sotto vari aspetti sia tecnici che giuridici, i quali suggeriscono considerazioni abbastanza allarmanti sul tragico errore commesso. Non precisando il quantitativo massimo del loro rispettivo tonnellaggio, ma limitandosi a stabilire un rapporto di proporzionalità, tutto ciò che provocava un accrescimento della flotta dell’una (inglese), poteva determinare un accrescimento dell’altra, cosa che poneva i due stati nelle loro future trattative navali, su una linea comune, sia per poter aumentare la loro flotta, sia per resistere contro eventuali aumenti di terze potenze. L’Inghilterra inoltre ammetteva che la Germania costruisse il 45% dei sommergibili posseduti dall’impero britannico, una concessione particolarmente generosa se si considera che fu fatta nella categoria che più di tutte aveva dato del filo da torcere agli alleati durante la Grande Guerra. Il tutto senza tener presente che la flotta tedesca era in pieno sviluppo, dunque modernissima, e così avrebbe acquisito una potenza virtuale superiore alla percentuale stabilita nell’accordo! Inoltre, dato il dislocamento delle forze navali nel mondo, in quel momento, la copertura navale dell’Inghilterra nella Manica e nel Mar del Nord sarebbe corrisposta ad un terzo del suo tonnellaggio globale, il che equivaleva in pratica a stabilire una parità tra il Reich e il Regno Unito.
Dal punto di vista giuridico infine, l’accordo costituiva una modifica dello statuto navale tedesco così come era stato previsto nella parte V del Trattato di Versailles(5).
È evidente come da posizioni come queste scaturirono l’approvazione prima del riarmo e poi del revisionismo tedesco verso l’Austria, la Cecoslovacchia e infine la Polonia.
Mussolini invece guardò da subito la riascesa della Germania e la presa del potere del nazionalsocialismo con un misto di paura e di speranza. Se da un lato infatti, essa rappresentava una terribile minaccia per i confini italiani, dall’altro il Duce si convinse di poter fare da ago della bilancia tra la declinante potenza britannica e l’aggressivo nazionalismo tedesco, realizzando nel gioco degli equilibri contrapposti i maggiori guadagni possibili. La costituzione di un direttorio Europeo ispirato al principio di regolamentazione del revisionismo, più che a quello della sua prevenzione, fu il leit-motiv della sua politica estera: il Patto a Quattro, il Fronte di Stresa, il Gentlmen’s Agreement, gli Accordi di Pasqua e infine l’incontro a Monaco, furono tutti tentativi falliti di creare un blocco euro-mediterraneo per tenere a freno la Germania, di cui l’Italia sarebbe stata il garante.
Nacque da un esame troppo logico degli avvenimenti la convinzione che le democrazie avrebbero avuto bisogno di lui. Ma non fu così. Gli eventi, superarono le sue previsioni. Di fronte alla minacciosa presenza della Germania nell’Europa centrale e al massiccio condizionamento rappresentato dalle importazioni tedesche, specie dopo le sanzioni, la sua attività diplomatica perse gradualmente libertà di manovra. Prima la riluttanza delle potenze europee, più tardi, dopo la guerra di Spagna, la logica della contrapposizione dei blocchi tra fascismo e antifascismo, spingeranno Mussolini a stringere rapporti sempre più stretti col minaccioso vicino tedesco. La prima tappa si verificherà nel ’36, subito dopo il rifiuto britannico di sollecitare sanzioni contro l’occupazione della Renania, Mussolini stipulò l’Asse Roma-Berlino, e l’immediata conseguenza fu l’annessione dell’Austria, quell’ "evento fatale" disse lo stesso Hitler a Mussolini, "che è meglio che si produca con voi che vostro malgrado, o peggio ancora contro di voi"(6). Evento fino a quel momento scongiurato proprio grazie alla prova di forza, unica fino ad allora tra le potenza europee, dimostrata dall’Italia fascista contro la Germania Nazista. Fu la realizzazione del vaticinio del Duce di fronte al fallimento del Fronte di Stresa: "L’Austria è perduta. Presto o tardi la Germania sarà sul Brennero, ai nostri confini e noi, da soli, non potremo impedirlo. Machiavelli scrisse saggiamente che il proprio nemico o lo si uccide o lo si abbraccia. Finiremo col dover abbracciare la Germania"(7). Poi nel ’39, l’allenaza militare, il Patto d’Acciaio. (Subito dopo il patto di mutua assistenza che Inghilterra e Turchia, in deroga agli accordi di Pasqua, avevano stipulato per limitare il peso dell’Italia nel Mediterraneo.) A Mussolini non restava altro da fare se non adoperarsi per riequilibrare le forze. Per porre un limite a Hitler doveva quantomeno costringerlo a muoversi entro linee prevedibili o comunque tali da non porlo senza preavviso davanti a sorprese destabilizzanti. L’Asse era un accordo vago, come lo stesso Mussolini tenne a precisare, nulla nelle relazioni italo-tedesche aveva assunto un valore giuridico, pertanto era impossibile spezzarlo, il Patto d’Acciaio, invece, era un obbligo di consultazione totale, un’alleanza vincolante che, se violata, avrebbe permesso all’Italia di comportarsi di conseguenza. Questa presa di posizione, per Mussolini significò anche far valere davanti ai governi di Londra e Parigi il suo "peso determinate" e, paradossalmente, poteva rappresentare un modo per frenare Hitler(8). Dall’altra parte invce, fallito lo scopo delle sanzioni, e quindi l’illusione che il sistema ginevrino potesse ancora funzionare, la Gran Bretagna, con la Francia a rimorchio, decise che doveva proteggere da sola i suoi interessi e procedette nella sua preparazione militare, dimostrando con fredda determinazione di voler riguadagnare il tempo perduto. Non intendeva più giocare al ruolo dell’"onesto mediatore", sia perché ormai aveva scelto una linea di assoluta intransigenza nei confronti di Italia e Germania, che non ammetteva cedimenti di nessun tipo, sia perché una detente anglo-italiana, al prezzo che chiedeva Mussolini, avrebbe inevitabilmente indebolito il blocco militare e politico anglo-francese e al tempo stesso rafforzato la posizione dell’Italia nel Mediterraneo(9). Tenendo presente questo atteggiamento di Londra, proiettato verso la conservazione della "pax britannica", ora, anche a costo della guerra, si comprende che tutti i tentativi di riavvicinamento all’Italia, ufficiali e ufficiosi, ebbero un valore esclusivamente strumentale per gli inglesi. Benché sull’orlo del precipizio, le visite di Chamberlain e Halifax a Roma e i colloqui avuti con Mussolini e Ciano sono la prova lampante di quanto l’Italia fosse disposta ad addivenire ad un accordo, dimostrandosi accondiscendente su buona parte degli argomenti proposti e quanto invece, il governo britannico rimanesse fermo sulle sue posizioni. Il Duce intese precisare a Chamberlain alcuni punti fondamentali della politica fascista: assicurò di sua sponte di non avere alcuna ambizione territoriale sulla Spagna e che sarebbe stato ben felice di ritirare le sue truppe; non riteneva possibile un disarmo effettivo, ma ammetteva possibile una limitazione degli armamenti prima qualitativa e poi quantitativa, dichiarandosi addirittura disposto a far partecipare anche la Russia ad eventuali accordi in tal senso. Affermò infine che avrebbe accolto in Italia i profughi ebrei provenienti dalla Germania nazista. Dal canto suo Chamberlain non soltanto ignorò nella sostanza il problema dei rapporti italo-francesi dopo il ‘36, ma si limitò a definirli "una pregiudiziale ideologica", dichiarando che non intendeva fare alcuna opera di mediazione; ebbe cura di cambiare argomento quando il Duce, ai sensi del Patto di Pasqua, tentò di dare inizio alla "regolamentazione definitiva delle piccole questioni coloniali ancora in sospeso…". Infine, malgrado voci ricorrenti inducessero a ritenere che Hitler stesse contemplando altri colpi di mano, Chamberlian non nominò la Cecoslovacchia(10). Ancora più inconcludente fu il tête-à-tête di Halifax e Ciano, che si ridusse ad una conversazione sulla guerra di Spagna e sul conseguente inasprimento dei rapporti con il Quay D’Orsay. Non fu neppure sollevato il problema dei rapporti commerciali, che pure avrebbe rivestito una grande importanza per affrancare l’Italia dalle forniture tedesche. Quanto al promemoria che il "canale segreto" aveva consegnato a Chamberlain alla vigilia della sua partenza da Roma (collaborazione balcanica, Malta, collaborazione tecnologica per lo sfruttamento dell’Africa orientale) fu completamente dimenticato. Quegli incontri quindi, si ridussero ad una grandiosa manifestazione pubblicitaria, mentre i problemi restavano tutti sul tappeto(11). Il Governo britannico decise di ignorare qualunque approccio del Duce, anche quello fatto negli ultimi giorni del ’39 quando ormai l’avanzata di Hitler sembrava inesorabile, in cui si dichiarava pronto a considerare l’idea di abbandonare l’Asse e a stipulare un patto di non aggressione con Londra e Parigi. Così come decise di ignorare il documento che Grandi definisce "Incredibile! Un documento destinato a fare la storia"(12), in cui Hitler dichiarava per iscritto agli inglesi: "Io Hitler ho deciso di fare l’estremo tentativo e l’ultima offerta all’Inghilterra […]. Chiedo che sia risolto il problema di Danzica e quello del corridoio […] non domando altro e vivrò in pace con la nazione del popolo tedesco […]. Io Hitler accetto l’Impero Britannico e la sua esistenza e sono pronto a garantirne la conservazione, contro gli interessi e le aspirazioni di quanti volessero attentare alla sua esistenza o diminuirne o ridurne l’efficienza e la potenza" Concludeva: "Sono favorevole ad attuare un piano di limitazione degli armamenti". Il Governo Britannico rispose insistendo sulla pregiudiziale sine-qua-non che qualsiasi soluzione doveva raggiungersi pacificamente e con intese dirette tra Berlino e Varsavia. Dicendo "accetto la tregua purchè l’accetti la Polonia, e alle condizioni che la Polonia proporrà", era ovvio che l’Inghilterra avesse già deciso per la guerra. Lo stesso Duce che aveva consigliato a Hitler di prendere in considerazione il negoziato con l’Inghilterra, di fronte alle richieste polacche disse a Grandi: "Pongono una condizione assurda, io non posso presentarmi a Hitler con una proposta siffatta, che egli strapperebbe all’istante: il ritiro delle truppe tedesche. Un esercito vittorioso può fermarsi, giammai ritirarsi!(13)"
Londra aveva scelto ormai una linea di assoluta intransigenza che non ammetteva cedimenti, aspettava solo il momento per agire. La garanzia incondizionata che Londra e Parigi accordarono alla Polonia impegnandosi a scendere in guerra al suo fianco senza tuttavia poter far nulla per difenderla, che è sempre apparsa come un’azione intempestiva se si considera l’atteggiamento assunto riguardo ai fatti di Praga, risulta invece pienamente comprensibile soltanto se inserita nel quadro di una completa alterazione intervenuta nella politica inglese dopo Monaco: dall’appeasement all’accerchiamento politico e militare della Germania e anche dell’Italia. Solo in questo quadro ha significato quella garanzia assoluta e incondizionata, e anche insensata, perché ormai gli inglesi non potevano più né spingere i polacchi a negoziare con i tedeschi, né a collaborare con i russi. Interpretazione, questa, suffragata dall’esame della documentazione anglo-italiana dalla fine del ’38 al giugno del ’40, oltre che deducibile, sul piano logico, dalle seguenti considerazioni: Londra non chiese la mediazione italiana quando sarebbe stato normale chiederglielo; anzi la rifiutò quando Mussolini la offrì ufficialmente; Londra non espletò alcuna funzione conciliatrice né presso Varsavia né presso Parigi, fino allo scoppio della guerra; Londra infine, non si curò neppure di porre domande precise a Berlino in merito alla questione di Danzica e del corridoio come invece avrebbe dovuto fare. Quel che è certo è che se Hitler invase quel paese è perché Londra e Varsavia si rifiutarono fino alla 99° ora di negoziare una soluzione di compromesso. Semplicemente Londra vide nella questione di Danzica l’occasione propizia per schiacciare la Germania e anche l’Italia, così come documenta puntualmente lo stesso "white paper", il rapporto finale dell’ex ambasciatore inglese a Berlino, secondo cui la Gran Bretagna strumentalizzò l’orgoglio e la paura della Polonia allo scopo di assicurare la distruzione della Germania. L’Inghilterra si assumeva così una grande responsabilità rilasciando ai polacchi una cambiale in bianco. "Oggi gli inglesi sono prigionieri dei polacchi come nel 1914 i russi lo furono dei serbi(14)", commenta Grandi nel suo diario. La Gran Bretagna si considerava sin da quel momento già in guerra con la Germania, e quella garanzia data alla Polonia, altro non era se non un pretesto moralistico con cui giustificava agli occhi dell’opinione pubblica la volontà di guerra.
A Mussolini non restava altro che temporeggiare. Scrisse così al Fuhrer, pronto ormai all’invasione, che sarebbe stato disposto a impegnarsi in una guerra difensiva, ma trattandosi invece di un conflitto provocato da un attacco germanico, sarebbe stata necessaria una fornitura di materiale strategico per far fronte al prevedibile attacco anglo-francese(15). Era l’ancora di salvezza! Mussolini stese di suo pugno una lista di richieste tale che avrebbe avuto del comico se la situazione avesse permesso di ridere! "La lista venne compilata, e non la dimenticherò mai(16)", scrive Anfuso nei suoi diari, contemplò le materie più ricercate e preziose di cui l’Italia è secolarmente priva. "Il solo trasporto e l’immagazzinamento di questi tesori avrebbe richiesto mesi!(17)", oltre al fatto che anche se tali forniture fossero pervenute, l’industria italiana non sarebbe neanche stata in grado di usarle. Il risultato fu quello desiderato. Hitler non era certamente in grado di garantire all’Italia un tale flusso di rifornimenti e così continuò per la sua strada: il 1° settembre del ’39 le divisioni tedesche invasero la Polonia, il 2 Settembre Mussolini, coniando un neologismo, fece annunciare che l’Italia avrebbe assunto la posizione di "non belligeranza(18)". Questa posizione poteva essere intesa nel senso che Mussolini avrebbe potuto mantenersi neutrale fino alla fine della guerra, proponendo a più riprese la sua offerta di mediazione, oppure nel senso che l’Italia si riservava il diritto di scendere in guerra a fianco dei tedeschi o piuttosto a fianco delle democrazie, qualora facessero concessioni concrete e anticipate. A Grandi confidò:"non sono ancora perdute tutte le speranze. Sono tenui come un filo, ma non perdute". […] Del resto i tedeschi si accorgeranno presto del grave errore compiuto. E lo realizzeranno il giorno che i loro sforzi si infrangeranno contro la linea Maginot che è imprendibile. […] i tedeschi ci hanno tradito facendoci trovare di fronte al fatto compiuto della guerra e dell’intesa con la Russia […] tu volevi la denunzia formale dell’alleanza, ma sarebbe stato un errore. Non bisogna dimenticare che vi è una corrente in Germania, che constatando l’impossibilità di sfondare la linea Maginot e del Reno, pensa alla Valle Padana come teatro classico di una guerra con la Francia.(19)". Mettersi apertamente contro Hitler avrebbe significato farlo scendere al Brennero, non era un mistero che fosse una mossa preventivata. Due alti funzionari, non proprio sobri durante un banchetto, avevano riferito che nello "spazio vitale" della Germania figurava l’Alto Adige, Trieste, l’intera Pianura Padana con lo sbocco sul mare Adriatico. Era presente un console italiano e uno dei due che aveva fatto l’inquietante dichiarazione, era il nuovo sindaco di Praga!(20) In effetti Hitler aveva tutte le armate ai valichi est, nord e ovest. Gli bastavano due, al massimo tre ore per scendere su Udine o Verona.
Il Duce propose ancora una volta che le potenze, al tavolo di una conferenza, garantissero l’integrità della Polonia, qualora poi Hitler avesse infranto i patti, l’Italia fascista si sarebbe impegnata ad abbandonare l’Asse e a denunciare l’alleanza con i tedeschi, e questo avrebbe costituito una formidabile leva di pressione per costringere Hitler a desistere dai suoi progetti di guerra. Per quanto sensazionale non c’è motivo di dubitare della serietà degli intenti di Mussolini perché la proposta che avanzò non venne inoltrata dalla diplomazia ufficiale, ma ufficiosamente da Ciano all’ambasciatore Loraine(21).Loraine ignorò completamente le avance di Ciano e non mutò atteggiamento; malgrado lo stesso Quai d’Orsay avesse fatto ormai sapere di essere incline a trattare con Mussolini e fosse convinto che fare concessioni a Roma fosse indispensabile, Londra continuava a sottovalutarne il peso e non cedeva di un millimetro dalle sue posizioni. Nell’ottica di Loraine di "evitare con gli italiani qualunque discussione politica", si ritenne opportuno non comunicare a Roma una proposta francese che prevedeva una permanente collaborazione fra i tre imperi mediterranei dopo la fine della guerra.
Al contrario Hitler era convinto della necessità assoluta di avere l’Italia come alleata, certo militarmente contava poco e non sarebbe stata di grande aiuto ma, l’Italia passata dalla parte del nemico avrebbe significato il ritorno allo schieramento del ’14-18 e al blocco marittimo che aveva piegato la Germania Guglielmina. Mussolini per Hitler era un personaggio chiave e sapeva che doveva accattivarselo. Per dargli un vistoso successo diplomatico, il Fuhrer compì un atto che mai nessun altro capo tedesco aveva compiuto: cedette definitivamente ad uno straniero una provincia del Grande Reich, il Sud Tirolo! Inoltre, si dichiarò pronto a fornire all’Italia un milione di tonnellate di carbone al mese.
E’ un momento terribile per Mussolini. Cercare di capire dove fosse il male minore non era facile!
Il discorso dell’8 Dicembre al Gran Consiglio conferma pienamente le motivazioni dei "dubbi amletici" del Duce: "Se vincesse l’Inghilterra non ci lascerebbe il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, neppure l’aria per respirare.(22)" Ma, via via che il conflitto prendeva vigore, la politica di attesa di Mussolini diventava sempre più difficile e si cominciava a temere la reazione di Hitler, primo perché si trovava in una situazione di inferiorità, e lo sapeva bene, secondo, conosceva i suoi ambiziosi piani. Così, il 5 gennaio ruppe gli indugi e un silenzio durato quattro mesi, scrivendo una lettera a Hitler in cui lo metteva in guardia facendogli notare che stava sbagliando gli obiettivi avventurandosi in occidente, infine si lanciò in una filippica contro la Russia. "Sono profondamente convinto che la Gran Bretagna e la Francia non riusciranno mai a far capitolare la Germania aiutata dall’Italia, ma non è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati senza sacrifici sproporzionati agli obiettivi. Gli Stati Uniti non permetteranno la totale disfatta delle democrazie. […] Vale la pena, ora che avete realizzato la sicurezza dei Vostri confini orientali e creato il Grande Reich, di rischiare tutto, compreso il regime, e di sacrificare il fiore delle generazioni tedesche?(23)"
La risposta fu ritardata a lungo. Hitler preferì attendere che la posizione di Mussolini si facesse più difficile e gli desse quindi meno possibilità di azione. Questo momento giunse ai primi di Marzo: chi poteva immaginare che in pochissimi giorni tutto era già finito? Con Hitler che sfilava sotto l’Arco di Trionfo pronto varcare la Manica?
Il 10 Marzo Ribbentropp consegnò personalmente a Mussolini la risposta del Fuhrer. Hitler, nero su bianco, non invitava Mussolini ad intervenire, gli imponeva un ordine perentorio misto ad oscure minacce. Poneva il Duce davanti ad una alternativa che non concedeva molti spazi: la questione non era capovolgere le alleanze, poiché era certa ormai la vittoria della Germania, ma era quella di scegliere se stare al fianco del vincitore o essere ostile e lontano da esso. "Ho avuto piena comprensione, Duce, per il Vostro atteggiamento e le Vostre decisioni dell’agosto scorso […]. Tuttavia credo che su un punto non ci possa essere dubbio: l’esito di questa guerra decide anche del futuro dell’Italia. Se questo futuro viene considerato nel vostro paese come il perpetuarsi di un’ esistenza di stato europeo di modeste pretese, allora io ho torto. Ma se questo futuro viene considerato alla stregua di una garanzia per l’esistenza del popolo italiano dal punto di vista storico, geopolitico e morale, ossia secondo le esigenze imposte dal diritto di vita del vostro popolo, gli stessi nemici che combattono la Germania vi sono avversari." "Credo", esclamava Hitler con toni profetici e minacciosi, "che la sorte ci costringerà prima o poi, a combattere insieme(24)". Hitler così riduceva lo spazio di scelta di Mussolini: o con la Germania vincitrice, alle condizioni tedesche, o la riduzione ad un ruolo subalterno come "stato europeo di modeste pretese"! Non era più in gioco il futuro imperiale dell’Italia, ma la sua sopravvivenza come stato indipendente. Se la Germania avesse vinto senza l’aiuto italiano, cosa ne sarebbe stato delle rivendicazioni del paese? E cosa sarebbe successo se Hitler avesse voluto far pagare all’Italia il prezzo del tradimento e avesse voluto affacciarsi sul Mediterraneo da Trieste? La situazione era precaria e il Duce lo espresse chiaramente nel "promemoria segretissimo" n. 320 del 31 Marzo 1940: "Se si avvererà la più improbabile delle eventualità, cioè una pace negoziata nei prossimi mesi, l’Italia potrà, malgrado la sua non belligeranza, avere voce in capitolo e non essere esclusa dalle negoziazioni; ma se la guerra continua, credere che l’Italia possa rimanersene estranea fino alla fine è assurdo e impossibile. L’Italia non è accantonata in un angolo dell’Europa come la Spagna, non è semiasiatica come la Russia, non è lontana dai teatri di operazione come il Giappone o gli Stati Uniti, l’Italia è in mezzo ai belligeranti, tanto in guerra, tanto in mare. Anche se cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata con la Germania, guerra che l’Italia sosterebbe da sola […] Esclusa l’ipotesi del voltafaccia, che del resto i franco-inglesi non contemplano, e in questo dimostrano di disprezzarci, rimane l’altra ipotesi, cioè la guerra parallela con la Germania.(25)" Ormai non c’era scelta… "o tutto o niente"(26).
Dal balcone di Piazza Venezia, Mussolini annunciò l’ avvenuta dichiarazione di guerra al popolo italiano:"Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. […] Alcuni lustri della nostra storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti, e alla fine quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue stati. […] L’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa. Ma tutto fu vano(27)". Erano le 18,30 del 10 Giugno 1940.
Molti ritengono che sarebbe stato ragionevole rassegnarsi al destino e trovare a qualunque costo una via d’uscita, una soluzione che avrebbe risparmiato all’Italia lutti e dolori. Ma egli era andato troppo oltre per potersi fermare e, all’ultimo, fu "sua maestà il cannone" che fu invitato a parlare.
Durante l’intervista che Mussolini concesse a Gian Gaetano Gabella, direttore del "Popolo di Alessandria", il 20 Aprile del ’45, affermò, "scotendo la testa come per scacciare un pensiero molesto" che la sua azione non era stata interamente compresa, tanto meno seguita, né dall’Inghilterra né dalla Francia, "Siamo stati i soli a ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania. Mandai le divisioni al Brennero; ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. Impedire alla Germania di rompere l’equilibrio continentale ma nello stesso tempo provvedere alla revisione dei trattati, arrivare ad un aggiustamento generale delle frontiere fatto in modo da soddisfare la Germania nei punti giusti delle sue rivendicazioni e cominciare col restituirle le colonie; ecco quello che avrebbe impedito la guerra. Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. […] Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli uomini, che ho perduto la testa, che non dovevo dichiarare guerra alla Francia e all’Inghilterra. Dicono che mi dovevo ritirare nel ’38. Dicono che non dovevo far questo e non dovevo far quello. Oggi è facile profetizzare il passato […] La Germania aveva vinto. Noi non soltanto non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano, invasi e schiacciati.(28)"
Paola Ardizzone
NOTE
(1) "Dobbiamo considerare altamente degni di biasimo davanti alla storia non soltanto la condotta del Governo Nazionale, ma anche i partiti social-laburista e liberale, entrambi alternativamente entro e fuor dal Governo durante questo fatale periodo. […] il desiderio di popolarità e successo elettorale, l’ignoranza delle cose europee e l’ostilità a quei problemi, il violento ed energico pacifismo, i debiti contratti con gli Stati Uniti: tutto questo costituì un quadro di quella fatuità e di quella debolezza britannica le quali rappresentarono una parte decisiva nello scatenare sul mondo orrori e miserie." W. Churchill, La Seconda Guerra Mondiale, Milano, Arnoldo Mondadori Editore Vol I, 1948, p. 111.
(2) "Se la Francia e l’Inghilterra non esprimono la loro disapprovazione per la condotta italiana, i movimenti sovversivi nelle colonie riceverebbero senza dubbio un forte incoraggiamento da una sua disfatta, mentre una vittoria provocherebbe un malcontento generale tra le razze indigene che potrebbe avere un seguito pericoloso. Questi movimenti potrebbero facilmente estendersi a territori limitrofi sotto l’influenza francese e britannica." Carte del Gabinetto Ministeriale, 1923-1945 Hoare-Laval Attitudine Governo Britannico nella vertenza italo-etiopica.
(3) Patto della Società delle Nazioni, art 22 "sistema dei mandati"
(4) "Io non credo che questo gesto isolato della Gran Bretagna risulterà utile alla causa della pace. Sua immediata conseguenza è che una delle condizioni intimidatorie che mantengono lontana la guerra dall’Europa verrà gradatamente distrutta." W. Churchill, op.cit., Vol I, p.164.
(5) Carte Ministeriali, Affari Politici 1923-1925
(6) F. Anfuso, Roma Berlino Salò, Milano, Castranti, 1950, p.165
(7) Carte Grandi
(8) R. De Felice, Mussolini il Duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, vol II, Torino, Einaudi 1974. M. Toscano, Origini diplomatiche del Patto d’Acciaio Firenze, G.C. Sansoni 1956. R.Quartararo, Roma fra Londra e Berlino Roma, Bonacci, 1980
(9) F. Anfuso, op.cit., R.Quartararo, op. cit.
(10) R. Quartararo, op.cit.
(11) Carte Grandi
(12) F. Anfuso, op.cit. p.142
(13) Carte Grandi
(14) Ufficio di Coordinamento, bobina 14
(15) F. Anfuso, op. cit.
(16) G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano, Mondadori,1990.
(17) Carte Grandi, Note di diario Luglio-Ottobre 1939.
(18) Carte Grandi
(19) R. Quartararo, op.cit.
(20) War Cabinet, Memorandum Loraine
(21) Archivio di Gabinetto, Carte Lancellotti, bobina 14
(22) Archivio di Gabinetto, Ufficio di Coordinamento
(23) Ufficio di coordinamento, carte Lancellotti, bobina 14
(24) Carte del Gabinetto, 1923-1925
(25) F. Anfuso, op.cit. p.100
(26) R. De Felice , Mussolini il Duce, cit.
(27) G.G. Gabella, Ultima intervista 22 Aprile 1945, Il testamento politico di Mussolini Roma, Ed. Tosi, 1948.
Ricognizione storico-architettonica
In una cronaca coeva il teologo e storico Pietro Ranzano(1), dei padri predicatori di S. Domenico, ci ha lasciato una descrizione della città in occasione delle nozze celebrate tra Isabella, sorella del re Enrico di Spagna, e Ferdinando d’Aragona, figlio di Alfonso, nel 1469 sotto la pretura di Pietro Speciale, figlio del defunto viceré Nicolò(2), la cui attività venne encomiata per il particolare impegno di rinnovamento profuso nelle opere pubbliche e, principalmente, nella nuova cinta di difesa: Dà ancora ricapito che la citati si fortifichi continuamenti di mura novi et turri bellissimi et altri necessarii propugnacoli.
Così, il Ranzano: Havi Palermo di circuito circa cincomila passi et è circumdata tutta di bellu latu et altu muro per modo che fa pariri la chitati quasi in forma di quadrangulo; e prosegue, setti erano li soi porti supra et appresso ognuna di li quali erano edificati ampli et altissimi turri che ciaschiduna di loro mostrava forma di inespugnabili castelli.
Per consentire nuovi accessi alla città lo Speciale diede opera affinchè si aprissero le porte urbiche di S. Giorgio e di Termini.
Alla descrizione delle fabbriche per la difesa, fa seguito l’elenco delle opere di decoro urbano che furono portate a termine in quel periodo: Per mia ancora grandi sollicitudine fatiga et industria et inventioni intro spazio di jorni non più di sessanta fu incomenzato et finito quillo bello et ornatissimo plano chi è innanti la porta grandi di la ecclesia preditta di S. Dominico.
La ecclesia di S. Francisco a spisi di certi privati chitatini et ancora di li frati si è multo adornata et fatta bella.
E’ stata facta la ecclesia et lo convento di S. Cita di li quali fu lu primu atturi frati Jacobo de Ansaldo, panormitano, di l’ordini di frati predicaturi, homo in lo so tempo di gran santitati.
Oltre alle architetture di carattere religioso, il Ranzano annovera tra gli edifici civili: Federico Ventimiglia, cavalieri nobili et famosissimo, Gerardo Agliata, Jacopo Chirco, Jacopo Bonanno, Antonio Termini, li quali su clarissimi juris consulti, Luisi Lo Campo, Giovanni Bellachera et multi altri insigni chitatini hanno loro privati casi magnificamente edificato; elogiando, infine, la domus magna dello Speciale, la quali grandimenti ampliao et adornao.
Con riferimento alla casa magnatizia di Pietro Speciale, il 16 novembre 1452 fu presentata istanza alla città per condurre, attraverso un condotto sotterraneo nella platea marmorea, l’acqua che scaturiva dal nuovo fonte nel piano della cattedrale; la presenza dei componenti di questa famiglia a Palermo è attestata da un Antonio che ricoprì la carica di maestro razionale nel 1424 e da Giovan Matteo capitano della città nel 1464.
Sulla concessione delle acque a privati cittadini da parte del Senato della città, sarebbe interessante seguire le vicende, relative alla richiesta di personaggi che occupavano prestigiose cariche pubbliche; tra questi segnaliamo Simone Calvello, giurato civico, cui fu concesso il 30 maggio 1477 di addurre l’acqua dalla precedente fonte per irrigare il giardino, adiacente alla sua abitazione, nell’antica vanella del bagno al Cassaro, l’attuale via Montevergini.
Il 20 febbraio 1464 il fabricator Lorenzo Ginaberto si era allogato per eseguire i lavori nella nuova abitazione dei Calvello; un altro componente della famiglia possedeva, sin dal 1450, un viridarium con una torre rotonda nella contrada aynrumi, cioè la fonte dei cristiani, nel quartiere Seralcadi; la figlia del notaio Manfredi La Muta, Elisabetta, aveva sposato Giovanni Calvello.
Lavori di costruzione nella dimora degli Speciale furono iniziati a partire dal 6 febbraio 1460; i fabricatores Giacomo Bonfante, Simone Fortuna e Manfredi Di Rosa si obbligano per la stipula di un contratto il 25 febbraio 1463 alla presenza di Federico Montaperto.
Il 14 marzo dello stesso anno Pietro Speciale soggiogò al beneficiale della chiesa di S. Michele de Indulcis cinque tarì in uno stabulum che venne demolito, per realizzare la piazzetta antistante la sua abitazione; di lì a poco fu redatto il contratto matrimoniale del figlio Nicola Antonio, cui fu assegnata una dote di 1000 onze, con l’avallo di personaggi di alto rango tra cui il maestro giustiziere Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Adernò, il protonotaro del Regno Gerardo Agliata, il tesoriere generale Antonio Syn, oltre a Giacomo Bonanno, Ferdinando Milana e Filippo Perdicaro.
La vedova di Pietro Speciale (†1474), Eleonora, in mancanza di eredi diretti lasciò i suoi beni al nipote Gaspare Montaperto, figlio di Bartolomeo barone di Raffadali; il 17 dicembre 1495 viene registrato l’inventario patrimoniale.
Nel testamento di Bundo Campo del 10 novembre 1482 venne disposta la sepoltura nella chiesa di S. Francesco; furono nominati eredi il figlioccio Giovannello, figlio di Matteo ed Elisabetta, oltre al figlio di Aloisio Campo, Pietro, sposato con Elisabetta Castellar, vedova di Nicola Antonio Speciale.
Ricordiamo che Aloisio Campo, Pietro Speciale e gli Imperatore avevano preso in enfiteusi il 25 febbraio 1441 da Eulalia Talamanca, moglie di Ubertino La Grua barone di Carini (1397) e di Misilmeri, tutto il territorio di Ficarazzi per impiantare la coltura della canna da zucchero; è significativo l’esempio della torre di Pietro Speciale, iniziata a costruire nel 1468 a difesa del territorio e del trappeto, che subì un processo di trasformazione come residenza di campagna da parte del marchese di S. Ninfa, Aloisio Gerardo Giardina nel 1729.
Altre torri subirono la sorte di essere inglobate nei volumi delle dimore villerecce dell’agro palermitano; disseminate lungo una fascia territoriale che si estendeva dalle campagne bagheresi a levante fino all’estrema periferia occidentale della piana dei Colli e di Sferracavallo.
La concessione per la costruzione della torre di Ficarazzi venne data dal re Alfonso il 13 maggio 1457, nel Castello nuovo a Napoli, in cui era detto: pro se et ad eius perpetuum commodum fundare hedificare costruere et in altum extollere turrim unam sive fortilicium cum vallo sive fossato et aliis fortificationibus eidem domino Petro benevisi et ad sui libitum voluntatis(3).
Un’analoga richiesta era stata presentata il 27 settembre 1456 da Ubertino Imperatore UJD, assieme ai figli Gabriele, Giovanni, Pietro Antonio e Teseo; il 28 marzo 1458 fu riconfermata la concessione del territorio di Ficarazzi a Pietro Campo, figlio di Aloisio, il quale acquisterà da Giliberto La Grua la terra ed il castrum di Vicari il 15 marzo 1463.
Tracce della presenza di antiche dimore turrite si trovano descritte nel Palermo d’Oggigiorno del marchese di Villabianca che l’autore definisce impropriamente torri urbane, tra cui ne cita alcune: Nella casa Rossel che fu dè Minneci presso porta S. Agata (attuale via Rosselli) all’Albergheria si vede una torre che tiene mozzata l’alto suo ordine.
Nella casa di Chirco a S. Francesco li chiovari (attuale palazzo Merlo ) e nella casa Vanni della stessa contrada vi restano torri ritagliate della loro altezza.
Il campanile di Casa Professa fu una torre d’antica origine vi si vede tutt’ora uno stemma e la contrada diceasi del Casalotto (attuale palazzo Cosenza - Marchese ai SS. 40 Martiri).
La torre di casa Termini che ora appartiene ai Duchi di Pietratagliata Marassi è una delle più alte di Palermo ed anche assai antiche (attuale palazzo in via Bandiera).
Nella vanella di Gambacurta alla Kalsa e prima del pappagallo si trova l’antica torre che per essere stata di pertinenza della famiglia Rambao si appella oggi di Rambao.
La piccola torre che si ha nel compreso della casa dè Marchesi della Sambuca all’Alloro Kalsa stimata di prisca origine, (creduta dall’Invegeses la torretta di Maniaci).
Torri della Badia della Pietà, queste due torri servirono di baloardi laterali al Palazzo Abbatelli che divenne per monastero dal titulo sudetto della Pietà quartiere della Kalsa esse sono delle più belle torri di Palermo.
Torre di Cattolica, la torre a cantonera difatti fu della casa Agliata (4).
La torre che sta nel mezzo della casa grande tenuta olim dal Conte di Mussomeli Lanza ed aggregata al presente la detta casa al palazzo Monteleone Terranova, posta nel quartiere della Loggia presso S. Domenico è una delle rispettabili in antichità.
Sulle vicende dell’ abitazione dei Lanza bisogna ricondursi agli eventi accaduti a Palermo nel 1517, nella cosiddetta congiura Squarcialupo, in cui furono bruciati i beni e la dimora del giureconsulto Blasco († 1531) e di altri personaggi vicini al vicerè Pignatelli; il 23 marzo 1528 il Lanza acquistò da Margherita Saladino, figlia di Nicolò, moglie in seconde nozze del notaio Domenico Di Leo (†1522), un tenimento di case con torre per onze 687.15, sito in un’area interposta tra la proprietà della confraternita di S. Caterina L’Olivella e, dalla parte retrostante, con il giardino del convento di S. Domenico.
Questa dimora con torre, oggi distrutta, venne aggregata al palazzo Monteleone che fu di Ettore Pignatelli Aragona, principe di Castelvetrano e duca di Terranova.
Don Salvadore Morso nella Descrizione di Palermo antico, del 1827, segnala un altro palazzo turrito che fu dei Galletti di Fiumesalato, nei pressi del piano della Marina: Un’altra torre esiste ancora al presente quasi tutta demolita dietro il palazzo dei principi di Palagonia attaccata alla casa dei Principi di S. Cataldo.
Una domus con torre nel quartiere del Cassaro è registrata il 13 settembre 1503 tra i beni di Francesco Diana, figlio di Federico pretore di Palermo (1494) e castellano del castello inferiore di Corleone (1474), in cui tra i bona stabilia figura: domum magnam cum turrim diversis membris et stantiis et cum stabulo distantis de familiis per oppositum ipsius domus magne in qua ipse defunctus mortuus fuit sitam et positam in Cassaro Panhormi secus domum que fuit quondam Marii de Paternionis et modo est eius filie uxoris m.ci baronis Partanne.
Della presenza dell’hospicium magnum dei Diana, si ha notizia in un contratto enfiteutico per un tenimento di case, adiacente a quello dell’aromataro Pietro Astarelli, stipulato il 2 dicembre 1483 tra Xibiten Di Benedetto, cubaitarus, ebreo, assieme al genero Abram Sacerdote alias Xufi, ferraro, e Girolamo Lampiso UJD; il 3 settembre 1492 l’immobile fu venduto ad Antonino Coxia.
Giovan Battista Lampiso, figlio di Girolamo, aveva sposato Costanza Speciale, figlia di Giovan Matteo e Bianca Lancia, questa, sorella di quel Guglielmo Raimondo, barone di Ficarra e di Brolo, che gli aveva venduto nel 1490 la baronia di Galati; il 18 febbraio 1503 il Lampiso lascia al figlio la domus magna nel quartiere del Cassaro, per oppositum monasterii S. Caterine.
Lo zio di Guglielmo e Bianca Lancia, Pietro, il 26 luglio 1467 aveva ceduto per 900 onze a Vassallo Speciale il feudo ed il castello di Cassibile; la loro madre era Costanza Moncada, figlia del conte di Adernò.
I ricorrenti legami di sangue, consolidati attraverso i matrimoni tra le famiglie patrizie, servivano ad investire i beni patrimoniali nell’acquisizione di titoli e di possedimenti feudali in qualsiasi parte dell’isola; momento questo di ascesa di un’aristocrazia terriera che si inurbava.
La dimora dei Diana passò ai Lombardo per essere accorpata, assieme alle abitazioni dei Graffeo e dei Lancia, poi dei Ram, al palazzo settecentesco del marchese delle Favare, antistante il piano dei Bologna; il 31 luglio 1533 Pietro Afflitto, marito di Costanza Lancia, per conto di Girolamo, barone di Ficarra, vende a Benedetto Ram il tenimento di case nel Cassaro.
Il barone di Partanna, l’11 maggio 1570, cede per 300 onze la sua proprietà a Pietro Orioles, marito di Costanza Afflitto.
Nella guida del sacerdote Gaspare Palermo viene annotato: Adorna il fondo della piazza l’abitazione del Marchese delle Favare di famiglia Ugo un tempo della famiglia Sortino, che anche appartenne ai Principi di Castiglione di famiglia Gioeni, ai Lombardo, ai Graffeo, alla famiglia Ramo ed a quella dei Filangeri.
Queste dimore patrizie sorgevano sulle vecchie mura del Cassaro, costituendo un continuum edilizio che si snodava lungo la xera di S. Chiara, interrotte dall’apertura della strada di S. Filippo voluta dai PP. Gesuiti di Casa Professa nel 1591, e proseguivano con il palazzo Montaperto - Speciale, Lo Porto - Ventimiglia e con la casa degli Spinola, annessa al monastero delle clarisse.
Dovettero sorgere, nel tempo, gravi inconvenienti se il Senato di Palermo fu costretto ad emanare un bando, il 24 gennaio 1545, per frenare la distruzione delle antiche mura della città: Imperochè su multi persuni che hanno li casi incostu li mura vecchi antichi dilu Cassaro et altri mura di questa chitati et accadi che ditti persuni fanno sdirrupari li ditti casi et mura dila citati et di poi si vindino la petra dili ditti mura dila chitati; un analogo bando risale al 23 dicembre 1480.
Sul prolungamento della strada dei Biscottai, in prossimità della porta di Bosuè, si innalzava la domus dei Garofalo, posta tra l’ospedale dei Fatebenefratelli e l’attuale palazzo dei Federico, come è testimoniato nel contratto di soggiogazione del 3 novembre 1429 tra Antonino Siracusa ed Onorio Garofalo: In domos duas terraneas et coniunctas sitas et positas in predicta urbe in Cassaro in ruga S. Joanne de Riglione secus domum nobilis Henrici Vaccarellis ex una parte meridie et secus domus ipsi Honorii ex parte altera viam publicam et alios confines.
Della torre dei Garofalo, poi Castrone, troviamo delle interessanti indicazioni nel testamento del maestro razionale Nicolò Sottile, messinese, registrato il 3 luglio 1424 agli atti del notaio palermitano Manfredi La Muta, che legò i beni patrimoniali al primogenito Davide, figlio di Desiata Sanguineo, tra cui hospicium magnum in ruga Pisarum ed al secondogenito Olivo, figlio di Costanza Romano, il tenimento di case con un grande giardino, jardinazzu, che si estendeva sino alla contrada del Casalotto, in quo idem testator fecit magna maragma cum cappella; di cui esiste un residuo architettonico nell’ ex chiesa delle Reepentite alla strada dei Divisi(5).
Tra i beni dati a loherio, cioè in affitto, risultava: quadam turrim alta que fuit Honorii Garofalo sita in porta vocata di Busidemi; il canonico Cristoforo Castrone fu chiamato dal Senato cittadino il 12 agosto 1476 ad attestare l’uso della concessione.
Di questo censo si ha una testimonianza nell’inventario dei beni appartenuti a Giacomo Castrone, effettuato il 23 ottobre 1511, in cui è descritta la posizione e consistenza dell’immobile: super domo turrim cortilis et tenimento domorum cum archivolto porte Bosuemi per oppositum ecclesie S. Petri in Vinculis et per oppositum stabuli m.ci d.ni Fabii de Bononia et alios confines; ed in quello di Cristoforo Castrone del 27 gennaio 1551, in cui è annotato: Item la mità dila turri a porta di Busuemi la quali allugano per mesi 7, se ne pagano tarì 12 al beneficiale di S. Dimitri.
Un’altra domus turrita, appartenuta ai Cosenza (Cusenza), era disposta tra gli immobili di proprietà dell’abbazia di S. Maria della Grotta, di cui erano i censuali, e quelli della chiesa dei SS. Quaranta Martiri al Casalotto, al confine con il grande viridarium dei Sottile.
Il primo documento che attesta la presenza di Antonio Cosenza a Palermo risale al 17 novembre 1471, per una soggiogazione di onza 1.6 a Matteo Di Leonardo alias Bevilacqua; anche se non sappiamo molto di questo personaggio che certamente ebbe l’opportunità di affermarsi nell’ambito delle cariche civiche.
In un atto stipulato il 21 gennaio 1483 tra il fabricator Giovanni Cassada ed i rettori della parrocchia di S. Margherita, per la costruzione di una cappella, veniamo a conoscere il modello cui doveva ispirarsi, analoga a quella di Antonio Cosenza nella chiesa di S. Domenico; segno evidente che il nostro personaggio aveva acquisito, già, un certo prestigio nell’ambito cittadino.
Di questo privilegio, concesso nel 1481, ci viene data conferma in un successivo dispositivo testamentario, in cui si legge: Item elegit sepelliri intus capellam dicti testatoris fundatam intus eclesiam S. Dominici sub vocabulo S. Maria di Loreto.
Il 21 gennaio 1496 Antonio Cosenza, assieme al figlio Pietro Antonio, milite regio, soggioga un censo di 10 onze a Simone Aiutamicristo: In et super quodam novo hospitio seu tenimento domorum novarum noviter costructum et hedificatum per ipsos venditores in hac urbe Panhormi in quarterio Albergarie in contrata vocata SS. 40 lu Casalottu secus monasterium seu abbatiam S. Marie de Grupta cum certis aliis domibus veteribus in eo coniuntis secus viam publicam ex parte ante prope dictam ecclesiam di SS. 40 et alios confines; una soggiogazione di 50 onze era stata imposta il 13 giugno 1493 dalla vedova di Raniero Vernagallo(6); una figlia di Antonio, Giulia, era andata in sposa a Mariano Vernagallo (†1519) ed il figlio di questi Ludovico (†1556) sposerà nel 1530 Elisabetta La Grua, figlia di Giovan Vincenzo e Laura Lanza, baroni di Carini.
Nel contratto matrimoniale del 6 marzo 1508, stipulato tra Giovanna, l’altra figlia di Antonio Cosenza, ed Onorio Garofalo fu assegnata una dote patrimoniale di 850 onze, ipotecata sugli immobili della famiglia; tra i beni soggiogati vi era l’hospitio magno, affiancato dalla torre, consistente in corpi di case con il cortile, di cui il genero il 22 aprile 1512 ne reclamava il riscatto.
Riesce difficile, oggi, accertare e definire una configurazione urbana che ha subito nel tempo continue modificazioni dovute ai numerosi eventi sismici ed alle vicende distruttive dell’ultimo conflitto bellico.
E’ stato estremamente complesso avviare un discorso di identificazione e di ricognizione in un contesto storico in cui sono avvenute, in questi ultimi decenni, profonde trasformazioni seguite da processi di abbandono di intere aree da parte degli abitanti che ne costituivano la linfa vitale.
Con un faticoso processo di ricerca a ritroso nel tempo, quindi, si è cercato di dipanare, mediante una attenta documentazione d’archivio, un complesso intreccio di vicende familiari riconducibili agli antichi possessori, attraverso le successioni ereditarie e gli imparentamenti matrimoniali che hanno dato vita al nucleo originario di cui, spesso, ne mostra i segni aristocratici e gli emblemi di appartenenza.
La permanenza dei pisani nell’area di S. Francesco d’Assisi, delimitata perimetralmente dalla strada della Loggia dei mercanti, la medievale ruga Pisarum, ci viene attestata dalla intensità delle attività economiche e dalla permanenza delle antiche famiglie che avevano il loro sodalizio nella confraternita dei disciplinati francescani di S. Nicolò Lo Reale, sin dal XIV secolo.
L’abate di S. Martino delle Scale, Giovanni Procopio, il 7 dicembre 1398, concede ad enfiteusi per onza 1.18 ad Andrea Castrosanguine, ferraro, un tenimento diruto di case solerate nella vanella di Malvalluni, vicino la casa di Antonio De Simone e del nobile Ubertino La Grua.
Il 13 settembre 1463 Federico De Simone dà ad enfiteusi per onze 6.7.10 a Giacomo Chirco UJD un tenimento di case adiacente a quello di Ubertino Imperatore UJD e di Giliberto La Grua, posti di fronte le case di Giovanni Amodeo nella via pubblica che andava verso la porta Polizzi, l’attuale via Merlo; Puccio, Giovanni e Paris Amodeo il 30 marzo 1457 ottengono in cambio della cappella di S. Lucia quella del S. Salvatore a S. Francesco; Paris aveva sposato Caterina Ventimiglia, figlia di Giovanna Crispo.
Nel censimento della città di Palermo del 1480, relativamente al quartiere della Kalsa, tra i fuochi delle famiglie residenti troviamo quelli di Federico Crispo, segreto della città, del fratello Giacomo e di Costanza; oltre, ad Elisabetta Martorell, moglie di Francesco, segretario regio e maestro portalano, di Matteo Campo, Giacomo Chirco, Giovannello Amodeo, Giovanni La Grua, Federico d’Oria e Giovanni Imperatore.
Il 28 novembre 1506 il trapanese Simone Sanclemente possedeva una casa solerata nella vanella di Malvalluni, vicino a quella di Costanza Crispo e di Betta Martorell (testamento del 1499).
Esiste, sicuramente, una continuità tra i modelli tipologici quattrocenteschi, legati agli esempi formali delle domus turrite dei paesi di origine, e quelle che permangono nel tessuto edilizio palermitano; uno studio approfondito meriterebbero l’antica domus dei Sottile in via Divisi, quella dei Bonett, vicino il convento di S. Maria La Misericordia e, infine, la casa con torre dei Termine all’angolo con la via Bandiera(7).
Il 10 aprile 1488 l’intagliatore Andrea Mancino, forse consanguineo dell’omonimo scultore Giuliano, si alloga con il fabricator Nicola Longobardo per onza 1.12 al mese, ad incidendum lapides et marmora, nella casa del mercante catalano Gaspare Bonett alla Guzzetta; il 9 settembre di quell’anno i murifabbri Natale Alessi e Giacomo Scarello si obbligano con mastro Cristoforo Bergamo per costruire la sala grande nella domus del Bonett.
Allo stato attuale non esiste un censimento delle torri e delle case turrite palermitane, accertabile, solo, da una tarda documentazione settecentesca, che, sicuramente, caratterizzavano il profilo urbano dei secoli XV e XVI.
Complessa si è rivelata la ricerca documentaria per conoscere la genesi del palazzo Cattolica, ora Briuccia, nell’area del convento di S. Francesco d’Assisi, adiacente alla casa del pisano Bindo del Tignoso, posta di fronte a quella turrita di Antonino Leale (†1549) e di Pietro Settimo, interposte fra la strada che conduceva al piano della Fiera vecchia e la casa di Vincenzo Caggio UJD, poi, di Simone Setaiolo UJD.
Il 29 maggio 1540 Antonio e Bindo del Tignoso, eredi di Pietro, chiedono la concessione di una cappella nella chiesa di S. Francesco da posizionare tra quella del protonotaro Gerardo Agliata e la porta principale d’ingresso.
Giovanni Filippo Leale, figlio di Antonino, soggioga un censo il 17 gennaio 1578 a Blasi Piazza: super quoddam tenimento magno domorum cum eius turrim in diversis corporibus existens situm et positum in quarterio Yhalcie in strata mastra per quam tenditur versus conventus S. Francisci.
La parallela alla strada mastra di S. Francesco, detta della Correria vecchia o vanella di Bonett e di Sollima, partiva dallo spigolo della domus del mercante catalano sino ad arrivare al palazzo della famiglia Marchese, ad angolo con l’attuale via Calascibetta(8); nodo di intersezione di un antico percorso viario che dalla strada dei Lattarini giungeva all’attuale via Lungarini, dal nome dell’omonimo palazzo del marchese Vincenzo Abbate, fino a sboccare nel piano della Marina.
E’ singolare la presenza della domus turrita, appartenuta a Mariano Agliata (†1487), figlio di Gerardo (†1478), registrata in un documento del 9 agosto 1489 per la concessione d’acqua da parte del pretore della città Federico Diana e dei giurati Pietro Antonio Imperatore, Pietro Bologna, Francesco Sabatteri, Antonio Ventimiglia e Pietro Agliata, allo scopo di irrigare il giardino annesso alla domus magna del maestro portulano che si stava edificando ed il viridarium del regio Steri, a partire dalle sorgenti di Buonriposo, nel giardino di S. Giovanni la Guilla, fino alla cantonera della casa del protonotaro, tramite condotte sotterranee che furono realizzate dal mastro d’acqua Angelo Di Clemente.
Il 22 settembre di quell’anno la città si era accordata con il vicerè de Acuña per condurre l’acqua dalla fontana di Buonriposo sino al piano antistante la chiesa di S. Francesco; il restante tratto doveva essere realizzato a spese della regia Corte.
Nella petizione inviata al Senato civico, il 21 aprile 1505, da Francesco Parisio UJD si contestava la concessione, ai fini edificatori, al mercante catalano Joannotto Xiarrat, perchè avrebbe occupato parte della strada mastra di S. Francesco, limitandone l’ampiezza ed impedendo la vista.
Questo inconveniente non avrà scoraggiato lo Xiarrat dal perseguire il suo obiettivo; infatti, il 22 febbraio del 1508 viene stipulato un contratto con i fabricatores Matteo Crixì e Leonardo Scala per completare la torre, accanto al tenimento di case, secondo precise indicazioni: teneatur facere septem fenestras pisaniscas in totum et facere mergulas gattones cum eorum parapettis et cum omnibus aliis intagliis eo modo et forma pro ut est illam turrim domus quondam m.ci protonotarii senioris que est per oppositum domus ipsius Joannotti.
L’anno precedente gli intagliatori Agostino Bonora, Giovanni Gargano, Giovanni Citrillo e Giovan Battista Palumbo si erano obbligati a fornire la pietra per la pavimentazione dell’ingresso e dell’atrio della casa; il 28 marzo 1509 lo scultore Antonio Vanelli viene incaricato dallo Xiarrat per realizzare una cappella a S. Cita, posta di fronte a quella di S. Vincenzo Ferreri.
Matteo Crixì, fabricator, si alloga il 29 dicembre 1518 con il procuratore di Laura Di Benedetto, vedova di Gerardo Agliata UJD (†1508), per demolire una serie di case adiacenti alla sua abitazione: diruere illam insulam domorum terranearum dicte domine Lauree sitam et positam in quarterio Yhalcie secus tenimentum domorum et turrim ipsius d.ne et secus domum m.ci Nicolai Sollima et per oppositum tenimentum domorum et turrim quondam m.ci Joannotti Xarrat et duas vias publicas.
L’8 febbraio 1544 Giovanna Imperatore, figlia di Pietro, convola a nozze con Mariano Agliata (†1552); la sposa dispone di una dote di 1200 onze e di contro il promesso sposo aveva imposto un’ipoteca: super quodam eius tenimentum domorum magnum cum turrim stantiis et aliis in eo existentibus.
Nell’atto di vendita, stipulato il 16 maggio 1562, tra Giovannella Agliata ed il maestro razionale Giovanni Ortega de Maya, sposato con la vedova del barone di Cerami, viene accertato che a quella data la torre, posta ad angolo con la strada di S. Francesco dei chiuvara, aveva il paramento murario con un bugnato a punta di diamante; forse, una tarda reminiscenza dello Steri pinto a Sciacca o del più famoso palazzo dei diamanti a Ferrara.
Di fronte la casa degli Agliata, verso S. Francesco, vi era quell’altra casa turrita del pisano Giovan Vito Vanni, come risulta dall’inventario ereditario eseguito dalla figlia Vittoria il 18 aprile 1605, la quale sposò nel 1601 Vincenzo Valguarnera, figlio di Annibale, barone di Godrano(9).
Il 23 aprile 1583 il Collegio dei gesuiti emette un sequestro di 80 onze sui beni immobili di Giovan Vito Vanni UJD, possessore della casa di Giovan Filippo Leale († 1582); il 20 giugno 1611 Lucrezia Caggio, figlia di Giacomo e Felice, stipula il contratto matrimoniale con Gaspare Vanni, figlio di Giovan Pietro ed Isabella.
L’atto di compravendita della dimora magnatizia degli Agliata risale al 3 settembre 1573 e fu stipulato tra Vincenza, vedova di Baldassare Mezzavilla, figlia di Mariano e di Giovanna Imperatore, e Beatrice Tagliavia Aragona(10), moglie di Vincenzo Bosco, conte di Vicari, per un importo di 2.200 onze; contemporaneamente, venne acquistata la casa di Tommaso del Tignoso che fu di Tommaso Ballo per 1.158 onze.
Da alcuni documenti inediti viene confermata l’esistenza nel palazzo Cattolica dell’unica torre angolare; anche se in una incisione settecentesca, disegnata dall’architetto del Senato Nicolò Palma, in occasione dell’incoronazione di Carlo III a Palermo nel 1735, è mostrata la facciata dell’edificio affiancata simmetricamente da due torri merlate con basamento a bugne(11).
Questo elemento volumetrico ha contribuito a dare all’edificio una connotazione ben definita nel contesto urbano, mettendo in risalto il carattere austero di antica dimora nobiliare ripreso, forse, dagli esempi diffusi delle grandi magioni quattrocentesche dei mercanti di origine pisana, quali il palazzo del portulano Francesco Abatelli e la domus magna del banchiere Aiutamicristo nella strada grande a porta di Termini.
La casa sul piano della Correria vecchia, laterale al palazzo Cattolica, passerà dai Setaiolo a Giulio Rumbolo, amministratore del principe Francesco Bonanno, portata in dote dalla moglie Caterina Loredano il 9 aprile 1732.
Il palazzo della famiglia Bosco
L’ascesa della famiglia Bosco a Palermo è riconducibile agli inizi del ‘500 con Antonio, marito di Ilaria Aiutamicristo figlia del banchiere pisano, il quale procede all’acquisto dei beni pervenuti nel XVIII secolo a Francesco Bonanno, il moderno costruttore del palazzo palermitano.
Francesco Bosco, alla morte del padre, il 6 settembre 1503 eredita la baronia ed il castello di Baida (Trapani), oltre, ad una rendita vitalizia di 45 onze sulla secrezia di Palermo; sposò Violante Agliata, primogenita di Giacomo ed Antonia La Grua feudatari di Castellammare del Golfo e Calatubo, vicino il territorio di Alcamo.
Francesco ricoprì la carica di luogotenente del maestro giustiziere, lasciatagli dal suocero il 10 ottobre 1542, che esercitò dal 1545 al ’47; fu deputato del Regno negli anni dal 1547 al ’49.
All’avvicendamento delle cariche pubbliche segue l’acquisto dei beni territoriali; la baronia di Vicari(12), fu comprata da Giovanni Schillaci, di cui prese l’investitura il 6 giugno 1534; inoltre, acquisì la baronia di Misilmeri il 25 maggio 1540 da Giuliano e Guglielmo Aiutamicristo, figli di Ranieri, discendenti dalla ricca famiglia del banchiere(13); nel 1544 comprò la baronia di Calatafimi, ultimo possedimento degli Aiutamicristo(14).
Vincenzo Bosco Agliata sposa, il 23 gennaio 1557, Beatrice Tagliavia, figlia di Ferdinando e Giulia Ventimiglia, contessa di Buscemi; alla morte del genitore, avvenuta il 23 maggio 1554, prosegue nell’ascesa delle cariche pubbliche, ricoprendo quella di pretore della città nel triennio 1553/55; nel ’56 fu nominato ambasciatore del Senato alla corte di Filippo, re di Spagna, e nello stesso anno fu investito del titolo di conte di Vicari, oltre, ad occupare il seggio di Deputato del Regno e di maestro giustiziere.
Nel 1549 Vincenzo compra da Antonuzzo Amari il feudo di Risalaimi(15), antico possedimento dei cavalieri teutonici della Magione, che fu rivenduto dal figlio Francesco a Girolama Ferreri, baronessa di Pettineo, per circa 11.000 onze; nel ’65 il conte di Vicari cede a Giovanni Corvino la baronia di Baida.
Francesco Bosco subentra alla morte del padre, secondo le disposizioni testamentarie del 31 luglio 1583, il quale, per l’impulso dato alla costruzione di Misilmeri e per la fama di uomo colto e di lettere, venne sepolto nella matrice di quella terra(16).
Il figlio di Vincenzo aveva sposato nel ’76 Giovanna Velasquez Crispo Villaraut, baronessa di Prizzi(17), proprietaria dei territori di pertinenza dell’abbazia cassinese di Casamari; nel 1587 cede definitivamente la baronia di Baida a Blasco Isfar Coriglies(18), per la cifra di 28.800 onze, ed il 1° settembre dello stesso anno aliena il feudo di Risalaimi e la masseria di Roccabianca, posti al confine con il territorio di Misilmeri.
Non conosciamo i reali motivi di queste alienazioni, forse, dovuti ai gravosi impegni economici derivatigli dalla gestione delle grandi proprietà; nel 1600 vende il feudo di Brucato a Lorenzo Pilo per reperire i capitali necessari all’acquisto del titolo di duca di Misilmeri che gli venne conferito con privilegio regio il 23 novembre di quell’anno.
Anch’egli, come il padre, ricoprì la carica di pretore di Palermo, negli anni 1596/97 e nel 1599; inoltre, fu nominato Vicario generale e Conservatore del Real Patrimonio ed ebbe l’incarico di Stratigoto a Messina, negli anni a cavallo tra la fine del ‘500 ed i primi anni del ‘600.
Donò al figlio Vincenzo il titolo di conte di Vicari, di cui se ne investì il 31 marzo 1601, ed acquisì i titoli ed i beni materni il 24 dicembre 1603.
Vincenzo Bosco Crispo Villaraut, cavaliere del Toson d’oro, Deputato del Regno e Governatore della compagnia della Carità, fu pretore di Palermo nel triennio 1652/54; prese possesso di tutti i beni ereditari e di quelli in dotazione alla moglie Giovanna Isfar Coriglies, pervenuti nel 1616 alla morte del fratello Francesco, duca della Cattolica e barone di Siculiana; Giovanna porta in casa del Bosco il titolo imposto sulla nuova terra di Cattolica(19), cui subentra il figlio Francesco alla sua morte nel 1640.
Il 9 ottobre 1623 la principessa stipula numerosi contratti con le maestranze per eseguire lavori nel palazzo palermitano che furono affidati a Natale Caputo ed Antonino Bommarito; il 29 maggio 1626 il fabricator Andrea Manueli si obbliga per la manifattura della scala in collaborazione con Matteo Baudo e Matteo Pecoraro.
Il marmoraro Francesco Muni, l’8 ottobre 1629, esegue quattro colonne nel baglio e l’anno successivo il fabricator Vincenzo Bacchi è incaricato di completare i lavori.
Alla fine di ottobre del ’36 il maestro d’acqua Giuseppe Ammirata si obbliga con Vincenzo Bosco per eseguire l’impianto idrico da collegare alla giarra nel monastero di S. Caterina al Cassaro.
Nel testamento di Vincenzo, aperto il 16 maggio 1654, troviamo elencati tutti i beni mobili ed immobili lasciati in eredità al figlio, compresa la casa turrita dell’omonimo avo: tenimentum magnum domorum cum eis turrim aqua currente et aliis in eo existentibus situm et positum in hac urbe Panormi et in contrata S. Francisci ubi habitat dictus princeps don Franciscus; oltre, ad una preziosa armeria custodita nella sala della torre, testimonianza dei trascorsi guerreschi della famiglia, ed un attrezzato parco di carrozze che costituivano il vanto del casato(20).
Una di queste carrozze era servita ai familiari del vicerè Fuxardo nel 1647 per sfuggire ai rivoltosi e, quindi, per rifugiarsi nella fortezza del castello a mare di Palermo.
In una relazione dei periti Emanuele Palermo, Michele Patricolo e Giovanni Mirabelli, del 30 giugno 1852, circa la causa di esproprio e di pignorazione del palazzo Cattolica, da parte del Tribunale di Palermo a favore del monastero di S. Chiara, viene riportato un documento che attesta la proprietà concessa dagli Orioles nel 1635(21).
Questa documentazione inedita offre una chiave di lettura originale e precise indicazioni sulla trasformazione della struttura precedente; infatti, il 29 agosto 1635 i Bosco acquisirono da Francesco Orioles una proprietà confinante con il loro palazzo, prospiciente sulla strada di S. Francesco: domum magnam in pluribus corporibus et membris terraneis et soleratis consistentem una cum dimidio denario aquarum fluentium ac viridariolo intus.
Francesco Bosco s’investì del titolo principesco l’8 luglio 1642 e della successiva reinvestitura il 16 settembre 1666 per il passaggio della Corona; sposò in prime nozze Maddalena Bazan, figlia del marchese di S. Croce (Spagna) ed in seconde nozze Tommasa Gomez Sandoval, sorella del vicerè Roderico(22) .
Il 14 dicembre 1669 avviene l’investitura di Giuseppe Bosco Sandoval, alla morte del padre Francesco avvenuta il 5 luglio 1668; sposò Costanza Doria, figlia del duca di Tursis, ed alla sua morte passò in seconde nozze con Maria Anna Gravina, figlia di Girolamo, vedova di Giuseppe Valguarnera(23).
Alla scomparsa di Giuseppe, avvenuta l’8 gennaio 1721, subentrò nell’eredità del Bosco, in mancanza di eredi diretti, il nipote Francesco Bonanno, principe di Roccafiorita, figlio di primo letto di Filippo, principe della Cattolica, e di Rosalia Bosco Sandoval(24).
Il palazzo dei Bonanno
L’atto che attesta la presa di possesso del palazzo Cattolica da parte di Francesco Bonanno risale al 27 luglio 1721, all’ epoca della sua prima pretura a Palermo, e riguarda i lavori di pavimentazione stradale che furono eseguiti dal muratore Onofrio Mulè.
Nell’agosto dello stesso anno viene ricostruito dal muratore Cristoforo Costa un muro divisorio comune, interposto tra il palazzo Cattolica ed il giardino dei PP. Mercedari ai Cartari (adiacente all’ex palazzo di Carlo Ventimiglia),(25); lavori che furono liquidati da Giulio Rumbolo, secondo la stima del perito Giuseppe Carollo.
Il 24 aprile 1722 il Tribunale della Regia Corte nomina Don Filippo Lo Giudice S. J., ingignerius, per valutare gli interventi d’urgenza occorrenti al consolidamento dell’edificio; in una attenta e minuziosa relazione del 25 agosto 1723 vengono elencate le opere di ripristino, affidate a Giuseppe Mazzarella, che ammontarono ad un importo totale di onze 479.20.6.
Dopo circa un anno dal completamento dei lavori al palazzo, il principe Bonanno decise di ampliarlo assegnando la direzione della fabbrica al reverendo Andrea Palma, ingegnere del senato palermitano, e le opere in muratura a Giuseppe Mazzarella, Simone Marvuglia, Giuseppe Cancila, Pietro Pantano e Vincenzo Catania, secondo un contratto stipulato il 2 febbraio 1725.
Alla fine di febbraio dello stesso anno i perriatori Nicola Ingoia, Lucio e Pietro Sammarco e Giacomo Verdone si obbligano per la fornitura della pietra d’Aspra dalle cave di S. Isidoro che doveva servire per le opere d’intaglio e di rivestimento della nuova facciata nel palazzo palermitano.
Una lista di pagamenti viene presentata il 19 febbraio 1726 dai falegnami Nunzio Anito, Antonino Pavera e Francesco Mezzatesta per le opere di carpenteria nel Camerone grande del nuovo quarto, realizzato nel secondo cortile.
La presenza dell’architetto Palma è determinante ai fini della nuova configurazione del magnifico edificio; il 1° gennaio 1726 il principe decide di estendere la nuova facciata sino al confine con la proprietà del marchese Flores, avanzando il fronte principale sulla strada di S. Francesco, e consentire la creazione della loggetta sul piano nobile per formare l’impianto quadrato del primo cortile colonnato, posto fuori asse con l’ingresso dalla strada mastra.
Altri interventi di sistemazione furono apportati sull’ala destra dell’edificio, dopo il terremoto del 1726, che vennero ripresi nel settembre del ’27 e, successivamente, alla morte del Palma nel ‘30.
Il contributo dato dall’architetto trapanese, all’impostazione del nuovo organismo edilizio, assume le caratteristiche di un intervento globale che ha contribuito a cancellare o quanto meno a modificare l’assetto originario; considerato nella logica del nuovo proprietario poco adeguato alla rappresentatività ed al decoro urbano suggeriti dai modelli architettonici contemporanei.
Interventi che hanno portato a valutare, erroneamente, le nuove volumetrie come fatti espressivi di un progetto unitario e non legati alle necessità ed alle esigenze di crescita che la situazione del momento suggeriva.
Il primo documento che attesta i gravi dissesti subiti dalla casa magnatizia, a causa del terremoto del 1° settembre 1726, è relativo al ripristino delle condotte idriche effettuato dal magister aquarum Stefano Cassata.
Un pagamento di onze 6.23.8 fu fatto il 5 ottobre ad Antonino Mazzarella per i lavori urgenti di consolidamento alle camere sotto la torre ed altre onze 15.27.18 servirono per le opere di sostegno del dammuso nell’antica scala; altre onze 20.25.6 furono erogate allo stesso muratore, assieme a Giuseppe Pirrello, per ripari alla facciata nella vanella della Correria che va a Lattarini.
Come nota curiosa riportiamo il pagamento di onze 11.15, allo scultore Giovan Battista Ragusa, per la fattura di una statua marmorea con i suoi ornamenti che doveva raffigurare con ogni probabilità l’illustre personaggio(26).
Tra il 1726 e ’27 furono realizzate altre importanti opere, dirette dall’architetto Andrea Palma, nel nuovo passetto per un ammontare di onze 458.26.16; lavori vennero eseguiti nell’ala destra del palazzo, nel cosiddetto quarto nuovo, cui fu accorpata la casa grande con due botteghe, acquistata dal marchese Flores, per un importo complessivo di onze 1446.19.22.
Altri pagamenti, per la lavorazione delle due fontane nei rispettivi bagli, vengono effettuati a Felice Scocca: per avere allustrato il fonte grande di ciaca di Billiemi e fonte piccolo di pietra rossa di S. Vito(27).
Il 3 settembre 1727 lo stagnataro Sancez Di Grazia si obbliga: per haver fatto tutto il catusato di piombo per la fontana per haver comprato rotola 77 di piombo ed haverlo consignato.
Furono erogate onze 13.16.19 il 22 settembre dello stesso anno: per haver tirato li pilastri della balaustrata da farsi nel nuovo passetto per fare il parapetto di fabrica in detto passetto ed ammadonarlo di madoni di Valenza, fare l’ intuffato in tutto il passetto antico, fare un pezzo di ripidato nella taverna della Corraria, conciare tutti l’imbriciati e canali della casa e pingere la balaustrata del nuovo passetto fatto dentro il palazzo dell’ecc.mo principe della Cattolica.
Alla fine di luglio del ’28 vengono forniti da Antonino Di Falco cantara 88.36 di ferro per il consolidamento strutturale.
Nel 1731 furono ripresi i lavori di restauro al palazzo, nel nuovo dammuso del salone grande, dal falegname Nunzio Anito per una spesa complessiva di onze 144.11; sotto la direzione dell’architetto crocifero Giuseppe Mariani sono portati a termine i lavori nel camerino e nella sagrestia della cappella privata ed, inoltre, per ripidato fatto in latere parte correspondentis in plano olim Corrarie subtus immagine beate Marie Vergine Immacolate Conceptionis; infine viene completato l’ultimo camerone del quarto nuovo.
Alla morte di Andrea Palma, avvenuta nel 1730, seguita da quella del Mariani nel ’31 e di Giacomo Amato nel ’32, il principe della Cattolica affidò il completamento delle opere di restauro e di ampliamento del suo palazzo all’architetto trapanese Nicolò Troisi, concittadino di Francesco Ferrigno, indicato allievo del Palma ed architetto coadiutore assieme a Giovan Battista Cascione (pro ingegnere del senato nel 1724).
Dalle indicazioni fornite dal Meli sugli Architetti del Senato di Palermo, abbiamo notizie complessive sull’attività del Palma, sin dalla nomina ad architetto municipale nel ’17; questo vale anche per il Troisi che viene segnalato da Gaspare Palermo, famoso architetto, autore del cappellone della distrutta chiesa di S. Giacomo La Marina, oltre, ad aver dato un contributo sostanziale al restauro della chiesa di S. Chiara(28).
Non conosciamo i reali motivi per cui Francesco Bonanno incaricò il Troisi al posto di Nicolò Palma, come viene attestato dal pagamento del 6 febbraio 1735 per alcuni lavori e le opere di pittura, eseguite dal Borremans, nel dammuso della nuova anticamera.
Il 6 maggio 1735 viene presentata, dal capomastro della città Salvatore Puglisi, la relazione delle opere di abbellimento della facciata vecchia e nuova ad opera di Cristoforo Mazzarella; la quinta muraria sulla vanella che va a Lattarini, cioè nel piano della Correria, confermerebbe che l’impianto principale dell’edificio era ruotato rispetto all’attuale via Paternostro.
Orazio Firetto, l’ architetto del principe della Cattolica
Dalla scomparsa del principe Francesco(29), avvenuta il 25 dicembre 1739, sino al ’44 non si riscontrano sostanziali interventi nella costruzione dell’edificio; affidati a maestranze, anche se gravitanti nell’ambito delle cariche municipali, per lavori di ordinaria manutenzione.
Nell’ottobre del 1744 Simone Cancila viene incaricato di redigere una relazione per un riparo fatto al copertizzo del cammarone del quarto grande; l’anno successivo lo stesso capo mastro è chiamato per un riparo dello muro che divide il passetto di cucina e per l’ inciacato della strada che andava a Lattarini.
Il 1° maggio 1749 furono registrati i lavori di mastro d’ascia e di muratore, eseguiti da Nunzio Anito, per lo nuovo astraco nella loggetta del cortile sopra la porta del salone.
In una relazione di stima del giugno ’50, per l’esecuzione di alcuni lavori nell’appartamento dell’abate Lucchese, procuratore del principe, vi è apposta la firma di Nicolò Anito, ingegnere regio e della casa di S. E. il sig.r Principe della Cattolica, forse, figlio di mastro Nunzio, e nel ’52 per le opere di Gaetano La Bua.
Il primo documento che attesta la presenza dell’architetto Orazio Firetto alle dipendenze del principe della Cattolica, D. Giuseppe Bonanno Filangeri, porta la data del 10 settembre 1750 e riguarda: Relazione misura e stima delle opere di muratore fatte da mastro Giuseppe Durante nell’opere esteriori delle case intorno il casino dell’Ecc.mo Principe Cattolica alla Bagaria stimate e prezziate da me infr°. architetto di detto Ecc.mo Sig.re e suoi stati con relazione data dal rev.do sac.te D. Felice Lucchese(30).
Sulla personalità e le opere attribuite a questa sconosciuta figura di architetto viene data una breve indicazione in una memoria di Agostino Gallo, il quale lo segnala nel ’46 come autore del grande progetto dell’Albergo generale dei poveri a Palermo, voluto dalla filantropica munificenza di Carlo di Borbone(31).
Le uniche note biografiche, tratte da documenti inediti, riguardano il testamento del padre del Firetto, Domenico, in cui compaiono: la madre Maria, il fratello Giuseppe e le sorelle Rosa e Teresa, sposate rispettivamente con Ciro Gagliano ed Antonino Fugazza, mastro di casa del principe, la cui figlia Maria Anna nel 1773 sposò Nicolò Garofalo.
Il Firetto si occupò, nella sua permanenza a Palermo, della direzione di alcuni cantieri tra cui il primo risalente al 20 settembre 1745, per i lavori nel casino del marchese di S. Maria di Rifesi, D. Placido Zati, a Mezzomonreale; nel ’53 assiste ai lavori del nuovo arsenale nella tonnara di S. Nicola, vicino Trabia, per il ricovero delle barche, che furono eseguiti dal muratore Simone Cancila alias Montaquila.
Il 10 agosto 1755 l’architetto redige la stima dei lavori, realizzati da Giacomo Di Pasquale, nella casa del Principe di Maletto, vicino S. Francesco, e nel ’57 quelli eseguiti nei magazzini del feudo Traversa ad opera di Blasi e Domenico Durante; nel ’60 computa i lavori di Gaetano La Bua nel casino sopra il bastione di porta dei Greci.
Queste maestranze venivano prelevate dal principe della Cattolica in virtù delle importanti cariche civiche occupate e per la vicinanza con la Corte reale; infatti, egli fu nominato ambasciatore straordinario del regno delle Due Sicilie nel ’60 e l’anno precedente era stato insignito del prestigioso titolo di Cavaliere di S. Gennaro, nel ’64 ricevette l’alta onorificenza del Toson d’oro.
Nel giugno del ’65 si celebrano gli sponsali tra Francesco Antonio, figlio di Giuseppe Bonanno, e Caterina Branciforte, figlia primogenita del principe di Butera don Salvatore; nel dicembre dello stesso anno vengono stipulati i capitoli matrimoniali tra la ventunenne Maria Anna Bonanno ed il conte Francesco Requisens, figlio di Giuseppe Antonio, principe di Pantelleria, e di Maddalena Branciforte.
In occasione delle nozze del principe di Roccafiorita il palazzo palermitano subisce una messa a punto generale, come risulta dalle note di pagamento effettuate da Emanuele Bonanno, duca di Misilmeri, procuratore generale del fratello Giuseppe; il 25 gennaio 1765 furono pagate 50 onze a Giuseppe Ferriolo, stucchiatore, e ad onze 180.22 ammontarono alcuni lavori, registrati in una: Nota di travaglio fatto da mastro Gioacchino Incardona intagliatore nel quarto maggiore dell’Ecc.mo Sig.r Principe della Cattolica per servizio di S. E. Sig.r Principino di Roccafiorita.
Vari pagamenti servirono per la manutenzione e l’addobbo delle carrozze; inoltre, si rilevano note di spese per il confezionamento degli abiti da cerimonia; una di onze 106.2.10 per un abito scuro ricamato d’oro ed un’ altra di onze 62.27.10 per un abito blù ricamato d’argento.
Opere di pittura vengono eseguite da Paolo Montalbano e Giuseppe Camilleri; oltre ai lavori di indoratore nel quarto grande da Francesco Licciardi, per la cifra di onze 136. 18.10, per aver posto oro nel dammuso del camerone.
I lavori di restauro furono completati nel marzo del ’76, come si evince in una nota presentata da Giuseppe Di Falco: Relazione del servigio fatto di chiavettiere e di ferro fatto da mastro Giuseppe Di Falco fu per servigio dello quarto della torre nuovamente riformato nel palazzo di S. E. Sig. r Principe della Cattolica e tutto per ordine dell’Ecc.mo Sig. r duca di Misilmeri quale opere sono state stimate ed apprezzate da me sottoscritto architetto di S. E. Sig. r Principe, D. Orazio Furetto.
Il 28 ottobre 1767 viene registrata una spesa di onze 91.12 per la sistemazione di tre grade di ferro, a chiusura degli archi che dividevano il secondo cortile dal giardino retrostante, al confine tra il palazzo del principe della Cattolica e la chiesa dell’Immacolata Concezione ai Cartari; oggi distrutta per far posto alla sede dell’ ex Cassa di Risparmio.
Il 20 aprile 1777 si procedette all’inventario dei beni della principessa Maria Anna, vedova di Francesco Bonanno, deceduta il 12 marzo, e nel maggio del ’78 furono redatte dall’architetto Firetto le relazioni di stima delle opere di sistemazione generale del palazzo che richiesero un considerevole onere economico e furono proseguite sino al 17 luglio 1779(32).
Il 28 novembre di quell’anno muore il principe Giuseppe Bonanno ed il 31 dicembre il figlio Francesco Antonio procede all’apertura del testamento, ereditando i beni ed i possedimenti accumulati nel tempo che si riveleranno inconsistenti a causa del tracollo economico del grande casato, come viene esplicitamente dichiarato nel documento del 7 novembre 1780, redatto da Emanuele Bonanno procuratore del nipote, in cui si dice: avendo passato a miglior vita D. Giuseppe Bonanno Principe della Cattolica suo genitore avrebbe dovuto investirsi delli Stati e terre baronie e feudi ed altri che possedeva il defunto suo Padre infra l’anno che sta per spirare alli 28 novembre 1780 e perché le circostanze della sua casa per la sudetta morte di detto suo genitore hanno accaggionato diverse ingentissime spese a segno tale che non ha possuto fare le spese necessarie per l’investitura che dovrà pigliare come figlio ed immediato successore di detto suo defunto genitore, né meno ha speranza di poterle fare presentemente, perciò ha stimato proprio ricorrere a V. E. affinchè gli accordasse la proroga di altri quattro mesi infra quel tempo penserà raccogliere il denaro necessario per potersi investire delli sudetti feudi volendo il tutto sperare da V. E. lo che riceverà a grazia(33).
Questo in sintesi il complesso quadro delle discendenze familiari, attraverso il quale è stato possibile ricostruire l’iter cronologico, e l’appartenenza di questa magnifica dimora urbana che ha mantenuto nel tempo il nome degli antichi patrizi; il palazzo venne acquistato nel 1854 da Paolo Briuccia, un ricco commerciante, e fu valutato nel 1863 per Lit. 133. 969, come è documentato in un volume del Tribunale di Palermo nella sentenza di aggiudicazione: Innanzi noi Pietro Landolina giudice del Tribunale civile di Palermo Seconda Camera e delegato assistito dal Cancelliere Sig. D. Pietro Orestano è comparso D. Giuseppe Di Marzo patrocinatore delli Sig. D. Giuseppe del Castillo Marchese di S. Onofrio e della Rev. Madre suor Maddalena Papè Abadessa del Ven.le Monastero del S. Salvatore nella qualità di erede delle sorelle suor Emmanuela e suor Rosalia Basilia del Castillo ci ha esposto che dietro giudizio di espropriazione ebbe luogo all’udienza di questo Tribunale seconda camera nel giorno 19 giugno 1854 l’aggiudicazione del palazzo in Palermo espropriato a danno degli eredi del Principe di Cattolica per lo prezzo di onze 10.500 che sono state depositate in banco dall’acquirente Sig. D. Paolo Briuccia(34).
Certamente, possiamo concludere che la storia del palazzo Cattolica passa attraverso la fortuna ed il decadimento di due grandi casati, quello dei Bosco e dei Bonanno, che si sono succeduti nel possesso dell’antica dimora palermitana, posta nel cuore della città medievale, in un’area i cui i processi di crescita e di trasformazione hanno dato vita ad una forma urbana che si è consolidata attraverso un lento processo di crescita e carica di forti valenze espressive(35).
Antonino Palazzolo
NOTE
(1) Pietro Ranzano, Opusculum de auctore, primordiis et progressu felicis urbis Panormi, a cura di Antonino Mongitore, 1737; ristampa nella Raccolta di opuscoli di autori siciliani, vol IX, 1767; tradotto e pubblicato da Gioacchino Di Marzo, Sull’origine e vicende di Palermo e della entrata del Re Alfonso in Napoli, Palermo, 1864.
(2) ASPa. Archivio Trabia S. I, 533, f. 872.
Nicolò Speciale seniore olim vicerè di Sicilia fè il suo ultimo testamento a 7 di dicembre 1443 nel quale istituì herede universale a Pietro Speciale maestro rationale suo figlio procreato con Beatrice sua moglie e che morendo il detto senza figli succedesse Giovanni Matteo suo figlio secondogenito e morendo similmente senza figli succedesse Vassallo tertio genito e che morendo li detti senza figli succedesse il postumo o postuma nascitura da esso testatore e detta sua moglie e morendo senza figli quelli e qualunque morissero senza figli succedesse Eleonora moglie di Blasco Barresi barone di Militello e Isabella moglie di Antonio Pietro Moncada barone di Ferla sue figlie in egual portione e che per eguaglianza della dote di detta Eleonora hebbe la torre fora le mura di Catania e fè fidecommisso nella forma che si vede nel testamento.
Nicolò Speciale aveva acquistato il feudo di Castelluzzo e di Graneri nel 1417, la gabella del pane di Palermo nel 1425 e quella dei caricatori dell’isola nel 1437; cfr. E. I. Mineo, Gli Speciale, Nicola vicerè e l’affermazione politica della famiglia, in ASSO, 1983, pp. 287-371.
Il 18 marzo 1463 viene stipulato il contratto matrimoniale tra Isabella, figlia di Giovanni Castellar alias Parapertusa, barone di Favara, e Nicola Antonio Speciale figlio di Pietro ed Eleonora; Isabella Montaperto, sorella di Eleonora, sposata con Giovanni Crispo, dispone la sepoltura nella cappella degli Speciale a S. Francesco d’Assisi.
Pietro Speciale, alla sua morte nel 1474, lasciò i beni patrimoniali al nipote Giovan Matteo, figlio di Vassallo, milite regio.
(3) Per notizie sulla torre quattrocentesca, cfr. A. Palazzolo, La torre di Pietro Speciale a Ficarazzi, Palermo, 1988; ASPa. Cancelleria 102, a. 1456/57, ff. 88/90; Ibidem, 104, f. 217v; Ibidem, 106, a. 1457/58, ff. 379/396.
I lavori di ampliamento dell’edificio eseguiti da Paolo Corso, nel primo ventennio del XVIII secolo, sono registrati nel volume: ASPa. FND. 7558 VI, f. 17. - 4 settembre 1729: Capitoli fatti da me infr°. Paolo Corso mastro delle fabriche dell’Ill.ma Deputatione del Regno da osservarsi dal Mastro Partitario che prenderà a fare le fabriche in augumento del Casino e Scala alli Ficarazzi possessi dall’Ill.e Sig. Marchese di S. Ninfa.
(4) Villabianca, Palermo d’oggigiorno, sec. XVIII, BCPa. Mss. Qq. E. 91, ff. 365/366.
Cattolica principe Francesco Bonanno e Borromeo, va posto il suo palazzo nella città ossia quarto della Kalsa affaccio la chiesa di S. Francesco Li Chiovara.
Egli è un complesso di più case grandi che un dì vi tennero alcuni nobili antichi; la torre a cantonera di fatti fu della casa Agliata; l’Abbatelli fu padrona d’altra casa, l’Ansalone ve ne tenne un’altra e d’ornamento essendo poi tutte queste in Casa Bosco ne formarono questa gran casa, col nome quindi di Palazzo Bosco volgarmente va egli ad intendersi con tuttochè posseggasi presentemente dalla famiglia Bonanno come erede di quella ed a lei stato accresciuto notabilmente, nobilitò nella gran parte li due grandi atrii colonnati marmorei che in esso surgono, gli danno la maggioranza sopra tutti altri palazzi dè magnati palermitani.
Nel camerone di questo palazzo la pittura a fresco che si ha nella volta della benedizione ai suoi figli del Patriarca Giacobbe è una delle belle opere che qui a noi fu a produrre il virtuoso pittore di Borremans detto il fiamingo.
Così scriveva il Di Marzo Ferro nella Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni; a cura di Gaspare Palermo, 1858, pp. 249-250: Ritornando nella piccola piazza di S. Francesco incontrasi dirimpetto la chiesa la magnifica abitazione, una volta dei Principi della Cattolica di famiglia Bosco e poi in quella di Bonanno, Grandi di Spagna e Pari del Regno.
La torre, che in parte si vede dalla parte meridionale, fu della famiglia Alliata.
I due grandi cortili colonnati con giardino in fondo la rendono singolare fra tutte le altre.
Nella volta del camerone è dipinto a fresco Giacobbe che dà la benedizione ai figli, ed è una delle più belle opere del Borremans, detto il Fiammingo.
Della presenza di opere di pittura e decorazioni interne al palazzo non rimane più alcuna traccia.
(5) Sull’ascesa politica di Nicolò Sottile e sul patrimonio immobiliare a Palermo cfr. P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte splendore e tramonto di una signoria, Caltanissetta - Roma, 2003, pp. 281-286.
(6) Per la storia della domus turrita dei Cosenza - Marchese, cfr. M. C. Ruggeri, Costruire Gerusalemme, Milano 2001; A. Gaeta, Una domus magna del patriziato palermitano del XV secolo, in ASS. XXVII, 2001, pp. 115-170.
(7) Cfr. N. Basile, Palermo Felicissima, vol. III, pp. 116-117.
Il 28 febbraio 1748 fu stipulato un contratto tra il duca di Pietratagliata, Giovanni Battista Marassi, ed il muratore Giuseppe Mangano per i lavori di restauro al palazzo ed alla torre nella strada del Pizzuto , per un importo di 600 onze, che furono stimati dal pro ingegnere della città Giovanni del Frago il 10 marzo 1761.
(8) ASPa. FCRS. S. Francesco d’Assisi, 259. - 9 gennaio 1825: Relatione prudenziale delle opere di muratore falegname ed altro che indispensabilmente bisognano per le riparazioni che occorrono eseguirsi nelle fabriche in comune delle case appartenenti all’Ill.e Sig.a Maria Anna Marchese da una parte e dall’altra parte al Venerabile Convento di S. Francesco d’Assisi di Palermo corrispondenti verso il cortile dè Corrieri verso la piazza Cattolica; i lavori furono eseguiti dall’architetto Giuseppe Guarnera a causa del terremoto del 5 marzo 1823.
(9) Il pisano Giovan Vito Vanni lascia alla sua morte una casa turrita nella contrada di S. Francesco, come è testimoniato dal marchese di Villabianca: Vanni Raffaele, Senatore di Palermo. Havvi la sua casa nel Piano della Correria vecchia e del Palazzo Bosco Cattolica quartiere della Kalsa, la famiglia Vassallo fu antica padrona nel secolo XVI di detta casa.
Questa è una delle case turrite antiche nella nostra città.
Esiste un disegno inedito del Palazzo del sig. cav. Vanni sul piano di Cattolica. ( GRS. Palazzo Abatelli. Armadio III, scaffale I, dis. 1297); i Vanni si imparentano per il matrimonio di Orazio con Alessandra Vassallo; cfr. il testamento di Giovan Vito Vanni in ASPa. FND. 15055, a. 1604/05. - 16 febbraio 1605: Item domum unam magnam in diversis corporibus et membris consistentem cum eius baglio aqua decurrente turrim et aliis juribus et pertinentiis suis universis habitationis dicti quondam sitam et positam in hac urbe Panhormi in quarterio Yhalcie in contrata S. Francisci in cantoneria secus domum Marii Cangialosi in frontespicio domus Hieronimi Sitaiolo ex altera parte in frontispicio domus que olim erat don Francisco de Augustino et Migliazzo viis publicis mediantibus.
Vincenzo Di Giovanni nel Palermo restaurato così descrive l’intorno del palazzo: Tornando alla strada di S. Francesco dalla sinistra vi è la casa di Sollima, baron di Castania, in una piazzetta, e dalla destra la casa dei Vanni con una bellissima torre e poi quella che fu dei Settimo ora di Vassallo, e dalla sinistra segue la casa degli Agliata e poi del conte di Vicari, ora principe di Misilmeri e della Cattolica di casa del Bosco.
Lasciando la casa del duca di Misilmeri, ove è una superbissima torre, che si usava prima in segno di nobiltà, da man destra vi è la chiesa e convento di S. Francesco.
Di man sinistra vi è la casa che fu dei Pompeo, poi di casa Orioles.
(10) ASPa. FCRS. Montevergini, 59: Beatrice Aragona, figlia di Ferdinando Aragona e Giulia Ventimiglia contessa di Buscemi, si casò con Vincenzo del Bosco Conte di Vicari, contratto matrimoniale in Nr. Cataldo Tarsino di Palermo del 23 gennaio 1557; tra i testimoni figurano, Gaetano Cardona, Giovanni Crispo Villaraut, barone di Prizzi, Antonino Platamone, barone di Cutò, Vincenzo Spatafora, Vincenzo Buonaiuto, Pietro Antonio Campo, Andreotta Abbate e Giovanni Guglielmo Buonincontro.
(11) Francesco Maria Emanuele marchese di Villabianca: Palermo d’oggigiorno, (vedi disegno BCPa. Mss. Qq. E. 91/92); cfr. Pietro La Placa, La reggia in trionfo per l’acclamazione e coronazione della SRM di Carlo Infante di Spagna, Palermo, 1736; altri disegni a stampa del palazzo Cattolica, in ordine di tempo, si riscontrano nel volume edito a Parigi nel 1835 da Hittorff- Zanth, in cui gli autori riportano l’attribuzione del progetto al crocifero D. Giacomo Amato, ed una planimetria dell’edificio è stata pubblicata da Giovanni Lo Iacono in, Studi e rilievi di palazzi palermitani dell’età barocca. 1962.
(12) F. Sammartino De Spucches, I feudi ed i titoli nobiliari di Sicilia, Q. 1158, Contea di Vicari.
(13) F. Sammartino De Spucches, op. cit. Q. 591, Duca di Misilmeri.
(14) Giovanni Vincenzo La Grua, barone di Carini, aveva venduto il 1 luglio 1486 la baronia di Misilmeri allo zio Guglielmo Aiutamicristo; Raniero rinunzia il 2 febbraio 1523 la baronia di Calatafimi e di Misilmeri a favore del figlio Guglielmo.
Il 22 settembre 1544 Francesco Bosco, luogotenente regio, acquista per 12.000 onze da Pietro e Vincenzo Aiutamicristo la barona di Calatafimi; il 21 agosto 1549 viene fatto l’inventario dei beni di Pietro Aiutamicristo.
(15) ASPa. Real Commenda della Magione, 21, 31 agosto 1549: Renuncia o sia dimissione fatta da Antonuzzo d’Amari che avea comprato il territorio di Risalaimi a favore di Giovanni Vincenzo Bosco.
(16) ASPa. FND. 6854, a. 1582/83.
(17) F. Sammartino De Spucches, op. cit. Q. 749. Barone di Prizzi.
(18) ASPa. FCRS. Montevergini, 60, f. 71.
(19) Cfr. M. Renda, Genesi e sviluppo di un comune: Cattolica Eraclea, in AA. VV, Città nuove di Sicilia, XV e XIX secolo, Palermo, 1979.
(20) ASPa. FND. 892 II, f. 200. - 5 aprile 1639, Melchiorre Palma si impegna con il principe della Cattolica: fabricare una carrozza nova di bona legname nova stagionata di quello frigio modo forma et qualità quali è quella di D. Gioseppe Giaccon; Ibidem, 823 III. - 20 maggio 1654, inventario dei beni di Vincenzo Bosco: in primis una carrozza di Napoli di villuto negra con bandilori di domasco con fringi et chiova vitriati di cristallo dui para di guarnimenti per quattro cavalli con retine et contra retine con sua balancida ferrata tutti compliti.
(21) ASPa. Corte d’Appello. Perizie, 2013, a. 1853/56; ASPa. Tribunale civile e penale. Perizie, 19, a. 1855.
Il Tribunale civile seconda camera sulle istanze del Dr in Legge sig. D. Giovanni Virzì con sentenza emessa nel giorno 16 agosto 1855 registrata li 23 detto si compiacque nominare me perito D. Francesco Rubbino architetto laureato nelle scienze fisiche matematiche con Diploma in questa Università degli Studi di Palermo sotto li 29 aprile 1843 per verificare l’opere di nuova costruzione fatte eseguire dal detto sig. Virzì nelle case di sua proprietà site in via Cintorinai rimpetto la Venerabile Chiesa di S. Francesco.
L’attuale proprietà si compone di tre corpi a pianterreno e due corpi solerati riedificati sull’antico edificio di stile gotico diruto ed abbandonato per essere stato inabitabile.
Ora per mezzo di un vano d’ingresso con ventaglio di ferro semicircolare sopra che forma entranda delli sudetti corpi si entra in un lungo passetto basolato nel suolo con mattoni di selce ed a sinistra entrando avvi altro vano d’ingresso che per mezzo di un gradino di selce si scende in un corpo a pianterreno, il quale è seguito dall’altro corpo simile con vano di luce nello spiazzo di esso passetto.
(22) ASPa. FND. 19 III, a. 1657/58.
(23) ASPa. Trabia S. I. 187, f. 61. - 3 novembre 1685, matrimonio tra Marianna Gravina e Giuseppe Valguarnera ; Ibidem, f. 384. - 25 ottobre 1735, inventario dei beni di Marianna Gravina, moglie in seconde nozze di Giuseppe Bosco.
Il 1° settembre 1712 la principessa si accinge a costruire il casino a Bagheria nella maniera disposta dal sacerdote T. M. Napoli († 1725); s’inizia quella che verrà chiamata la Villa Valguarnera le cui opere furono completate, a partire dal 1740, dall’arcivescovo di Cefalù D. Domenico Valguarnera († 1751).
(24) ASPa. FND. 6199 VI, f. 662.
Ecc.mo Sig. re D. Francesco del Bosco Principe di Roccafiorita e della Cattolica espone a V. E. che per la morte di D. Giuseppe del Bosco e Sandoval olim Principe della Cattolica suo zio li fu contesa da D. Vincenzo del Bosco Principe di Belvedere la successione alli stati di Misilmeri e Vicari con tutti suoi titoli di Duca e di Conte nec non della casa grande existente in questa città e contrata di S. Francesco d’Assisi e della Correria ed altri beni et jus et ationi per qual motivo fu da V. E. per via del Tribunale della R. C. pigliata la possessione di detti Stati e casa a nome del legittimo successore.
(25) L’11 ottobre 1692 fu venduto con il privilegio Toledo e Maqueda il palazzo di Gaetano Ventimiglia Afflitto, principe di Belmonte e barone di Gratteri, ai PP. Mercedari; stimato per 4.200 onze da D. Paolo Amato ingegnere del Senato e dal capomastro della città Aloisio La Monica; il monastero della Mercede ai Cartari era stato fondato nel 1663 da Tommaso Sanfilippo duca di Grotte.
(26) ASPa. FND. 6202 VI, f. 390. - 22 febbraio 1727; lo scultore G. B. Ragusa si impegna: pro pretio attractus et magisterii opere marmorie fatte et laborate per dictum de Ragusa scultorem in quadam statua marmorea infr.is D. Principis Cattolice et in quibusdam ornamentis positis circum circa dicta statua pro servitio Palatii dicti Ex.mi D. Francisci Bonanno del Bosco Principis Rocce Floride et Catolice.
Sulla figura e le opere dello scultore cfr. G. Salvo Barcellona e M. Pecoraino, Gli scultori del Cassaro, Palermo, 1971.
(27) ASPa. FND. 6202 VI, f. 556. - 23 marzo 1727. Pagamento di onze 9.13 a diversi mastri muratori: Per havere assettato la fontana levato la terra del giardino arrizzato il muro al lato del finestrone della Contatoria e diroccato il muro della fontana antica sotto il detto passetto.
(28) Le notizie inedite sul Troisi mi sono state fornite dal P. Francesco Salvo S. J.: ASPa. Case ex Gesuitiche R. 34, f. 144. - 1 novembre 1723. Pagamento di 2 onze per il disegno del pavimento dell’altare maggiore di Casa Professa; ASPa. Ibidem, f. 146. - 18 gennaio 1724. Lavori di assistenza nella cappella di S. Anna; ASPa. Case ex Gesuitiche D. 6, f. 213. - 27 agosto 1735. Affitto per onze 10 annue di una casa vicino l’Ospedale da parte del Collegio.; ASPa. Case ex Gesuitiche E. I, f. 724. - 30 novembre 1737. Stima dei lavori di restauro di una casa a Ballarò; ASPa. FND. 7575. - 4 novembre 1738. Stima dei lavori nella casa del principe di Ficarazzi, dietro la chiesa degli Agonizzanti a Palermo; ASPa. Case ex Gesuitiche D. 10, f. 488. - 24 gennaio 1747. Il Collegio loca la casa a Ballarò ai figli Giuseppe ed Antonio Troisi; ASPa. Case ex Gesuitiche D. 13, f. 561v. - 15 maggio 1753. D. Giuseppe Troisi è ordinato sacerdote.
(29) Filippo Bonanno († 1706) sposò in prime nozze Rosalia Bosco (dotali 16 ottobre 1672), figlia di Francesco principe della Cattolica e di Tommasa Gomez Sandoval, da cui nacque Francesco; si risposò con Stefania Bosco, figlia di Vincenzo principe di Belvedere e di Eleonora Bologna (dotali 26 novembre 1698); fu insignito da Carlo II del titolo di principe della Cattolica e di Roccafiorita, cfr. Sammartino de Spucches: op. cit. Q. 803, Principe di Roccafiorita; Ibidem, Q. 841, Signore della Salina grande di Trapani. Arma nobiliare dei Bonanno: d’oro, al gatto passante di nero. Francesco Bonanno si imparenta con i Filingeri di S. Marco (Me), avendo sposato Maria Anna, proveniente dal ramo del principe di Mirto, Antonio, e di Giovanna Ventimiglia; i Filingeri di Mirto avevano il palazzo nella via Merlo (cfr. G. Davì: Palazzo Mirto. Palermo, 1985); da non confondere con la casa Bonagia dei duchi di Castel di Mirto in via Alloro.
ASPa. FND. 6214 VI, f. 282. - 7 febbraio 1737; Mastro Antonino Rizzo marmoraro s’impegna con Francesco Bonanno per rifarci quello tumulo sepulcrale di marmo existente nella ven.le chiesa di S. Mattia Novitiato dè PP. Cruciferi di questa città e questo giusta la forma del disegno novamente fatto dal P. Domenico Antonio Barberi prefetto di detta ven.le chiesa e casa di Novitiato; ASPa. FND. 6217 VI, f. 361/380. - 24 dicembre 1739, testamento di Francesco Bonanno.
ASPa. FND. 6231VI, ff. 260/262. -19 novembre 1751; Lorenzo e Francesco Aragona si obbligano: finire e terminare di tutto punto per tutti li 5 del venturo mese di febraro 1752 il tumulo del fu E.S. D. Francesco Bonanno e Bosco olim Principe di Roccafiorita e Cattolica esistente nella ven.le chiesa del Novitiato dei RR. PP. Cruciferi di questa città sotto titolo di S. Mattia a tenore della sua testamentaria dispositione facendogli tutto il rame collocato a suo luogo a tutta perfetione lavorato, polito ed addorato benvisto al ingegnero P. Emanuele Caruso.
(30) I Bonanno acquisiscono la proprietà del convento del Carmine a Bagheria con la concessione del 24 febbraio 1712 di un luogo grande con torre, case, chiesa ed altre officine che era stata donata da Cosimo Lo Giuso nel 1616; il muratore Antonino Mazzarella esegue il 16 luglio 1735 lavori per l’ampliamento del casino a Bagheria, quindi si inizia a costruire la villa Cattolica.
(31) Sulla figura e le opere del Firetto, cfr. A. Gallo, Notizie attorno agli architetti siciliani e agli esteri soggiornanti in Sicilia dà tempi antichi fino al corrente anno 1838. Palermo, 2003, p. 138; L. Sarullo, Dizionario degli artisi siciliani, vol. I. Palermo, 1993, p. 187; R. La Duca, Iconografia dell’albergo generale dei poveri. Palermo, 1983; A. Palazzolo, Il palazzo dei Principi della Cattolica, 1991, (inedito); A. Palazzolo, La Domus artis pannorum ed il Venerabile Monte di Pietà a Palermo, 2005.
(32) ASPa. FND. 11374 VI, a. 1778/79, f. 1154. Relazione misura e stima fatta da me sottoscritto architetto per l’opere di falegname fatte da mastro Diego Carcavecchia nelle camere ove abitava la Micela quale opere sono state fatte per servigio di passare le scritture della Contatoria e le dette camere sono aggregate alla detta Contatoria di S.E. Sig. Principe della Cattolica ed esistente nel palazzo di detto Ecc.mo Signor Principe.
(33) ASPa. FND. 11376 VI, a. 1780/81, f. 232.
L’8 agosto 1785 muore a Palermo l’architetto Orazio Firetto; l’ atto è registrato nella parrocchia di S. Nicolò La Kalsa, (distrutta), vol. 220, f. 26: Oratius Firetto in numerum annorum 75 omnibus sacramentis refectus obiit hodie et sepultus est in ecclesia conventus S. Marie de Monte Sancto.
(34) ASPa. Tribunale civile e penale: Sentenze di aggiudicazioni, 13; Ibidem: Giudizi di graduazioni, 13.
(35) Non essendovi riferimenti bibliografici specifici sull’argomento, si è ritenuto opportuno segnalare alcuni saggi, relativi agli imparentamenti familiari, da cui è stato possibile risalire agli aspetti patrimoniali dei ceti emergenti nel contesto urbano medievale; cfr. F. Lo Piccolo, I disciplinati di S. Nicolò Lo Reale a Palermo, in Bollettino della deputazione di Storia Patria per l’Umbria, XCIX, 2002, pp. 563/597; G. Motta, Strategie familiari e alleanze matrimoniali in Sicilia nell’età di transizione, Firenze, 1983; V. D’Alessandro - M. Granà - M. Scarlata, Famiglie medioevali siculo-catalane, in Medioevo, saggi e rassegne, N°. 4, 1978, pp. 105/126; G. Petralia, Banchieri e famiglie mercantili nel Mediterraneo aragonese. Pisa, 1989; L. Sciascia, Famiglia e potere in Sicilia tra XII e XIV secolo. Messina, 1993; D. Santoro, Strategie familiari del patriziato urbano tra XIV e XV secolo. Caltanissetta - Roma, 2003; S. Carocci, Baroni e città , in Roma nei secoli XIII e XIV, pp. 139-173, 1993; D. Ventura, Per una storia dell’edilizia urbana in Sicilia agli inizi dell’età moderna, in Annali della Facoltà di Economia e Commercio di Catania XXXVI, pp. 257-285, 1990; H. Bresc, Spazio e potere nella Palermo medievale, in Palermo medievale, 1989, pp. 7-18; H. Bresc: Filologia urbana: Palermo dai Normanni agli Aragonesi, in Incontri meridionali, pp. 337-352, 1981; R. La Duca, Norme edilizie nella Palermo del ‘300, in Palermo medievale, 1989, pp. 19-30; C. Trasselli, Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, voll. II, Soveria Mannelli (CZ), 1968; C. Trasselli, Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XV secolo, vol. II, Palermo, 1968; A. Giuffrida, Lu quarteri dilu Cassaru nella prima metà del secolo XV, in MEFRM, 1971, pp. 434-482; G. Spatrisano, Lo Steri di Palermo e l’architettura del ’300, 1972; F. Meli, Matteo Carnilivari e l’architettura del ’400 e ’500 in Palermo, Roma, 1958; I.S.S. : Immagine di Pisa a Palermo, 1983.
Giuseppe Tricoli, nel contesto della sua produzione storica, si occupa degli aspetti peculiari che assunse il fascismo in Sicilia prevalentemente in quattro suoi lavori: Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia del 1983, Il Fascismo e la lotta contro la mafia del 1988, Alfredo Cucco. Un siciliano per la nuova Italia e Mussolini a Palermo nel 1924 del 1993. Non bisogna dimenticare, inoltre, le considerazioni espresse sull’argomento, nella corposa e pregevole prefazione all’opera di Villasevaglios Palermo felicissima.
In tutti i lavori sopraccitati Tricoli sottolinea la particolare posizione della Sicilia di fronte al neonato movimento fascista, considerato dai ceti dominanti dell’Isola come un fenomeno estraneo, geograficamente e politicamente, sbarcato al di qua del Faro per sconvolgere gli equilibri socio-economici esistenti. Tali equilibri, fondati su un’economia agraria, arcaica, latifondista, gestita con metodi parassitari dai ceti aristocratici e dall’emergente borghesia rurale costituita dalla categoria dei gabelloti, contadini arricchitisi alle spalle sia dei proprietari che dei braccianti, fortemente legati alla mafia delle campagne, erano fatalmente subiti dai ceti più deboli incapaci di sollevarsi contro le ingiustizie del potere costituito, e gestiti con soddisfazione dai ceti che su di essi fondavano il loro benessere. L’aristocrazia fondiaria, sempre assenteista e passiva, si accontentava del poco che ricavava dalle gabelle che peraltro, le consentivano di abbandonare le campagne per godersi il lusso della vita cittadina; i gabelloti avevano costruito sull’immobilismo dei ceti dominanti e dell’economia e sulla loro attività d’intermediazione basata sui ricatti, sulla prevaricazione e sullo sfruttamento, le loro inaspettate fortune.
Peraltro, in Sicilia, nell’immediato dopoguerra, era mancata l’esperienza squadrista per due motivi essenziali: in primo luogo nell’Isola non si era prospettata la minaccia bolscevica con la stessa virulenza con cui si era affacciata nel triangolo industriale della pianura italiana. Su un proletariato costituito quasi nella sua totalità da contadini, il modello collettivista sovietico faceva ben poca presa, sia perché l’ignoranza dell’ambiente rendeva difficile che venisse percepito, sia perché la tradizionale tendenza al possesso del ceto contadino e il suo atavico conservatorismo, mal si adattavano ai principi collettivistici.
In secondo luogo, così come era accaduto per tutti i grandi movimenti culturali del passato, il dibattito politico-culturale post-bellico, non era riuscito a penetrare nella particolare realtà siciliana, dominata da un immobilismo difeso ad oltranza dai ceti dominanti che, all’arrivo di mode culturali estranee, rispondevano trincerandosi nell’involucro ormai anacronistico del sicilianismo. I ceti dominanti, ma non dirigenti, perché dediti ad esercitare il loro dominio sulla società, sulla politica e sull’economia, con l’unico scopo di mantenere i privilegi secolari, guardandosi bene dall’agire per lo sviluppo dell’intera collettività, erano costituiti dall’aristocrazia parassitaria del latifondo e dalla mafia che alla prima assicurava protezione, assicurandosi in cambio fette di potere politico ed economico sempre più grandi, a discapito dei reali interessi dell’Isola. La classe dominante avrebbe dovuto puntare su uno sviluppo ed una modernizzazione che invece contrastavano con i programmi di chi sull’immobilismo aveva difeso posizioni immeritate o dall’immobilismo aveva ricavato vantaggi inaspettati.
Ricordiamoci a tal proposito che, nel 1799 i ceti dominanti siciliani, alleandosi con il Borbone detronizzato e con gli inglesi, avevano messo a disposizione la loro Isola affinché divenisse una vera e propria roccaforte contro la penetrazione napoleonica. I baroni erano diventati, allora, determinanti per il mantenimento dell’equilibrio militare nel mediterraneo, ma avevano altresì evitato che la Sicilia si aprisse, come era avvenuto per il resto dell’Europa, al vento di rinnovamento che la Rivoluzione francese aveva suscitato e che le baionette dei soldati napoleonici avevano diffuso. Ciò aveva permesso all’aristocrazia locale di mantenere l’assetto sociale ad essa confacente, favorendo ulteriormente quel "sequestro" della cultura siciliana, da secoli in atto, del quale Giovanni Gentile, già nel 1917, invocava la fine. Infatti la sua tesi su Il Tramonto della cultura siciliana deve intendersi come fine dell’isolamento e confluenza della ricchissima cultura regionale nel grande crogiolo della cultura nazionale italiana.
Un movimento che si diceva rivoluzionario non poteva piacere, quindi, a quei ceti dominanti che lo respingevano, dichiarandolo non solo estraneo alla cultura siciliana, ma non rispondente alle esigenze della popolazione. Il fascismo - sostenevano - era sorto nell’Italia settentrionale come reazione alle minacce bolsceviche, ma in Sicilia il bolscevismo non esisteva, quindi non era necessario importare un movimento che si presentava come restauratore d’equilibri che nell’Isola non erano stati mai minacciati. La classe dominante siciliana era riuscita da sola ad arginare tale pericolo nel critico biennio che era seguito alla fine della guerra, dimostrava, perciò, di non aver bisogno di un movimento politico estraneo alla cultura e alla mentalità siciliana, di cui non comprendeva l’essenza, tant’è che come primo provvedimento il nuovo questore di Palermo aveva ordinato il ritiro del permesso d’armi che colpiva, sì la componente mafiosa e delinquenziale in genere della società siciliana, ma anche l’aristocrazia terriera che, fino a quel momento, aveva provveduto alla difesa personale e dei suoi averi servendosi di guardie armate, quasi sempre reclutate negli ambienti della mala, a cui , grazie al suo prestigio, aveva sempre fatto rilasciare, dalle autorità competenti, il porto d’armi.
Il sicilianismo veniva ancora una volta usato, come era accaduto al tempo dei Vespri, al tempo del Caracciolo, al tempo dei provvedimenti eccezionali voluti dalla Destra storica, al tempo del delitto Notarbartolo e dell’incriminazione del ministro trapanese Nasi, e in tante altre occasioni, come arma contro la modernizzazione e il cambiamento.
Per contrapporsi alla posizione di arroccamento assunta contro il fascismo dai vecchi ceti dominanti, Gentile cercava di far comprendere, soprattutto ai giovani, che il fascismo, al di là della sua riduttiva funzione antibolscevica, era un movimento provvisto di un ampio respiro politico e culturale e di un convinto spirito rinnovatore che sarebbe riuscito finalmente a spazzare " le tarlate carcasse che ingombrano ancora i circoli e le piazze"(1)#. Rilevava in tal modo la forza rivoluzionaria insita nel nuovo movimento sommamente idonea a ripudiare il passatismo provinciale per preparare una società nuova, fatta da uomini nuovi. Era un movimento cioè, che non voleva limitarsi a mutare gli equilibri istituzionali e politici, ma mirava a rieducare le coscienze. I martiri che il fascismo vantava anche in Sicilia, martiri uccisi dai rossi, come Gattuso e Schirò, o da quella mafia lungimirante che aveva in anteprima compreso il pericolo insito nel nuovo movimento, come Mariano De Caro e Domenico Perticone, indicavano ai giovani, che volevano uscire dall’asfissiante immobilismo, la strada da seguire(2)#.#
Mussolini aveva perfettamente compreso che in Sicilia il movimento fascista non si sarebbe imposto con la stessa facilità con cui si era imposto al nord, né avrebbe suscitato analoghi entusiasmi, perciò la sua visita alla regione, annunziata fin dall’indomani della presa del potere, venne rinviata di mese in mese fino alla primavera del 1924, all’indomani delle elezioni generali disciplinate dalla nuova legge Acerbo, che conferiva un premio di maggioranza, pari ai due terzi dei seggi parlamentari al partito o allo schieramento che avesse raggiunto il 25% dei suffragi. La legge si rivelò poi superflua per rafforzare il nascente movimento fascista, poiché le liste ad esso collegate superarono in media il 66% dei suffragi, attestandosi in Sicilia intorno al 70%. Tutto ciò appare come incongruente rispetto a quello che prima si è affermato. Come può un movimento visto come estraneo e non necessario ai bisogni della popolazione ottenere da quella stessa popolazione una percentuale di voti, che oggi chiameremmo "bulgara" addirittura superiore alla media nazionale?
Tutto ciò si spiega facilmente se consideriamo che del listone fascista facevano parte anche i rappresentanti del vecchio partito liberale che in Sicilia gravitava intorno a Vittorio Emanuele Orlando, a cui era stato conferito l’ambito ruolo di capolista e che l’intreccio politico- mafioso isolano, da sempre determinante sui risultati elettorali, era portato ad assecondare le novità vincenti cercando, tuttavia, di assoggettarle alle sue esigenze conservatrici. In altre parole, coloro che votarono per il nascente fascismo, in gran parte lo fecero senza rendersi conto di ciò che facevano, ovvero pensando a scopi che non avrebbero mai ottenuto. Infatti, i ceti dominanti e le loro clientele, si sentirono rassicurati dalla presenza in lista di Vittorio Emanuele Orlando, la cui candidatura era stata voluta dai vertici del PNF, peraltro, non come segnale di continuità con il passato, ma per il retaggio patriottico e combattentistico legato al nome di colui che aveva portato l’Italia alla vittoria nel 1918, strappandola al disfattismo che aveva cercato di sommergerla dopo la sconfitta di Caporetto. Infatti, a differenza di Orlando, Lanza di Scalea, Lanza di Trabia e Di Giorgio, figure emblematiche del patriottismo risorgimentale siciliano o del recente interventismo, altri illustri esponenti della classe dominante siciliana, come Aurelio Drago, non furono inseriti nel listone, malgrado le loro richieste, perché espressione di clientele equivoche e di un passatismo con cui il nuovo partito voleva rompere ogni legame. Chi pensava, dunque, di servirsi del movimento fascista in modo gattopardesco, cioè per lasciare tutto immutato, pur fingendo di adeguarsi alle novità politiche del momento, aveva fatto male i conti. I ceti dominanti siciliani non si rendevano conto di trovarsi, per la prima volta nella storia, di fronte ad un movimento rivoluzionario che, rinnovando in primo luogo le coscienze, mirava, attraverso le stesse, a rinnovare dalle basi la situazione politica esistente. Un movimento che non voleva un seguito di pecoroni e di opportunisti, ma il sostegno di uomini convinti di voler cambiare sé stessi e la realtà circostante tramite l’accettazione di quella rivoluzione ideale di cui il fascismo si faceva portatore.
In verità, nella Sicilia orientale si era registrata una maggiore sensibilità fra i giovani e fra il ceto accademico ed intellettuale, in genere, a recepire i fermenti innovatori, già diffusi dal futurismo e dal nazionalismo, e più fortemente elaborati dal nascente fascismo. Nella provincia di Siracusa, si era affermato un certo fascismo rurale che, ad imitazione di quello che era accaduto in Val Padana, aveva dato luogo ad alcune manifestazioni squadriste. In quella zona e nel ragusano, dove si registrava un notevole sviluppo nella produzione agricola, i piccoli e medi imprenditori agrari si erano scontrati contro i tentativi delle squadre socialiste di occupare le loro terre, peraltro all’avanguardia per le tecniche di coltivazione e di produzione, nell’intera Isola.
A Catania, inoltre, si erano formati dei gruppi di giovani attratti dal nazional-fascismo attorno ad alcuni docenti dell’ateneo locale come Cimbali, i fratelli Condorelli, Zingali, o attorno a giornalisti come Iannelli e Nicastro o nei circoli dominati da giovani intellettuali come Brancati, Anfuso, Villarolel che, su giornaletti più o meno effimeri, cercavano di penetrare al di là del conformismo culturale di derivazione giolittiana e di sconfiggere il torpore della provincia siciliana. Tale clima aveva favorito la nascita in queste province dei primi Fasci, anche se in ritardo di parecchi mesi, rispetto al nord della Penisola. Il movimento fascista catanese inizia la sua attività solo nel marzo 1920, nel giugno successivo nasce il Fascio di combattimento di Ragusa, mentre a novembre dello stesso anno è riferibile la nascita dei fasci nelle altre province dell’Isola(3).#
Nella Sicilia occidentale, regno indiscusso del latifondo e della mafia, la penetrazione delle nuove mode fu più difficoltosa e trovò accoglienza nei circoli intellettuali che facevano capo ad accademici come Francesco Ercole e Alfredo Cucco, peraltro direttore del periodico "La Fiamma Nazionale" che, dopo la fusione tra i Fasci di combattimento e l’Associazione nazionale Italiana, diventerà semplicemente "La Fiamma". A Palermo i tentativi di alcuni giovani attratti dal futurismo e dal dannunzianesimo di costituire un movimento simile a quello milanese di Piazza San Sepolcro, erano miseramente falliti(4)#. La sezione del Partito fascista ivi costituitasi nel novembre del 1921, l’anno dopo contava solo poco più di mille iscritti costituiti, in maggioranza, da studenti, reduci, giovani ufficiali, la cui ansia di rinnovamento in un ambiente intorpidito come quello palermitano aveva poche opportunità di affermarsi. Nel luglio del 1923 si contavano nell’Isola 344 Fasci con 23.031 iscritti(5)#.#
La contrapposizione tra nazionalisti e fascisti aveva consentito il permanere al potere delle vecchie forze clientelari e mafiose.
Nell’aprile del 1923 in seguito all’unificazione tra il partito fascista e il movimento nazionalista, che in Sicilia godeva di maggiore credibilità rispetto al movimento mussoliniano, probabilmente perché il programma troppo radicale di quest’ultimo appariva minaccioso, o perché si trattava pur sempre di un movimento tanto aristocratico ed elitario, quanto rozzo e plebeo era l’altro, si crea, finalmente, un corposo fronte politico capace di rendere credibile l’alternativa rappresentata dal nuovo movimento(6)#.#
Il ritardo della visita di Mussolini in Sicilia si spiega, perciò, sia con l’esigenza di avere un consenso personale che i risultati elettorali sembravano assicurare, sia, soprattutto, con la necessità di preparare i quadri locali del Partito in modo adeguato per evitare che la presenza del Capo del Governo potesse essere strumentalizzata dai vecchi partiti che avevano detenuto il potere, o peggio, essere negativamente condizionata da indesiderati appoggi mafiosi; a tal proposito, i giornali fascisti come "La Fiamma" di Palermo, la "Giovane Sicilia" di Catania, "Il Fascio di Siracusa" e "Il Fascio di Comiso", vigilavano affinché si dedicasse ogni attenzione ad isolare la mafia.
I dubbi del duce e dei suoi più vicini consiglieri erano più che giustificati visto che in Sicilia le manovre trasformistiche erano cominciate già all’indomani della formazione del governo Mussolini. Personaggi che avevano sprezzantemente irriso al nascente movimento, come, per esempio, il succitato Aurelio Drago, erano ormai pronti a salire sul carro del vincitore per mantenere posizioni consolidate e privilegi immeritati, mentre la mafia già allungava i suoi tentacoli per infiltrarsi all’interno del nuovo partito e per svuotarlo della sua carica rivoluzionaria.
Per combattere quella che Storace aveva definito "l’opacità" del fascismo siciliano, malgrado nel primo governo Mussolini fossero presenti ben quattro ministri siciliani (Carnazza, Colonna di Cesarò, Gentile e Corbino), si agì immediatamente con l’invio in Sicilia dei più efficienti funzionari governativi, sostituendo sei dei sette prefetti siciliani(7)##; per evitare, poi, che il giovane movimento cadesse nelle mani di "vecchie camarille" e per formare dei quadri dirigenti locali d’alto livello, nel vertice dei prefetti e dei federali siciliani convocato a Siracusa, nel novembre del 1923, si decise una rigorosa epurazione del partito da ogni infiltrazione moralmente condannabile, inviando in loco il più ardito dei fascisti antemarcia, Piero Bolzon, con l’incarico di Commissario straordinario per la Sicilia. Si può considerare tutto ciò come una vera e propria "questione morale" ante litteram.
Lo scopo era quello di puntare su un reclutamento proveniente non dai vecchi partiti o dagli ambienti mafiosi, bensì dalle aree vergini fino a quel momento estranee alla politica, quindi la piccola borghesia impiegatizia e artigianale, il mondo imprenditoriale fino a quel momento vicino a settori demosociali, il proletariato, sia cittadino che rurale. In tale direzione si muove il processo di sindacalizzazione delle masse piccolo-borghesi siciliane, deciso personalmente da Edmondo Rossoni(8).# Per attirare i suddetti ceti si scelsero delle politiche particolarmente ad essi gradite come per esempio la battaglia contro l’aumento del prezzo del pane e dell’energia elettrica, oltre al provvedimento sulla liberalizzazione degli affitti che favoriva, invero, solo la classe borghese medio-alta.
I vecchi gruppi egemoni locali si resero ben presto conto che il rinnovamento non era semplicemente una parola lanciata a scopo propagandistico, ma era qualcosa di serio di cui il nuovo regime dava già i primi segni, sia con l’avvicendarsi dei funzionari governativi, sia con la proposizione di una questione morale, che sembrava non avere nessuna intenzione di rimanere una sterile e innocua promessa.
A Palermo i giornali portavoce dell’immobilismo politico sociale, come Il "Giornale di Sicilia" e, anche se in toni minori, "L’Ora", assunsero una posizione di vigile attesa di fronte ai programmi di rinnovamento che mostravano una concretezza che intimoriva gli intorpiditi ambienti politici liberal-orlandiani. In altre parti dell’Isola, come a Messina, il vecchio establishment promosse dei veri e propri movimenti di contestazione al nascente fascismo, come nel caso del movimento del "soldino" che, promosso dal parlamentare messinese Lombardo Pellegrino, docente universitario epurato dal prefetto Frigerio, si estese alle altre province dell’Isola, prendendo a simbolo della protesta antifascista, una moneta con l’effige di Vittorio Emanuele III. Secondo il giornale fascista "La Fiamma", si sarebbe trattato di un movimento manovrato dalla massoneria, da sempre invisa al fascismo. Anche i partiti politici esistenti, come la Democrazia Sociale, il Partito Popolare e il socialriformisti, pur se sostenitori del governo Mussolini e in esso presenti con propri rappresentanti, si mobilitarono per fermare il movimento fascista o meglio per spogliarlo della sua carica innovatrice e rivoluzionaria.
Palermo era il capoluogo di provincia siciliano dove il movimento fascista stentava particolarmente ad imporsi; probabilmente per la presenza della parte più consistente dell’aristocrazia latifondista gravitante intorno a Vittorio Emanuele Orlando e al vecchio ambiente liberale e per l’attività di quel nascente ceto imprenditoriale, facente capo ai vari Tagliavia e Florio, che si era fino a quel momento appoggiato alla Democrazia sociale del duca Di Cesarò, ceto che sarebbe stato conquistato dal fascismo sulla base della "[…] comune prospettiva di una politica mediterranea, finalmente attiva e vitale, che era nell’ascendenza della tradizione storica siciliana, animava le speranze dei ceti più intraprendenti dell’economia isolana, gonfiava le vele programmatiche della politica del nuovo governo fascista"(9)#.
La conquista dei ceti imprenditoriali sarebbe avvenuta lentamente, man mano che il fascismo dimostrava di concretizzare i suoi progetti su Palermo capitale del mediterraneo e ponte tra nord e sud, tra est ed ovest. Allora sarebbero stati conquistati al fascismo economisti di punta come Frisella-Vella, imprenditori come Bonci che, nel progettare il nuovo piano regolatore della Grande Palermo, avrebbe puntato tutto sul nuovo bacino portuale che si sarebbe steso fino Capo Mongerbino.
All’inizio, tuttavia, sia la borghesia intellettuale palermitana che i ceti imprenditoriali, guardarono con una certa diffidenza al nuovo fenomeno che sembrava peccare d’insensibilità verso la cultura secolare siciliana, mostrando una volontà di omologare tutto nell’alveo della grande cultura nazionale. A conferma di tutto ciò è il fatto che i voti riportati dal listone fascista nel territorio della provincia palermitana, nelle elezioni del 1924, furono di gran lunga inferiori a quelli ottenuti nelle altre province.
Le cose cambiano soprattutto quando alla testa del nuovo soggetto politico derivato dalla fusione del 1923, si pone un giovane e coraggioso oculista di Castelbuono, il futuro federale Alfredo Cucco, già leader del movimento nazionalista locale.
Espressione di quella borghesia intellettuale che in Sicilia, come nel resto del Paese, vuole approfittare dello sconvolgimento degli assetti sociali preesistenti alla guerra per emergere e rendersi protagonista del rinnovamento della Nazione che il fascismo promuove, Cucco riversò una particolare attenzione alla questione morale, secondo gli ordini impartiti dal Gran Consiglio del fascismo e a tal proposito procedette immediatamente allo scioglimento delle sezioni del PNF di Parco, Cefalù, Cerda e Marineo e poi, in un secondo tempo, di Termini Imerese, Arenella, Caccamo, Roccapalumba e Monreale, cacciando tutti gli iscritti non in regola con il certificato penale o dal passato politico compromettente. Il subdolo insinuarsi della vecchia mafia conservatrice in un movimento che voleva essere rivoluzionario e moralmente innovatore, preoccupava il giovane federale di Palermo che, a proposito di quell’organizzazione delinquenziale tipicamente siciliana, affermava: "[…] Questa piovra immane e molteplice dai tentacoli profondi ed implacabili, ma tenaci ed adunchi, che assieme al vecchio deputato complice e cointeressato tenta di insinuarsi nel campo fascista e sotto la maschera tricolore littoria rifarsi la verginità o l’impunità o una nuova possibilità di vita. È tutto il putridume del passato che tenta la via della propria conservazione ammantandosi delle spoglie fasciste e con turpe, istrionesco mimetismo, improvvisandosi propagatore del verbo nuovo. È contro tutta questa robaccia che il Fascismo e il Nazionalismo, oggi unica forza politica e spirituale, devono combattere e cioè contro tutto ciò che ha corrotto, intristito, intossicato l’Isola nostra, cioè contro la parte fino ad oggi preponderante dell’oscura politica nostrana […]".#(10)
Per rendere ancora più chiara la componente antimafiosa insita nel programma del partito, al vertice fascista siciliano di Siracusa, si era data piena precedenza alla guerra senza quartiere alla mafia, eliminando la quale si sarebbe ottenuto il rafforzamento del fascismo e della presenza dello Stato in Sicilia e quindi si sarebbe potuto passare al programma di rigenerazione delle popolazioni sicule.
La battaglia di Cucco era condotta principalmente contro le infiltrazioni mafiose, ma non solo; egli si batteva anche contro il trasformismo e il gattopardismo dei vecchi partiti e della vecchia classe dominante, badando, inoltre, a tenere a freno anche l’intransigentismo che emergeva all’interno del giovane partito: "In Sicilia - scriveva - questa miniera inesauribile di deputati ascari e di politicanti meschini, in questa plaga, naturalmente generosa e socialmente arretrata, inaridita da tutte le incrostazioni parassitarie di un costume politico obsoleto, piagata da turpi fazioni e afflitta ed avvilita dalle opache "sciarre" municipali, sterile d’ideali e insanabilmente impeciata di vieti personalismi, il Fascismo ha oggi il suo alto compito di rigenerazione. […] Ricordo ancora che è necessario il più rigoroso controllo perché le nostre fila non siano mai inficiate da elementi indegni. L’indirizzo del Fascio deve essere ispirato alla più assoluta intransigenza morale. Saranno prese misure disciplinari per quei segretari politici che avranno trascurato comunque l’opera vigile e spietata d’epurazione e che non si riveleranno capaci di mantenere i gregari moralmente e politicamente in perfetta efficienza"#(11).
Cucco avrebbe pagato amaramente questo suo empito risanatore, coalizzando contro se stesso una serie di forze sociali diverse che non erano tuttavia, se non le componenti del vecchio ceto dominante, desiderose, sbarazzandosi dell’incauto federale, di ripristinare gli equilibri violati. "I vecchi potentati palermitani – ammantati di albagia e di un privilegio di investitura della rappresentanza politica – non potevano tollerare di essere battuti ed emarginati da un radical-borghese di provincia che, interpretando localmente l’ansia dei tempi nuovi del fascismo, poneva la cultura, la professionalità, la competenza, il lavoro, nella nuova gerarchia dei valori politici e sociali!"(12). La vendetta non tardò a manifestarsi da parte di quel vecchio mondo che lottava contro il rinnovamento e la prova ci viene data da in commento di Tina Withaker: "Cucco […] ha mirato troppo in alto ed è stato ridimensionato"(13)#. Apparendo chiaro che Mussolini avrebbe comunque premesso lo Stato al partito, fu organizzata dai potentati locali una vera congiura che mise l’uno di fronte all’altro il federale Cucco e il prefetto Mori. Il regime protesse Mori abbandonando Cucco ad una persecuzione giudiziaria che si sarebbe protratta per anni e che così lo stesso federale avrebbe commentato dopo esserne uscito completamente scagionato: "[…] I processi a serie che, in un primo momento, erano stati fomite di diffamazione, anche attraverso la stampa, tutta ufficiosa, ugulata dai persecutori poi, via via che si erano celebrati, erano stati tutti un trionfo per me. Di circa un centinaio di accuse, la più parte, cioè la più inconsistente, erano cadute in strada, lungo l’istruttoria. Quelle che avevano qualche parvenza di attendibilità erano arrivate al pubblico dibattimento, e tutte, ad una ad una, si erano liquefatte, volatilizzate, rivelatesi inesistenti"#(14).
Tuttavia, la persecuzione giudiziaria e quindi l’emarginazione politica di Cucco determinarono gravi conseguenze sulla storia del fascismo siciliano, sia per il ritardo nella formulazione di una politica di rinnovamento in campo economico e sociale, sia in termini di radicazione e di consenso della stessa ideologia fascista all’interno della società siciliana.
I vertici del partito compresero chiaramente, alla maniera gramsciana, che non si sarebbe attuata la conquista politica della Sicilia senza coinvolgere la classe intellettuale, la cosiddetta intellighenzia. Dopo aver sensibilizzato la classe imprenditoriale, la piccola borghesia e il proletariato, penetrando sindacalmente nei Cantieri navali di Palermo, si fece di tutto per coinvolgere la classe intellettuale nei programmi del partito. Si cercò, innanzitutto, di penetrare nell’ambiente universitario, vera fucina di cultura e di mode culturali, ponendo il prof. Ercole a capo del locale Ateneo e affidando al famoso archeologo Biagio Pace la formazione di un’Università fascista di cultura generale a cui avrebbero aderito i più qualificati accademici siciliani. Cucco ebbe un ruolo fondamentale in tale operazione di "reclutamento culturale"; si deve a lui, infatti, il passaggio al gruppo comunale fascista di sommi intellettuali come Salvatore Riccobono, il prof. Baronia-Roberti, l’avv. Noto Sardegna, la captazione di Francesco Ercole e dei docenti universitari Colomba e Natoli nel gruppo dirigente fascista palermitano. La conquista della classe intellettuale siciliana sembrò coronata dal successo dopo la visita di Mussolini in Sicilia, dopo le enunciazioni programmatiche del duce sul futuro di Palermo e dell’Isola, dopo lo stanziamento di una cifra mai conosciuta dalla regione per la costruzione dell’infrastrutture indispensabili per il suo decollo economico (il 44,84 della spesa statale per opere pubbliche) e, soprattutto, dopo i primi successi riportati dall’operazione Mori contro la mafia. In tal modo il fascismo avrebbe conquistato, innanzitutto gli onesti, ma anche i pavidi, le vittime del sistema mafioso, insomma i milioni di siciliani sopraffatti da poche migliaia di delinquenti.
A tal proposito Tricoli riporta un caso emblematico, quello di un avvocato palermitano, uomo di cultura, pubblicista di spicco, storico, che fin dalle prime battute si era schierato contro il nascente movimento: Pietro Villasevaglios. Cominciata la campagna antimafia di Mori, quando si celebrarono i primi maxi processi con la determinante testimonianza di centinaia di siciliani che avevano, dopo secoli, osato frantumare il muro dell’omertà che da sempre aveva isolato in tutti i sensi la Sicilia dal resto dell’Italia e del mondo, è lo stesso Villasevaglios ad esprimersi entusiasticamente sul nuovo regime: "[…] Bastò la sensazione di uno Stato forte perché le vittime non solo deponessero il vero, ma a voce forte condannassero al cospetto degli stessi tormentatori le loro responsabilità. E così abbiamo assistito a questo spettacolo nuovo e magnifico di vedere oltre le vittime anche più di 200 testi confermare la responsabilità degli imputati". Il Villasevaglios sottolineava altresì, che i risultati dell’operazione Mori avevano dimostrato che l’omertà non era una "specifica tabe organica e psichica", "un’atrofia del senso morale" propria dei siciliani, magari dovuta ad un’inferiorità razziale, ma uno strumento di difesa contro la criminalità dilagante provocata dall’assenza dello Stato: "Ci auguriamo – auspicava l’intellettuale siciliano – che questa bonifica integrale sociale preceda di gran lunga quella agraria, in maniera che la Sicilia possa presto diventare il ponte maestro disteso tra l’Oriente e l’Occidente: il centro più importante della civiltà e del progresso tra i popoli del bacino mediterraneo"(15)#. Questo entusiasmo degli ambienti intellettuali siciliani, anche di quelli che si erano mostrati più riottosi all’avvento di un fenomeno politico giudicato estraneo, si sarebbe ben presto stemperato nella delusione, per diventare poi dissenso, in seguito alla crisi del 1929 che avrebbe impedito al fascismo di realizzare i programmi concepiti per la Sicilia, soprattutto in relazione alla sua proiezione culturale ed economica nel Mediterraneo. La crisi di Wall Street si presenterà in Sicilia con il crollo delle esportazioni di agrumi e di zolfo, con la paralisi dei cantieri navali, con la stagnazione della piccola produzione industriale già in crisi per il tramonto dei Florio.
A questo punto quegli intellettuali che avevano, malgrado la loro diffidenza iniziale, accettato il fascismo per i programmi e le realizzazioni, incominciarono ad essere infastiditi dalla sua invadenza in tutti i settori che, dopo le speranze suscitate dal ’25 al ’28, sembrava ora non apportare alcun benefico cambiamento. La stessa presenza dei gerarchi continentali appariva quasi una contaminazione degli usi, della mentalità e della cultura siciliani. Fu proprio il provvedimento sul trasferimento in continente dei funzionari siciliani, preso da Mussolini, per meglio amalgamare le popolazioni e per consentire alla burocrazia isolana di liberarsi dalle catene che la legavano, indipendentemente dalla sua volontà, agli ambienti mafiosi, a suscitare il risentimento isolano. Insomma il sicilianismo tornava a far capolino in funzione antifascista. Anche gli sventramenti dei vecchi rioni centrali, con la demolizione dei vecchi catoi, per la realizzazione del piano regolatore Giarrusso, furono visti dall’intellettualità palermitana come ferite inguaribili alla storia urbanistica cittadina e al suo passato storico.
Un tentativo di recupero dell’intellighenzia isolana sarà fatto dal fascismo, durante e dopo la seconda visita in Sicilia di Mussolini, nel 1937. In quell’occasione il duce potrà vantarsi dell’avvio di una nuova fase per l’industrializzazione di Palermo, dello studio di apposite leggi per la risoluzione del problema del latifondo, dell’inizio della colonizzazione libica e della ripresa della politica mediterranea, nel cui contesto la Sicilia verrà da lui definita come " centro geografico dell’Impero". A partire dal 1939, allo scopo di sconfiggere per sempre il revival sicilianista che finiva per ingessare l’Isola in un culto del passato che la astraeva da ogni forma d’apertura e di rinnovamento, vennero mandati in Sicilia i membri più prestigiosi della cultura nazionale: Martinetti, Pizzetti, Gentile, Pace, Magliaro, De Marsico, Rossoni, padre Gemelli, allo scopo di celebrare le glorie siciliane da Epicarmo a Verga, da Ciullo d’Alcamo a Rapisardi, Pirandello, Martoglio, Capuana, da Amari a La Masa, fino ad arrivare ai massimi esponenti dell’imprenditoria, quali erano stati i Florio. L’avvento della guerra, di lì a poco, rese inutile il progetto fascista di recupero dell’intellettualità isolana(16).#
Tuttavia, malgrado una politica che fu molto attenta ai bisogni dell’Isola, certo più di quanto lo fosse stata quella dei precedenti governi liberali, anche quando erano presieduti da siciliani come Crispi, Di Rudinì e Orlando, il fascismo rimase lontano, con le dovute eccezioni, dall’immaginario collettivo siciliano; rimase, insomma, sempre un movimento "straniero" anche se aveva tentato di bonificare le terre, di trasformare il latifondo, se aveva investito nell’Isola quantità incredibili di denaro pubblico per la realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche che sono rimaste a testimonianza di tanto impegno, anche se fu l’unico regime della storia d’Italia a combattere seriamente la mafia. I siciliani risposero alle attenzioni fasciste boicottando la campagna di bonifica, cercando di usare Mori anche per vendette private e da parte della vecchia classe dominante, per emergere nuovamente dopo la decapitazione di Cucco, protestando per la mancata realizzazione di alcune promesse della prima ora.
Ciò non toglie, però, che la persona di Mussolini diventasse per le popolazioni siciliane un vero e proprio mito, più di quanto lo era stato sessanta anni prima Garibaldi. La tipica indolenza siciliana fu colpita da questo giovane presidente del Consiglio che nelle sue visite in Sicilia, al contrario di come avevano fatto i suoi predecessori, al volante di una potente automobile sportiva, in treno, a cavallo, o a piedi, aveva testardamente voluto personalmente accertarsi dei reali bisogni delle popolazioni dalla grande città, all’angolo più sperduto del latifondo, per rendersi conto de visu di quali fossero i problemi più urgenti da affrontare e di come fossero inconsistenti le dicerie su una Sicilia naturalmente ferace, ma isterilita dall’ozio e dall’apatia dei suoi abitanti. A differenza di Fortis, che durante la sua visita in Sicilia agli inizi del secolo aveva così risposto alle richieste dei maggiorenti locali "Ma che cosa volete? Avete questo magnifico sole!", Mussolini, nel suo primo discorso ufficiale ai siciliani, dall’alto della Torre Pisana a Palermo, così si era espresso:
Quello che io compio, o palermitani, è in primo luogo un pellegrinaggio di amore. In secondo luogo una ricognizione. Oh, io conosco i vostri antichi e per molto tempo inappagati bisogni, so quello che vi occorre, potrei enumerare i paesi e i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua; non ignoro la desolazione del latifondo; né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara. Ma un conto è leggere, sia pure attraverso i rapporti, un conto è vedere, costatare, scendere in mezzo al popolo, al popolo che è buono, sobrio, tenace, laborioso. Un conto è ascoltare le voci a Roma, un conto è ascoltare le voci che salgono dalla profondità del cuore di un popolo (Acclamazioni entusiastiche).
Direi cosa assurda se affermassi che tutti i problemi che angustiano la vostra Isola bellissima sono stati affrontati e risolti; ma quello che con sicura coscienza vi posso dire è che la sintesi di tutti i vostri problemi è presente nella mia coscienza.
E un’altra cosa voglio aggiungere, questa: ho la volontà di risolverli e li risolverò (Il popolo prorompe in un’entusiastica prolungata ovazione).
Qualcosa si è fatto, ma molto ancora resta da fare.
Per fortuna a quella che io vorrei chiamare la coscienza del dovere e della responsabilità di governo, si aggiunge oggi l’assillo delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi e soprattutto voi che dovete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile, i problemi della vostra Isola, in modo che da problemi regionali, appaiano, in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali.#(17).
In quest’ultima frase ci sono due esortazioni di fondamentale importanza: la prima è rivolta ai siciliani perché rompano le catene del torpore e agiscano per rivendicare adeguatamente i loro diritti; la seconda è un’esortazione rivolta a tutti gli italiani che avrebbero dovuto, prima o poi, convincersi, dall’uomo della strada a quello di governo, che l’arretratezza del sud non poteva essere un problema riguardante solo le regioni meridionali, ma era un problema nazionale, perché se il sud non si fosse adeguato all’andatura del nord, l’Italia fatalmente sarebbe rimasta sempre un Paese destinato ad avanzare a velocità diverse, facendo una fatica immane per raggiungere risultati che non sarebbero mai state paragonabili a quelli delle più grandi potenze europee.
Non solo, quindi, Mussolini prospettava la questione siciliana come questione nazionale, ma la inquadrava in una prospettiva mediterranea, collegata ad una maggiore attenzione della politica estera italiana al Vicino Oriente e all’Africa settentrionale, trovando i principali strumenti di risoluzione della stessa nel potenziamento dei porti e dell’attività marinara, degli aeroporti e dei settori economici e industriali ad essi collaterali: cantieri navali, industria aeronautica, ecc..
I vecchi ceti dominanti, malgrado l’impegno di Cucco e della nuova classe dirigente fascista, cercarono di monopolizzare la visita di Mussolini del 1924, per far comprendere al nuovo capo dell’Italia, che in Sicilia sarebbero sempre rimasti loro a comandare. Furono i nobili palermitani ad aggiudicarsi la maggior parte del tempo del duce, o scortandolo con le proprie macchine, o conducendolo nei loro feudi o costringendolo a innumerevoli visite e pranzi presso opere benefiche, da loro presiedute o presso antiche dimore patrizie di loro proprietà, mentre la mafia, nella persona dell’ineffabile(18) sindaco di Piana degli Albanesi Cuccia, e non solo, che di lì a qualche mese avrebbe sperimentato l’amara vita delle carceri regie, intendeva far capire all’illustre personaggio chi veramente comandasse in Sicilia, dove perciò era superfluo l’imponente schieramento di forza pubblica che scortava il capo del governo.
La lotta alla mafia fu senza dubbio il maggior successo riportato dal fascismo in Sicilia e l’impresa che ne accrebbe il seguito popolare. Anche oggi si sente dire nei paesi agricoli dell’interno della provincia siciliana che ai tempi di Mussolini "si poteva dormire con le porte aperte". Per la prima volta una popolazione abituata nei secoli ad essere dominata dal prepotente o dai prepotenti di turno, sperimentava la sensazione, mai provata, di essere tutelata dallo Stato, sentiva la presenza di uno Stato, fino ad allora sempre latitante.
La certezza della protezione dello Stato rompeva l’omertà dei siciliani, li rendeva arditi, impazienti, con la loro collaborazione con le autorità, di liberarsi per sempre dai tentacoli della piovra mafiosa.
L’operazione Mori che, se non distrusse, tramortì la mafia, fino all’arrivo degli americani, non fu una semplice azione di polizia. Essa voleva anche essere una azione di educazione delle masse, sulla cui psicologia si agiva, anche attraverso grandi imponenti manifestazioni folkloristiche o attraverso la diffusione delle immagini comprovanti l’arresto e l’umiliazione dei peggiori mafiosi dell’Isola, per assicurare il popolo della prevalenza dello Stato sulla delinquenza organizzata. E le masse recepirono che lo Stato era adesso più forte della mafia. La lotta contro la delinquenza organizzata doveva essere e, soprattutto, apparire nei confronti dei cittadini una vera e propria azione insurrezionale di popolo, una feroce rivolta delle coscienze.
Quando nel 1928 Mori fu rimosso dal suo incarico, Mussolini non volle, come ha fino ad ora sostenuto la storiografia marxista, fermare il prefetto di ferro per evitare che dopo aver colpito la manovalanza mafiosa, si spingesse troppo in alto, fra gli stesso sostenitori del fascismo. Niente può essere più falso se pensiamo che Mussolini permise l’imputazione del suo più stretto collaboratore in Sicilia, Cucco, che venne immediatamente espulso dal partito, per rientrarvi solo quando la sua innocenza era stata completamente provata e non si oppose all’arresto del fratello del suo ministro della Difesa, Di Giorgio, che, a tal proposito, venne immantinente sollevato dall’incarico. Mussolini richiamò Mori quando ritenne, forse sbagliando, che la campagna militare contro la mafia poteva considerarsi conclusa, per evitare di dare al popolo siciliano l’impressione di trovarsi in un perpetuo stato di guerra, e che doveva ora intraprendersi "un’articolata azione politica, finanziaria ed economica, al fine di realizzare nella campagna siciliana una serie di opere infrastrutturali di bonifica, ma soprattutto tendente a coinvolgere la vecchia rendita in un processo di trasformazione della struttura dell’agricoltura siciliana in senso imprenditoriale e produttivistico, a frantumare la realtà economica e sociale del latifondo, con l’appoderamento dello stesso"(19)# e la creazione delle condizioni adatte a debellare per sempre il fenomeno mafioso e le ragioni intrinseche della sua nascita e del suo sviluppo.
Questo fu il significato della cosiddetta legge Mussolini del 1928 su un programma di bonifica integrale che sarebbe stato ampliato e meglio articolato con la successiva legge Serpieri del 1933. Tale programma si inquadrava, secondo Tricoli "[…] nell’ottica di un meridionalismo come problema nazionale e non settoriale (che) favorisse lo sviluppo più equilibrato dell’intera economia nazionale e, perciò, delle sue due tradizionali aree geo-economiche"#(20).
Rappresentava, peraltro, l’applicazione pratica della teoria della "terza via", al di là del capitalismo individualista e del marxismo collettivista, poiché mirava a sottrarre le politiche agricole dalla tradizionale assoluta autonomia del privato, ma anche dalla coercizione statalista del socialismo.
Si è spesso detto che la politica di bonifica fu soltanto uno strumento di propaganda del regime, abbandonata non appena i successi riportati nella paludi Pontine, si ritennero sufficienti a dare un’immagine vincente del fascismo. Ciò sarebbe provato dal fatto che in Sicilia le varie leggi sulla bonifica integrale apportarono cambiamenti e miglioramenti agrari di proporzioni molto modeste.
Che ciò non sia vero è invece comprovato dal fatto che, dopo alcuni anni di stasi dovuti alle conseguenze della crisi di Wall Street e della guerra in Etiopia, il programma di bonifica in Sicilia fu ripreso nel 1938 con maggior lena, anzi per la Sicilia, vista la scarsa riuscita dei provvedimenti precedenti, fu adottata una legge apposita che tenesse conto delle peculiarità del mondo rurale isolano e, soprattutto, degli atavici problemi del latifondo. Nel 1940, infatti, fu varata la legge Tassinari sull’assalto del latifondo siciliano che, malgrado il quasi contemporaneo sopraggiungere del conflitto mondiale, determinò, in pochi mesi, la realizzazione di ben otto borghi rurali e di ben 2507 case coloniche.
Ma perché la legge Mussolini e la successiva legge Serpieri che avevano permesso la bonifica di ben 2.600.000 ettari di terreno paludoso e malsano nell’Agro Pontino, nel Tavoliere pugliese e nel Basso Volturno, oltre alla costruzione di ben cinque nuove città nel Lazio e due in Sardegna, non determinò in Sicilia i miglioramenti prospettati? La vera motivazione non si può trovare se non nella resistenza e nell’inerzia dei proprietari terrieri siciliani che si sottrassero sistematicamente dal sostenere la parte delle spese loro spettanti per la bonifica dei loro terreni, o per atavico parassitismo o per la riottosità ad investire notevoli somme per risultati che non vedevano come immediati e che, tutto sommato, avrebbero più avvantaggiato i ceti contadini che i proprietari stessi, i quali continuavano ad accontentarsi di una rendita non alta, ma sicura, anche se gestita dal ceto dei gabelloti, a cui gli agrari erano ormai legati da vincoli di convenienza reciproca, ma anche di soggezione.
L’Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia, fondato nel 1925, per gestire la realizzazione del programma di bonifica per tutta l’Isola, aveva molteplici compiti come lo studio dei progetti di bonifica, l’assistenza tecnica ai privati e ai Consorzi, il finanziamento dei lavori, e l’esecuzione delle opere pubbliche connesse alla bonifica stessa. Molte furono le opere realizzate direttamente dallo Stato, poche quelle che i privati realizzarono, seppure con i sussidi statali. L’Istituto, insomma, non riusciva a rompere il guscio di immobilismo che avvolgeva il mondo agrario siciliano .
Quando poi, con la legge Tassinari del 1940 si cercò di ovviare a tale immobilismo, con una norma in base alla quale lo Stato si sarebbe sostituito al proprietario inerte dietro pagamento degli interventi attuati o dietro cessione di una quantità di terreno pari, come valore, alle spese sostenute, terreno che sarebbe stato diviso fra i contadini del luogo per formare la piccola proprietà e si tentò di ribaltare gli atavici equilibri sociali con l’eliminazione della figura del gabelloto, puntando sul rapporto diretto tra proprietario e lavoratore, regolato da un contratto collettivo, il Patto Colonico, basato sulle forme più moderne di mezzadria, il fascismo si guadagnò oltre alla diffidenza iniziale, la malcelata ostilità di agrari e gabelloti.
Così si spiega il libello scritto clandestinamente, nel 1941, da Lucio Tasca, gradito agli ambienti mafiosi e agli ambienti del separatismo post-bellico e nominato dagli americani, dopo lo sbarco, sindaco di Palermo. In tale libello dall’eloquente titolo Elogio del latifondo siciliano, il Tasca si sforzava di dimostrare la razionalità dell’economia latifondista e i suoi vantaggi per il clima e la struttura morfologica siciliana. Si dilungava poi, nell’elogio del borgesato , quella classe fatta di gabelloti e campieri, che nel latifondo regnava indisturbata, alle spalle dei contadini, ma anche alle spalle dei padroni.
L’opuscolo di Lucio Tasca ci riporta al monologo tenuto dal Principe di Salina all’attonito e smarrito Chevalley: "Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali.[…] Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo dalle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; […]i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti […]."#(21)
Queste parole riassumono magistralmente il pensiero di Giuseppe Tricoli sulle responsabilità della classe dominante siciliana, e del becero sicilianismo di cui si ammantava per nascondere i suoi loschi interessi affinché nulla cambiasse, nulla venisse sottratto al suo egoistico controllo.
Gabriella Portalone
NOTE
(1) G. Tricoli, "Il Fascismo e la lotta contro la mafia", Palermo, ISSPE, 1989, p. 9.
(2) Gigetto Gattuso era un giovane fascista di Caltanissetta ucciso dai rossi, così come Giorgio Schirò, fascista di Piana degli Albanesi; De Caro, di Sciacca, e Perticone di Vita, frazione di Marsala, furono uccisi in un vile agguato mafioso. Anche il fratello di Domenico Perticone, Bartolomeo, sarebbe stato ucciso poco tempo dopo dalla stessa mano mafiosa. Cfr. P. Nicolosi, Gli antemarcia di Sicilia, Catania 1962.
(3) G. La Terza, Cronaca della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Catania, ibidem; V. Agozzino, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento, ibidem; G. Catalano, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Messina, ibidem.
(4) Vincenzo Purpura e Vittorio Ambrosiani avevano tentato, nell’aprile del 1919, di formare un gruppo fascista con sede in Via dell’Orologio. Vi erano state altresì in tal senso anche alcune iniziative pubblicistiche come "Il veltro" di Guido Russo Perez, La "Fiamma nera" di Finizio, "l’Avanguardia studentesca dei Fasci di combattimento" di Chilà, la "Lega Nazionale contro il bolscevismo e il comunismo" di Vincenzo Pedalà, il "Gruppo dannunziano" di Pietro Scozzari a Misilmeri. Si trattò di coraggiose iniziative quasi immediatamente fallite. Cfr. G. Tricoli Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo, ISSPE, 1993, p. 29 e inoltre Cfr. G. Falzone, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Palermo in Panorami di realizzazione del fascismo, vol. VI.
(5) G. Micciché, Dopoguerra e fascismo in Sicilia, Roma 1976, pp. 142-143.
(6) M. Scaglione, Studi sulle origini del nazionalismo in Sicilia, Palermo, ISSPE, 1985.
(7) Il prefetto Metzinger, sostituito dal nuovo regime, con il più dinamico e motivato Gasti, veniva raffigurato dai giornali satirici palermitani, in camicia da notte, con la papalina in testa e la candela in mano. Cfr. G. Tricoli, Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo, ISSPE, 1993, p. 21 e segg.
(8) B. Pace, Fascismo siciliano, Roma 1924.
(9) G. Tricoli, Introduzione a Palermo felicissima di Pietro Villasevaglios, Palermo, Società siciliana per la Storia Patria, 1992, p. XIX.
(10) G. Tricoli, Alfredo Cucco. Un Siciliano per la Nuova Italia, Palermo, ISSPE, 1987, p. 27.
(11) Ibidem.
(12) Ivi p. 30.
(13) R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano, Milano 1967, p. 357.
(14) G. Tricoli, Alfredo Cucco, cit. p. 32.
(15) G. Tricoli, Introduzione a Palermo felicissima, cit., pp. XXIII-XXIV
(16) G. Tricoli, Introduzione, cit. pp. XXVI e segg.
(17) G. Tricoli, Mussolini a Palermo, cit. pp. 200-201.
(18) G. Tricoli, Il fascismo e la lotta contro la mafia, cit. pp. 52-53.
(19) G. Tricoli – M. Scaglione, Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia, Palermo, ISSPE, 1983, p. 11.
(20) G.Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Roma 2002, pp. 146-148.
Il viandante e la sua ombra
In una celebre biografia del ventennio dedicata al capo del fascismo è raccontato un episodio della giovinezza del futuro Duce la cui trama, mitica e profetica al tempo stesso, suscita non poca curiosità. La scena si svolge nella piazza di Predappio e vede coinvolti un giovanissimo Benito e il padre, Alessandro Mussolini. Al figlio deluso per avere invano bussato per un impiego al Comune di Predappio, il padre si rivolge esclamandogli: "non ti avvilire, tu sarai il Crispi di domani!".(1) Da quel momento, e da quella piazza, iniziano il proprio cammino il viandante e la sua ombra: Benito Mussolini e Francesco Crispi.
Questo piccolo fatto, apparentemente senza importanza, non va considerato come un equivoco culturale; non va classificato tra quegli avvenimenti minori catalogabili come semplici risvolti della storia. L’intreccio delle vite di Crispi e Mussolini rappresenta invece una traccia decisiva per comprendere la parabola storica di Benito Mussolini e del fascismo. È interessante, dunque, verificare se il parallelismo tra Crispi e Mussolini, evocato dall’immaginario collettivo e dalla cultura del Regime come mito, sia effettivamente approdato nella realtà della politica e quali conseguenze vadano eventualmente tratte, oggi, sul piano della storiografia, a proposito del fascismo.
È noto che lo stesso Mussolini contribuì volenterosamente ad organizzare e valorizzare questa immagine simbolica delle affinità elettive tra il vecchio statista siciliano ed il giovane capo della Marcia su Roma. Nel 1924, infatti, inaugurando a Palazzo Chigi una lapide a ricordo della Presidenza di Francesco Crispi, dirà: "Non solo prendo in consegna questa lapide nella quale stanno incise parole solenni, ma oserei dire che prendo in consegna lo spirito di Francesco Crispi, una delle figure dominanti e centrali del Risorgimento italiano".(2)
Commentando le parole del Duce, lo storico Giuseppe Tricoli osserverà che "quando Mussolini, divenuto capo del governo, "prende in consegna lo spirito di Crispi", suggella con un atto solenne l’aspettazione di antiche e nuove generazioni italiane di uno Stato nazionale che rappresenti eticamente gli ideali del Risorgimento".(3) Ecco dunque che il mito diventa realtà. Ed ecco la necessità di comprendere storicamente questo passaggio delicato che ha lasciato un’impronta nel fascismo e sul quale hanno pesato, nel tempo, polemiche e pregiudizi che ne hanno annebbiato l’importanza.
Esperienze parallele
Crispi è stato accusato o celebrato come precursore del fascismo; Mussolini è stato osannato o denigrato come l’imitatore di Crispi. E non c’è da stupirsi dal momento che le loro vite sembrano fatte apposta per essere confrontate e sintonizzate. Ambedue hanno alle spalle un passato di formazione tutt’altro che liberale e moderata ed anzi decisamente di sinistra e rivoluzionaria: Crispi è l’eretico del mazzinianesimo, Mussolini del marxismo; dotati di senso pratico, hanno sempre agito con la fredda determinazione del politico; giunti al potere hanno proceduto alla modernizzazione del paese con metodo autoritario più o meno accentuato. Crispi è l’uomo della riforma delle amministrazioni comunali, è l’uomo del riordinamento bancario e finanziario, è sensibile alla propaganda, cura l’informazione giornalistica; insomma tutti aspetti che ritroviamo, dal riformismo autoritario alla organizzazione del consenso, più o meno aggiornati nella vicenda di Mussolini. Ci si rende conto di come non sia stato difficile accostare Crispi a Mussolini additandoli o esaltandoli, durante e dopo il ventennio. L’affilata penna di Piero Gobetti, per esempio, definì Mussolini un "garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo convinto arrivismo più duttile";(4) un giudizio decisamente polemico (e politico).
Più sereno (e più storico), invece, il giudizio di Antonio Gramsci per il quale Crispi aveva creato "le prime cellule di un socialismo nazionale che doveva svilupparsi più tardi impetuosamente".(5)
Da destra Susmel ha osservato che Crispi "fu un esempio per Mussolini: un esempio da imitare";(6) da sinistra, invece, Vittorio Emiliani ha ricordato che Mussolini "verrà accusato agli inizi del fascismo da alcuni suoi avversari politici, per esempio dal sindacalista anarchico (e romagnolo) Armando Borghi" di essere il nuovo Crispi;(7) un’accusa che gli pioverà addosso anche da alcuni suoi ex compagni socialisti quando il futuro Duce verrà espulso dal Psi.(8)
A queste assonanze psicologiche corrispondono interessanti affinità politiche. Crispi e Mussolini, per esempio, seguirono in politica estera una linea mediterranea tendente a spostare il centro di gravitazione dell’Italia nel Mediterraneo; in politica interna condivisero il sogno di creare la Nazione portando a termine il Risorgimento. In questo senso Marcello Veneziani innesta l’azione di Crispi e di Mussolini nel solco della rivoluzione conservatrice italiana.(9) Del resto la storiografia più recente è generalmente concorde nell’accusare o nel constatare che "per alcuni aspetti la figura di Crispi anticipa quella di Mussolini".(10) È stato notato che Crispi "associò al trasformismo l’energia, o meglio l’attivismo nel dirigere il governo e l’esecuzione di alcune importanti riforme"(11) come fa il Mussolini trasformista del 1922-25; è stato sottolineato "l’autoritarismo nei confronti dell’opposizione parlamentare e l’ambizione di fortificare la solidarietà nazionale con una politica estera molto attiva";(12) è stato ricordato "l’attivismo e l’amore infelice per la politica estera, che provocò la sua rovina politica e poi quella di Mussolini".(13)
Infine, Crispi e Mussolini condivisero la passione per la Germania. L’Italia di Crispi coltivò l’amicizia per la Germania di Bismarck così come quella di Mussolini fece con la Germania di Hitler. Però, "se di Mussolini può dirsi che continua Crispi - osserva Valentini - in nessun modo potrebbe dirsi che Hitler continua Bismarck".(14) E naturalmente l’osservazione del politologo calabrese nasconde delle implicazioni ideologiche capaci di proiettare luce nuova nella comprensione del fascismo. Si tratta adesso di abbandonare la quotidianità della storia per immergersi nelle profondità del pensiero politico.
Dal mito storico alla realtà politica
Già negli anni del Regime vi era stato il tentativo culturale "di saldare Crispi con l’Italia fascista e di assolverlo del suo illuminismo e giacobinismo"(15), un tentativo, peraltro, perfettamente riuscito a livello popolare, come documenta Biondi raccontando di un Mussolini salutato dalla folla come un nuovo Crispi(16). Sono elementi che confermano la continuità tra il progetto di governo mussoliniano e quello crispino. Ora, questa continuità tra l’itinerario crispino e quello mussoliniano interferisce nel dispiegarsi del fascismo; affida il fascismo a prospettive diverse da quelle che esso si era attribuito. Prendendo in consegna lo spirito di Crispi, e traducendo il mito crispino in realtà politica, Mussolini si allontana dallo spirito originario ed originale del fascismo. Ne consegue la vocazione autoritaria di derivazione crispina del regime. Ma questa vocazione autoritaria di segno crispino non ha nulla a che vedere con la vocazione rivoluzionaria del fascismo pensato dal Mussolini nel 1919. Mussolini, infatti, proprio come Crispi, conquistato il governo sostanzialmente non rompe quel meccanismo che muove, collegati tra loro, il potere economico, quello militare e quello istituzionale. Con alcune modifiche fortemente autoritarie egli semplicemente insinua, tra gli altri, il proprio potere illudendosi di poter comprimere gli altri ma restandone alla fine schiacciato proprio come il Crispi, le cui ragioni vere della caduta vengono non a caso rintracciate da Tricoli "nella sedizione dello "Stato di Milano", nell’atteggiamento di quel "blocco urbano" industriale-agrario [...] che esprimerà quel quadro organico, politicamente rappresentato dal Giolitti, dell’egemonia settentrionale, da cui sortiranno la permanente disomogeneità dell’economia italiana ed il cosiddetto sviluppo dualistico";(17) invece Mussolini è vittima di quella che Tranfaglia ha definito la commedia degli inganni, recitata nel fatidico 25 luglio dalla monarchia e dalle forze armate, compresa l’arma dei Carabinieri, mentre "le altre istituzioni fondamentali della società italiana - dal Vaticano alla Confindustria - non stanno a guardare. Sono schierate con la dinastia nella valutazione negativa della situazione militare e della permanenza di Mussolini al potere"(18)
Questa continuità tra Crispi e Mussolini irrompe nella classica distinzione defeliciana tra Regime e Movimento sconvolgendone la terminologia storica e politica. Se Mussolini prende in consegna lo spirito di Crispi, allora ne consegue che il Regime non può definirsi autenticamente fascista ma mussolinista. A questo punto la distinzione non è più tra Regime e Movimento, bensì tra fascismo e mussolinismo; ed il Regime diventa un termine mediano tra questi due fenomeni della storia e della politica che sono il fascismo ed il mussolinismo. Alla luce di questa nuova distinzione, il fascismo si presenta come fenomeno ideologico radicalmente rivoluzionario laddove il mussolinismo è fenomeno politico autoritario. Nel fascismo aleggia lo spirito del Mussolini rivoluzionario del 1914-19 laddove nel mussolinismo aleggia lo spirito di Crispi. Il fascismo è una teoria culturale e politica originaria e nuova, italiana e potenzialmente europea laddove il mussolinismo è perfettamente inserito in quel circuito storico-politico la cui tappa iniziale è nell’Italia post-unitaria. Il fascismo vuole completare il Risorgimento fondando una Italia nuova laddove il mussolinismo aspira a concludere il processo risorgimentale restituendo energia e vitalismo all’Italia da esso nata attraverso uno Stato forte. Il fascismo pretende di creare gli italiani di Mussolini laddove il mussolinismo si limita a realizzare l’antico sogno del D’Azeglio. Il fascismo, infine, sogna una rottura rivoluzionaria con le strutture del passato laddove il mussolinismo opera una continuità nella modernizzazione mantenendo le tradizionali strutture che gli preesistevano. Se ne deduce che il Regime ebbe sì la maschera fascista ma il suo vero volto fu mussolinista.
Ma se il Regime fu mussolinista e non fascista, allora le colpe ed i meriti del ventennio vanno attribuiti al mussolinismo e non al fascimo che non ebbe la possibilità di realizzarsi compiutamente come autentica rivoluzione sociale, politica e culturale. Lo spirito di Crispi, insomma, esiliò dalla storia lo spirito del fascismo diciannovista: un fascismo non razzista, partecipazionista, comunitario, rivoluzionario in quanto intendeva nazionalistizzare il popolo e socializzare la Nazione liberandoli dall’assedio del collettivismo ed estirpando la malapianta liberale dell’individualismo e dell’utilitarismo.
A questo punto è possibile affermare che quel forte Stato nazionale vagheggiato da Crispi e realizzato da Mussolini, non c’entra nulla con le aspirazioni del fascismo rivoluzionario del 1919.
In questo scenario, condivisibile è la tesi di Giano Accame il quale afferma che il fascimo ebbe "una propria autonomia concettuale, la quale va al di là della stessa personalità di Mussolini e di quel tanto di trasformismo che gli può essere rimproverato. Nessun dogma [...] oggi può stabilire, insomma, che Mussolini abbia sempre perfettamente capito ed interpretato il fascismo"(19).
Mussolini, insomma, esaurì tutte le potenzialità del fascismo il quale, invece, avrebbe potuto inverarsi in forme diverse da quelle assunte dal Regime.
È da queste potenzialità rimaste inespresse che è possibile oggi trarre dal fascismo, ormai consegnato alla storia, quelle intuizioni ancora valide ed attuali che lo spirito di Crispi, assunto da Mussolini, lasciò in ombra.
Michelangelo Ingrassia
NOTE
(1) i. de begnac, Vita di Mussolini, Milano, Mondadori, vol. I, 1936, p. 239.
(2) g. tricoli, Risorgimento e Fascismo, Palermo, Isspe, s.d., p. 26.
(3) Ibidem.
(4) p. gobetti, La Rivoluzione Liberale, Roma, Newton Compton editori, 1998, p. 204.
(5) a. gramsci, Il Risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 77.
(6) e. susmel, Mussolini e il suo tempo, Milano, Mondadori, 1950, p. 5.
(7) v. emiliani, I tre Mussolini, Milano, Baldini & Castoldi, 1997, p. 34.
(8) Cfr. p. valera, Mussolini, Genova, Il Melangolo, 1995. La prima edizione di questa biografia venne pubblicata nel 1924, all’indomani del delitto Matteotti; in essa vi si ritrova un capitolo intitolato L’esumazione di Francesco Crispi. Paolo Valera era stato amico e seguace del Mussolini socialista rivoluzionario.
(9) Cfr. m. veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Varese, Sugarco Edizioni, 1994.
(10) g. carocci, Storia dell’Italia moderna, Roma, Newton Compton editori, 1995, p. 28.
(11) Ivi, p. 27.
(12) Ibidem.
(13) Ivi, p. 28.
(14) f. valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Roma-Bari, Editori Laterza, 2001, p. 341.
(15) g. falzone, Crispi un’esperienza irripetibile, Palermo, Ila Palma, 1970, p. 103.
(16) d. biondi, La fabbrica del duce, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 104-105.
(17) g. tricoli, Crispi nella storiografia italiana, Palermo-São Paulo, Ila Palma, 1992, p. 53.
(18) n. tranfaglia, La monarchia e la commedia degli inganni, in "Ragionamenti sui Fatti e le Immagini della Storia", luglio-agosto 1993.
(19) g. accame, Il fascismo immenso e rosso, Roma, Edizioni Il Settimo Sigillo, 1990, p. 33.
I. Premesse Ideologiche
Il desiderio di cambiamento che investì tutta l’Europa fra gli ultimi anni del ‘700 e il primo quindicennio dell’ ‘800 fu sicuramente il frutto dell’elaborazione filosofica e ideologica dell’Illuminismo. Tutto il dibattito culturale del ‘700 produsse, nella sua applicazione politica, un tentativo di rinnovamento delle istituzioni che percorse strade ed ebbe risultati diversi nelle varie realtà europee(1).
L’illuminismo, nato come elaborazione filosofica, trovò diretta applicazione nella politica di riforme inaugurata in molta parte d’Europa dai "despoti illuminati", fino a raggiungere le sue estreme e irreversibili conseguenze nella Rivoluzione Francese.
Nascevano nella società di ancien régime nuove istanze da parte di gruppi sociali che chiedevano maggiore visibilità e nuove libertà economiche e politiche, che lo Stato, così come era stato concepito fino ad allora, non poteva assicurare. Ma l’accelerazione di questi processi, avvenuta all’inizio del XIX secolo, fu provocata dall’esito che la richiesta di riforme delle nuove classi aveva avuto negli ultimi anni del secolo precedente. L’elaborazione illuminista, infatti, aveva assunto, con la Rivoluzione francese, una piega violenta ed esasperata, che condusse poi alla ricerca di una via riformista e moderata che garantisse la nascita di nuovi equilibri sociali senza distruggere gli stati dalle loro fondamenta(2). Le dinastie regnanti avevano visto insultata la sacralità della figura del sovrano, le istituzioni francesi occupate da personaggi che mai avrebbero, prima di allora, potuto detenere il potere, la scalata al potere di un giovane corso, che era giunto a cingere la corona imperiale.
Le Costituzioni succedutesi in Francia nel periodo rivoluzionario, d’altra parte, infuocarono in tutta l’Europa gli animi di quei nuovi ceti che, mirando ad un’affermazione sociale ed economica, vedevano nei loro Stati tutti gli impedimenti giuridici e politici che avrebbero ostacolato il miglioramento della loro posizione. Fu il tentativo di ricambio all’interno delle società che provocò una così diffusa ed entusiastica adesione a quei principi giacobini che tanto terrorizzavano i ceti dominanti tradizionali. Per la borghesia emergente la lezione francese mostrava una prospettiva realizzabile e una soluzione favorevole dei problemi esistenti.
Le armate napoleoniche, che dilagarono successivamente in Europa, completarono il compito di diffondere, nonostante l’affermazione in Francia dell’Impero e non certo di una democrazia, quei principi che ineluttabilmente si sarebbero fatti strada durante tutto l’800. Nel continente, dunque, le idee imperanti erano quelle provenienti dalla Francia rivoluzionaria, mentre i principi del costituzionalismo inglese non erano riusciti a penetrare.
Ma vi era un luogo in Europa che era rimasto distante dai fatti che in rapida successione avvenivano, nel quale la realtà politica ed economica era rimasta come cristallizzata da secoli, e la diffusione delle idee procedeva con un passo non solamente più lento, ma sostanzialmente differente. Non erano, infatti, i principi costituzionali francesi ad imporsi, ma quelli inglesi.
Questo luogo era la Sicilia. La classe dirigente siciliana aveva già alla fine del ‘700 una certa familiarità con la cultura politica inglese, tanto che i viaggiatori britannici si stupivano di come la loro lingua fosse piuttosto conosciuta e molti testi presenti nelle biblioteche pubbliche e private in lingua originale(3).
L’interesse, inoltre, non fu solo dei siciliani verso gli inglesi, per ragioni soprattutto economiche e commerciali, ma anche degli inglesi verso i siciliani per quelle necessità politiche e militari che si vennero a creare nel primo decennio del XIX secolo(4).
Già dal XVIII secolo mercanti inglesi avevano raggiunto la Sicilia impiantando basi commerciali, sviluppando i loro affari e offrendo un mercato vitale all’arretrata economia isolana.
La presenza degli inglesi , infatti, rappresentò per l’economia siciliana, e in particolare per la sua parte orientale, un mercato per i prodotti locali, per i vini, per lo zolfo, per quel che restava delle attività tessili.
Al fine di difendere i propri interessi economici e commerciali la presenza militare inglese in Sicilia era diventata sempre più consistente, ed aumentava all’aggravarsi della situazione europea, sempre più instabile a causa dell’avanzata napoleonica.
Era indispensabile per gli inglesi contenere il dilagare della armate napoleoniche, costituendo un fronte nell’Europa meridionale e quindi nel Mediterraneo. Erano Malta, le Isole Ionie, la Sicilia le basi dalle quali partire per opporsi politicamente e culturalmente, oltre che militarmente, alla Francia napoleonica(5).
Ma l’operazione che gli inglesi svolsero nei primi dodici anni dell’ ‘800 in Sicilia era servita a preparare il campo per ciò che sarebbe accaduto tra il 1812 e il 1815.
Alcuni inglesi come, ad esempio, il pubblicista Gould Francis Leckie, che aveva acquistato e conduceva una tenuta modello in Sicilia, non pensavano alla semplice costituzione di basi militari, ma credevano fosse necessario combattere una guerra ideologica, una "War of opinion" che potesse contrastare la popolarità della cultura politica francese(6). Sarebbe stato facile mostrare come la Francia, nella necessità di sopravvivere agli attacchi esterni, avesse abdicato ai principi di libertà e uguaglianza per trasformarsi in un governo militare in cui il potere era concentrato solo nelle mani di Napoleone(7). Leckie partiva da questa discrasia tra i principi rivoluzionari e gli esiti pratici di essi per affermare che, se l’intervento britannico avesse debellato gli strascichi di feudalesimo presenti in Sicilia, l’isola si sarebbe trasformata in un laboratorio politico da mostrare come esempio agli stati italiani peninsulari che si trovavano soggetti alla Francia, la quale, lungi dal presentarsi come il campione della Rivoluzione, si era trasformata in stato autoritario. Questa sarebbe stata la chiave della vittoria: proporre con esempi concreti un’alternativa politica e istituzionale diversa da quella francese, che suscitasse una maggiore fiducia nei vecchi governanti e una sufficiente soddisfazione nei ceti emergenti(8).
Quando Leckie teorizzava queste idee era il 1807 e nei tentativi di Lord Bentinck, qualche anno più tardi, di creare nella penisola italiana un sistema di Stati che insorgesse contro i francesi se ne risente certamente una forte eco. Leckie sperava che ci fosse l’occasione per la Gran Bretagna di espandersi in tutto il Mediterraneo, cosa che avrebbe favorito il commercio inglese e mostrato contemporaneamente a tutta l’Europa che "La Francia conquista per devastare, la Gran Bretagna per far del bene"(9).
Era vero che l’Inghilterra non aveva mai mostrato interesse a conquistare territori europei continentali, e poteva dunque facilmente basare su questo la prima fondamentale differenza con la Francia napoleonica. Le armate francesi dilagavano, mettendo a ferro e fuoco tutta Europa, mentre gli inglesi in Sicilia giungevano discretamente come consiglieri militari, ambasciatori, imprenditori.
Per il nascente movimento patriottico italiano, la Gran Bretagna avrebbe rappresentato un importante alleato, qualora davvero avesse supportato una forma di unificazione e un’evoluzione politica in senso liberale. Oltre che ragioni militari e di diffusione culturale, c’era, appunto, anche la presenza fisica dei mercanti inglesi a spingere affinché la Sicilia diventasse il terreno più idoneo all’attecchire dei principi politici inglesi. Essi erano i protagonisti quasi assoluti del commercio siciliano, ma sentivano le prassi del governo locale discriminatorie nei loro confronti, per questo chiedevano interventi diretti sulla monarchia da parte del governo inglese, chiedevano di essere tutelati nei loro interessi economici, avrebbero voluto trovare in Sicilia quelle strutture politiche che, liberate dai vincoli feudali, agevolassero il progresso economico.
Quella che più comunemente viene indicata come "l’occupazione inglese della Sicilia" aveva notevoli ripercussioni nella realtà politica, economica, sociale e culturale dell’isola.
In particolare in Sicilia la presenza inglese faceva da catalizzatore per un processo di implosione politica che avrebbe reso evidente e portato alle estreme conseguenze il contrasto per il monopolio del potere tra monarchia e baronaggio(10).
L’arrivo massiccio degli inglesi in Sicilia, dunque, si innestava in una situazione sia interna che internazionale di grande fermento. La classe dirigente siciliana aveva consolidato le proprie posizioni a difesa delle istituzioni tradizionali, e al tempo stesso la Gran Bretagna inaugurava quella "politica siciliana di lungo termine"11) che nel 1806 evidenziava l’enorme importanza della Sicilia all’interno dei progetti inglesi riguardo al Mediterraneo: iniziava nell’isola il "decennio inglese".
Erano trascorsi molti anni dalla fine del viceregno di Caracciolo, l’elaborazione politologica aveva fatto un grande cammino verso il consolidamento del potere aristocratico, e tutto ciò, insieme alla massiccia presenza inglese, fece maturare quelle richieste di cambiamento delle quali si fece portatore il cosiddetto "partito inglese", i cui animatori furono intellettuali e baroni illuminati come Balsamo, Castelnuovo, Belmonte ecc….
Nasceva concretamente l’idea di trasformare la Sicilia in quel "laboratorio politico" all’interno del quale realizzare la trasformazione delle istituzioni siciliane prendendo a modello il sistema inglese(12).
Ma mentre l’ambasciatore Drummond auspicava cambiamenti graduali del sistema siciliano, i militari come il colonnello John Moore sostenevano che le riforme dovessero essere introdotte anche con l’uso della forza, e che bisognasse coinvolgere in esse i baroni, "alleati naturali" dell’Inghilterra in questo progetto(13).
E proprio questo continuava con forza a sostenere Gould Francis Leckie, che nei suoi scritti, affermava che il cambiamento in Sicilia fosse indispensabile e improcrastinabile, poiché la guerra antinapoleonica in Italia si configurava come "war of opinion"(14). Additando la Sicilia come esempio, dunque, sarebbe stato possibile contrastare la preponderanza ideologica francese nell’Italia dei regni napoleonici. Ma per far questo e per consentire agli inglesi di mantenere il controllo sulla Sicilia bisognava ottenere "il consenso degli abitanti" che chiedevano le riforme(15).
Ai motivi commerciali e strategici si aggiungevano dunque in quegli anni ragioni squisitamente teoriche riguardo alla percezione che soprattutto i siciliani avevano delle carte costituzionali inglese e siciliana.
Per il "Governo di Tutti i Talenti", nato da un’insolita alleanza tra whigs e tories nel 1806-1807, la Sicilia doveva diventare, insieme ad altre isole, una base militare in tempo di guerra e commerciale durante la pace futura, che rendesse agevole all’Inghilterra una presenza stabile nel Mediterraneo.
Era inevitabile, per il raggiungimento di questo scopo, che in Sicilia si realizzassero cambiamenti politici, sociali ed economici di vasta portata.
Era infatti concetto diffuso e accettato che, in Inghilterra come in Sicilia, le Costituzioni fossero nate nello stesso periodo, emanate da due principi normanni e fondate sulle stesse basi feudali. Solo la diversa applicazione nelle due realtà politiche durante i secoli aveva provocato tutte le differenze che esistevano nell’‘800(16). Niccolò Palmeri afferma che "ricondurre la Costituzione siciliana al suo antico essere ed adottare la Costituzione inglese, non erano che due maniere diverse di esprimere la stessa cosa"(17), confermando come molta parte dei politici siciliani fosse convinta che la distanza esistente dal punto di vista economico, politico, culturale, giuridico, si spiegasse semplicemente con una errata o mancata applicazione di norme giuste, che, correttamente applicate, avevano riportato altrove risultati eccellenti. Lo stesso abate Balsamo, estensore materiale delle Basi, era convinto che la sua opera consistesse essenzialmente nel riportare la Costituzione siciliana alle sue origini, semplicemente riadattandola alle esigenze del tempo. Esisteva comunque qualcuno, come Tommaso Natale, che trovava assurdo tentare di adattare alla realtà siciliana leggi che si applicavano in Inghilterra, dove, l’uso secolare e la piega assunta dagli eventi storici aveva dato vita ad una realtà politica totalmente diversa(18). Infatti, le Carte siciliana e inglese avevano percorso strade talmente differenti che nell’ ‘800 la loro comune origine non era quasi più rintracciabile. Ciononostante, buona parte degli intellettuali siciliani era convinta che fosse sufficiente imporre ed applicare delle buone leggi per ottenere immediatamente uno stato moderno ed efficiente abitato da buoni cittadini.
Dimenticavano che mentre la Gloriosa Rivoluzione aveva posto in Inghilterra la base di uno Stato moderno e aveva inciso profondamente sulla Costituzione, in Sicilia leggi e istituzioni avevano mantenuto inalterato l’assetto medievale delle origini, non creando alcuna premessa per la fondazione di uno Stato moderno, che, teoricamente, sarebbe dovuto sorgere spontaneamente dall’adozione della Costituzione britannica(19). Ciò che parimenti veniva dimenticato era che la costituzione inglese era formata da un insieme di atti non coevi che avevano contribuito a creare la legge fondamentale, non era un documento organico, schematizzato e scritto. La Costituzione siciliana, invece, nacque come uno scritto organizzato secondo principi moderni e con lo scopo esplicito di costituire la legge fondante e fondamentale dello Stato(20).
L’idea di applicare senza alcuna mediazione la Costituzione britannica non teneva in nessuna considerazione le condizioni di profonda arretratezza in cui versava la Sicilia sotto ogni profilo. Le strade diverse che le due Costituzioni avevano percorso avevano portato in Inghilterra al sistema del governo di gabinetto, in Sicilia, invece, l’unica funzione rimasta ai tre bracci in cui era diviso il Parlamento era quella di determinare i donativi e richiedere grazie(21).
Il Parlamento siciliano non aveva conquistato nuove prerogative, né ampliato le esistenti(22), come nei secoli era accaduto in Inghilterra, ma anzi se le era viste progressivamente ridurre. Lo scontro diretto tra Corona e baroni, i due maggiori poteri esistenti in Sicilia, diventava così inevitabile. La Sicilia era rimasta divisa in ceti, corporazioni, città demaniali e feudali, non esisteva possibilità di pensare ad uno Stato composto da un popolo con elementi fondamentali comuni che potessero far sentire i siciliani uniti. Troppe e troppo diverse le esigenze delle varie zone e classi sociali.
Pertanto, l’unico elemento unificante era l’idea di Nazione. Era il fondamento ideale rintracciabile anche andando indietro nei secoli, perché ad essa erano stati conferiti poteri e privilegi e per questo motivo era l’unica istituzione che potesse garantire l’indipendenza del regno(23). Solo la Nazione, considerata sinonimo di Parlamento, storicamente investita della missione di interloquire col sovrano per conto e nel nome di tutta la popolazione, poteva ergersi a difesa del regno e rifondarlo. D’altra parte il potere centrale era da secoli assente nell’isola, ne restava un’ombra rappresentata dal viceré, che non operava in altro senso che nella ricerca di scendere a patti con i baroni per ottenere da essi senza problemi i donativi.
L’unico che tentò di importare in Sicilia quel riformismo illuminato che alla fine del Settecento imperava in tutta l’Europa fu Caracciolo(24). Ma mentre nel continente si affermava l’idea dello Stato come apparato burocratico, con un’amministrazione efficiente al servizio del sovrano, in Sicilia non esistevano ancora istituzioni organizzate che potessero garantire l’applicazione delle direttive impartite dal potere centrale. Gli intendenti, gli incaricati del potere centrale, che in molta parte d’Europa avevano snellito, migliorato, reso più moderna ed efficiente la pubblica amministrazione, non c’erano mai stati in Sicilia. Questo, se da una parte aveva lasciato inalterate le obsolete strutture amministrative feudali, dall’altra non aveva permesso la nascita di quel ceto di amministratori capaci e preparati che avrebbe condotto gli stati verso il progresso e la modernizzazione, e questo probabilmente creava un elemento di stagnazione ancor più grave.
Al contrario a gestire l’amministrazione periferica in Sicilia erano ancora i feudatari, cioè i più agguerriti avversari del potere centrale, con esso in continuo attrito. La corona non aveva fatto nulla per creare amministrazioni periferiche efficienti e quindi non poteva esistere quella classe di funzionari che negli altri stati europei si era formata e aveva costituito la nuova classe della cosiddetta "nobiltà di toga"(25). Il potere centrale aveva sempre cercato di non dispiacere troppo ai baroni, e a questo fine aveva lasciato inalterate le obsolete strutture amministrative. Erano i feudatari, i baroni quelli che assicuravano i donativi al Re, egli dunque non voleva assolutamente contraddirli. D’altra parte, i baroni non avrebbero attaccato il sovrano se non a tutela dei propri personali vantaggi. Solo gli energici interventi caraccioliani avevano smosso le melmose coscienze del ceto dirigente siciliano, che aveva difeso tenacemente i propri privilegi e si era liberato dell’ingombrante viceré ottenendo che fosse inviato a Palermo il più accomodante e diplomatico Caramanico. La Corona era la prima responsabile delle condizioni in cui il Regno di Sicilia versava: era stato il desiderio di mantenere l’appoggio dei baroni a lasciare l’isola in condizioni arretrate e poverissime, anacronistiche perfino, permettendo la sopravvivenza di quelle strutture medievali che garantivano il perpetuarsi di una classe dirigente che altrove, così concepita, non aveva più funzione, ma che in Sicilia fu l’unica a trovarsi nella posizione di rifondare lo stato su principi moderni.
L’assenza di un apparato burocratico moderno, però, faceva mancare il presupposto fondamentale per la nascita di uno Stato costituzionale, nel quale il potere della Corona non fosse avvertito come personale(26), la "spersonalizzazione" dell’azione dello stato era elemento fondamentale nella modernizzazione degli apparati amministrativi. Nei paesi in cui questo era accaduto l’esecuzione delle leggi era appunto spersonalizzata, e aveva acquistato autonomia rispetto al potere che le emanava, dando vita non solo ad amministrazioni efficienti, ma anche ad una numerosa e preparata classe di funzionari. Tutto questo in Sicilia non poteva accadere. Il potere centrale latitava, si mostrava interessato solo a garantirsi i donativi e mai a migliorare veramente le condizioni dell’isola(27), i feudatari, fieri difensori delle loro prerogative, non ebbero mai interesse verso il cambiamento se non quando le sentirono minacciate, non esisteva nessun altro ceto sociale che avesse la forza di intervenire in maniera incisiva(28).
Questo probabilmente costituisce la più grave anomalia del sistema siciliano: i feudatari, che negli altri paesi erano già in gran parte scomparsi, nell’isola si porranno a capo del movimento "rivoluzionario". Un’anomalia di grande importanza che, a causa dell’assenza di un’operosa borghesia, condurrà la parte più retriva di una società a condurre una protesta che porterà alla rifondazione di uno stato.
La Sicilia restò, dunque, in uno stato di torpore fino a quando Caracciolo non mostrò di voler insidiare lo strapotere dei baroni e di non tenere nella dovuta considerazione le prerogative del Parlamento(29). Solo allora le forze in campo riuscirono ad essere compatte, in realtà solo per un breve momento, in difesa della loro stessa sopravvivenza.
Già nel corso del XVIII secolo, la presenza di Caracciolo aveva allarmato il baronaggio, costringendo gli aristocratici ad uscire allo scoperto a difesa dei privilegi che il viceré cercava, con la sua opera riformatrice, di insidiare. Certamente il viceré non ritrovava in Sicilia quella classe media operosa sulla quale avrebbe voluto basare le sue riforme(30), ma soprattutto si scontrava col baronaggio che non voleva rinunciare ai propri privilegi. Caracciolo reputava il Parlamento come un retaggio medievale, che dava la possibilità alla riottosa aristocrazia siciliana di perpetuarsi, senza permettere al potere sovrano di razionalizzare l’azione dello stato secondo i moderni dettami del dispotismo illuminato.
"Il problema politico – ha osservato Giuseppe Buttà – era quello del superamento del vecchio regime e della struttura particolaristica che impediva l’evoluzione dei rapporti sociali nonché lo sviluppo dell’economia siciliana in relazione anche alle nuove esigenze e ai progressi che si compivano negli altri paesi. Al centro della questione si poneva chiaramente il Parlamento come espressione sia del vecchio regime feudale, sostanziato dagli abusi più gravi e dai privilegi più anacronistici, sia, però, di una concezione del sistema politico, di una idea della sovranità del tutto opposta a quella assolutistica e dispotica che sosteneva la linea politica dell’illuminista Caracciolo e il pensiero del Gregorio. Il limite intrinseco del riformismo caraccioliano fu quello di pensare ad una soluzione del problema che doveva travolgere insieme ai privilegi anche le istituzioni, entrate ormai nella coscienza di ampi strati della società che, pur non condividendo i privilegi e il potere dell’aristocrazia, si sentivano tuttavia attaccati alle ‘libertà’ siciliane"(31).
Nonostante l’aristocrazia, punta sul vivo dal tentativo di Caracciolo di creare un catasto, ebbe alla fine partita vinta, il viceré ebbe un grande merito: stimolò quegli studi politici ed economici che prepararono l’avvento della Costituzione del 1812(32).
"Il conflitto aperto dal Caracciolo contro il feudalesimo – sostiene ancora Buttà – aveva i caratteri di un conflitto costituzionale; la lotta per il potere ultimo tra Corona e Parlamento che, con la dominazione spagnola era venuto a cessare, si riaccendeva ora sia pure sotto la specie di una difesa conservatrice del privilegio aristocratico e di una spinta modernizzatrice della Corona. In Sicilia ‘l’autorità del principe era limitata […] senza che il popolo fosse libero’; tuttavia non la libertà del popolo era l’obiettivo illimitato della ‘monarchia pura’, di uno Stato cioè che esaltava il fiscalismo e l’arbitrio del potere come strumento di razionalizzazione e di progresso della società, anche se personalmente il Caracciolo pensava che, nella costituzione monarchica, rimanesse al popolo ‘il diritto d’essere ben governato e perché non può egli essere giudice e parte, deve ubbidire, ma all’istesso tempo può protestare".(33) In ogni caso, "l’opera politica del Caracciolo riuscì a demolire gran parte dell’impalcatura giuridica su cui poggiava il privilegio feudale, anche se poco modificò nei rapporti reali che sostanziavano la feudalità"(34).
La mancanza di una classe dirigenziale esperta e preparata impedì che le riforme approntate funzionassero e portassero frutti. Non poteva certo bastare da solo il fatto che si ponessero le premesse legali del decentramento affinché esso si realizzasse. Il titolo della Costituzione che va sotto il nome di Consigli Civici e Magistrature Municipali, per esempio, prevedeva un’ampia autonomia e organi di decentramento dotati di grandi poteri, sulla carta, ma nella realtà questo fu uno dei provvedimenti che causarono maggiori scontri tra governo e Parlamento. L’idea era quella di ricreare il modello del self-government inglese basandosi sulle antiche università del Regno, ma, mentre in Inghilterra quel modello esisteva e funzionava da secoli, in Sicilia esso non aveva avuto applicazione e non aveva dato luogo alla formazione di una classe di funzionari che potessero rendere funzionanti ed efficienti le autonomie locali(35). L’altro modello possibile era ancora una volta di origine francese: un sistema locale basato su funzionari di nomina regia. Nella Sicilia costituzionale, però, troppo grande era l’aspirazione a sottrarre potere all’esecutivo e troppo il desiderio di prendere le distanze dal modello francese per poterlo prendere almeno in considerazione(36). Tuttavia, forse, il sistema degli intendenti avrebbe potuto dare frutti migliori e creare nel tempo una classe dirigente idonea a gestire le neonate istituzioni locali. La scelta del sistema dell’autogoverno, invece, che prevedeva il minore controllo possibile da parte del potere centrale, causò un’enorme difficoltà nell’applicazione delle nuove regole e un immobilismo provocato dall’incapacità di gestire i nuovi poteri in un regime deficitario di risorse umane. L’idea di applicare la Costituzione inglese cercando in essa la panacea per tutti i mali siciliani, fu l’errore più grave del partito costituzionale, che continuò ad insistere su questa via abdicando, in alcune circostanze della breve avventura costituzionale, anche ai propri poteri e ai propri diritti. Quelli che dovevano costituire l’anima delle istituzioni che essi stessi avevano fondato delusero il loro maggiore sostenitore, Lord Bentinck, ma soprattutto, non ebbero la maturità politica e la lungimiranza per porre basi più solide e durature alla loro opera.
II. La breve stagione parlamentare
Sarebbe toccato proprio a Lord Bentinck, inviato nel 1811 e investito di ampi poteri sia diplomatici che militari, tentare di risolvere la questione siciliana.
Il suo arrivo coincise col momento di maggiore tensione tra corte e baroni e fu la sua presenza a permettere la nascita della Costituzione del 1812 e l’attivazione di quel "laboratorio politico" auspicato dagli "inglesi di Sicilia" (Coleridge, Leckie) negli anni precedenti, fino a proporre all’erede al trono il famoso "sogno filosofico" che tanta sfortuna portò a Bentinck.
Ma prima di allora, prima del cambiamento alla guida del gabinetto di San Giacomo che mutando la politica estera estromise Lord Bentinck da tutte le questioni italiane, il plenipotenziario inglese era stato l’arbitro assoluto dei destini siciliani: nel dicembre del 1811 tornava in Sicilia con nuove istruzioni e da questo momento le difficoltà per la Corona non fecero che aumentare. Il cambiamento istituzionale era divenuto inevitabile sia a causa della resistenza opposta dall’aristocrazia isolana, sia per le pressioni esercitate sulla corte da Bentinck. Questi, dopo aver accertato durante l’estate l’impossibilità a collaborare con la Corona, in seguito al suo viaggio in Inghilterra aveva ricevuto da parte del proprio governo "carta bianca" col solo limite di "conservare il regno" alla dinastia borbonica: "se fosse stato necessario, avrebbe potuto deporre il re, e mettere sul trono il principe ereditario; se questi si fosse rifiutato, avrebbe potuto far dichiarare Re di Sicilia il suo primogenito minore, assistito da un consiglio di reggenza formato da siciliani"(37). Bentinck aveva anche ricevuto poteri discrezionali per allontanare il re e la regina da Palermo o dalla Sicilia se si fosse reso necessario: "la cosa essenziale era che in Sicilia si venisse ad una rappacificazione col Paese e che si desse vita ad un governo nazionale, che approvasse una nuova Costituzione ispirata a principi liberali"(38). Per la politica inglese, infatti, la Sicilia, così come la Spagna, doveva costituire la testa di ponte contro l’impero napoleonico. In Sicilia l’intervento inglese portò alla svolta decisiva con la liberazione dei baroni e il ritiro del re. Bentinck, infatti, aveva minacciato in armi Re Ferdinando se non avesse liberato i Baroni resistenti, allontanato i napoletani dal governo, abolito la tassa dell’un per cento – che penalizzava anche gli importanti traffici dei suoi connazionali nell’isola – e conferito a lui stesso il comando dell’armata di Sicilia(39). Nel febbraio del 1811, infatti, la Corona, scavalcando il Parlamento, aveva imposto una tassa dell’1% su tutti i pagamenti in denaro effettuati in Sicilia. Come ha osservato John Rosselli, "non vi era ombra di dubbio che si trattasse di un atto incostituzionale"(40). Da ciò nacque la protesta dei 43 baroni costituzionali, e la protesta meno ufficiale dei mercanti inglesi che sarebbero stati colpiti direttamente da questo provvedimento economico, e, pertanto, chiedevano in loro difesa un intervento deciso del governo inglese.
Sulla spinta ideale di questi avvenimenti e dell’atto di forza del Re che aveva fatto imprigionare i firmatari della petizione, il Parlamento che si aprì l’anno successivo cominciò i suoi lavori con l’entusiasmo e l’instancabilità dei neofiti. Durante il periodo precedente numerosi erano stati i progetti approntati per la riforma dello Stato, molto si era parlato e scritto di quegli indispensabili cambiamenti che avrebbero reso la Sicilia uno stato finalmente moderno, efficiente, avanzato.
Dopo le azioni sconsiderate della Corte, dopo la deportazione dei baroni resistenti, dopo che la Gran Bretagna si era pronunciata decisamente a favore delle riforme, fu inevitabile che l’apertura del Parlamento del 1812 assumesse un significato di cesura netta tra vecchio e nuovo. In realtà non sarebbe potuto essere altrimenti, poiché il sovrano, totalmente screditatosi con l’arresto dei baroni, subiva lo scetticismo internazionale specie inglese. Ciò, di fatto, ne imponeva l’allontanamento dal potere e supponeva l’assunzione di responsabilità politiche della nobiltà isolana, unico ceto in grado di farlo. Il cosiddetto "partito inglese" assunse, dunque, la guida delle riforme, poiché il movimento costituzionalista siciliano trovava in esso la sua più matura espressione(41). Non sarà inutile sottolineare ancora una volta come i baroni fossero gli unici nella possibilità di incidere sullo stato, gli unici ad avere voce per chiedere e ottenere il cambiamento, gli unici a poter agire "politicamente".
Già dalla protesta del 1811 era stato il "partito inglese" a dare il via a quella catena di avvenimenti che sarebbe sfociata nella riforma costituzionale. Da esso erano venuti fuori i ministri, e i personaggi di spicco, che occuparono la scena politica durante la vigenza della Costituzione. Inoltre, rappresentava una linea di continuità con la tradizione politica siciliana, nella quale i baroni, rappresentanti della Nazione, si ergevano a difensori dei suoi privilegi(42). Coesistevano in esso istanze spiccatamente conservatrici insieme a quelle riformiste, che attraversavano la componente nobiliare della società siciliana. Ma è inevitabile ammettere che l’interpretazione di tutto il processo costituzionale, apertosi con la protesta e conclusosi con l’abolizione di fatto della Costituzione, passi per la comprensione delle varie anime che agitarono il "partito inglese"(43).
Esisteva una "destra", costituita da Belmonte, Aci, San Marco, Cattolica, che tentava di approntare riforme che comunque non alterassero troppo incisivamente le strutture sociali, che riuscissero a conservare istituti come il fedecommesso, che erano avvertiti come baluardi della nobiltà e della preponderanza sociale dei baroni. Al "centro" del "partito inglese" si collocavano personaggi come Castelnuovo e Balsamo, più disposti a rinunciare ad alcuni privilegi, ma ugualmente diffidenti nei confronti di un ampio elettorato attivo che desse vita ad una rappresentanza piuttosto estesa che non avrebbe potuto scongiurare "i pericoli e le sequele di una torbida ed anarchica democrazia"(44). A "sinistra" si trovavano i cosiddetti "radicali" di Aceto e Airoldi, i quali, invece, affermavano che, con un’assemblea elettiva numerosa, sarebbe stato impossibile per la Corona ricorrere ai soliti artifici della corruzione o delle minacce(45).
I "patrioti"si impegnarono tutti e tutti insieme sin dal febbraio del 1812, all’indomani dell’istituzione del vicariato, a redigere il progetto di riforma costituzionale. Infatti, il primo punto del loro programma prevedeva proprio la creazione di una nuova Costituzione. Nessun leader tra i costituzionali pensò di redigere una Costituzione completamente nuova, ma Balsamo, Belmonte e Castelnuovo, ancora in buon accordo, convennero che occorreva attenersi a quella vecchia il più possibile(46). Escludendo immediatamente le eccessivamente democratiche Costituzioni spagnola e francese, la scelta cadde su quella inglese(47), avvertita anche come la più vicina alla tradizione siciliana. I costituzionali giunsero perfino a sostenere che, la Costituzione che stava per porsi in essere, non fosse altro che "che l’antica Costituzione della Sicilia, regolata e resa più analoga ai bisogni ed ai lumi della moderna società"(48).
La Costituzione siciliana del 1812 costituì un unicum tra le Costituzioni contemporanee, che si richiamavano tutte più o meno da vicino al modello francese. Tuttavia, essa si collocava, come quella spagnola dello stesso anno, al margine del venticinquennio rivoluzionario, aperto dalla Rivoluzione Francese e chiuso dal congresso di Vienna, e pertanto era destinata ad avere vita breve. L’influenza della Rivoluzione Francese con tutto ciò che aveva causato in Europa stava per esaurirsi, e di conseguenza anche queste esperienze costituzionali, animate da principi diversi, sebbene coeve, seguirono lo stesso destino(49). Ma, mentre la Costituzione spagnola era spiccatamente democratica e radicale, e si collocava in continuità diretta con le aspirazioni dell’Ottantanove, la Costituzione Siciliana può considerarsi quasi "l’anello di congiunzione" tra il periodo rivoluzionario e la Restaurazione(50). In effetti la carta siciliana si collocava nello spazio tra le costituzioni giacobine, quasi atti di rivendicazione, che tenevano in grande considerazione la sovranità popolare e i diritti, e le costituzioni della Restaurazione(51): la Costituzione siciliana si presentava come la più moderata e compromissoria tra le carte coeve.
Secondo il giudizio di Romeo, la Costituzione può dirsi "la soluzione che il settore più avanzato della vecchia classe dirigente diede, o propose, del problema posto dall’apparizione della nuova borghesia agraria nella vita politica ed economica del paese"(52). Certamente costituisce un momento di progresso nella storia della Sicilia, ma è un progresso limitato dalla "scarsa maturità" del baronaggio in rapporto alle nuove esigenze sociali. Romeo afferma il valore progressivo della Costituzione del 1812 ma ne sottolinea con altrettanta forza i limiti dovuti al persistere di un’economia e di "un mondo etico sostanzialmente feudale, mentre l’Europa veniva rinnovata dalle armate rivoluzionarie"(53).
La carta siciliana è sicuramente una Costituzione innovatrice e si colloca tra quelle rivoluzionarie, ponendosi in aperta rottura con il regime precedente, ma non ha il valore e la potenza evocatrice di quella spagnola, che diventa un manifesto ideologico. La Costituzione Siciliana è la più rispettosa dell’ordine sociale e politico preesistente, è frutto di compromesso e continua transazione tra le parti politiche(54), la sua collocazione temporale, a margine del periodo cui appartiene, dimostra come anche il mondo intellettuale siciliano fosse arretrato rispetto alle idee che circolavano in Europa, avendo come conseguenza che l’esperimento costituzionale siciliano ebbe inizio quando le affini esperienze europee terminavano(55).
Riguardo alla suddivisione cronologica i lavori del Parlamento del 1812, proclamatosi "assemblea costituente"(56), possono considerarsi divisi in tre fasi: una prima, che va dal gennaio al giugno del 1812, fu quella preparatoria. Durante questo periodo venne elaborata la nuova Costituzione, da sottoporsi per il placet a Sua Altezza Reale. Il progetto, materialmente redatto dall’abate Balsamo, venne sottoposto a Lord Bentinck, il quale in una lettera a Castlereagh lo approva: "Lessi lo schema di una Costituzione modellata su quella inglese, ma con grande moderazione e saggezza modificata ed adattata allo stato di una società degradata, con taluni salutari limiti alla libertà di stampa, e la temporanea sospensione del processo per giuria"(57).
Durante la seconda fase, da giugno a novembre, del primo Parlamento della nuova era, ancora suddiviso secondo la tradizione in tre bracci, si tenne una lunga sessione parlamentare durante la quale furono dibattute le leggi sulla divisione dei poteri, sulla riforma amministrativa, sulla libertà di stampa e sulla carta dei diritti, che insieme alle Basi costituirono il nucleo fondamentale della nuova Costituzione di Sicilia.
Il terzo periodo fu quello successivo alla chiusura del Parlamento (novembre 1812-maggio 1813), durante il quale fu attuata la riforma amministrativa e fu convocato per l’anno successivo il Parlamento costituzionale di nuova concezione(58). L’ultimo Parlamento "vecchio rito" fu anche quello che creò i successivi. Fu quindi un’istituzione che sotto quella forma sarebbe sparita a creare quella che l’avrebbe soppiantata. In questo si manifestava già un’incoerenza di fondo: i baroni non si sarebbero mai privati di quei privilegi che avevano permesso la loro sopravvivenza come casta, se non per tentare di puntellare ancor meglio la loro preponderanza sociale. Ancora di più: non avrebbero rinunciato a nulla se non col fine di difendere, a scapito delle altre classi e del sovrano, i propri interessi. Il baronaggio rinunciò "ai propri secolari privilegi" ma, per dirla col Pontieri, "non senza disinteresse"(59). Per questo motivo alla chiusura del Parlamento cominciarono i dissidi interni al "partito inglese" sulla Costituzione appena nata.
Fu lo stesso Castelnuovo a consigliare al Vicario di non approvarne tutte le parti, e segnatamente quella sulla riforma amministrativa, giudicata eccessivamente democratica(60). Dopo un primo momento di apparente accordo di tutte le componenti parlamentari, quindi, vennero fuori quei dissidi che avrebbero provocato, fin dalla sua apertura, l’ingovernabilità del primo Parlamento costituzionale, quello del 1813. Persino per le elezioni dei rappresentanti alla Camera dei Comuni, eletti per la prima volta, non mancarono i dissidi. Bentinck aveva incoraggiato i costituzionali, sottolineando l’enorme importanza di questa prima elezione dei rappresentanti dei Comuni. Ma nella formazione del nuovo Parlamento "le elezioni furono per la maggior parte l’opera del caso"(61). Il primario obiettivo del governo Castelnuovo era quello di smantellare totalmente e definitivamente l’edificio feudale. I suoi maggiori oppositori in ciò erano certamente i belmontisti, per questo motivo fu tentata l’alleanza con i democratici. Nessuno vide di buon occhio il legame di Castelnuovo con Gagliani, né all’interno del suo gruppo, né fra i belmontisti che lessero l’alleanza elettorale solo come attacco personale contro di loro(62). Solo Bentinck aveva approvato, anzi caldeggiato un ampliamento delle basi parlamentari del gabinetto Castelnuovo: "ciò che più sentitamente consigliavo era di unire il Gabinetto dei Pari con i rappresentanti più rispettabili dei Comuni, che avrebbero potuto dare sostegno maggiore ai nobili e alla Corona"(63). Ma presto i lavori dell’assemblea si arenarono per quello che accadeva dentro e fuori dal Parlamento, così che l’unico periodo di produzione legislativa fu durante il mese di agosto.
Effettivamente i baroni continuarono per tutta la legislatura, come avevano già fatto nella fase elettorale, ad avvertire i democratici, all’interno del Parlamento, come un corpo estraneo imposto da Castelnuovo, e a pensare che con essi fosse impossibile collaborare. Le idee democratiche, d’altronde, andavano verso un assetto politico volto all’allargamento delle basi popolari dello Stato, in luogo della visione aristocratica dei costituzionalisti che desideravano che il Parlamento fosse espressione di un’elite che si assumesse la responsabilità delle sorti della Sicilia. Una dirigenza ristretta, per il semplicissimo fatto che solo un ristretto numero di siciliani era in grado e perciò aveva il diritto e il dovere di assumersi responsabilità politiche. D’altra parte la genesi stessa della Costituzione mostrava di essere sottesa da questa concezione.
La nuova Carta era frutto di un accordo tra gli aristocratici, i quali non avevano chiesto alcuna legittimazione pubblica prima di agire. I baroni non ne avvertivano il bisogno, poiché si sentivano, per la loro posizione di nascita, i soli depositari di quel sapere e di quella saggezza che permetteva loro di agire in nome di tutte le componenti dello stato: essi erano la "Nazione". Non si erano chiesti quale fosse il bene della Sicilia, avevano semplicemente dato per scontato che coincidesse con il loro e cioè con il ripristino del ruolo di corpo intermedio tra sovrano e popolo(64). Il tutto senza minimamente preoccuparsi di consultare quel popolo del quale si sentivano rappresentanti. Ma che i programmi e le aspirazioni non coincidessero né con le esigenze dei nuovi ceti emergenti, né, ovviamente, con quelle del popolo minuto non fu dal Parlamento costituente minimamente preso in considerazione.
Gli articoli approvati dal primo Parlamento elettivo di Sicilia furono dunque pochi, non solo per il poco tempo, ma anche perché il repentino cambio di maggioranza non aveva permesso che si approntasse un piano di attività legislativa(65). Fu votato l’esercizio provvisorio limitatamente ai mesi di settembre e ottobre, autorizzato il pagamento all’armata britannica di 150.000 pezzi di Spagna, confermata la Lista civile, rinnovato il soldo alle truppe, stabilite le modalità di denuncia delle rendite fondiarie (riveli), modificata la legge sui Consigli Civici riguardo la possibilità di fissare il prezzo dei generi di consumo(66). A differenza della produzione legislativa della sessione parlamentare precedente furono votate quelle leggi che era impossibile continuare a rinviare. Tuttavia fu lasciato in sospeso il problema dell’esercizio finanziario o, per lo meno la sua discussione fu solo rinviata ai mesi successivi.
Ma più significativo delle leggi approvate fu il programma del partito democratico, la cui forza andò aumentando, dopo la crisi di luglio, fino a diventare il partito di maggioranza alla Camera dei Comuni(67). Nel luglio del 1813, infatti, Palermo fu percorsa da una rivolta popolare dovuta alla crisi alimentare, che si aggiungeva alla minaccia della peste proveniente da Malta attraverso le navi dell’Inghilterra, le cui truppe non rispettavano esattamente le disposizioni della Deputazione di Sanità e anche per questo diventavano sempre meno popolari(68). Il Consiglio di Stato prese provvedimenti impopolari e chiuse le Camere senza seguire la procedura corretta e istituendo una corte militare per processare i responsabili della rivolta(69). I moti di piazza, provocati essenzialmente dal carovita, erano stati interpretati come opera di emissari francesi, che si diceva sobillassero il popolo e finanziassero i democratici. Quello che era solo un tumulto provocato dalla fame si trasformò in crisi politica, screditando ulteriormente il governo che non aveva trovato modo migliore per sedare la rivolta che fare eseguire due condanne capitali(70).
Il programma politico dei democratici inseguiva uno scopo principale: una correzione in senso democratico della Costituzione del 1812 che permettesse una predominanza del potere legislativo sull’esecutivo. Ma soprattutto un ampliamento dei poteri della Camera dei Comuni, investita del potere dall’elettorato e dunque di esso autentica rappresentante(71). Il Governo, secondo la lettera della Costituzione, era svincolato da una maggioranza parlamentare, non doveva presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia(72). Questo rientrava nella posizione conservatrice della dirigenza costituzionale che propendeva "per una preminenza del gabinetto su tutto il sistema"(73).
In realtà l’errore più grave dei democratici fu quello di non riuscire a conquistare alla propria causa la campagna e le masse cittadine. Così la loro azione fu animata soprattutto dalla necessità di resistere da una parte al governo e dall’altra ai suoi alleati britannici che tentavano di imporlo con la legge marziale. Non compresero l’importanza dell’occasione che gli inglesi avevano offerto, e sottovalutarono il rischio di un rovesciamento di alleanze che, isolando il partito costituzionale, abbandonava le istituzioni in balia dei personaggi più reazionari(74). I democratici si rifiutarono di votare una legge finanziaria completa, cercando di apportare alla Costituzione delle modifiche sostanziali. Di "ritocchi" e "rettifiche" alla Costituzione avevano parlato sia il Vicario che il più avanzato gruppo di Aceto(75), i democratici chiedevano certamente più incisivi cambiamenti. Soprattutto chiedevano l’abolizione totale dei fedecommessi, l’ammissione alle magistrature municipali dei "ricchi" pur senza rendita(76), l’organizzazione delle magistrature e l’istruzione pubblica. Un vero e proprio programma da realizzarsi durante una legislatura durante la quale i democratici fossero stati forza di maggioranza. In effetti detennero quasi sempre la maggioranza dei seggi ai Comuni, ma in realtà, non riuscendo ad introdurre democratici nell’esecutivo, non agirono come partito di governo né riuscirono a portare a termine i loro programmi(77).
Quando il Parlamento si chiuse, in ottobre, e fu imposta una sorta di pacificazione politica grazie alle armi inglesi. Si assistette ad eccessi di ogni genere, ad incarcerazioni per abuso di libertà di stampa e a sostituzioni d’ufficio di magistrati municipali in odore di giacobinismo sostituiti da uomini di partito(78). I parlamentari della legislatura del 1814 furono di specchiata fede costituzionale, grazie ai maneggi del ministro Bonanno, il quale non agì affatto come il suo predecessore Castelnuovo, ma usò ogni mezzo per assicurare al "partito inglese" una salda maggioranza. Tutta la legislatura fu occupata dai ricorsi dei democratici verso quelle elezioni reputate illegali, con un Parlamento totalmente bloccato che non riusciva a dar vita a nessun progetto di legge rilevante. Fu prolungato l’esercizio finanziario per tutta la durata della sessione parlamentare senza riuscire a condurre in porto un compiuto piano di finanze. Finché nel giugno, per non essere scavalcato dai realisti o essere escluso dai democratici, Belmonte fece quella proposta che riportò il re al potere(79).
Col ritorno del sovrano e la partenza di Bentinck furono ripristinati i ministri Ferreri, il duca Avarna di Gualtieri, Naselli e il Duca Lucchesi Palli, cancellando il periodo della legge marziale e il gabinetto appena licenziato(80). Il re ottenne che il Parlamento si sciogliesse e cominciò a prepararsi la via per il suo rientro a Napoli. Nel primo Parlamento costituzionale, indipendentemente dai risultati, si erano visti gli sforzi compiuti per tenere in vita le traballanti istituzioni appena nate, in quello successivo, invece, le discordie interne, i maneggi illegali, le personali invidie avevano reso inutile ogni tentativo di gestire l’assemblea affinché svolgesse la sua attività. Ancora una volta mancava un piano di finanze e il riordino dei codici e delle magistrature, mentre erano stati del tutto abbandonati i progetti di riforma in senso democratico dell’accesso alle magistrature municipali e le leggi sociali sull’istruzione.
Nell’autunno del 1814 si aprì il terzo Parlamento, che fu caratterizzato da una fervida attività legislativa, che vide la proposta di moltissimi progetti di legge di enorme importanza. Fu proposta la censuazione dei beni ecclesiastici e demaniali, progetto che avrebbe avuto un grande peso economico, ma fu avvertito come un attentato alla proprietà privata. Si cercò di disciplinare i contratti di enfiteusi. Un’altra proposta fu la regolamentazione dei conventi e della vita monacale, al fine di limitare l’istituzione di nuovi conventi e monasteri. Si approntò il piano di riordino della magistratura, e la legge per l’Alta Corte. Vennero finalmente fissate norme precise per la convocazione dei consigli civici, il quorum per la validità delle decisioni assunte, diritti e doveri di consiglieri e capitani, le conseguenze penali o multe in denaro cui sottoporre i consiglieri assenteisti. Finalmente si creava una legge che desse una risposta certa a tutti i dubbi applicativi che avevano agitato le precedenti tornate elettorali, e al tempo stesso permesso l’ingerenza governativa e le pressioni dei Capitani di Giustizia.
Ma la Costituzione era già condannata. Da una parte la dirigenza siciliana non aveva fatto abbastanza per difenderla, ma soprattutto la congiuntura internazionale non dava più speranza al sogno della Costituzione siciliana. Ciò che restò di essa fu soltanto l’abolizione dell’ordinamento feudale, il resto fu sostituito da uno statuto di decentramento burocratico(81). La monarchia, inoltre utilizzò gli strumenti della nuova suddivisione amministrativa per impiantare su di essa la formula degli intendenti napoleonici(82). Il risultato maggiore fu forse quello di aver introdotto attivamente sulla scena politica una classe diversa dalla nobiltà. Essa continuò, anzi, costituì ancor di più la più accesa oppositrice del potere centrale. La borghesia siciliana, al contrario, cominciò a istaurare quei collegamenti con il movimento risorgimentale nazionale che la proiettarono nel Risorgimento(83).
III. L’eredità sulla vita politica dell’Ottocento
Tuttavia, come osservava Niccolò Palmieri, "i Siciliani a forza di discutere sui diritti de’ baroni vennero tratto tratto conoscendo i dritti loro"(84).
La Costituzione del 1812, secondo Buttà, ebbe infatti "il valore di una rivoluzione copernicana e stabilì il primo contatto con il pensiero e la civiltà politica dell’Inghilterra. Locke, Hume, Blackstone, Bolingbroke furono gli autori ai quali maggiormente si guardò da uomini come Polo Balsamo, Domenico Scinà, Niccolò Palmieri, Giovanni Aceto, mentre gli avvenimenti politici incalzanti ponevano a fronte l’esplosione rivoluzionaria francese con le ormai consolidate tradizioni liberalcostituzionali inglesi. Tutto ciò dovette dare una spinta decisiva al compimento della scelta costituzionale da parte della nobiltà, mentre la borghesia, che prima aveva guardato al riformismo assolutistico, venuto questo ad interrompersi, faceva necessariamente confluire la sua iniziativa politica con quella dell’aristocrazia. Le stesse Considerazioni del Gregorio agirono in senso antiassolutistico ‘rafforzando […] l’interesse per i vecchi ordinamenti isolani e promuovendo perciò il risveglio della coscienza costituzionale’ e il democratismo isolano, tranne qualche estrema frangia giacobinica non pensò mai ad un sovvertimento violento delle istituzioni e dell’ordinamento sociale. Non è un caso dunque che Castelnuovo e Belmonte affidassero a Paolo Balsamo l’incarico di preparare un progetto di costituzione; egli rappresentava infatti il momento di congiunzione della nuova cultura mediata attraverso Locke e Montesquieu, con l’istanza politica di una riforma della società e dello Stato"(85).
Tornando alla struttura della Costituzione e al suo destino, bisogna aggiungere che nei pochi anni della sua vigenza, l’elaborazione interna necessaria ad un sistema appena nato, con tutte le scosse del caso, in Sicilia durò veramente poco. Troppo pochi anni perché il neonato ordinamento potesse strutturarsi o la classe politica più innovatrice formarsi compiutamente.
Bisogna sottolineare come l’ala radicale avesse avuto un’enorme vittoria, avendo reso il governo, totalmente privo di iniziativa politica, prigioniero del Parlamento, al quale venne anche attribuita la direzione della finanza pubblica.
All’articolo II delle Basi, infatti, si legge: "Che il potere Legislativo risiederà privativamente nel solo parlamento. Le leggi avranno vigore, quando saranno da Sua Maestà sanzionate. Tutte le imposizioni di qualunque natura dovranno imporsi solamente dal Parlamento ed anche avere la Sovrana Sanzione"(86), e al primo paragrafo del capitolo I del titolo I, Potere Legislativo, si afferma che "Il potere di far le leggi, interpretarle, modificarle, ed abrogarle risiederà esclusivamente nel parlamento. Ogni atto legislativo però avrà forza di legge, e sarà obbligatorio, tosto che avrà la Sanzione del Re"(87), così che solo un’iniziativa dell’assemblea avrebbe potuto sottrarre il governo ad eventuali empasse future. Al sovrano restava solo il potere di placet o di veto, senza possibilità di apportare modifiche(88). In realtà, era stato il baronaggio che, nel tentativo di limitare i poteri della Corona, aveva ampliato quelli dell’assemblea(89), rendendola, come si vedrà in avanti, per certi versi incontrollabile, e che aveva sottratto qualsiasi potere di iniziativa legislativa all’esecutivo, cioè al re(90), benché nella Costituzione inglese egli fosse parte integrante del potere legislativo. Nonostante ciò in realtà i due poteri avevano la possibilità di osteggiarsi a vicenda(91): le camere potevano, come fecero, rimandare indefinitamente la discussione di determinati argomenti – i Comuni con le leggi finanziarie – , appartenendo solo ad esse il potere di iniziativa, e il re, da parte sua, poteva negare quante volte avesse voluto il placet, bloccando il sistema.
La Costituzione del 1812 rappresentò, secondo Romeo, "Il trionfo di una concezione ispirata alla moderna libertà sul mondo delle ‘libertà’ antiche", e contemporaneamente agì in direzione di porre "le fondamenta di una redistribuzione della proprietà terriera più conforme ai nuovi rapporti economici stabilitisi nell’isola". Tuttavia, egli intravedeva nella poca "coscienza dell’aristocrazia baronale" il limite fondamentale del valore della carta costituzionale siciliana(92).
Secondo Buttà, sebbene il testo costituzionale rappresenti "lo sbocco necessario" dell’aristocrazia siciliana e del partito democratico, pure esso è espressione compiuta del repentino "crollo del vecchio regime e la svolta liberale del sistema politico" dell’isola. Alla luce di quanto accadde all’indomani della sua pubblicazione, però, come sosteneva polemicamente Michele Amari, vi era forse l’opportunità che "non fosse il Parlamento a fare la nuova costituzione ma che si aggiungessero nuovi capitoli all’antica o che essa si fosse fatta accordare dal potere regio"(93).
Giuseppe Buttà, giudica riduttivo valutare la Costituzione "dall’esito della lotta politica in un periodo così breve come quello in cui la Costituzione ebbe vigore". Certamente, un Parlamento che per tre legislature di seguito, tutte cessate prima del loro termine naturale, ridiscuteva la Costituzione, "se vedeva esaltato il suo potere costituente, si trasformava però in un pericoloso meccanismo di esasperazione del conflitto anziché in un organo ordinario di direzione politica". Anche la divisione tra "cronici" e "anticronici" non rappresentò una normale articolazione in partiti interna al Parlamento, ma "la contrapposizione dei moderati che appoggiavano la Costituzione e degli estremisti ultrademocratici e ultraconservatori che convergevano nell’attaccarla per poterla trasformare e asservire ai propri fini"(94). Il senso dell’esperimento costituzionale non si limitò ai pochi anni di attuazione, ma rappresentò a lungo uno spartiacque nella successiva storia siciliana e nelle vicende dei protagonisti di quella vicenda politica: "Il Principe di Castelnuovo, protagonista tra i più importanti della lotta politica in Sicilia dal 1810 al 1815, non aveva dimenticato ancora nella sua tarda età il tradimento che nel 1816 la monarchia borbonica aveva perpetrato contro la Sicilia non solo abolendo di fatto la Costituzione del 1812 ma decretando anche la fine dell’indipendenza del Regno; così egli, nel suo testamento, dava sfogo alla sua amarezza e alla sua disillusione istituendo un legato di quarantamila once per "quell’uomo di stato che indurrà il re a restituire alla Sicilia la sua Costituzione""(95).
La Costituzione del 1812 – osserva ancora Buttà – "morta con l’insperata gloria di una morte violenta", era pure rimasta non solo un ideale politico che guidò e finalizzò la lotta politica in Sicilia fino almeno al 1848, ma, cosa ancora più importante, essa era ormai vivente nella società di cui aveva radicalmente modificato i rapporti giuridici, sociali e politici, abolendo finalmente la feudalità con una soluzione certamente aperta alle istituzioni e alle idee liberali e costituzionalistiche più mature in quell’epoca(96).
Cristina D’Urso
NOTE
* Estratto della tesi dal titolo Rappresentanza politica e sistema elettorale nella Costituzione siciliana del 1812, elaborata nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Storia del Costituzionalismo e del Repubblicanesimo, XVII ciclo, Università degli Studi di Messina, Coordinatore e Tutor Prof. Giuseppe Buttà .
(1) E. Sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), Catania, Bonanno, 1966, p. 34.
(2) Ibidem.
(3) Ivi, p. 35; cfr. anche F. Renda, La Sicilia nel 1812, Caltanissetta, Sciascia, 1963.
(4) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 36
(5) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818): Alle origini del modello siciliano, in "Clio", 1995, p. 13.
(6) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo, cit., pp. 5-63, p. 22.
(7) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 37.
(8) J. Rosselli, Lord William Bentinck and the British Occupation of Sicily 1811-1815, Cambridge University Press, Cambridge 1956; trad. it.: Lord William Bentinck e l’occupazione Britannica in Sicilia 1811-1814, a cura di M. D’Angelo, Palermo, Sellerio, 2002, p. 67.
(9) G. F. Leckie, Historical Survey of the Foreign Affairs of Great Britain,(1808), citato in J. Rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 67.
(10) M. D’angelo, Tra Sicilia e Gran Bretagna, in J. Rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 16 e segg.
(11) Ivi, cit. p. 17.
(12) Sul "partito inglese" e sul "laboratorio politico" cfr. G. Giarrizzo, la Sicilia dal Cinquecento all’Unità, in . D’Alessandro – G; Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità, Utet, Torino 1989.
(13) M. D’angelo, Tra Sicilia e Gran Bretagna, cit., p. 19.
(14) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo, cit., p. 13.
(15) G; F. Leckie, Historical Survey of the Foreign Affairs of Great Britain, (1808).
(16) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 39.
(17) N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, Lausanne 1848; con introduzione di E. Sciacca, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1972, p. 156.
(18) Citato in E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 40: "La Sicilia non è la magna Britannica né che la cappa di un enorme gigante non poteva mai adattarsi alla statura di un pigmeo".
(19) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 42 e sgg.
(20) Ivi, p. 115.
(21) Sulla storia del Parlamento cfr. C. Calisse, Storia del Parlamento in Sicilia dalla fondazione alla caduta della monarchia, Torino 1887; L. Genuardi, Parlamento Siciliano, in Atti delle Assemblee Costituzionali italiane dal Medioevo al 1831, Bologna 1924; A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medioevo e nell’età moderna, Milano 1962; G. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, in Storia della Sicilia, Napoli 1977, vol. VII.
(22) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 43.
(23) Ivi, p. 79.
(24) R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950., p. 60.
(25) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p 46.
(26) Ivi, p. 46.
(27) G. Aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti con l’Inghilterra nell’epoca della Costituzione del 1812, Palermo 1848; rist. con Introduzione di F. Valsecchi, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1970, pp. 70
e segg.
(28) R. Romeo, Il Risorgimento, cit., p. 16.
(29) Ivi, p. 62.
(30) "ho trovato in tutti i paesi […] la classe di mezzo, essere la più capace" Lettera cit. in B. Croce, Il marchese Caracciolo, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1943, p. 96.
(31) G. Buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, in Storia della Sicilia, Napoli, 1977, VII, pp. 41-42.
(32) Ivi, p. 44.
(33) Ivi, p. 42.
(34) Ibidem.
(35) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p 47
(36) Ibidem.
(37) f. renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit., p. 276.
(38) Ibidem.
(39) n. palmeri, Saggio storico e politico, cit., p. 150.
(40) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 61-62.
(41) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 99.
(42) Ivi, p. 100.
(43) Ivi, p. 101.
(44) P. Balsamo, Sulla istoria moderna del Regno di Sicilia, cit., p. 115.
(45) Ivi, p. 116.
(46) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p 104.
(47) P. Balsamo, Sulla istoria moderna del Regno di Sicilia. Memorie segrete (1816), Palermo 1848; rist. con Introduzione di f. renda, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1969, p. 95
(48) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 9.
(49) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 12.
(50) Ibidem.
(51) Ivi, p.13.
(52) r. romeo, Il Risorgimento, cit., p. 153.
(53) Ivi, p. 154.
(54) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 13.
(55) Ibidem.
(56) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 166. Aceto definisce questo un gravissimo errore dei costituzionali, poiché, se avessero avuto la forza di imporre una costituzione già fatta, piuttosto che farla deliberare alla Nazione, non sarebbero incorsi in quei compromessi che snaturarono la Costituzione e ne causarono il fallimento.
(57) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 116.
(58) f. renda, La Sicilia nel 1812, Sciascia, Caltanissetta 1963, p. 212.
(59) e. pontieri, Ai margini della costituzione siciliana del 1812, in XX congresso della Società Nazionale per la storia del Risorgimento, Roma 1933, p. 131.
(60) f. renda, La Sicilia, cit., p. 284.
(61) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 139
(62) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 188-189.
(63) Ivi, p. 187.
(64) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 218 "… allargare così l’influenza dell’aristocrazia a spese della monarchia e del terzo stato".
(65) Ivi, p. 349.
(66) Costituzione del Regno di Sicilia, raccolta de’ bills e de’ decreti de’ Parlamenti di Sicilia 1813,1814 e 1815, per servire di continuazione alla Costituzione Politica di questo Regno formata nell’anno 1812. Generale Parlamento I, pp. 5 e segg.
(67) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 174.
(68) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 327.
(69) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 194
(70) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 329.
(71) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 175.
(72) Costituzione del Regno di Sicilia, Tit. II, Potere esecutivo. Nessun articolo o paragrafo parla del legame tra governo e maggioranze parlamentari.
(73) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 175.
(74) f. renda, La Sicilia, cit., p. 342-343.
(75) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 182.
(76) Ibidem.
(77) Ivi, p. 185.
(78) f. renda, La Sicilia, cit., p. 487.
(79) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 247.
(80) Ivi, p. 249.
(81) f. renda, La Sicilia, cit., p. 546.
(82) Ibidem.
(83) Ivi, p. 547.
(84) n. palmieri, Saggio storico e politico, cit., p. 58; g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., pp. 42-43.
(85) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., p. 45.
(86) Costituzione del Regno di Sicilia, art. II, Basi.
(87) Costituzione del Regno di Sicilia, Tit. I, cap. I. § 1.
(88) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit. p. 46.
(89) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 115.
(90) Ibidem.
(91) Ibidem.
(92) r. romeo, Il Risorgimento, cit., pp. 152 e segg.
(93) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., p. 45.
(94) Ivi, p. 48.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.
Se nell’Ottocento, l’esortazione "Look now to the United States" testimoniò dell’entusiasmo di Jeremy Bentham per la giovane nazione statunitense, negli anni dei suoi primi scritti, invece, erano prevalsi gli attacchi e le riserve nei confronti della Dichiarazione d’Indipendenza e della Rivoluzione americana.(1) Questi scritti, nella seconda metà del Settecento, furono caratterizzati dalla critica netta, mai rinnegata, al giusnaturalismo e alla concezione contrattualistica.(2) Si trattava di una costante confutazione delle leggi di natura e dell’idea di un potere legislativo supremo, che si supponeva derivasse da una Costituzione fissa e immutabile. In quel periodo, il filosofo inglese avviò una stretta collaborazione con John Lind, appena reduce da dodici stagioni nel Levante e nell’Europa centrale con le funzioni di ambasciatore del re di Polonia, che, seppure non ufficialmente, avrebbe continuato a svolgere anche a Londra. Dal 1773, l’intesa fra Bentham e Lind,(3) amico di famiglia del filosofo e prete mancato, fu particolarmente intensa sul piano intellettuale e politico. Tra l’altro, sembra che sia stato lo stesso Lind a suggerire a Bentham il progetto di un attacco ai Commentaries on the Laws of England (1765-69) di William Blackstone, scrivendo la prima stesura dell’inizio di Comment on the Commentaries, di cui lo stesso Frammento sul governo (1776) costituiva una derivazione. In parallelo con il celebre attacco del Frammento alle idee di William Blackstone,(4) è possibile quindi cogliere l’attenzione del primo Bentham nei confronti degli Stati Uniti: nello stesso periodo della pubblicazione anonima del Frammento, egli si confrontava, infatti, con la rivoluzione americana. Così, mentre Bentham dava un importante contributo a due pamphlet firmati da Lind, Remarks on the Principal Acts of the 13th Parliament of Great Britain (1775) e An answer to the Declaration of the American Congress (1776),(5) allo stesso tempo Lind partecipava alle prime fasi di A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government di Bentham.
Negli scritti di Lind, pubblicati su commissione della Corona inglese, in polemica con la rottura imposta dalle colonie, emerge una chiara impronta benthamiana nell’opposizione all’idea di diritto naturale, alla base della Dichiarazione d’Indipendenza. Si tratta di un primo, significativo esempio di radicalità filosofica e politica, finalizzata a respingere ogni tesi giusnaturalistica e contrattualistica. Una radicalità che, come si cercherà di dimostrare, non trova eguali accenti polemici neppure in un pensatore come David Hume (1711-1776), fondamentale punto di riferimento utilitarista.
I. La critica al diritto naturale
Nel primo pamphlet di Lind, si legge che gli americani hanno scoperto, a suo avviso inopinatamente, "che in tutti gli Stati liberi la Costituzione è fissa e […] inalterabile" e che "il supremo potere legislativo dello Stato […] deriva la sua autorità dalla Costituzione".(6) "Io proprio non so che cosa intendano questi signori per Costituzione", è la replica di Lind, nella quale si sente anche l’influenza di Bentham soprattutto circa l’impossibilità di trovare quelle leggi di natura di cui gli americani si dichiarano così esperti, pretendendo in base ad esse di giudicare la validità delle leggi del Parlamento.(7) Seguendo le linee portanti di Bentham, Lind scriveva: "Io non conosco altri diritti, in uno Stato della società civile", salvo quelli creati dalla legge.(8)
L’anno dopo, anche nel secondo scritto, egli contestava le leggi di natura.(9) Lind, ancora una volta con l’apporto di Bentham, si domandava quali fossero le differenze che "questi acuti legislatori" avevano supposto fra le leggi di Dio e quelle di natura. Queste differenze, emerge nel testo, sono impossibili da determinare o immaginare. Un altro attacco significativo è diretto alla massima che "tutti gli uomini sono creati uguali". Da qui, si legge nella risposta alla Dichiarazione, si dovrebbe desumere che un bambino, al momento della nascita, abbia la stessa rilevanza del suo genitore, dal punto di vista del potere naturale, o lo stesso potere politico di un magistrato. Tutto questo è assurdo, scrive Lind. Così come, e siamo ancora nel solco della critica profonda al diritto naturale di stampo benthamiano, è inconcepibile che i diritti di "vita, libertà, e ricerca della felicità" siano inalienabili e considerati nell’ambito delle verità evidenti. Secondo la Dichiarazione d’Indipendenza, è proprio per assicurare questi diritti che si istituiscono i governi. Per cui, in base a questa concezione, si potrebbe sostenere che il governo non possa agire a danno di uno solo di questi diritti. Ad esempio, tutte le leggi penali che toccano la vita o la libertà sarebbero contrarie alla legge di Dio e agli inalienabili diritti del genere umano.(10) Così, nel secondo scritto firmato da Lind, si denunciava l’ "assurdità" della Dichiarazione d’Indipendenza e dell’idea di questi "diritti inalienabili". Per l’autore del pamphlet, i padri fondatori sostenevano principi del tutto incompatibili con la condotta delle colonie.
Se il diritto di godere della propria vita è inalienabile, ci si domandava, come mai si è proceduto all’invasione del Canada, appartenente a Sua Maestà? Come mai non si è evitato di stroncare molte vite degli abitanti di quella provincia? Se il diritto di godere della libertà è inalienabile, come mai molti pacifici sostenitori del re sono stati incarcerati senza avere commesso alcun reato, solo perché erano sospettati? Così come, se il diritto alla ricerca della felicità è inalienabile, come mai molti cittadini del Canada subirono ingiustizie e violenze, e le loro fortune furono annientate? Per Lind, si tratta di vere e proprie assurdità. Altrimenti, si dovrebbe dedurre, nel caso degli atti di coercizione, che legittimi governi compiano atti illegali. I principi della Dichiarazione d’Indipendenza, dunque, vengono giudicati degni di "antichi fanatici".(11)
Non siamo lontani dal Bentham che, anni dopo, avrebbe ancora attaccato i presupposti teorici su cui si regge la rivoluzione americana nella nota conclusiva alla celebre Introduzione ai principi della morale e della legislazione.(12) Un commento che non si discosta molto dai passi di questi primi scritti. Le affinità fra questi testi emergono soprattutto nei punti in cui si afferma che, se ci si attenesse ai principi americani, tutte le leggi penali che incidono sulla vita o sulla libertà dovrebbero essere dichiarate contrarie alla legge di Dio e agli inalienabili diritti del genere umano.(13) Di certo, nel secondo pamphlet di Lind, come rileva Hart, assistiamo al primo impegno da parte di Bentham nel campo di una "lunga e scettica campagna condotta contro la dottrina dei diritti naturali e inalienabili dell’uomo".(14) Nella parte intitolata Short Review of the Declaration, si ha anche un’anticipazione dell’esame critico della dottrina dei diritti naturali, che il filosofo inglese elaborerà in seguito alla Rivoluzione francese.(15) Sono tutti elementi da cui si può dedurre una costante del pensiero di Bentham, non intaccata dall’adesione al radicalismo dei primi anni dell’Ottocento: l’avversione nei confronti di ogni impostazione giusnaturalistica, di pari passo con un costante confronto critico con il contrattualismo.(16)
II. Un confronto con Hume
Sempre nel 1776, Bentham pubblica il Frammento sul governo, incentrato sull’attacco ai Commentaries of the Laws of England (1765-69) di Blackstone. In particolare, egli cita David Hume e la "chimera" del contratto originario,(17) con una radicalità che è difficile riscontrare nello stesso autore del Trattato sulla natura umana, mentre non ne mancano gli esempi in diversi passi degli scritti di Lind-Bentham. Pur essendo netta e tutt’altro che accomodante, l’ostilità di Hume nei confronti del contratto originario, espressa nei Political Discourses,(18) datati 1752, non assume gli accenti estremi di Bentham.
Nel Frammento, si osserva che l’"enigma" del contratto originario non viene risolto perché è impossibile uscire dalla "nebbia".(19) Il punto di partenza è l’idea positiva di società politica, contrapposta a quella negativa di società naturale.(20) Per Bentham, lo stato di società naturale esiste quando non si registra l’"abitudine all’obbedienza". Per cui, "i governi si allontanano dallo o si avvicinano allo stato di natura, a seconda che l’abitudine all’obbedienza sia rispettivamente più perfetta o meno perfetta".(21) Un altro problema riguarda l’esistenza di questa abitudine perfetta all’obbedienza, ma il filosofo inglese mira soprattutto a dimostrare che lo stato di natura e lo stato di società politica non sono divisi da "una chiara ed esplicita separazione", checché ne pensino i giusnaturalisti. Di conseguenza, non è possibile fare chiarezza sulla realtà dello stato di natura e sul passaggio alla società politica.(22)
Sotto questo punto di vista, non vi è differenza tra il primo Bentham, che rileva l’inconciliabilità tra l’affermazione dei diritti naturali e la condotta di governo, e l’autore che, successivamente, esporrà con altrettanta nettezza il proprio pensiero nella nota aggiuntiva alla Introduzione ai principi della morale e della legislazione. In questa occasione, riferendosi alla Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia, egli si domanderà: "Chi può esimersi dal deplorare che una causa tanto razionale debba basarsi su ragioni più adatte a generare obiezioni che ad eliminarle?".(23) Questa convinzione, riguardo agli Stati Uniti, rimarrà radicata in lui anche quando comincerà a vedere nella nazione americana la massima incarnazione dei principi di utilità. Il suo entusiasmo per la democrazia statunitense non verrà scalfito dall’idea che la nuova nazione fosse fondata su un presupposto ideologico assurdo e sbagliato.(24)
Inoltre, nella sua prima opera, Bentham contesta anche l’affermazione di Blackstone che "quando una società (si intenda società naturale) si è formata, ne deriva di conseguenza un governo (cioè una società politica, quale che sia la quantità o il grado di obbedienza che sono necessari per costituire una società politica), perché esso è necessario per preservare e mantenere nell’ordine quella società". Ma, in questo caso, "la società politica, in tutti i suoi significati, avrebbe dovuta essere fondata molto tempo fa in tutto il mondo". In realtà, per il filosofo, Blackstone non voleva esporre un "fatto", ma un auspicio, ovvero che "sarebbe meglio che il governo" derivasse dalla "società naturale", in modo da preservare e mantenere gli uomini "in quello stato di ordine nel quale per essi è vantaggioso trovarsi".(25) Per Bentham, invece, il fondamento dell’obbligo degli uomini di obbedire al governo non risiedeva in una "tacita promessa riguardo al contratto", bensì negli interessi e nelle necessità della società. Senza questa obbedienza, la società non avrebbe potuto esistere. Da parte loro, i cittadini non avrebbero dovuto essere obbligati a obbedire al potere sovrano, più a lungo di quanto l’avessero considerato nel loro interesse. Per cui, come nota Dinwiddy, nel momento in cui i cittadini si sarebbero disposti alla rivolta, nessuna finzione e nessuna ragione "metafisica-legale" avrebbe avuto l’effetto di farli sottomettere al governo.(26)
L’autore del Frammento esprime la necessità che si faccia chiarezza su un punto: supponendo la veridicità di questo patto tra il re e il popolo, in cui il popolo promette obbedienza al sovrano e quest’ultimo si impegna a governare in modo da garantire la sua felicità, occorre determinare se il re, nel caso concreto, agisca a favore o in contrasto con la felicità del suo popolo. Da qui dovrebbe scaturire la scelta se continuare o meno ad obbedirgli. Tuttavia, per Bentham, accadeva che gli uomini si ritenessero "maggiormente qualificati" a valutare quando la promessa del re fosse stata infranta, piuttosto che a impegnarsi in prima persona per "decidere direttamente e apertamente" sul momento preciso in cui avveniva che un sovrano agisse a tal punto contro la felicità del suo popolo, da richiedere che i suoi sudditi non gli obbedissero più.(27)
In realtà, le ipotesi formulate dal filosofo servono a provare che nessun espediente conduce alla soluzione del rebus sul contratto. Non esiste altra via d’uscita, se non quella di riconoscere l’evanescenza di questo "mito". Pur essendo un aristocratico e un membro di rilievo dei circoli conservatori, il primo Bentham si interroga a fondo su una serie di problemi fondamentali per il funzionamento di una democrazia. Egli non si accontenta delle effimere promesse tra un re e i suoi cittadini. Standogli a cuore gli interessi dei governati, auspica un sistema democratico in cui i sudditi possano concretamente revocare la loro fiducia a chi governa. Al centro della sua riflessione, vi è il principio della massima felicità per il maggior numero di persone. Tra ipotesi e perplessità, procede nella sua valutazione in termini di piacere e di dolore, di vantaggio e di danno per la società.(28) Infine, nel Frammento, egli giunge a "quel fondamento che, unico, non dipende da qualche principio superiore, ma che è esso stesso l’unico fondamento pienamente sufficiente per qualsiasi questione che attenga alla pratica": il principio di utilità.(29)
La sua impostazione si rivela ben più esplicitamente avversa a ogni idea di contratto e di stato di natura, rispetto a quella dello stesso Hume, che così introduce la sua analisi nel saggio dodicesimo dei Political Discourses:
nell’età presente […] noi troviamo che ognuna delle fazioni in cui la nazione è divisa ha costruito un edificio […] al fine di proteggere e di coprire quello schema di azione che persegue. […] L’un partito, facendo risalire il governo alla divinità, cerca di renderlo talmente sacro e inviolabile, che, per quanto tirannico esso possa divenire, debba rappresentare poco meno che un sacrilegio interferire nella sua azione o contrastarlo nella più piccola cosa. L’altro partito, fondando completamente il governo sul consenso popolare, suppone che esista una sorta di contratto originale col quale i sudditi si sono tacitamente riservati la facoltà di resistere al loro sovrano ogni volta che si trovino oppressi da quell’autorità che gli hanno, per scopi determinati, volontariamente affidato.(30)
III. Un saggio sul contratto originale
In questo saggio, dedicato al contratto originale, Hume premette che entrambi i principi speculativi - sia quello che fa risalire il governo alla divinità, sia quello che deriva dal consenso popolare – potrebbero essere definiti giusti, "sebbene non nel senso inteso dai partiti", e gli ordini delle loro pratiche potrebbero essere definiti ragionevoli.(31) Continuando la sua riflessione, il filosofo giunge ad accettare un’idea di contratto, come atto di nascita di ogni governo. Si potrebbe ammettere infatti che "solo il consenso avrebbe potuto originariamente" associare gli uomini, dato che essi sono dotati di una forza fisica e anche di facoltà mentali pressoché uguali. "Per amor di pace e di ordine", quindi, il popolo "rinunciò alla sua originaria libertà per ricevere leggi da un individuo pienamente eguale agli altri". Da questo punto di vista, per Hume, ogni governo potrebbe essere all’origine fondato su un contratto, perché una simile esigenza nasce dalla natura degli uomini e dalle loro più profonde esigenze.(32) Con questo, non si vuole certo dimostrare che Hume desiderasse legittimare le teorie contrattualiste. Tuttavia, risulta particolarmente interessante rilevare quanto l’autore del Trattato sulla natura umana non sottovalutasse il significato del contratto. Egli giungeva ad ammettere, pur non perdendo le sue riserve, che la concezione originaria di contratto nasceva da un antico bisogno dell’uomo. Un bisogno nei confronti del quale Hume non mancava di offrire una certa considerazione. Poi, nei Discorsi politici, a queste premesse seguiva la valutazione che, in realtà, i fautori del contratto non trovavano alcuna corrispondenza alle loro idee nel mondo, né alcuna prova che potesse "giustificare un sistema così sottilmente logico".(33)
L’analisi di Hume appare ricca di sfaccettature. Il filosofo riconosce una certa validità a quel primo accordo, "con cui gli uomini allo stato selvaggio si associarono per la prima volta", unendo le loro forze. E’ vero, però, che lo considera un accordo così lontano nel tempo, superato da "migliaia di cambiamenti di governo e di principi", da non attribuirgli più alcun valore. Nonostante ciò, Hume giunge a sostenere che, da un certo punto di vista, è vero che ogni governo sia fondato sul consenso. Tuttavia, subito dopo, precisa che questo patto volontario non trova alcuna corrispondenza nell’esperienza concreta di ogni Paese.
Nei suoi commenti, Hume sembra oscillare tra l’ammissione che vi sia un governo fondato sul contratto originale e la convinzione che, in realtà, quasi tutti i governi siano stati fondati "o sull’usurpazione o sulla conquista", senza alcun consenso o "volontaria soggezione da parte del popolo". Di certo, se si ammette l’esistenza del contratto originale, il tentativo di ritrovarne le tracce si scontra con una serie di notevoli difficoltà. Si tratterebbe infatti di un contratto così antico da non potere essere conosciuto dalle nuove generazioni.(34) Nel suo saggio, Hume non sottovaluta nemmeno l’importanza del consenso popolare. Egli non intende negare che il "consenso popolare sia uno dei giusti fondamenti del governo", anzi quando si realizza è "il migliore e il più sacro di tutti". Tuttavia, giudica piuttosto rara la possibilità che esso si sia compiuto nella storia dell’umanità.(35)
Sono riflessioni che rivelano un’attenzione differente, nei confronti del contratto, rispetto alla carica iconoclasta di Bentham. Per quest’ultimo, prevarrà comunque il senso della mistificazione, vero contenuto di qualsiasi patto tra un sovrano e il popolo. Di conseguenza, non bisognerà indugiare in riconoscimenti e timide concessioni, che si possono invece cogliere in Hume. Tra molti distinguo, l’analisi elaborata nei Political Discourses risulta complessa e scevra da quella perentorietà che caratterizzerà Bentham. Nel momento in cui muove i primi passi nel campo del pensiero politico, dunque, l’autore del Frammento non si limita a ispirarsi al filosofo scozzese. Con questo, non si vuole certo sminuire o ridimensionare l’influenza fondamentale di Hume sul pensiero di Bentham,(36) ma si intende invece sottolineare l’originalità del suo attacco all’idea di contratto. In particolare, la radicalità di questo attacco costituisce uno degli elementi innovativi del filosofo inglese.
Riguardo ai punti di contatto tra i due, si può sostenere che Bentham sviluppò e rielaborò a fondo alcuni temi già presenti in Hume. Temi come la tutela della proprietà, il concetto di giustizia, e la ricerca di una nuova definizione del diritto e dei valori morali. Il tutto nel quadro di un sistema legislativo civile e penale ispirato all’utilitarismo.(37) In questo ambito, va inserito anche l’approfondimento del concetto di contratto, che trae spunto inizialmente dal commento di Hume. Per entrambi, l’analisi e l’elaborazione del pensiero sono guidati da un metodo sperimentale ed empirico. Come osserva Rosen, i "numerosi piani, schemi, codici, leggi e proposte erano esperimenti", con l’obiettivo di comprendere la società, in funzione del suo benessere. A guidare questi esperimenti erano i bisogni e le necessità degli esseri umani, le passioni e gli interessi comuni.(38) Riguardo al contratto, Bentham porterà alle estreme conseguenze i presupposti da cui era partito Hume. Egli punterà a dimostrare l’insensatezza di questa "chimera", da cui non si sentirà mai attratto nell’arco di tutta la sua produzione filosofica e politica. Le oscillazioni e le sfumature di Hume assumeranno invece in Bentham i contorni di un attacco senza riserve. Per quest’ultimo, "l’esistenza di questo preteso accordo era ed è una favola", ideata dalla cultura whig, ovvero dai giuristi liberali. Una volta data per scontata l’esistenza del contratto, essi tendevano a modificarne i termini, in base all’interesse del momento. Per Bentham, si trattava dunque di una finzione che serviva ad appropriarsi del potere in maniera disonesta. Un sistema nel quale sovrano e legislatori, in nome di questa costruzione artificiosa, soddisfacevano i loro reciproci interessi.(39) Non è certo un moderato, o un conservatore ortodosso, l’autore che così si esprime nella prefazione per la seconda edizione del Frammento:
Il monarca, non essendogli riconosciuta la facoltà del legislatore unico, aveva tutto da guadagnare nel permettere che queste sue sempre licenziabili creature esercitassero il potere, che appartiene a quell’ufficio; perché, con uno strumento così costruito, e sempre a portata di mano – uno strumento che, aumentando continuamente in esperienza, si mostrava così adatto all’uso – rapina e oppressione potevano, in ogni tempo essere attuate: attuate nelle forme e nei modi in cui non avrebbe potuto osare di metterle in pratica lui stesso direttamente, o di proporle in modo aperto ai rappresentanti del popolo.(40)
Le sue, più che le preoccupazioni di un aristocratico, appaiono le riserve di chi ha a cuore le sorti della democrazia, minacciata da troppi pericoli che rischiano di comprometterne la libertà. Nella seconda metà del Settecento, il pensiero di Bentham, sebbene avverso all’orientamento whig e immerso nel clima conservatore britannico, contiene quindi, in nuce, tutti gli elementi che lo porteranno ad aderire al radicalismo.
IV. Le radici del radicalismo benthamiano
"Io ero un risoluto aristocratico del suo tempo – un prodigioso ammiratore di Lord Mansfield e del re. […] Io ero, comunque, un grande riformista; mai avrei sospettato che le persone al potere fossero contro le riforme. Io supponevo che essi volessero solo sapere che cosa fosse il bene per abbracciarlo".(41) Così definiva se stesso Bentham, riferendosi al periodo intorno al 1776. Malgrado la sua adesione ai circoli conservatori anglosassoni, sin dai suoi primi scritti, egli si presenta come un autore assolutamente originale e difficilmente collocabile in uno schieramento predefinito. Il conservatorismo iniziale del filosofo, infatti, avviene sulla base degli stessi criteri che lo porteranno poi al radicalismo. Di questo, Bentham appare consapevole, se si analizzano i suoi testi.
Nel Frammento sul governo, nel nome degli interessi e delle necessità della società, si affermava l’idea che i cittadini avrebbero dovuto obbedire fin quando avrebbero considerato l’obbedienza il minor male, rispetto alla possibilità della resistenza. Ovvero, avrebbero dovuto obbedire fino a quando sarebbe stato nel loro interesse.(42) Bentham si poneva, dunque, una serie di problemi profondamente connessi con le esigenze di una democrazia compiuta. Nel Frammento, giungeva a sostenere che il miglior modo di evitare l’accumulazione del dissenso, con la dissoluzione della società, consisteva nell’ammettere la libertà di critica e nel favorire la tolleranza, in un contesto in cui sia la sfera politica, sia la sfera morale, dovevano reggersi sul principio di utilità. Si può quindi rilevare che la cosiddetta svolta radicale e democratica non vi sarebbe stata se, negli anni precedenti, egli non fosse stato aperto alle esigenze della libertà e della tutela della collettività.(43) Anche per questo, Bentham si scagliava con veemenza contro i fautori del contratto. Il filosofo temeva soprattutto l’utilizzazione strumentale da parte degli uomini, che tendono a considerare la "falsità come uno strumento […] necessario alla giustizia".(44) In particolare, temeva ogni potere che non agisse per procurare la felicità a tutta la comunità, a causa di un uso arbitrario della legge e della moralità.(45)
Nel suo primo scritto, il giovane Bentham dimostra anche di avere le idee chiare riguardo alla distinzione tra un governo cosiddetto libero e un governo tirannico. Per parlare di uno Stato libero, si legge nel testo, è necessario che il potere venga distribuito "tra le diverse classi di persone che vi partecipano". La distinzione tra governo libero e governo tirannico investe, ovviamente, la fonte di legittimazione del potere e prevede "frequenti e facili cambiamenti di condizione tra governanti e governati", in cui gli interessi di una classe non siano facilmente distinguibili da quelli di un’altra. In questa disamina del governo libero, Bentham si sofferma poi sulla responsabilità dei governanti e sulla libertà di stampa e di pubblica associazione.(46) Tutti temi che il filosofo approfondirà nelle sue opere successive. Al contrario, per troppo tempo, egli è stato associato tout court al conservatorismo. Come prova inoppugnabile, si è fatto leva sull’assenza nel suo pensiero di una caratteristica fondamentale dell’ottica whig: la mancanza di fiducia nel contratto sociale e nel governo misto. In verità, si trattava di due concetti che Bentham giudicava ormai desueti, adatti per il diciassettesimo secolo, ma non più utilizzabili nel diciottesimo, se non in termini di strumentalizzazioni politiche, al fine di far prosperare la corruzione. Inoltre, nell’evoluzione delle sue riflessioni, si comprenderà che egli non prevedeva la sostituzione di un sistema liberale con uno dispotico, ma con un sistema più efficacemente liberale, nel solco dell’insegnamento di Montesquieu. Un sistema che doveva assicurare il primato della legge e il rispetto delle libertà fondamentali.(47)
ordato che, in nome del principio di utilità, l’obiettivo di Bentham consisteva nel raggiungere la felicità della collettività. Egli non ricercava la felicità di una élite e, soprattutto, poneva sullo stesso piano governanti e governati.(48) E’ un autore che incorpora il concetto di libertà nel concetto di sicurezza e che, prima di sviluppare una teoria della democrazia in Constitutional Code (1822), crea le condizioni per approdare al radicalismo politico. Ecco perché si può sostenere che il giovane Bentham aderì ai circoli conservatori, sulla base degli stessi criteri che lo avrebbero poi portato lontano dal conservatorismo. Sin dal principio, egli era consapevole di questa contraddizione e, in coerenza con il metodo che stava sviluppando, la coltiverà nel segno dell’arricchimento e dell’originalità della sua cultura politica. A riprova di ciò, si può citare pure l’attacco iniziale agli Stati Uniti. Quando Bentham modificherà il suo giudizio sull’America, come abbiamo visto, non rinnegherà mai la critica netta alle basi ideologiche che animavano i padri fondatori.
E’ l’esempio più illuminante di un Bentham che, nell’Ottocento, evolve in senso democratico, senza rinunciare al nucleo fondamentale del suo pensiero.(49) E’ un altro elemento che contraddice chi sostiene una sua rozza e improvvisa conversione alla democrazia. Esiste quindi un filo comune che lega il primo periodo benthamiano con quello del radicalismo politico. Anche nella sua prima fase, egli non è mai collocabile nel filone conservatore di Johnson, che condizionerà fortemente invece il suo amico Lind. Allo stesso tempo, si distingue da altri utilitaristi come Priestley e Smith.(50)
In questo quadro, esiste un altro elemento originale di Bentham, che merita di essere colto. Sin dall’inizio, egli comprese quanto la dottrina giusnaturalista, da Hobbes a Locke,(51) fosse stata ormai inglobata nella tradizione del common law, perdendo così la sua carica innovativa. Malgrado i teorici dei diritti naturali sostenessero la necessità di un contratto e di un codice, per sottrarre la legge all’arbitrio, di fatto essi erano stati integrati con il patrimonio giuridico e politico anglossassone. Di conseguenza, come fautore della codificazione, Bentham combatterà sempre quel "blocco conservatore", nel quale il giusnaturalismo e il common law tenderanno a confondersi.(52) Nello sviluppo del suo pensiero, il codice diventerà uno strumento fondamentale per garantire la certezza del diritto, con tutte le sue implicazioni in termini di garanzie democratiche e di libertà.
Marco Oliveri
NOTE
(1) Cfr. H. L. A. Hart, Essays on Bentham. Studies in Jurisprudence and Political Theory, Oxford, 1982, p. 74. Hart fa parte di quel gruppo di studiosi dell’utilitarismo britannico che, in questi ultimi decenni, hanno analizzato in una nuova chiave critica il liberalismo di Bentham, discostandosi dalla precedente storiografia. Cfr. J. R. Dinwiddy, Transition to Political Radicalism, 1809-10, Journal of the History of Ideas, XXXVI, No. 4, Oct. – Dec. 1975, pp. 683-700; J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, edited by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London, 1977, p. XXI; J. R. Dinwiddy, Bentham, Oxford, New York, 1989; P. A. Palmer, Benthamism in England and America, pp. 314-327, I, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, edited by B. Parekh, London and New York, 1993; F. Rosen, Jeremy Bentham and Democratic Theory, pp. 573-592, III, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; F. Rosen, Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, pp. 917-933, III, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; D. P. Crook, The United States in Bentham’s Thought, pp. 276-285, IV, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; C. Williamson, Bentham looks at America, pp. 287-293, IV, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit. Si legga anche la nuova introduzione di F. Rosen a J. Bentham, An introduction to the principles of morals and legislation, edited by J. H. Burns and H. L. A. Hart, Oxford, 1996, pp. xxxi-cxii.
(2) Si veda soprattutto, a questo riguardo, J. Bentham, A Fragment on Government, edited by J.H. Burns and H.L.H. Hart, Oxford, 1977, trad. ital. in: ID., Un frammento sul governo, a cura di Silvestro Marcucci, 1990.
(3) J. Lind (1737-81) era figlio di un pastore anglicano caduto in miseria, i cui affari furono curati dal padre di Bentham, Jeremiah. Si tratta di una figura che visse all’insegna delle contraddizioni. Prese gli ordini sacri e, nel 1861, si recò a Costantinopoli come cappellano della compagnia del Levante. Lì rimase per sei anni e fu congedato perché, come rivela Bentham, si dimostrò troppo disponibile nei confronti delle consorti degli ambasciatori britannici. Abbandonò dunque gli ordini sacri e andò in Polonia, come tutore del nipote del re, il principe Stanislaus Poniatowski. Nel 1772 tornò in Inghilterra e un anno dopo rinnovò l’amicizia con Bentham, che si trasferì a casa di Lind nel 1775. Su questa figura e sul suo rapporto con Bentham, si vedano Memoires of Jeremy Bentham in: J. Bentham, The works of Jeremy Bentham, published under the superintendence of his executor, John Bowring, 11 Voll., Edinburgh, 1843, ristampa anastatica New York, 1962, X, pp. 53-67; Introduction to J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, cit., pp. xxv-xxvi, xxxi-xxvii; J. Bentham to J. Lind, 9 Dec. 1775, in I 289, in: The Correspondence of Jeremy Bentham, I: 1752-1776, edited by T. L. Sprigge, London, 1978; J. Lind to Jeremiah Bentham, 17 Nov. 1860, in I 22, in: The Correspondence of Jeremy Bentham, cit.; H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., pp. 55-56; J. Bentham, pref. per la seconda edizione di A Fragment on Government, cit, ora in: ID., pp. 214-215, 247-255.
(4) J. H. Burns, Bentham and Blackstone. A Lifetime’s Dialectic, "Utilitas" I, 1989, pp. 22-40.
(5) J. Lind, Remarks on the Principal Acts of the Thirteenth Parliament of Great Britain, London, 1775; J. Lind, An Answer to the Declaration of the American Congress, London, 1776.
(6) J. Lind, Remarks…, cit., p. 23. Sul rapporto Bentham-Lind, cfr. J. H. Burns and H. L. A. Hart, Introduction to J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, cit., p. xxvi. In questa pagina, si può leggere una citazione tratta da una corrispondenza di Bentham, del 6 dicembre 1774. Riguardo alla collaborazione con Lind, in relazione ai Commentaries, egli suggerisce tre modi attraverso i quali si può procedere nella scrittura comune: Lind potrebbe utilizzare la versione corretta da Bentham; oppure, Bentham potrebbe continuare il lavoro sottoposto alla correzione da Lind, e in questo caso il profitto dell’eventuale pubblicazione sarebbe diviso equamente tra i due; una terza ipotesi è che ciascuno segua la propria direzione. In ogni caso, mentre esistono prove che Bentham stesse lavorando a the Comment nel dicembre 1774, e che egli assunse una responsabilità primaria riguardo al lavoro, non è evidente il coinvolgimento di Lind. Sempre nello stesso testo curato da Burns e Hart, a p. xxvi, nota 7, riguardo ai Remarks on the Principal Acts of the Thirteenth Parliament of Great Britain, si legge una citazione da una corrispondenza di Bentham al fratello, che risale al maggio 1775. Bentham scriveva che "adesso era duramente al lavoro con Lind per rivedere il suo libro, che sarebbe stato dato alla stampa tra circa una settimana".
(7) Ibidem.
(8) Ivi, p. 191; H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 58.
(9) J. Lind, An Answer…, cit., pp. 119-120.
(10) Ivi, pp. 120-122.
(11) Ivi, pp. 119-121.
(12) J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, new edition, Oxford, 1996 (1° ed., 1970), trad. ital. in: ID., Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino, 1998, pp. 454-456.
(13) J. Lind, An Answer…, cit., p. 122.
(14) H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 53.
(15) Cfr. J. Lind, An Answer…,. cit., pp. 120-132; J. Bentham, Anarchical Fallacies, in: Nonsense upon Stilts, trad. ital. parziale in: ID., Il libro dei sofismi, a cura di Lia Formigari, pp. 111-166, Roma, 1993.
(16) F.M. Di Sciullo, La critica e il progetto, Milano, 2004, p. 119.
(17) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 104.
(18) D. Hume, Political Discourses, Edimburgo, 1752, trad. ital. in: ID., Discorsi politici, Torino, 1959.
(19) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 104. In particolare, nelle pp. 104-105, a supporto dell’inconsistenza dell’idea di contratto originario, il filosofo cita il terzo volume del Trattato sulla natura umana di Hume, pubblicato tra il 1739 e il 1740. Per un confronto fra Hume e Bentham, cfr.: D. Hume, A Treatise of Human Nature, 1739, trad. ital., in: ID., Trattato sulla natura umana, Bari, 1982; D. Hume, An Inquiry concerning the Principles of Morals, 1751, trad. ital., in: ID., Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale, Bari, 1927; D. Hume, Saggi e trattati, a cura M. Dal Pra e E. Ronchetti, Torino, 1974. Sulla storiografia dedicata a Hume, cfr., tra l’altro: D. Forbes, Hume’s Philosophical Politics, New York, 1975; K. Haakonssen, The Science of a Legislator: The Natural Jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge, 1981; E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, 1991; F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, Routledge Taylor & Francis Group, 2003.
(20) Ivi, pp. 89-90.
(21) Ivi, p. 90.
(22) Ibid.
(23) J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, cit., p. 456.
(24) H. L. A. Hart, Essays on Bentham , cit., p. 65.
(25) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 101.
(26) J. R. Dinwiddy, Bentham, cit., pp. 74-79.
(27) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 109.
(28) Ivi, pp. 110-114.
(29) Ivi, p. 115.
(30) D. Hume, Discorsi politici, cit., pp. 234-235.
(31) Ibid.
(32) Ivi, p. 236.
(33) Ivi, p. 238.
(34) Ivi, p. 239.
(35) Ivi, p. 240, e cfr. ivi, pp. 242-257.
(36) Su questo punto, si veda il testo di F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, cit., e soprattutto il capitolo Reading Hume backwards. Utility as the foundation of morals, pp. 29-57, in cui l’autore rileva che solo pochi studiosi hanno sottolineato quanto il pensiero di Hume, riguardo all’idea di utilità, abbia influenzato o anticipato l’utilitarismo di Bentham e di J. S. Mill. Rosen procede quindi a rivisitare Hume "all’indietro", alla luce dei temi sviluppati da Bentham. In particolare, a p. 48, si insiste sull’importanza di individuare le affinità e le differenze fra i due filosofi, in modo da evitare alcuni errori ricorrenti a livello storiografico. Rosen scrive che le erronee valutazioni, riguardo al concetto di utilità di Hume, sono infatti andate di pari passo con altrettante erronee valutazioni nel modo di concepire le idee di Bentham. Non a caso, secondo l’autore, gli studiosi che hanno sostenuto che Hume non fosse un utilitarista, o che il suo utilitarismo avesse avuto poca influenza sugli utilitaristi classici, sono spesso pervenuti a questa posizione attraverso una caricatura della teoria di Bentham. Inoltre, nell’analizzare l’influenza di Hume in Bentham, Rosen cita il testo di H. O. Mounce: Hume’s Naturalism, London and New York, 1999. Si tratta di un libro che pone l’accento sulla distinzione fra il naturalismo di Hume e il razionalismo di Bentham. Tuttavia, per Rosen, Mounce non sottolinea abbastanza il filo comune che unisce i due filosofi nella critica all’idea di contratto sociale, né evidenzia la derivazione delle basi della "political obligation" di Bentham dalle concezioni di Hume.
(37) F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, cit., pp. 52-55.
(38) Ivi, p. 57.
(39) J. Bentham, Un frammento sul governo, pref. per la seconda edizione, cit., pp. 199-200.
(40) Ivi, p. 201.
(41) J. Bentham, Memoires of Jeremy Bentham, cit., X, pp. 66-67. Le affermazioni di Bentham vengono sottolineate anche da H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 66.
(42) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., pp. 111-113.
(43) Ivi, pp. 165-166. Sull’attenzione costante e duratura di Bentham nei confronti dei problemi legati al funzionamento di un sistema democratico, cfr. tre testi di F. Rosen: Jeremy Bentham and Representative Democracy. A study of the Constitutional Code, Oxford, 1983; Jeremy Bentham and Democratic Theory, cit., pp. 573-589; Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, cit., pp. 917-933.
(44) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 202.
(45) Ivi, p. 203.
(46) Ivi, pp. 165-166.
(47) F. Rosen, Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, cit., pp. 917-933.
(48) Su questo punto, si veda l’introduzione di Silvestro Marcucci in J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., pp. 20-21.
(49) F. M. Di Sciullo, op. cit., p. 119.
(50) Cfr. S. Johnson, Taxation no Tiranny: An Answer to the Resolution and Address of the American Congress in The Works of Samuel Johnson, Troy, New York, 1913 (1°ed. 1775), pp. 93-114; A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Glasgow, 1776, trad. ital., in: Ricerche sopra la Natura e le Cause della Ricchezza delle Nazioni, Torino, 1945; J. Priesley, Political Writings, ed. by P. N. Miller, Cambridge, 1993. Questa edizione degli scritti di Priestley contiene due testi: The Present State of Liberty in Great Britain and Her Colonies (1769) e la 2° ed. (1771) di An Essay on the First Principles of Government, and on the Nature of Political, and Religious Liberty.
(51) Cfr. Due Trattati sul governo e altri scritti politici di John Locke e Patriarca di Robert Filmer, a cura di Luigi Pareyson, Torino, 1982 (1° ed. 1948), pp. 227-239 e pp. 282-339; T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune, pp. 397-562, in: Opere Politiche di Thomas Hobbes, a cura di Norberto Bobbio, I, Torino, 1988 (1° ed. 1948).
(52) G. J. Postema, Bentham and the Common Law Tradition, Oxford 1989 (1° ed. 1986), p. 18. Per una riflessione generale, si vedano Ivi, pp. 3-80, e, sulla critica di Bentham al sistema di common law, pp. 147-217. Su questi temi, cfr. Anna Maria Loche, J. Bentham e la ricerca del buongoverno, Milano, 1991; F.M. Di Sciullo, op. cit., pp. 136-138.
Il concetto di democrazia(1) così come emerge negli articoli e nei discorsi del giovane Alcide De Gasperi (1881-1954) non viene spesso preso in considerazione nella complessiva riflessione politologica e storica dell’opera del grande statista trentino. Volontariamente o involontariamente, negli ultimi trent’anni è calato il silenzio su Alcide De Gasperi; alcuni politici e intellettuali lo hanno citato nei loro discorsi ma pochi hanno indagato a fondo i suoi scritti giovanili; altri pur rivendicandone l’eredità politica ne hanno perso l’essenza ultima. A cinquant’anni dalla morte di Alcide De Gasperi, avvenuta per crisi cardiaca il 19 agosto del 1954 a Sella di Valsugana, nelle "sue" Dolomiti, ci si può accostare, senza alcuna remora storiografica ai suoi scritti giovanili per approfondirne l’analisi di un tema così importante e delicato dal punto di vista del pensiero politico. Lo scorso anno, nel Cinquantenario della sua morte (1954-2004) si sono riproposte molte letture di Alcide De Gasperi, ma inevitabilmente, come già aveva fatto la storiografia precedentemente, ci si è per lo più concentrati sul De Gasperi antifascista, politico democristiano, statista della neonata Repubblica, europeista, dimenticando gli scritti del periodo trentino. Ciò è innanzitutto dovuto alla ricchezza della sua biografia umana e politica che rende difficile una ricostruzione complessiva della sua figura in un periodo storico denso di avvenimenti che ha mutato profondamente la storia e i destini dell’Europa e non solo. Alla luce di questa perdurante lacuna che sottovaluta e sminuisce la riflessione del giovane Alcide De Gasperi sembra utile rileggere gli scritti e i discorsi del periodo trentino per coglierne le riflessioni giovanili e i temi più interessanti che emergono. Nel presente lavoro intendo innanzitutto seguire il tema della democrazia, centrale già nelle prime riflessioni degasperiane, per utilizzarlo come filo conduttore di altri temi politici e sociali strettamente connessi al primo. Ne emergeranno molti tratti della sua cultura e della sua formazione giovanile, imbevuta della migliore cultura mitteleuropea. Questi frutti, per certi versi ancora acerbi, lo porteranno ad indagare, a leggere, ad approfondire, i grandi temi del dibattito politico, come giornalista prima, come saggista(2) dopo, senza dimenticare gli anni preziosi della "lunga vigilia" passati nella Biblioteca vaticana che gli permetteranno di approdare così ad una elaborazione complessa del cattolicesimo democratico, espressione e sintesi del pensiero sociale cattolico filtrato e arricchito da una vastissima cultura politica, nutrita dal pensiero cattolico liberale francese e della tradizione democratica anglo-americana. Per ripercorrere il tema e setacciare le parole del giovane De Gasperi mi sono servito della raccolta antologica curata dal prof. Gabriele De Rosa in anni ormai lontani, Alcide De Gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al parlamento austriaco, voll. I-II, Roma, Ed. di Storia e letteratura, Roma 1964. L’opera è probabilmente uno dei contributi più preziosi e rari per chi desideri affrontare lo studio del pensiero e della politica degasperiana. Le raccolte di scritti di De Gasperi fino al 1964 non risalivano oltre il periodo fascista; pertanto era molto difficile, prima della pubblicazione di questo testo, elaborare uno studio approfondito e complessivamente coerente. Gli scritti del periodo trentino infatti erano difficilmente reperibili e frammentati nelle biblioteche diocesane e nei fondi del parlamento austriaco. Questa antologia risale agli anni della formazione politica di Alcide De Gasperi, ai suoi discorsi e ai suoi articoli "preparati quando il Trentino era ancora sotto l’Austria, quando, tra Leone XIII e Pio X, il movimento della democrazia cristiana appena incominciava a fare capolino tra i cattolici trentini(3)". Tali documenti aiutano a capire i nessi fondamentali e permanenti del pensiero di De Gasperi, individuando le radici e la formazione dei suoi convincimenti colti e illuminati, del "primo atteggiamento cristiano e pacifista, assolutamente privo di indulgenze e concessioni alla propaganda sempre più baldanzosa e inquietante del nazionalismo(4)". Gli articoli e i discorsi sono tratti da "La Voce Cattolica(5)", "Fede e Lavoro", "Il Trentino(6)". Ma veniamo alla cronologia. Ho circoscritto la mia analisi prendendo come riferimento due anni: 1902 e 1915. Le date sono state assunte convenzionalmente sulla "linea del tempo" della vita del giovane Alcide De Gasperi. Nel 1902 De Gasperi ha 21 anni ed in quell’anno iniziano i suoi articoli del periodo trentino; nel 1915 ha 34 anni, la censura - dovuta alla Grande guerra - chiude forzatamente la stagione degli articoli trentini. In quegli anni De Gasperi ha già da tempo scoperto la sua "vocazione" politica, nel 1909 viene eletto consigliere municipale di Trento (ha 28 anni), dopo lo scioglimento del Parlamento, nelle elezioni del 13 giugno 1911 diventa deputato al Reichsrat, il grande Parlamento di Vienna, con il 75% dei voti, e infine nel 1914 deputato alla Dieta di Innsbruk (ovvero l’assemblea locale della provincia)(7) ma la sua carriera è ancora agli inizi.
Possiamo rintracciare una prima riflessione sul tema della democrazia già nel periodo universitario; i suoi scritti, non privi di un certo entusiasmo giovanile e di un generico patriottismo ideologico, tipico del tempo, sono ricchi di stimoli e riflessioni. Nonostante lo spessore delle considerazioni alla sua coscienza critica sfuggono talvolta la miopia politica e il nazionalismo clericaleggiante che attraversarono il movimento cristiano sociale austriaco e il Centro germanico da lui tanto ammirato.
Il giovane De Gasperi, nel discorso pronunciato al Congresso cattolico universitario che si tenne a Trento dal 28 al 31 agosto del 1902, delineava un programma dell’associazione universitaria. De Gasperi universitario si dichiarava esplicitamente cattolico, italiano e democratico. Le sue parole avevano un peso particolare all’epoca perché denotavano culturalmente e politicamente un ambito specifico(8). Nel discorso, che venne poi pubblicato dalla "Voce Cattolica" l’1-2 settembre 1902, De Gasperi spiegava cosa fosse il cattolicesimo: "O chiamate voi forse religione cattolica quelle quattro usanze rimaste per forza d’inerzia, come far battezzare i bambini, assistere a qualche funzione di parata e far posare la croce sul feretro, mentre la vita privata e pubblica è informata a principii pagani o a vieti compromessi, mentre i libri, la stampa quotidiana, l’arte, il teatro, le istituzioni sono separati da ideali che sono fuori o contro il cristianesimo? No, o signori, il cattolicesimo è qualche cosa di più integrale, non estraneo a niente di bene, avverso a qualunque male, una regola fissa che deve seguire l’uomo dalla culla alla bara, l’anima e il midollo di tutte le cose(9)".
Gabriele De Rosa ha spiegato che i cattolici trentini ritenevano possibile la difesa dell’italianità anche nel quadro istituzionale dell’Impero austriaco. Il criterio della nazionalità non doveva essere "tutto", e De Gasperi negava chiaramente che della nazione si dovesse fare una religione: "Difendendo la fede e i costumi dei padri, (si riferisce ai giovani cattolici) compiono il primo dovere che incombe ad ogni italiano che non abbia dimenticato Dante, Raffaello, Michelangelo, Manzoni per Proudhon, D’Annunzio o Zola, né san Tommaso per Kant o Nietzsche, né il nostro apostolo latino san Vigilio(10) per il teutonico Marx. La differenza capitale fra noi e gli altri è questa: gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per la quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umanità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria, del senso della nazione, sull’altar della quale tutti i commemorati delle glorie altrui ripetono doversi sacrificare tutto e idee e convinzioni(11)". Le sue parole non potevano di certo piacere agli irredentisti. Dal pensiero di De Gasperi scaturisce infatti una nuova visione che non riteneva che la difesa dell’italianità e l’irredentismo dovessero essere necessariamente associati. Egli difese l’italianità del Trentino concretamente ed efficacemente senza essere irredentista, perché per lui cattolico non nazionalista e amante della pace, irredentismo significava odio fra popoli e guerra. Nello stesso "manifesto universitario" compare nuovamente la tensione democratica quando ricorda che: "il periodo universitario è fatale: dall’università si esce democratici o aristocratici già fatti", ma la sua scelta è nettamente democratica: "si vede […] oltre la barriera borghese venire una moltitudine di gente che vuole passare e si comprende la giustezza della tendenza, e allora si stende al di là la mano; vi fate a loro compagno e considerate tutta la vita come una faticosa erta su cui dovete salire voi e il popolo ad una meta comune(12)". La democrazia per De Gasperi deve essere la naturale condotta del cristiano: "Ma questo spirito democratico che ci anima, non è, o signori, una concessione alle tendenze di oggidì, ma un frutto di quel cristianesimo compreso socialmente, praticato dentro e fuori l’uomo, in tutta la vita pubblica(13)".
De Gasperi guarda le realtà passate, siano esse riflessioni dottrinali o fatti storici, come lenti per comprendere quelle attuali e queste a loro volta entrano a far parte giorno per giorno del suo modo di costruirsi una coscienza politica senza rifiutare aprioristicamente nulla che fosse prima osservato e analizzato da un punto di vista quasi neutrale. Questa sua prospettiva lo porta ad essere aperto alle voci di provenienza diversa che avessero potuto arricchire la sua maggiore comprensione di realtà differenti dalla propria, ma tutto questo non è disgiunto dalla sua profonda fede cristiana e dalla volontà di portare avanti un discorso di maggiore giustizia sociale e di istruzione civile.
In un bell’articolo titolato Tiriamo le somme pubblicato su "Fede e Lavoro" il 25 agosto 1905 De Gasperi affronta il tema del socialismo. Ha letto da poco la relazione ufficiale del Congresso socialista trentino (23 agosto 1905) convocato per appianare le divergenze dei due gruppi sindacali che si osteggiavano nei loro periodici "La Riscossa" e "Il Lavoro". De Gasperi ammonisce chi disprezza il socialismo trentino consigliando invece di contrastarlo rispondendo alle esigenze e ai bisogni dei lavoratori: "non vi è mezzo migliore per opporvi una diga che quello di prevenirlo nelle giuste rivendicazioni sociali del proletariato(14) - e continuando - Amici, non disprezziamo il socialismo, ma preveniamolo nella difesa sociale: preveniamolo nel campo economico! Noi, meglio del socialismo possiamo combattere le ingiustizie da qualunque parte vengano, noi, meglio dei socialisti possiamo opporci, anzi dobbiamo opporci a tutte le sopraffazioni dei grandi e dei piccoli, noi, seguaci di una religione che ha per fondamento la giustizia!(15)". Per De Gasperi a fondamento del suo agire stava il dovere morale di opporsi alle ingiustizie.
Il 1 settembre 1905 De Gasperi assumeva l’incarico di nuovo direttore de "La Voce Cattolica" sostituendo il dimissionario monsignor Guido de Gentili, ma è dalle pagine di "Fede e Lavoro" dello stesso giorno che possiamo capire la sua avversione per il radicalismo politico. L’articolo concerne la polemica sorta al comizio di Riva per l’Università di Trieste. De Gasperi è contrario alla cosiddetta formula del "Trieste o nulla(16)" e così spiega: "siamo persuasi che il radicalismo in politica è il più nefasto di tutte le questioni. Noi non siamo quindi per la formula radicale nella questione universitaria, non siamo per il "Trieste o nulla!" ché, come siamo persuasi che l’ascensione economica del popolo non può avvenire d’un colpo, ma giorno per giorno, - e in questo senso lavoriamo tenacemente - così siamo certi che anche politicamente il nostro paese potrà elevarsi solo allora, quando uomini coraggiosi sorgeranno e francamente romperanno le tradizioni della politica fin qui condotta(17)". Egli capiva che era necessario superare lo scontro contingente legato alle ideologie e alla politica della pochezza. Bisognava cercare di penetrare nell’intimo del proprio interlocutore ed arrivare attraverso il colloquio al centro vitale del pensiero dell’altro. Il dialogo, nascendo dall’incontro dell’uomo con l’uomo, in un sacrificio costante e paziente, poteva trovare quel filo di comunicazione che legando anche le persone più lontane e caratterialmente diverse permetteva una decisione mirante al bene collettivo. Per De Gasperi il radicalismo politico non portava a nulla ed era "l’ora di finirla con la politica degli avvocati, e dei dottori, che nulla hanno da perdere se la loro politica riesce male!(18)" per questo, dichiarando la politica del "tutto o nulla" insana e dannosa, appoggiava il discorso pronunciato dall’on. Mons. Delugan(19): "Meglio qualcosa oggi che niente domani, no ‘Trieste o nulla!’, meglio che i figli del nostro popolo, i quali un giorno saranno i nostri impiegati, quelli che salvaguarderanno i nostri diritti, i nostri interessi, piuttosto di dover emigrare in terre lontane ad attingere la scienza a fonte tedesca, possano restare a Trento, a studiare in Università nazionali che il Governo sarebbe disposto a darci, mentre non ce ne vuol dare assolutamente a Trieste. Pigliamo il poco, anziché il ‘nulla’ e poi rinvigoriti per quel poco, continueremo la lotta per avere il ‘tutto’(20)".
Su "Fede e Lavoro" del 22 settembre 1905 nell’articolo titolato Il paese e i contadini De Gasperi sulla scia del ‘Trieste o nulla’ critica i "politicanti da caffè" che furono capaci solo di "chiacchiere, di promesse, di grandi progetti". "Con la politica del ‘tutto o nulla’ bisogna finirla; bisognava capire una buona volta che con un Governo come il nostro, con partiti nemici come abbiamo noi, a dir ‘tutto o nulla’ ci restava e ci resterà sempre la seconda parte. Sono più di cinquant’anni che si fa questa politica e che cosa abbiamo? Nulla(21)". Questo articolo ci fa percepire la nuova tensione di De Gasperi e dei cattolici trentini, che vogliono un salto qualitativo, che preveda una pars costruens nella loro politica. L’articolo prosegue spiegando che d’ora in avanti doveva essere il popolo a fare politica: "D’ora in avanti la politica deve farla il popolo, deve dirigere lui le sorti del paese, lui, che è il primo e più interessato a che tutto vada bene! Contadini, capite? Siete voi ora che dovete incominciare una politica nuova dando un calcio a quella del ‘Trieste o nulla’. […] Fino ad ora si parlò sempre in nome vostro, si fece in nome vostro; e voi? Voi non ne sapete nulla! Voi eravate estranei, lasciati in disparte!(22)". Non va dimenticato che si era formata l’Unione politica popolare, un’associazione che aveva lo scopo di orientare e dirigere gli elettori nei momenti necessari e che pochi mesi dopo si sarebbe dato il via all’organizzazione del Partito popolare trentino. Fin da allora De Gasperi capisce l’importanza dell’organizzazione associativa, (per non parlare ancora di partito) che, ascoltando la pluralità delle voci della comunità, possa far maturare le coscienze attraverso uno sforzo educativo propedeutico all’evoluzione sociale.
Prese poi avvio una nuova battaglia, quella concernente il suffragio universale che si discuteva in Parlamento. De Gasperi dalle colonne de "La Voce Cattolica" del 7 novembre 1905 spiegava come si sarebbe dovuto preparare la massa al voto: "Accanto alle cooperative di credito, di consumo, di produzione, improntate a spirito schiettamente cristiano, devono fiorire i circoli di lettura e le società agricole operaie cattoliche, dove il popolo venga preparato con utili letture e conferenze alla sua missione altamente civile; e le masse, così disposte, devono poi raccogliersi nell’Unione politica popolare, espressione del loro pensiero, strumento della loro forza. […] Così saremo preparati alle lotte dell’avvenire, e le riforme politiche potranno trovare in noi non dei ritrosi e rimorchiati, ma dei convinti fautori, che se ne faranno un’arma di progresso civile e morale(23)". Ma è su "La Voce Cattolica" del 13 dicembre 1905 che si riferisce di un’assemblea per intensificare l’organizzazione dell’unione tra operai e contadini; si gettavano così le basi di un programma politico che aveva i suoi capisaldi nella riforma elettorale e negli errori della politica trentina: stava nascendo il Partito popolare trentino.
Intanto la "commedia" per il suffragio universale continuava. De Gasperi sottolineava che erano proprio liberali e nazionalisti i primi ad osteggiare la riforma, desiderosi di mantenere il vecchio equilibrio e preoccupati delle sue conseguenze politiche. "Il popolo - spiega De Gasperi ne "La Voce Cattolica" del 22 gennaio 1906 - nella sua maggioranza è cristiano nel senso integrale" e quindi con una riforma elettorale a suffragio universale avrebbe ottenuto una maggioranza "schietta e genuina" ma i liberali, che dovevano salvaguardare i loro seggi e il Governo, che voleva salvare i privilegi della nazione tedesca, strutturarono un piano per il suffragio universale diseguale, disegnando i collegi elettorali "più grandi e più piccoli a seconda della minore o maggiore importanza storica ed economica delle province". Ma, a scanso di equivoci, De Gasperi ricordava che, invece: "Nel programma dell’Unione politica popolare sta scritto e stampato che il nostro partito è fautore del suffragio universale ed eguale, senza distinzione(24)"; il 27 gennaio 1906 avrebbe motivato le rivendicazioni del suffragio universale riportando le parole di un onorevole: "Quando, o signori, si fa la leva militare, vengono forse chiamati a fare il soldato un ruteno, un croato e due tedeschi? Tutti contribuiscono allo stesso modo, tutti pagano l’imposta del sangue, tutti pagano le imposte indirette, tutti hanno quindi lo stesso ed eguale diritto di far parte della cosa pubblica. Ebbene venga quindi il suffragio universale, porti quella fratellanza, che è poi un cardine della divina religione di Cristo!(25)". Per la nostra ricostruzione è indispensabile approfondire l’articolo dal titolo Quello che vogliamo apparso su "Il Trentino"(26) il 15 maggio 1906. Il titolo prendeva spunto da un foglio di propaganda che l’Unione politica popolare diffuse in migliaia di copie e l’articolo sviscerava gli argomenti del programma del Partito popolare che venivano discussi in conferenze tenute dallo stesso De Gasperi. Nell’articolo, quest’ultimo, iniziava spiegando cosa fosse la Politica: "‘Politica’ vuol dire per i più: chiacchiere al vento, frasi senza costrutto, ciarlatanerie." – si rivolge agli abitanti delle valli, soprattutto contadini e operai – "E tuttavia che cos’è la politica? È l’arte di governare, dirigere lo Stato, gli enti pubblici. La politica si fa nei Parlamenti e nelle Diete, quando si votano i dazi, le imposte, il contingente militare, le leggi scolastiche, ecc. Dalla politica quindi dipendono gli interessi più gravi, più sentiti dell’individuo e del corpo morale. Da questo non si scappa: o la politica si fa, o la si subisce. Finora il contadino, l’uomo delle classi meno abbienti, l’ha subita. Ha dovuto pagare e piegarsi dinanzi a quelle leggi che hanno fatto gli altri per proprio interesse e, tolte poche eccezioni, contro l’interesse dei più." – ma siccome per De Gasperi idealità e pragmatismo non erano mai scisse va oltre – "Si può cambiare questo sistema? Sì, ma appunto col far politica. Parlando in generale, il popolo può far politica, usando l’arma del voto(27)". Successivamente l’articolo continua esaminando il sistema elettorale austriaco. Per De Gasperi, nonostante la maggioranza cattolica e democratica del paese, gli eletti in Parlamento "non rappresentano gli interessi della democrazia" perché "il sistema di eleggere i deputati è fatto in modo, che non il popolo indistintamente elegge gli ‘onorevoli’, ma alcune classi vi hanno preferenze e privilegi; […] gli abitanti dello Stato vennero divisi in diverse categorie: i buoni, i bravi, i meno buoni ecc. La bontà però commisurata sul possesso e sul denaro. Così sono sorte le ‘curie(28)’". L’Austria aveva un suffragio universale diseguale e per De Gasperi il sistema era ingiusto e si opponeva all’idea che chi pagava di più avesse maggiori diritti: "Il commisurare quindi il diritto di voto sulle imposte dirette, non è giusto […]" – inoltre per ribattere all’obiezione liberale che il voto di un contadino illetterato valesse meno aggiungeva – "Se votare volesse dire far le leggi, allora naturalmente l’avvocato le saprebbe fare meglio, ma per votare basta avere il buon senso di saper designare la persona migliore che ci saprebbe rappresentare". I contadini "ignoranti" votavano indirettamente attraverso l’elezione di alcuni procuratori ma De Gasperi si oppone perché spesso i procuratori tradiscono il mandato e poi questo tipo di elezione avendo influenza indiretta allontanava i contadini dal voto e dalla partecipazione politica: "Abbasso quindi il voto indiretto! Noi vogliamo il suffragio universale, eguale, diretto!(29)". Inoltre, vista la bassa partecipazione alle elezioni, (solo il 10% nelle elezioni precedenti) desiderava introdurre l’obbligo statale al voto, per innescare il circolo virtuoso della partecipazione politica dando rappresentatività ai contadini in Parlamento. Sempre nello stesso articolo De Gasperi suggeriva: "miglioramenti delle attuali leggi tributarie, che valgano a promuovere lo sgravio graduale dei meno abbienti" e dichiarava la necessità della riforma "dell’assicurazione", cioè chiedeva esplicitamente, per tutti, non solo l’assicurazione da parte dello Stato contro le malattie, gli infortuni ma anche l’introduzione delle pensioni per la vecchiaia: "Conviene che dopo una certa età (65 anni) lo Stato provveda che ogni uomo onesto e laborioso abbia da vivere. Questo si ottiene con l’assicurazione generale" – e aggiungeva inoltre la richiesta della – "fissazione di un massimo della durata del lavoro, a seconda delle professioni, in modo che sia assicurata la salute del lavoratore e che egli possa dedicare parte del suo tempo alla sua cultura morale ed intellettuale(30)".
Così fin dai primi passi nell’agone politico, la sua proposta politica diventa baluardo della tolleranza e quindi difesa della democrazia. La competizione con i liberali anticlericali diviene uno stimolo per De Gasperi e più in generale per i cattolici per studiare e proporre una piattaforma dottrinale e politica rispettosa e consapevole delle differenze. Il programma approda naturalmente ad una democrazia, non solo in termini politici, come allargamento delle basi consensuali e partecipative delle forme di governo ma soprattutto in termini sociali ed economici, attraverso la predisposizione di strumenti che consentissero l’elevazione delle classi rurali locali. In questo modo, come ha acutamente rilevato Scoppola, il rapporto fra democrazia sociale e democrazia politica in De Gasperi è rovesciato rispetto a quello tradizionalmente proposto dal cattolicesimo sociale; la democrazia politica è la premessa di una crescita reale delle classi lavoratrici.
Parlando per iniziativa dell’Unione politica popolare dei partiti politici trentini, De Gasperi sottolineava i limiti dei liberali e dei socialisti: "Quale è il loro liberalismo nel campo morale-religioso, nel campo politico sociale e in quello economico? Per la maggior parte d’essi Hobbes, Locke, Spinoza, Rousseau, Smith e Ricardo, che sono i capiscuola del liberalismo nei vari campi, sono tanti Carneade. Pochissimi, e parlo della gente colta, ne conoscono i programmi o le idee. Una delle cause di questo beato empirismo che domina tra i liberali è certo il fatto che tutte le loro vecchie dottrine fecero bancarotta. […] Il liberalismo politico ha condotto all’ultrapotenza dello Stato, quello politico-ecclesiastico al cesaro-papismo o alla separazione della Chiesa dallo Stato che equivale, nell’Europa latina almeno, ad oppressione, il liberalismo economico ha condotto alla schiavitù del capitalismo(31)". Passava poi ai socialisti: "i socialisti da noi sono di nuovo una specialità che ricorda poco il socialismo teorico. Svanite per forza di cose e di quattrini le parole d’ordine contro la borghesia e il capitalismo trentino, che cosa è rimasto della dottrina socialista?". Terzi nella classificazione comune i cosiddetti clericali; De Gasperi continua l’analisi sui mutamenti politici spiegando che il loro movimento era ben lontano dal clericalismo. A proposito del clericalismo così chiarisce: "clericalismo il quale sarebbe l’abuso della religione per scopi politici. Questa definizione io accetto volentieri, perché sarà facilmente dimostrabile che i clericali non siamo noi. Sapete chi era un clericale, secondo questa definizione? Era clericale il sommo sacerdote Caifas, il quale abusò della religione per mantenere la sua influenza ed accusò Cristo di ribellione alla religione ebrea ed al popolo romano, confondendo religione e politica a seconda che gli giovava. Ma noi non siamo clericali, noi seguaci di quel Cristo che insegnò: "Date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio". […] il nostro clericalismo non è che la difesa e la rappresentanza degli interessi religiosi nella vita pubblica(32)".
Il 7 febbraio 1907, "Il Trentino" pubblica un ampio riassunto e brani della relazione tenuta da Alcide De Gasperi in vista delle imminenti elezioni all’Unione politica popolare. Si chiarisce l’importanza del partito: "Il partito fu nel concetto di molti ed è altrove forse ancora sinonimo di fazione, discordia, pregiudizio. La vita politica moderna lo ha però reso necessario, le costituzioni più avanzate ne tengono già conto come di un ente giuridico-sociale nell’organismo dello Stato: il ministro della giustizia del Belgio appoggiando la nota legge del suffragio proporzionale che espressamente presuppone i partiti, respinse i rimproveri dell’individualismo liberale sentenziando: ‘les partis sont nécessaires dans la vie politique et parlamentaire’"; poi, passando a parlare specificatamente dell’organizzazione "nostra", spiega il nome di "popolare": "lasciate cadere tutte le altre denominazioni, abbiamo scelto quella di popolare, nome che fissa il carattere della società. Popolare perché vuol essere organizzazione di popolo e di politica democratica, popolare, perché pur volendo propugnare gli interessi di tutte le classi, non si lega più specialmente ad alcuna, ma chiama alla rappresentanza ed alla vita politica tutto il popolo trentino nella sua fede cristiana, nell’italianità della sua famiglia, nella varietà delle sue energie economiche".
Il 6 marzo 1908, De Gasperi scrive del lavoro dei socialisti, ed esorta "cattolici e democratici" a "combattere il socialismo in nome del cristianesimo e della democrazia della quale il partito socialista è la degenerazione più continua e più concreta. Il socialismo nostrano, qualunque esso sia, ha sempre e dovunque portato l’effetto di demoralizzare le masse, di fanatizzarle nell’odio"; ai cattolici trentini dava il merito di lavorare più di altri al risorgimento industriale del paese ma questo era possibile "solo se accompagnato dall’elevazione verso un cristianesimo e un ‘trentinismo’, per dir così, integrale dell’operaio, il quale deve vedere in questi uomini non dei nuovi alleati all’esercito internazionale dei ‘padroni oppressori’, ma dei collaboratori al benessere economico del nostro popolo(33)".
Sulle pagine de "Il Trentino" del 20 febbraio 1909, Alcide De Gasperi propone alcune considerazioni sulla guerra. In quei giorni infatti si percepiva un diffuso allarme circa un imminente guerra a causa del fermo atteggiamento austriaco nei confronti delle mire territoriali della Serbia, irritata dalla dichiarazione austriaca di annessione della Bosnia Erzegovina. De Gasperi sottolinea preoccupato: "con quanta leggerezza certa stampa guerrafondaia parli di un avvenimento che, comunque finisca, sarà un nuovo flagello per la società intera ed una sventura per i contendenti. Le vittime di Marte, lo strazio delle famiglie, la perdita per la civiltà e per il progresso di uno Stato e di tante energie giovanili, non sembrano gran cosa per chi presume di rappresentare gli interessi collettivi, il cosiddetto onore nazionale, o la boria di una classe sociale(34)".
Superata la crisi internazionale ed esclusa la guerra De Gasperi, parlando della "situazione europea" il 1 aprile 1909, profetizzerà: "Se non si troverà una via d’intesa, quel giorno che le Potenze si sentissero così forti da poter scendere in campo per tentare il supremo duello; quel dì da un accidente qualsiasi, reale o creato e gonfiato a bella posta, si svilupperà un disastroso incendio come forse non fu mai visto l’eguale".
Per capire la riflessione giovanile di De Gasperi su liberalismo, socialismo e cattolicismo ritengo utile riportare qui larga parte dell’articolo Dalle trincee scritto su "Il Trentino" il 1° maggio 1909. De Gasperi sostiene che il 1° maggio non sia solo una festa del socialismo e critica la "filosofia pratica", tana comoda dell’egoismo di chi, una volta passati i chiassosi e furenti battaglioni operai, se ne lava le mani dicendo "è passata anche questa". Per questo motivo De Gasperi spiega:
Codesti filosofi appartengono in genere al liberalismo, non a quello di Adamo Smith o di Davide Ricardo, ma a quello più semplice e più comodo di Gournay(35), quando disse a Luigi XIV: Laissez faire, laissez aller, le monde va de lui même. - E badano ai fatti loro, sorpassando tutto l’anno ai fatti sociali, o avvertendone qualcuno come fenomeno immediato, quasi un temporale che scroscia e diluvia per dieci minuti e poi se ne va com’era venuto, senza si sappia donde, dove e perché. Costoro stanno a vedere anche oggi come sempre dalle finestre, noi invece guardiamo e consideriamo dalle trincee. Per noi che combattiamo da tempo nella vita sociale la dimostrazione non è un fenomeno isolato, ma un effetto di cause note, noi sappiamo donde vengano quei lavoratori, perché abbiamo issata quella bandiera, perché applaudano al nuovo vangelo della rivoluzione sociale. Il socialismo e il movimento socialista hanno perduto per noi quell’impronta di fenomeno elementare che ha incusso tanta paura ed ha provocato tante repressioni. […] Se il movimento socialista fosse creato semplicemente da Lassalle(36), Jaurés(37), Adler(38), Costa(39), Hyndman(40), ecc., ci dovremmo spaventare dei suoi progressi, come dovremmo meravigliarci se le cause prossime economico-sociali che ne hanno favorita la diffusione, non fossero già superate dall’evoluzione economica sopravveniente. […] Ricordiamo ancora la creazione della borghesia bancaria inglese accanto ai Lords nelle cui mani verso la fine dell’Ottocento si accentra la grande proprietà terriera, la bancarotta del capitalismo di borsa di Colbert e contemporaneamente la vittoria della filosofia enciclopedistica fino a Rousseau, propugnatore della libertà umana assoluta entro la quale il progresso e il bene sono sicuri, ed ispiratore della dichiarazione dei diritti dell’uomo che dal 1789 in poi ha fatto il giro del mondo.
Alla grande rivoluzione sociale seguì un’era che parve precipuamente politica e fu invece il periodo della preparazione dei grandi conflitti sociali. Non fate le meraviglie di certe incongruenze che trovate nei principii del movimento socialista. Per quanto abbiano travestita la forma loro, vi ravviserete sempre in fondo i prodotti delle officine filosofiche del secolo XIX.
Vi pare strano che accanto al supremo postulato del collettivismo assorbitore e centralizzatore venga accarezzato lo spirito individualista fino all’anarchia? Eppure non sono in fondo che le due correnti di Kant e di Hegel che vennero ad incrociarsi, a stranamente fondersi in Lassalle, come la concezione materialista di Marx era stata preceduta dalla filosofia di Feuerbach e come i principii economici di Engels e Brousse, Hyndman risalgono ai liberali inglesi.
È tutta una grande officina in cui si lavora dal Rinascimento in qua, lavoro che ha i suoi effetti sociali, quando nel secolo XIX nell’ambito dell’economia familiare e pubblica si va costituendo, per la trasformazione tecnica delle industrie, il quarto stato. Venne su questo proprio quando la legislazione liberale aveva distrutto ogni organismo sociale ed all’assolutismo centralizzatore era seguito il dominio dello stato borghese, oligarchico e spogliatore. Dovremmo meravigliarci noi se il primo impulso della reazione fu la riorganizzazione sociale? Rispetto allo stato liberale ed individualista, ed all’egoismo della classe industriale una sola potenza sarebbe stata in grado di compiere il necessario lavoro di riorganizzazione e di riforma, senza scuotere i cardini dell’ordine sociale, la Chiesa. Ma da tre secoli il liberalismo al potere le aveva strappato ad uno ad uno i mezzi d’influsso sociale e proprio nel momento critico, quando il quarto stato alzando la testa, chiedeva giustizia e riforme sociali, i nuovi parlamentari s’occupavano di legislazione anticlericale ed antichiesastica. Chi sa dire, per esempio, quale movimento avrebbero creato le dottrine di Ketteler se la sua scuola non fosse stata ritardata per quindici anni dal Kulturkampf? Così la Chiesa e i cattolici dovettero e devono tutt’oggi combattere su due fronti, dividendo così quelle forze che applicate tutte e a tempo sul terreno sociale ed economico avrebbero dato diverso indirizzo a tutto il movimento democratico ed all’opera di riorganizzazione. Infine in tutti questi secoli che ci hanno fruttato il socialismo vediamo che ‘le dottrine religiose pervertite corrompono le istituzioni sociali in senso antipopolare e che poi, in causa delle stesse dottrine, il popolo reagisce con le organizzazioni rivoluzionarie’. Il nostro dovere è quindi chiaro e deve riguardare tanto le istituzioni quanto l’individuo. Fu questo specialmente il compito dei cattolici negli ultimi cinquant’anni di azione sociale. I risultati del lavoro ci incoraggiano a perseverare(41).
Il 24 luglio 1909 De Gasperi contesta vivacemente Benito Mussolini(42) che su "L’Avvenire del Lavoratore" il 22 luglio aveva polemizzato e attaccato "il grande cadavere", la Chiesa, con toni anticlericali molto provocatori. De Gasperi risponde astutamente che a contraddire le sentenze mussoliniane "s’è incaricato uno dei più autorevoli socialisti austriaci, il dr. Renner(43), nella rivista socialista "Der Kampf""; secondo Renner infatti la tattica socialista di attaccare la Chiesa e le sue dottrine era sbagliata. "Il socialismo, secondo Renner, deve semplicemente dedicarsi alla lotta di classe. Bisogna creare la libertà economica. Si vedrà poi quali piante fioriranno su questo nuovo terreno, quale nuova coscienza religiosa si formerà. Ma oggidì non si deve spingere l’operaio ad una lotta con la sua fede" e De Gasperi conclude: "il Renner per suo conto ritiene che l’evoluzione economica, prodotta dalla lotta di classe, scuoterà anche le basi della Chiesa cattolica. Ma quale differenza fra il suo modo di giudicare e quello dei nostri giacobini! Quale indipendenza marxista di fronte alla schiavitù volteriana degli anarcoidi dell’Avvenire!(44)".
Su "Il Trentino" del 1909 alla vigilia del XII Congresso dell’Associazione universitaria cattolica trentina De Gasperi affronta le insidie degli ideali di libertà e di patria che facilmente "degenerano" nelle menti dei giovani. Per evitare queste degenerazioni allora: "I giovani devono avvezzarsi per tempo all’analisi della vita popolare, a penetrare coll’occhio della mente nel labirinto delle cause e dei rapporti sociali. Solo con tale studio e con tale osservazione comprenderanno anche il popolo trentino e la sua vita pubblica, le sue debolezze e le sue energie, che sapranno più tardi compatire o, rispettivamente, guidare(45)".
Il 21 febbraio 1911, "Il Trentino" pubblicava un ampio riassunto di una relazione di De Gasperi nella quale era affrontato nuovamente il tema della rappresentanza proporzionale: "Non solo tutti devono poter amministrare o influire sulla amministrazione del comune, ma anche tutti in proporzione secondo gli interessi e in ciò sta la questione della rappresentanza proporzionale. Finora ha governato la minoranza non solo perché il voto era restrittivo, ma anche perché domina il principio che uno più la metà degli elettori mandassero in Comune tutti i consiglieri. Cioè secondo il principio di maggioranza un consigliere veniva eletto quando riceveva un voto più della metà dei voti, e un altro non veniva eletto se ne aveva uno meno della metà. Per questo un partito vinceva per pochi voti, l’altro per pochi voti era battuto. Tale principio si potrà discutere quando si trattasse di soli indirizzi politici, ma quando si tratta degli interessi nostri, non deve valere. Non è una maggioranza di partito, che ci occorre, ma una proporzionale rappresentanza degli interessati. Quindi domandiamo non solo l’allargamento del voto, ma domandiamo la proporzionalità fra i singoli gruppi d’interessi che si presentano(46)". Nella stessa relazione De Gasperi domandava che: "si introducesse il voto femminile(47) diretto perché quella delle procure è una vera miseria morale. […] è meglio che le donne vadano colla scheda in un luogo loro prescelto e gettino questa scheda nell’urna elettorale, come fanno per esempio nella Svizzera e nel vicino Vorarlberg, o che si continui la bella pratica che tutti i partiti facciano della donna un oggetto di conquista e d’insidia? […] Combattendo per il voto femminile diretto, noi combattiamo per una causa di libertà e di democrazia(48)".
Ed ancora nell’appello per le elezioni politiche redatto da De Gasperi e pubblicato il 12 maggio 1911 leggiamo: "Vogliamo un Parlamento democratico che lavori per il popolo, non l’assolutismo militarista ed accentratore. […] Ora noi non vi chiediamo che un atto di sincerità e di franchezza: giudicate della vita pubblica come giudichereste della vita privata. Pensate dello Stato come pensate della vostra famiglia e, come elettori e cittadini, esprimete la stessa volontà che manifestate come padri di fronte all’avvenire dei vostri figli(49)".
Ma De Gasperi investiva parte delle sue analisi anche nell’autocritica, come nell’articolo titolato Il dito nella piaga del 28 giugno 1911: "siamo ancora troppo pochi democratici (si riferisce all’Unione popolare e alla sua direzione). Non basta l’azione per il popolo, è necessario l’educazione e l’azione del popolo(50)".
In seguito all’attentato avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, nel quale rimasero uccisi l’arciduca ereditario d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie, ed in seguito alla mancata accettazione dell’ultimatum austriaco del 23 luglio, l’Austria il 28 luglio 1914 dichiarava guerra allo Stato balcanico. Iniziava così la Prima guerra mondiale. Dal 5 agosto 1914 entra in funzione la censura su tutti i giornali, non solo per le notizie militari ma anche per gli apprezzamenti politici e locali. De Gasperi sarà meno libero di scrivere ma acutamente il 6 agosto 1914 ricorda che: "le ragioni profonde della guerra non sono visibili attraverso il diaframma della storia contemporanea; occorre risalire più in alto, a Dio che conduce i destini dei popoli secondo un disegno inaspettato e ineffabile(51)". Ed eccoci all’epilogo, con questo monito si chiude la nostra ricostruzione del tema della democrazia negli scritti del giovane De Gasperi.
Alla luce di questa ricognizione, è ora necessario per chiudere il cerchio, tornare alla questione dalla quale eravamo partiti per interrogarsi in che termini vada inserito il termine democrazia nella riflessione del giovane Alcide De Gasperi. È ormai chiaro che la sua assunzione del concetto di democrazia vada collocata nella sua formazione universitaria giovanile. Maria Romana De Gasperi ci ha spiegato che l’aver passato la giovinezza sotto l’Impero Austro-ungarico, che racchiudeva nel suo seno tanti popoli, tante culture, tante lingue e religioni diverse, ha inciso profondamente sulla sua forma mentis facendogli prendere coscienza della necessità dell’ascolto tollerante di tutte le voci. Con brillante lungimiranza rispetto ai ceti borghesi De Gasperi e la sua "idea popolare" comprenderanno che Stato e nazione non dovevano necessariamente identificarsi e coincidere; cioè lo Stato non doveva esplicarsi nella mononazionalità e circoscrivere nei suoi confini una realtà nazionale in ambito ristretto ma avrebbe potuto comprendere e integrare più etnie o realtà nazionali. Questa presa di coscienza restituisce allo Stato la sua funzione di strumento organizzativo giuridico di garanzia, tutela e stimolo, contro la teorizzazione dello stesso come espressione della potenza e della forza della nazione, spazzando via il nazionalismo accentratore che si macchiava della destabilizzazione dei sistemi parlamentari e delle guerre.
De Gasperi fin da giovane sembra accettare implicitamente la tesi bergsoniana, proposta nel 1945 in Cristianesimo e democrazia da Maritain, della concezione della democrazia come "essenzialmente evangelica" e così la sua riflessione collega i principi democratici con le prospettive della giustizia sociale, racchiudendo e facendo convergere i valori della democrazia liberal-garantista e i contenuti di un efficace progresso sociale(52). Il concetto di libertà è un concetto mutuato dall’etica cristiana, esso viene considerato un diritto che precede qualsiasi organizzazione concreta e deriva immediatamente dall’essere la persona umana titolare di un disegno di vita esclusivo(53). Pertanto la libertà sociale rosminianamente intesa renderà tutti i cittadini, indistintamente, fine e nessuno di essi potrà mai essere considerato come un semplice mezzo al bene degli altri. La garanzia della corretta esplicazione della libertà è assegnata allo Stato, inteso come ordinamento nel suo complesso formato dai soggetti che di esso esprimono la volontà, De Gasperi assume questa impostazione dalla sua formazione austriaca che assegna un peso notevole al rispetto delle regole formali quale sistema di convivenza. Le persone e le società naturali sono soggetti di diritti originali che precedono lo Stato-ordinamento; lo Stato può limitarsi a riconoscere o a regolarne l’esercizio di tali diritti fissando i confini e i perimetri dello spazio d’azione. De Gasperi rompe la contrapposizione di classe, con un nuovo componimento cooperativo in direzione di una sintesi che conducesse all’avanzamento, all’equilibrio e alla giustizia sociale. L’associazione e poi il partito diventava così l’elemento di mediazione e ricomposizione dei conflitti. La sua democrazia è una democrazia rappresentativa, espressa dal suffragio universale, fondata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri ed animata dallo spirito di fraternità che è il sale della civiltà. Una società integrale dove gli interessi distinti e opposti si possono armonizzare senza individualismi o frizioni estreme poiché le interazioni convergono al fine ultimo del bene comune. Solo così si sarebbe potuta costruire una società capace di superare insieme ideologia e pragmatismo e nella quale l’uomo non animato da un interesse individuale o di gruppo o dalla volontà di perseguire un modello ideale astratto, avrebbe perseguito in solidarietà con gli altri uomini la felicità personale conseguibile nell’ordine naturale attraverso la sintesi e l’armonizzazione dei valori parziali per approdare ai valori supremi e incontrovertibili.
Ringrazio la Fondazione Alcide De Gasperi e il suo presidente, il senatore a vita Giulio Andreotti, e la dott.ssa Maria Romana De Gasperi per le interviste concessemi al fine di un migliore inquadramento della figura e dell’opera di Alcide De Gasperi.
Un ringraziamento anche al professor Pietro Scoppola per gli interessanti suggerimenti bibliografici e alla professoressa Anna Maria Lazzarino Del Grosso per la disponibilità e la pazienza manifestatemi.
Nicola Carozza
NOTE
(1) Sul tema si vedano: A. De Gasperi. Bibliografia, a cura di M. Romana De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1980 (purtroppo aggiornata al 1980); l. valiani, L’avvento di De Gasperi, Torino, Francesco De Silva, 1949; a. de gasperi, Studi e appelli della lunga vigilia, Rocca San Casciano, Cappelli, 1953; i. giordani, Alcide De Gasperi, il ricostruttore, Roma, Ed. Cinque Lune, 1955; k. adenauer, Testimonianze su De Gasperi, Torino, Spinardi, 1956; g. galori, De Gasperi al parlamento austriaco (1911-1918), Firenze, Parenti, 1953; AA.VV., Aspetti della cultura cattolica dell’età di Leone XIII, Ed. Cinque Lune, Roma, 1961; m. demottè, De Gasperi all’alba del XX secolo, Trento 1962; g. andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Mondadori, II° Ed., 1964; a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al parlamento austriaco, I e II volume, Roma, Ed. di Storia e letteratura, Roma 1964; m. r. de gasperi, De Gasperi, uomo solo, Milano, Arnoldo Mondadori 1964; p. ottone, De Gasperi, Milano, Della Volpe Editore, 1968; g. sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, 1969; p. scoppola, La democrazia nel pensiero cattolico del Novecento, in AA.VV., Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. VI, Il secolo ventesimo, Torino, UTET, 1973; e. carrello, Christian Democracy in modern Italy, a topical history since 1861 , New York University press, 1974; g. andreotti, Intervista su De Gasperi, Roma-Bari, Laterza 1977; p. scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino 1977; f. malgeri, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. V, L’età di De Gasperi, Roma, Il Poligono, 1981; f. traniello, g. campanini, Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 5 voll., Torino,Marietti, 1981-1984; e. fattorini, Il cattolicesimo politico tedesco. Il partito del Zentrum in AA.VV., Cultura politica e società borghese in Germania fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1985; g. andreotti, De Gasperi visto da vicino, Milano, Rizzoli 1986; AA.VV., Storia della Democrazia Cristiana 2° vol. 1945-1954 De Gasperi e l’età del Centrismo, Roma, Ed. Cinque Lune, 1987; p. hamel, Partecipazione e democrazia in Luigi Sturzo e De Gasperi, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1989; f. malgeri, Chiesa, cattolici e democrazia da Sturzo a De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1990; e. a. de pirey, De Gasperi, Milano, Ed. San Paolo 1992; l. bedeschiI, Murri Sturzo De Gasperi. Ricostruzione storica ed epistolario (1898 - 1906), Torino, San Paolo, 1994; AA.VV., "La Rerum Novarum" e il movimento cattolico italiano, Brescia, Morcelliana, 1995; e. nassi, Alcide De Gasperi, l’utopia del centro, Firenze, Giunti, 1997; f. malgeri, La democrazia e il senso del servizio, Ricerca, 9/2002, p. 21; m.r. de gasperi, Mio caro padre, Genova-Milano, Marietti, II Ed.2003; a. canavero, Alcide De Gasperi cristiano, democratico, europeo, Rubbettino, 2003; fondazione alcide de gasperi, Alcide De Gasperi. Un europeo venuto dal futuro, catalogo della Mostra Internazionale (14 ottobre – 20 dicembre 2003), Rubbettino 2003; a. airò, Alcide giovane Leone, "Avvenire", 1 agosto 2004, p. 17; v. burco, La mediazione "asburgica", Enne Effe, dossier, n. 8/2004, p. 43; g. galloni, Attualità del pensiero di Alcide De Gasperi, Enne Effe, dossier, n. 8/2004, p. 9; p. scoppola, "Lectio magistralis" su Alcide De Gasperi, letta il 19 agosto 2004 a Borgo Valsugana per la celebrazione del cinquantenario della morte.
(2) I saggi di Alcide De Gasperi sono raccolti in a. de gasperi, I cattolici dall’opposizione al governo, Bari, Laterza 1955.
(3) A. De Gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al parlamento austriaco, I vol., cit., p. VII
(4) Ibidem.
(5) Giornale diocesano diretto da don De Gentili.
(6) Nel maggio del 1906 "La Voce Cattolica" cambia il proprio nome in "Il Trentino", distaccandosi dalla curia.
(7) e. a. de pirey, De Gasperi, cit., pp. 24 e 44.
(8) Il nome di De Gasperi infatti fu scritto infatti tra i sospetti irredentisti nei registri della polizia di Trento.
(9) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, cit., pp. 23 e 24.
(10) San Vigilio, Vescovo di Trento e patrono nella città. Nato da famiglia romana trasferitasi a Trento verso il 364. Fu martirizzato in val Rendena nel 400 o 405. Sepolto presso l’attuale duomo di Trento, il suo culto si diffuse in tutta Italia.
(11) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, I vol, cit., p. 26.
(12) Ivi, p. 27.
(13) Ibidem.
(14) Ivi, p. 54.
(15) Ibidem.
(16) L’on. Giuseppe Stefanelli (1868-1948) che faceva parte dell’ala sinistra del partito liberale alla Dieta di Innsbruck nel suo intervento al comizio di Riva si dichiarò per "Trieste o nulla".
(17) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, I vol, cit., p. 63.
(18) Ibidem.
(19) Mons. Baldassarre Delugan (1862-1934), fu uno dei primi fautori del movimento cattolico italiano. Parroco decano a Vigo di Fassa fu eletto deputato al parlamento per la quinta curia e nel 1908 fu eletto deputato anche alla Dieta di Innsbruck.
(20) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, I vol, cit., p. 64.
(21) Ivi, p. 78.
(22) Ivi, p. 79.
(23) Ivi, pp. 98-99.
(24) Ivi, p. 115.
(25) Ivi, p. 121.
(26) "La Voce Cattolica" cambiò nome in "Il Trentino" staccandosi dalla Curia e combattendo ogni tentativo delle società pangermanistiche, il primo numero usciva il 17 marzo 1906.
(27) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, I vol., cit., pp. 155-156.
(28) ‘Curia’ nel significato di allora, valeva come classe, ceto.
(29) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, I vol., cit., p. 157.
(30) Ivi, p. 160.
(31) Ivi, p. 203.
(32) Ivi, p. 205.
(33) Ivi, p. 287.
(34) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria. Antologia degli scritti dal 1902 al 1915 con i discorsi al parlamento austriaco, II volume, Roma, Ed. di Storia e letteratura, 1964, p. 16.
(35) Vincent de Gournay (1712-1759), noto economista francese, fu tra i fondatori con Quesnay e Turgot della scuola dei fisiocratici e teorico del liberismo economico.
(36) Ferdinando Lassalle (1825-1864) fu tra i capi del movimento rivoluzionario tedesco del 1848. Autore di opere filosofiche ispirate all’hegelismo, si dedicò all’organizzazione del movimento operaio tedesco. Politicamente la sua posizione fu vicina al socialismo riformista e fu criticata dallo stesso Marx.
(37) Giovanni Jaurés (1859-1914) storico, filosofo e politico francese, deputato socialista nel 1883, nel 1889 condusse durante l’"Affare Dreyfus" una violenta lotta contro il clericalismo ed il militarismo. Nel 1914 fondò l’"Humanité" ed in seguito alle sue campagne pacifiste venne ucciso nel 1914.
(38) Viktor Adler (1852-1918) uomo politico austriaco, socialdemocratico, fondò il settimanale "Gleichheit" e diresse l’"Arbeiterzeitung". Fu deputato della Bassa Austria nel 1902 e del Consiglio dell’Impero nel 1905 e membro della segreteria dell’Internazionale socialista.
(39) Andrea Costa (1851-1910) pioniere del movimento operaio italiano. Dapprima anarchico e poi socialista, fondò nel 1880 la "Rivista internazionale del socialismo" ed il 3 aprile del 1881 ad Imola l’"Avanti!". Deputato in più legislature nel 1908 fu presidente della Camera dei deputati.
(40) Henry Mayers Hyndman (1842-1921) socialista inglese, fondò nel 1881 la Federazione socialdemocratica per diffondere la dottrina marxista, fu tra i fondatori della seconda Internazionale socialista.
(41) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, II vol., cit., pp. 56-58.
(42) Nel 1909 per sette mesi Benito Mussolini guidò a Trento la segreteria della Camera del Lavoro. Continui furono i suoi attacchi contro la Chiesa e De Gasperi sulle pagine dell’"Avvenire del lavoratore". Mussolini fu condannato per diversi reati e imprigionato più volte fino alla sua espulsione dal Trentino. Si veda r. de felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Torino, Einaudi, 3a ed., 1995 pp. 70-72.
(43) Karl Renner (1870-1950) statista austriaco. Durante il periodo universitario aderisce al partito socialdemocratico e si interessa del problema delle nazionalità e della difficile coesistenza nell’impero asburgico. Scrive sul "Kampf" e sul "Arbeiter-Zeitung", nel 1918 è deputato, e più volte ricopre incarichi governativi. Prende le distanze dalle derive fasciste e dopo l’Anschluss si ritira dalla scena politica. Nel 1945 sarà eletto presidente della Repubblica.
(44) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, II vol., cit., p.78.
(45) Ivi, p. 88.
(46) Ivi, pp. 226-227.
(47) Il voto delle donne che ne avevano diritto non era espresso direttamente ma soltanto attraverso procura scritta ad un uomo incaricato legalmente di dare il voto.
(48) a. de gasperi, I cattolici trentini sotto l’Austria, II vol., cit., p. 229.
(49) Ivi, p. 235.
(50) Ivi, p. 265.
(51) Ivi, p. 389.
(52) f. malgeri, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. V, L’età di De Gasperi, Roma, Il Poligono, 1981, p. 171.
(53) p. hamel, Partecipazione e democrazia in Luigi Sturzo e De Gasperi, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1989, p. 155.
Molte ragioni spingono me, fratello del carissimo Enzo, a parlare o almeno a tentare di parlare se riuscirò a governare la commozione che mi tiene la gola stretta nella morsa di una presa soffocante (ed è per questo che insolitamente consegno il mio dire alla parola scritta, piuttosto che a quella parlata).
La prima ragione è uguale a quella topica degli oratori antichi: i quali, pur coscienti che le parole dette mai possano eguagliare la sostanza delle virtù reali, si muovevano tuttavia a salire sulla tribuna perché di queste virtù restasse una traccia, a costituire quel possesso perenne, quello zoccolo duro della storia, che diviene nel tempo retaggio di tutti, retaggio universale. In fondo la storia universale è la somma qualitativa delle virtù dei singoli uomini e le idee grandi pagano il loro giusto tributo, perché siano credibili, agli atteggiamenti usuali della vita quotidiana.
In questi giorni della tua tristissima agonia ho letto il tuo recente libro, Principati e Repubbliche. Nell’impossibilità drammatica di poter conversare con te e di poter apprendere dalla tua voce gli ultimi insegnamenti di vita, quelli più vivi e più calzanti perché dettati dalla consapevolezza dell’imminenza del trapasso, ho cercato di leggere tra le righe di quel testo, fra le cose dette (ed anche fra le cose non dette e taciute, che spesso acquistano il rilievo straordinario della struttura assente) ciò che tu hai voluto affidare al tuo scritto, al quale hai dedicato le ore appassionanti della ricerca e della redazione. A cominciare proprio dalla dedica: A Rina ed a Vincenzo.
Accanto al mio tavolo di lavoro
c’è una foto, un’istantanea, scattata pochi mesi fa,
che ritrae Rina e Vincenzo,
mia moglie e mio nipote,
sorridenti ed abbracciati.
Questa immagine rappresenta e compendia
il senso della mia vita,
e la ragione ultima per cui essa ha meritato
di essere vissuta.
Avremmo tantissime cose da dire su questa dedica, sulla sua sostanza umana, caldamente umana, e sulla sua sostanza poetica, sentitamente poetica. Il punto di partenza è quel "mio" tavolo di lavoro. Il centro del mondo. Il terreno privilegiato di una ricerca gratuita, non spendibile sul terreno dei facili guadagni. È lo studiolo del tuo Machiavelli, dove egli, sul far della sera liberatosi degli abiti dell’ufficialità, si riappropriava della sua vita, per essere finalmente se stesso, lasciando fuori dell’uscio di casa, perché non la contaminassero, le burocratiche finzioni della vita quotidiana, le inutili occupazioni, il senso mercantile di un’amicizia troppo spesso giocata sulla partita doppia del dare e dell’avere, l’ipocrisia dei doppiogiochisti che sa di poter contare sulla complice cattiveria dei loro simili, annidati in ogni ambiente, purtroppo, anche in quelli deputati all’esercizio delle funzioni più nobili della società civile, e pronti a tirare fendenti contro chi si è permesso di non stare al gioco del do ut des. Lo studiolo della ricerca dove tu avvertivi la piacevole consapevolezza di continuare la fatica dei grandi maestri catanesi: Orazio Condorelli e Vittorio Frosini. Il tuo tavolo di lavoro è l’officina della vita, il luogo del montaggio e dello smontaggio delle idee, della verifica della loro credibilità; lo snodo da cui partono gli itinerari della e nella storia del pensiero occidentale, la sede delle utopie affascinanti, il tempio della clausura impedita all’ingresso dell’ignoranza, che ama ammantarsi dello splendore dell’opulenza. Accanto a questo tavolo della perennità della vita e del sapere, c’è una foto. Tu la definisci, non a caso, un’istantanea. Un fragile frammento di vita, che coglie (rappresenta e compendia) il senso della tua vita. Una vita, vissuta e sofferta per settant’anni (sofferta perché, alla maniera di Eschilo, apprendere è soffrire: mathein è pathein), affida all’abbraccio sorridente di Rina e di Vincenzo, abbandonati l’una nelle braccia dell’altro, il compendio stringato ed essenziale dei tuoi giorni, che illumina finalmente, come radioso tramonto, l’epilogo della tua esistenza. Questa immagine, come Enzo la chiama, è un’icona, antropologica, laica e tuttavia religiosissima perché palpitante di sacralità, che esprime la ragione ultima, cioè definitiva (e non ultima provvisoriamente nel tempo che scorre), definitiva, nel senso dell’approdo finale, che gli svela, nell’attimo fuggente dell’intuizione che diventa certezza, come in questa foto- istantanea c’è il concetto in base al quale la vita ha meritato di essere vissuta.
Il cerchio della ricerca si chiude nel giro inevitabile del suo ritorno. Il cerchio è l’icona della straordinaria coerenza della vita di Enzo. Il quale negli ultimi tempi amava colloquiare con gli storici greci. L’epilogo del dialogo erodoteo di Creso e Solone racchiude il senso misterioso della vita di noi uomini e quindi anche di Enzo. La felicità degli uomini è commisurata dal modo con cui essi concludono la loro vita. Dal loro essere e non dal loro avere. Da questo punto di vista Enzo è stato umanamente felice, perché è andato incontro ai suoi ultimi giorni con la serenità dell’uomo probo e tra le manifestazioni più affettuose e sincere dei suoi veri amici.
Il suo ultimo libro è, fra l’altro, mirato a riconoscere il ruolo intermediario di Machiavelli tra la cultura moderna e quella antica. La mia ultima conversazione con lui ha avuto per argomento il celebre brano erodoteo sulle costituzioni, il colloquio tra Dario, Otane e Magabizo. Enzo lo interpretava nel senso di una simpatia erodotea verso le forme di governo democratico. Ed era entusiasta, (l’entusiasmo dei giovani caratterizzava la forza penetrante della ricerca e la gioia della conquista!) del fatto che in bocca ad Otane Erodoto avesse detto che il governo del popolo (plethos archon) ha il nome più bello: ossia l’isonomia. Anche questo particolare svela le ragioni etiche del suo impegno sociale e la sua attitudine morale che lo conduceva al rispetto, tutto greco e deferente, della dignità umana; nei colleghi e negli allievi, soprattutto, giammai trattati con il supponente disprezzo dei professoroni pronti a coglierne l’ignoranza dall’alto della loro saputa intransigenza. E poi con le persone più modeste con le quali amava intrattenersi a conversare. Ricerca significa umiltà, e l’umiltà è la consapevolezza socratica del nostro sapere nulla, rispetto alla totalità inarrivabile delle cose che si dovrebbero conoscere, e che la brevità della vita umana impedisce di conoscere.
Ieri alcuni giovani docenti universitari piangevano in silenzio dinanzi al suo catafalco. Mi sono avvicinato e ho parlato con loro. Ho raccolto la confessione sincera della loro riconoscenza ad Enzo per gli insegnamenti di vita e di sapere che egli ha loro impartito con la semplicità che rifugge dall’inutile retorica e senza gli orpelli del dire che spesso nasconde la scarsa chiarezza delle idee. Sono uscito soddisfatto e sereno da questo incontro. So che Enzo non è vissuto invano, se lascia una grande eredità di affetti ed un retaggio culturale nei suoi numerosissimi allievi.
Sono degni di essere amati coloro che hanno in se stessi le ragioni per essere amati. Si tratta di un genere assai raro. In effetti tutto ciò che è autenticamente nobile è assai raro. Omnia praeclara rara!
Addio mio carissimo Enzo, fratello ed amico! Continueremo a parlarci. Finora ho conversato solo con la nostra dolcissima madre, che mi ha sempre ispirato pensieri d’eterno; oggi sarete in due i miei interlocutori dall’eternità. La tua vita non si è chiusa nel giorno della morte.
Alfonso Sciacca
Mentre preparavamo questo ventiseiesimo numero della rivista, in uscita a marzo 2006, ci è giunta la triste notizia della scomparsa di Enzo Sciacca, noto storico e professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Catania. È stato sempre vicino alla "Rassegna siciliana di storia e cultura", della quale seguiva con interesse le pubblicazioni e alla quale non faceva mancare, tramite gli stessi collaboratori, consigli e proposte. Per essa egli è stato un valido punto di riferimento e un amico straordinario.
Il prof. Enzo Sciacca si è spento il 29 gennaio scorso all’età di 72 anni. Sarebbe andato in pensione alla fine dell’anno accademico in corso. Era nato ad Acireale e per un decennio, dal 1994 al 2003, è stato a Catania preside della Facoltà di Scienze Politiche riuscendo a dare a questa una forte impronta scientifica e una moderna struttura organizzativa. È stato anche Direttore dell’Istituto di Scienze Sociali e poi fondatore e Direttore del Dipartimento di Studi Politici, nonché Coordinatore del Dottorato di ricerca su "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Nell’ambito di tali iniziative egli, discepolo di un altro grande siciliano, Vittorio Frosini, ha rivelato eccezionali doti di maestro riscuotendo la fiducia e l’affetto di numerosi allievi. Le sue spoglie riposano nel cimitero della città natia.
Studioso del pensiero politico italiano e francese del ‘500, Sciacca ha avuto importanti riconoscimenti in Italia e all’Estero. Tra i suoi lavori: Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), (Catania, Bonanno Editore, 1966), Le radici teoriche dell’assolutismo nel pensiero politico francese del primo Cinquecento (Milano, Giuffrè 1975), Interpretazioni della democrazia (Milano, Giuffrè 1989) tradotto anche in lingua spagnola (Madrid, Edersa 1994), Il problema storico del pensiero politico moderno (Palermo, Lombardi, 2000), Principati e repubbliche. Machiavelli, le forme politiche e il pensiero francese del Cinquecento, (Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005). Le ultime due pubblicazioni sono state ampiamente recensite su questa rivista (n. 15, aprile 2002 e n. 25, agosto 2005).
Vogliamo, intanto, ricordare Enzo Sciacca riportando di seguito il testo integrale del discorso pronunciato dal fratello Alfonso il 31 gennaio scorso durante i solenni funerali celebrati nella Basilica di San Sebastiano di Acireale. L’orazione dal sapore foscoliano mette in luce aspetti inediti che arricchiscono il profilo umano e culturale dell’illustre scomparso. Siamo grati al prof. Alfonso Sciacca per avercene concesso la pubblicazione, che è destinata a rendere perenne testimonianza di un rapporto tra due fratelli svoltosi all’insegna di grandi valori e proiettato oltre la morte.
Alfonso Sciacca, anch’egli impegnato nel mondo culturale, è preside del liceo classico "Gulli e Pennisi" di Acireale. Laureatosi in lettere classiche alla scuola di Santo Mazzarino, i suoi studi giovanili si sono mossi intorno ad alcune figure rappresentative della tarda latinità, come Giuliano l’Apostata, Ammiano Marcellino e la cultura antiochena tra paganesimo e cristianesimo. Ha rivolto particolare attenzione alla produzione letteraria della sua città, Acireale, riscoprendo con successo la produzione di un favolista vissuto tra Sette ed Ottocento, Venerando Gangi, la cui opera supera gli stretti confini della cultura provinciale collocandosi nell’ambito più ampio della tradizione favolistica classica e moderna, nella quale egli intende riversare aspetti tipici dell’antropologia locale. Si è pure interessato della produzione pittorica del Settecento siciliano con saggi attenti alla connessione tra arte e religiosità. Da ultimo (2004) ha pubblicato L’Anello di Gige, un saggio sofferto sull’esperienza di tangentopoli. Gli interessi scientifici dei due fratelli, come si deduce dal ricordo di Alfonso, erano spesso al centro delle loro conversazioni e, nel confronto, venivano reciprocamente vagliati.
La Rassegna