Il giovane JEREMY Bentham fra utilitarismo e conservatorismo, negli anni della formazione degli Stati Uniti di Marco OLIVERI

Se nell’Ottocento, l’esortazione "Look now to the United States" testimoniò dell’entusiasmo di Jeremy Bentham per la giovane nazione statunitense, negli anni dei suoi primi scritti, invece, erano prevalsi gli attacchi e le riserve nei confronti della Dichiarazione d’Indipendenza e della Rivoluzione americana.(1) Questi scritti, nella seconda metà del Settecento, furono caratterizzati dalla critica netta, mai rinnegata, al giusnaturalismo e alla concezione contrattualistica.(2) Si trattava di una costante confutazione delle leggi di natura e dell’idea di un potere legislativo supremo, che si supponeva derivasse da una Costituzione fissa e immutabile. In quel periodo, il filosofo inglese avviò una stretta collaborazione con John Lind, appena reduce da dodici stagioni nel Levante e nell’Europa centrale con le funzioni di ambasciatore del re di Polonia, che, seppure non ufficialmente, avrebbe continuato a svolgere anche a Londra. Dal 1773, l’intesa fra Bentham e Lind,(3) amico di famiglia del filosofo e prete mancato, fu particolarmente intensa sul piano intellettuale e politico. Tra l’altro, sembra che sia stato lo stesso Lind a suggerire a Bentham il progetto di un attacco ai Commentaries on the Laws of England (1765-69) di William Blackstone, scrivendo la prima stesura dell’inizio di Comment on the Commentaries, di cui lo stesso Frammento sul governo (1776) costituiva una derivazione. In parallelo con il celebre attacco del Frammento alle idee di William Blackstone,(4) è possibile quindi cogliere l’attenzione del primo Bentham nei confronti degli Stati Uniti: nello stesso periodo della pubblicazione anonima del Frammento, egli si confrontava, infatti, con la rivoluzione americana. Così, mentre Bentham dava un importante contributo a due pamphlet firmati da Lind, Remarks on the Principal Acts of the 13th Parliament of Great Britain (1775) e An answer to the Declaration of the American Congress (1776),(5) allo stesso tempo Lind partecipava alle prime fasi di A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government di Bentham.

 

Negli scritti di Lind, pubblicati su commissione della Corona inglese, in polemica con la rottura imposta dalle colonie, emerge una chiara impronta benthamiana nell’opposizione all’idea di diritto naturale, alla base della Dichiarazione d’Indipendenza. Si tratta di un primo, significativo esempio di radicalità filosofica e politica, finalizzata a respingere ogni tesi giusnaturalistica e contrattualistica. Una radicalità che, come si cercherà di dimostrare, non trova eguali accenti polemici neppure in un pensatore come David Hume (1711-1776), fondamentale punto di riferimento utilitarista.

 

I. La critica al diritto naturale

 

Nel primo pamphlet di Lind, si legge che gli americani hanno scoperto, a suo avviso inopinatamente, "che in tutti gli Stati liberi la Costituzione è fissa e […] inalterabile" e che "il supremo potere legislativo dello Stato […] deriva la sua autorità dalla Costituzione".(6) "Io proprio non so che cosa intendano questi signori per Costituzione", è la replica di Lind, nella quale si sente anche l’influenza di Bentham soprattutto circa l’impossibilità di trovare quelle leggi di natura di cui gli americani si dichiarano così esperti, pretendendo in base ad esse di giudicare la validità delle leggi del Parlamento.(7) Seguendo le linee portanti di Bentham, Lind scriveva: "Io non conosco altri diritti, in uno Stato della società civile", salvo quelli creati dalla legge.(8)

 

L’anno dopo, anche nel secondo scritto, egli contestava le leggi di natura.(9) Lind, ancora una volta con l’apporto di Bentham, si domandava quali fossero le differenze che "questi acuti legislatori" avevano supposto fra le leggi di Dio e quelle di natura. Queste differenze, emerge nel testo, sono impossibili da determinare o immaginare. Un altro attacco significativo è diretto alla massima che "tutti gli uomini sono creati uguali". Da qui, si legge nella risposta alla Dichiarazione, si dovrebbe desumere che un bambino, al momento della nascita, abbia la stessa rilevanza del suo genitore, dal punto di vista del potere naturale, o lo stesso potere politico di un magistrato. Tutto questo è assurdo, scrive Lind. Così come, e siamo ancora nel solco della critica profonda al diritto naturale di stampo benthamiano, è inconcepibile che i diritti di "vita, libertà, e ricerca della felicità" siano inalienabili e considerati nell’ambito delle verità evidenti. Secondo la Dichiarazione d’Indipendenza, è proprio per assicurare questi diritti che si istituiscono i governi. Per cui, in base a questa concezione, si potrebbe sostenere che il governo non possa agire a danno di uno solo di questi diritti. Ad esempio, tutte le leggi penali che toccano la vita o la libertà sarebbero contrarie alla legge di Dio e agli inalienabili diritti del genere umano.(10) Così, nel secondo scritto firmato da Lind, si denunciava l’ "assurdità" della Dichiarazione d’Indipendenza e dell’idea di questi "diritti inalienabili". Per l’autore del pamphlet, i padri fondatori sostenevano principi del tutto incompatibili con la condotta delle colonie.

 

Se il diritto di godere della propria vita è inalienabile, ci si domandava, come mai si è proceduto all’invasione del Canada, appartenente a Sua Maestà? Come mai non si è evitato di stroncare molte vite degli abitanti di quella provincia? Se il diritto di godere della libertà è inalienabile, come mai molti pacifici sostenitori del re sono stati incarcerati senza avere commesso alcun reato, solo perché erano sospettati? Così come, se il diritto alla ricerca della felicità è inalienabile, come mai molti cittadini del Canada subirono ingiustizie e violenze, e le loro fortune furono annientate? Per Lind, si tratta di vere e proprie assurdità. Altrimenti, si dovrebbe dedurre, nel caso degli atti di coercizione, che legittimi governi compiano atti illegali. I principi della Dichiarazione d’Indipendenza, dunque, vengono giudicati degni di "antichi fanatici".(11)

 

Non siamo lontani dal Bentham che, anni dopo, avrebbe ancora attaccato i presupposti teorici su cui si regge la rivoluzione americana nella nota conclusiva alla celebre Introduzione ai principi della morale e della legislazione.(12) Un commento che non si discosta molto dai passi di questi primi scritti. Le affinità fra questi testi emergono soprattutto nei punti in cui si afferma che, se ci si attenesse ai principi americani, tutte le leggi penali che incidono sulla vita o sulla libertà dovrebbero essere dichiarate contrarie alla legge di Dio e agli inalienabili diritti del genere umano.(13) Di certo, nel secondo pamphlet di Lind, come rileva Hart, assistiamo al primo impegno da parte di Bentham nel campo di una "lunga e scettica campagna condotta contro la dottrina dei diritti naturali e inalienabili dell’uomo".(14) Nella parte intitolata Short Review of the Declaration, si ha anche un’anticipazione dell’esame critico della dottrina dei diritti naturali, che il filosofo inglese elaborerà in seguito alla Rivoluzione francese.(15) Sono tutti elementi da cui si può dedurre una costante del pensiero di Bentham, non intaccata dall’adesione al radicalismo dei primi anni dell’Ottocento: l’avversione nei confronti di ogni impostazione giusnaturalistica, di pari passo con un costante confronto critico con il contrattualismo.(16)

 

 

 

II. Un confronto con Hume

 

Sempre nel 1776, Bentham pubblica il Frammento sul governo, incentrato sull’attacco ai Commentaries of the Laws of England (1765-69) di Blackstone. In particolare, egli cita David Hume e la "chimera" del contratto originario,(17) con una radicalità che è difficile riscontrare nello stesso autore del Trattato sulla natura umana, mentre non ne mancano gli esempi in diversi passi degli scritti di Lind-Bentham. Pur essendo netta e tutt’altro che accomodante, l’ostilità di Hume nei confronti del contratto originario, espressa nei Political Discourses,(18) datati 1752, non assume gli accenti estremi di Bentham.

 

Nel Frammento, si osserva che l’"enigma" del contratto originario non viene risolto perché è impossibile uscire dalla "nebbia".(19) Il punto di partenza è l’idea positiva di società politica, contrapposta a quella negativa di società naturale.(20) Per Bentham, lo stato di società naturale esiste quando non si registra l’"abitudine all’obbedienza". Per cui, "i governi si allontanano dallo o si avvicinano allo stato di natura, a seconda che l’abitudine all’obbedienza sia rispettivamente più perfetta o meno perfetta".(21) Un altro problema riguarda l’esistenza di questa abitudine perfetta all’obbedienza, ma il filosofo inglese mira soprattutto a dimostrare che lo stato di natura e lo stato di società politica non sono divisi da "una chiara ed esplicita separazione", checché ne pensino i giusnaturalisti. Di conseguenza, non è possibile fare chiarezza sulla realtà dello stato di natura e sul passaggio alla società politica.(22)

 

Sotto questo punto di vista, non vi è differenza tra il primo Bentham, che rileva l’inconciliabilità tra l’affermazione dei diritti naturali e la condotta di governo, e l’autore che, successivamente, esporrà con altrettanta nettezza il proprio pensiero nella nota aggiuntiva alla Introduzione ai principi della morale e della legislazione. In questa occasione, riferendosi alla Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia, egli si domanderà: "Chi può esimersi dal deplorare che una causa tanto razionale debba basarsi su ragioni più adatte a generare obiezioni che ad eliminarle?".(23) Questa convinzione, riguardo agli Stati Uniti, rimarrà radicata in lui anche quando comincerà a vedere nella nazione americana la massima incarnazione dei principi di utilità. Il suo entusiasmo per la democrazia statunitense non verrà scalfito dall’idea che la nuova nazione fosse fondata su un presupposto ideologico assurdo e sbagliato.(24)

 

Inoltre, nella sua prima opera, Bentham contesta anche l’affermazione di Blackstone che "quando una società (si intenda società naturale) si è formata, ne deriva di conseguenza un governo (cioè una società politica, quale che sia la quantità o il grado di obbedienza che sono necessari per costituire una società politica), perché esso è necessario per preservare e mantenere nell’ordine quella società". Ma, in questo caso, "la società politica, in tutti i suoi significati, avrebbe dovuta essere fondata molto tempo fa in tutto il mondo". In realtà, per il filosofo, Blackstone non voleva esporre un "fatto", ma un auspicio, ovvero che "sarebbe meglio che il governo" derivasse dalla "società naturale", in modo da preservare e mantenere gli uomini "in quello stato di ordine nel quale per essi è vantaggioso trovarsi".(25) Per Bentham, invece, il fondamento dell’obbligo degli uomini di obbedire al governo non risiedeva in una "tacita promessa riguardo al contratto", bensì negli interessi e nelle necessità della società. Senza questa obbedienza, la società non avrebbe potuto esistere. Da parte loro, i cittadini non avrebbero dovuto essere obbligati a obbedire al potere sovrano, più a lungo di quanto l’avessero considerato nel loro interesse. Per cui, come nota Dinwiddy, nel momento in cui i cittadini si sarebbero disposti alla rivolta, nessuna finzione e nessuna ragione "metafisica-legale" avrebbe avuto l’effetto di farli sottomettere al governo.(26)

 

L’autore del Frammento esprime la necessità che si faccia chiarezza su un punto: supponendo la veridicità di questo patto tra il re e il popolo, in cui il popolo promette obbedienza al sovrano e quest’ultimo si impegna a governare in modo da garantire la sua felicità, occorre determinare se il re, nel caso concreto, agisca a favore o in contrasto con la felicità del suo popolo. Da qui dovrebbe scaturire la scelta se continuare o meno ad obbedirgli. Tuttavia, per Bentham, accadeva che gli uomini si ritenessero "maggiormente qualificati" a valutare quando la promessa del re fosse stata infranta, piuttosto che a impegnarsi in prima persona per "decidere direttamente e apertamente" sul momento preciso in cui avveniva che un sovrano agisse a tal punto contro la felicità del suo popolo, da richiedere che i suoi sudditi non gli obbedissero più.(27)

 

In realtà, le ipotesi formulate dal filosofo servono a provare che nessun espediente conduce alla soluzione del rebus sul contratto. Non esiste altra via d’uscita, se non quella di riconoscere l’evanescenza di questo "mito". Pur essendo un aristocratico e un membro di rilievo dei circoli conservatori, il primo Bentham si interroga a fondo su una serie di problemi fondamentali per il funzionamento di una democrazia. Egli non si accontenta delle effimere promesse tra un re e i suoi cittadini. Standogli a cuore gli interessi dei governati, auspica un sistema democratico in cui i sudditi possano concretamente revocare la loro fiducia a chi governa. Al centro della sua riflessione, vi è il principio della massima felicità per il maggior numero di persone. Tra ipotesi e perplessità, procede nella sua valutazione in termini di piacere e di dolore, di vantaggio e di danno per la società.(28) Infine, nel Frammento, egli giunge a "quel fondamento che, unico, non dipende da qualche principio superiore, ma che è esso stesso l’unico fondamento pienamente sufficiente per qualsiasi questione che attenga alla pratica": il principio di utilità.(29)

 

La sua impostazione si rivela ben più esplicitamente avversa a ogni idea di contratto e di stato di natura, rispetto a quella dello stesso Hume, che così introduce la sua analisi nel saggio dodicesimo dei Political Discourses:

 

nell’età presente […] noi troviamo che ognuna delle fazioni in cui la nazione è divisa ha costruito un edificio […] al fine di proteggere e di coprire quello schema di azione che persegue. […] L’un partito, facendo risalire il governo alla divinità, cerca di renderlo talmente sacro e inviolabile, che, per quanto tirannico esso possa divenire, debba rappresentare poco meno che un sacrilegio interferire nella sua azione o contrastarlo nella più piccola cosa. L’altro partito, fondando completamente il governo sul consenso popolare, suppone che esista una sorta di contratto originale col quale i sudditi si sono tacitamente riservati la facoltà di resistere al loro sovrano ogni volta che si trovino oppressi da quell’autorità che gli hanno, per scopi determinati, volontariamente affidato.(30)

 

III. Un saggio sul contratto originale

 

In questo saggio, dedicato al contratto originale, Hume premette che entrambi i principi speculativi - sia quello che fa risalire il governo alla divinità, sia quello che deriva dal consenso popolare – potrebbero essere definiti giusti, "sebbene non nel senso inteso dai partiti", e gli ordini delle loro pratiche potrebbero essere definiti ragionevoli.(31) Continuando la sua riflessione, il filosofo giunge ad accettare un’idea di contratto, come atto di nascita di ogni governo. Si potrebbe ammettere infatti che "solo il consenso avrebbe potuto originariamente" associare gli uomini, dato che essi sono dotati di una forza fisica e anche di facoltà mentali pressoché uguali. "Per amor di pace e di ordine", quindi, il popolo "rinunciò alla sua originaria libertà per ricevere leggi da un individuo pienamente eguale agli altri". Da questo punto di vista, per Hume, ogni governo potrebbe essere all’origine fondato su un contratto, perché una simile esigenza nasce dalla natura degli uomini e dalle loro più profonde esigenze.(32) Con questo, non si vuole certo dimostrare che Hume desiderasse legittimare le teorie contrattualiste. Tuttavia, risulta particolarmente interessante rilevare quanto l’autore del Trattato sulla natura umana non sottovalutasse il significato del contratto. Egli giungeva ad ammettere, pur non perdendo le sue riserve, che la concezione originaria di contratto nasceva da un antico bisogno dell’uomo. Un bisogno nei confronti del quale Hume non mancava di offrire una certa considerazione. Poi, nei Discorsi politici, a queste premesse seguiva la valutazione che, in realtà, i fautori del contratto non trovavano alcuna corrispondenza alle loro idee nel mondo, né alcuna prova che potesse "giustificare un sistema così sottilmente logico".(33)

 

L’analisi di Hume appare ricca di sfaccettature. Il filosofo riconosce una certa validità a quel primo accordo, "con cui gli uomini allo stato selvaggio si associarono per la prima volta", unendo le loro forze. E’ vero, però, che lo considera un accordo così lontano nel tempo, superato da "migliaia di cambiamenti di governo e di principi", da non attribuirgli più alcun valore. Nonostante ciò, Hume giunge a sostenere che, da un certo punto di vista, è vero che ogni governo sia fondato sul consenso. Tuttavia, subito dopo, precisa che questo patto volontario non trova alcuna corrispondenza nell’esperienza concreta di ogni Paese.

 

Nei suoi commenti, Hume sembra oscillare tra l’ammissione che vi sia un governo fondato sul contratto originale e la convinzione che, in realtà, quasi tutti i governi siano stati fondati "o sull’usurpazione o sulla conquista", senza alcun consenso o "volontaria soggezione da parte del popolo". Di certo, se si ammette l’esistenza del contratto originale, il tentativo di ritrovarne le tracce si scontra con una serie di notevoli difficoltà. Si tratterebbe infatti di un contratto così antico da non potere essere conosciuto dalle nuove generazioni.(34) Nel suo saggio, Hume non sottovaluta nemmeno l’importanza del consenso popolare. Egli non intende negare che il "consenso popolare sia uno dei giusti fondamenti del governo", anzi quando si realizza è "il migliore e il più sacro di tutti". Tuttavia, giudica piuttosto rara la possibilità che esso si sia compiuto nella storia dell’umanità.(35)

 

Sono riflessioni che rivelano un’attenzione differente, nei confronti del contratto, rispetto alla carica iconoclasta di Bentham. Per quest’ultimo, prevarrà comunque il senso della mistificazione, vero contenuto di qualsiasi patto tra un sovrano e il popolo. Di conseguenza, non bisognerà indugiare in riconoscimenti e timide concessioni, che si possono invece cogliere in Hume. Tra molti distinguo, l’analisi elaborata nei Political Discourses risulta complessa e scevra da quella perentorietà che caratterizzerà Bentham. Nel momento in cui muove i primi passi nel campo del pensiero politico, dunque, l’autore del Frammento non si limita a ispirarsi al filosofo scozzese. Con questo, non si vuole certo sminuire o ridimensionare l’influenza fondamentale di Hume sul pensiero di Bentham,(36) ma si intende invece sottolineare l’originalità del suo attacco all’idea di contratto. In particolare, la radicalità di questo attacco costituisce uno degli elementi innovativi del filosofo inglese.

 

Riguardo ai punti di contatto tra i due, si può sostenere che Bentham sviluppò e rielaborò a fondo alcuni temi già presenti in Hume. Temi come la tutela della proprietà, il concetto di giustizia, e la ricerca di una nuova definizione del diritto e dei valori morali. Il tutto nel quadro di un sistema legislativo civile e penale ispirato all’utilitarismo.(37) In questo ambito, va inserito anche l’approfondimento del concetto di contratto, che trae spunto inizialmente dal commento di Hume. Per entrambi, l’analisi e l’elaborazione del pensiero sono guidati da un metodo sperimentale ed empirico. Come osserva Rosen, i "numerosi piani, schemi, codici, leggi e proposte erano esperimenti", con l’obiettivo di comprendere la società, in funzione del suo benessere. A guidare questi esperimenti erano i bisogni e le necessità degli esseri umani, le passioni e gli interessi comuni.(38) Riguardo al contratto, Bentham porterà alle estreme conseguenze i presupposti da cui era partito Hume. Egli punterà a dimostrare l’insensatezza di questa "chimera", da cui non si sentirà mai attratto nell’arco di tutta la sua produzione filosofica e politica. Le oscillazioni e le sfumature di Hume assumeranno invece in Bentham i contorni di un attacco senza riserve. Per quest’ultimo, "l’esistenza di questo preteso accordo era ed è una favola", ideata dalla cultura whig, ovvero dai giuristi liberali. Una volta data per scontata l’esistenza del contratto, essi tendevano a modificarne i termini, in base all’interesse del momento. Per Bentham, si trattava dunque di una finzione che serviva ad appropriarsi del potere in maniera disonesta. Un sistema nel quale sovrano e legislatori, in nome di questa costruzione artificiosa, soddisfacevano i loro reciproci interessi.(39) Non è certo un moderato, o un conservatore ortodosso, l’autore che così si esprime nella prefazione per la seconda edizione del Frammento:

 

Il monarca, non essendogli riconosciuta la facoltà del legislatore unico, aveva tutto da guadagnare nel permettere che queste sue sempre licenziabili creature esercitassero il potere, che appartiene a quell’ufficio; perché, con uno strumento così costruito, e sempre a portata di mano – uno strumento che, aumentando continuamente in esperienza, si mostrava così adatto all’uso – rapina e oppressione potevano, in ogni tempo essere attuate: attuate nelle forme e nei modi in cui non avrebbe potuto osare di metterle in pratica lui stesso direttamente, o di proporle in modo aperto ai rappresentanti del popolo.(40)

 

Le sue, più che le preoccupazioni di un aristocratico, appaiono le riserve di chi ha a cuore le sorti della democrazia, minacciata da troppi pericoli che rischiano di comprometterne la libertà. Nella seconda metà del Settecento, il pensiero di Bentham, sebbene avverso all’orientamento whig e immerso nel clima conservatore britannico, contiene quindi, in nuce, tutti gli elementi che lo porteranno ad aderire al radicalismo.

 

IV. Le radici del radicalismo benthamiano

 

"Io ero un risoluto aristocratico del suo tempo – un prodigioso ammiratore di Lord Mansfield e del re. […] Io ero, comunque, un grande riformista; mai avrei sospettato che le persone al potere fossero contro le riforme. Io supponevo che essi volessero solo sapere che cosa fosse il bene per abbracciarlo".(41) Così definiva se stesso Bentham, riferendosi al periodo intorno al 1776. Malgrado la sua adesione ai circoli conservatori anglosassoni, sin dai suoi primi scritti, egli si presenta come un autore assolutamente originale e difficilmente collocabile in uno schieramento predefinito. Il conservatorismo iniziale del filosofo, infatti, avviene sulla base degli stessi criteri che lo porteranno poi al radicalismo. Di questo, Bentham appare consapevole, se si analizzano i suoi testi.

 

Nel Frammento sul governo, nel nome degli interessi e delle necessità della società, si affermava l’idea che i cittadini avrebbero dovuto obbedire fin quando avrebbero considerato l’obbedienza il minor male, rispetto alla possibilità della resistenza. Ovvero, avrebbero dovuto obbedire fino a quando sarebbe stato nel loro interesse.(42) Bentham si poneva, dunque, una serie di problemi profondamente connessi con le esigenze di una democrazia compiuta. Nel Frammento, giungeva a sostenere che il miglior modo di evitare l’accumulazione del dissenso, con la dissoluzione della società, consisteva nell’ammettere la libertà di critica e nel favorire la tolleranza, in un contesto in cui sia la sfera politica, sia la sfera morale, dovevano reggersi sul principio di utilità. Si può quindi rilevare che la cosiddetta svolta radicale e democratica non vi sarebbe stata se, negli anni precedenti, egli non fosse stato aperto alle esigenze della libertà e della tutela della collettività.(43) Anche per questo, Bentham si scagliava con veemenza contro i fautori del contratto. Il filosofo temeva soprattutto l’utilizzazione strumentale da parte degli uomini, che tendono a considerare la "falsità come uno strumento […] necessario alla giustizia".(44) In particolare, temeva ogni potere che non agisse per procurare la felicità a tutta la comunità, a causa di un uso arbitrario della legge e della moralità.(45)

 

Nel suo primo scritto, il giovane Bentham dimostra anche di avere le idee chiare riguardo alla distinzione tra un governo cosiddetto libero e un governo tirannico. Per parlare di uno Stato libero, si legge nel testo, è necessario che il potere venga distribuito "tra le diverse classi di persone che vi partecipano". La distinzione tra governo libero e governo tirannico investe, ovviamente, la fonte di legittimazione del potere e prevede "frequenti e facili cambiamenti di condizione tra governanti e governati", in cui gli interessi di una classe non siano facilmente distinguibili da quelli di un’altra. In questa disamina del governo libero, Bentham si sofferma poi sulla responsabilità dei governanti e sulla libertà di stampa e di pubblica associazione.(46) Tutti temi che il filosofo approfondirà nelle sue opere successive. Al contrario, per troppo tempo, egli è stato associato tout court al conservatorismo. Come prova inoppugnabile, si è fatto leva sull’assenza nel suo pensiero di una caratteristica fondamentale dell’ottica whig: la mancanza di fiducia nel contratto sociale e nel governo misto. In verità, si trattava di due concetti che Bentham giudicava ormai desueti, adatti per il diciassettesimo secolo, ma non più utilizzabili nel diciottesimo, se non in termini di strumentalizzazioni politiche, al fine di far prosperare la corruzione. Inoltre, nell’evoluzione delle sue riflessioni, si comprenderà che egli non prevedeva la sostituzione di un sistema liberale con uno dispotico, ma con un sistema più efficacemente liberale, nel solco dell’insegnamento di Montesquieu. Un sistema che doveva assicurare il primato della legge e il rispetto delle libertà fondamentali.(47)

 

ordato che, in nome del principio di utilità, l’obiettivo di Bentham consisteva nel raggiungere la felicità della collettività. Egli non ricercava la felicità di una élite e, soprattutto, poneva sullo stesso piano governanti e governati.(48) E’ un autore che incorpora il concetto di libertà nel concetto di sicurezza e che, prima di sviluppare una teoria della democrazia in Constitutional Code (1822), crea le condizioni per approdare al radicalismo politico. Ecco perché si può sostenere che il giovane Bentham aderì ai circoli conservatori, sulla base degli stessi criteri che lo avrebbero poi portato lontano dal conservatorismo. Sin dal principio, egli era consapevole di questa contraddizione e, in coerenza con il metodo che stava sviluppando, la coltiverà nel segno dell’arricchimento e dell’originalità della sua cultura politica. A riprova di ciò, si può citare pure l’attacco iniziale agli Stati Uniti. Quando Bentham modificherà il suo giudizio sull’America, come abbiamo visto, non rinnegherà mai la critica netta alle basi ideologiche che animavano i padri fondatori.

 

E’ l’esempio più illuminante di un Bentham che, nell’Ottocento, evolve in senso democratico, senza rinunciare al nucleo fondamentale del suo pensiero.(49) E’ un altro elemento che contraddice chi sostiene una sua rozza e improvvisa conversione alla democrazia. Esiste quindi un filo comune che lega il primo periodo benthamiano con quello del radicalismo politico. Anche nella sua prima fase, egli non è mai collocabile nel filone conservatore di Johnson, che condizionerà fortemente invece il suo amico Lind. Allo stesso tempo, si distingue da altri utilitaristi come Priestley e Smith.(50)

 

In questo quadro, esiste un altro elemento originale di Bentham, che merita di essere colto. Sin dall’inizio, egli comprese quanto la dottrina giusnaturalista, da Hobbes a Locke,(51) fosse stata ormai inglobata nella tradizione del common law, perdendo così la sua carica innovativa. Malgrado i teorici dei diritti naturali sostenessero la necessità di un contratto e di un codice, per sottrarre la legge all’arbitrio, di fatto essi erano stati integrati con il patrimonio giuridico e politico anglossassone. Di conseguenza, come fautore della codificazione, Bentham combatterà sempre quel "blocco conservatore", nel quale il giusnaturalismo e il common law tenderanno a confondersi.(52) Nello sviluppo del suo pensiero, il codice diventerà uno strumento fondamentale per garantire la certezza del diritto, con tutte le sue implicazioni in termini di garanzie democratiche e di libertà.

 

Marco Oliveri

 

 

 

NOTE

 

(1) Cfr. H. L. A. Hart, Essays on Bentham. Studies in Jurisprudence and Political Theory, Oxford, 1982, p. 74. Hart fa parte di quel gruppo di studiosi dell’utilitarismo britannico che, in questi ultimi decenni, hanno analizzato in una nuova chiave critica il liberalismo di Bentham, discostandosi dalla precedente storiografia. Cfr. J. R. Dinwiddy, Transition to Political Radicalism, 1809-10, Journal of the History of Ideas, XXXVI, No. 4, Oct. – Dec. 1975, pp. 683-700; J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, edited by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London, 1977, p. XXI; J. R. Dinwiddy, Bentham, Oxford, New York, 1989; P. A. Palmer, Benthamism in England and America, pp. 314-327, I, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, edited by B. Parekh, London and New York, 1993; F. Rosen, Jeremy Bentham and Democratic Theory, pp. 573-592, III, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; F. Rosen, Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, pp. 917-933, III, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; D. P. Crook, The United States in Bentham’s Thought, pp. 276-285, IV, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit.; C. Williamson, Bentham looks at America, pp. 287-293, IV, in: Jeremy Bentham. Critical Assessments, cit. Si legga anche la nuova introduzione di F. Rosen a J. Bentham, An introduction to the principles of morals and legislation, edited by J. H. Burns and H. L. A. Hart, Oxford, 1996, pp. xxxi-cxii.

(2) Si veda soprattutto, a questo riguardo, J. Bentham, A Fragment on Government, edited by J.H. Burns and H.L.H. Hart, Oxford, 1977, trad. ital. in: ID., Un frammento sul governo, a cura di Silvestro Marcucci, 1990.

(3) J. Lind (1737-81) era figlio di un pastore anglicano caduto in miseria, i cui affari furono curati dal padre di Bentham, Jeremiah. Si tratta di una figura che visse all’insegna delle contraddizioni. Prese gli ordini sacri e, nel 1861, si recò a Costantinopoli come cappellano della compagnia del Levante. Lì rimase per sei anni e fu congedato perché, come rivela Bentham, si dimostrò troppo disponibile nei confronti delle consorti degli ambasciatori britannici. Abbandonò dunque gli ordini sacri e andò in Polonia, come tutore del nipote del re, il principe Stanislaus Poniatowski. Nel 1772 tornò in Inghilterra e un anno dopo rinnovò l’amicizia con Bentham, che si trasferì a casa di Lind nel 1775. Su questa figura e sul suo rapporto con Bentham, si vedano Memoires of Jeremy Bentham in: J. Bentham, The works of Jeremy Bentham, published under the superintendence of his executor, John Bowring, 11 Voll., Edinburgh, 1843, ristampa anastatica New York, 1962, X, pp. 53-67; Introduction to J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, cit., pp. xxv-xxvi, xxxi-xxvii; J. Bentham to J. Lind, 9 Dec. 1775, in I 289, in: The Correspondence of Jeremy Bentham, I: 1752-1776, edited by T. L. Sprigge, London, 1978; J. Lind to Jeremiah Bentham, 17 Nov. 1860, in I 22, in: The Correspondence of Jeremy Bentham, cit.; H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., pp. 55-56; J. Bentham, pref. per la seconda edizione di A Fragment on Government, cit, ora in: ID., pp. 214-215, 247-255.

(4) J. H. Burns, Bentham and Blackstone. A Lifetime’s Dialectic, "Utilitas" I, 1989, pp. 22-40.

(5) J. Lind, Remarks on the Principal Acts of the Thirteenth Parliament of Great Britain, London, 1775; J. Lind, An Answer to the Declaration of the American Congress, London, 1776.

(6) J. Lind, Remarks…, cit., p. 23. Sul rapporto Bentham-Lind, cfr. J. H. Burns and H. L. A. Hart, Introduction to J. Bentham, A Comment on the Commentaries and a Fragment on Government, cit., p. xxvi. In questa pagina, si può leggere una citazione tratta da una corrispondenza di Bentham, del 6 dicembre 1774. Riguardo alla collaborazione con Lind, in relazione ai Commentaries, egli suggerisce tre modi attraverso i quali si può procedere nella scrittura comune: Lind potrebbe utilizzare la versione corretta da Bentham; oppure, Bentham potrebbe continuare il lavoro sottoposto alla correzione da Lind, e in questo caso il profitto dell’eventuale pubblicazione sarebbe diviso equamente tra i due; una terza ipotesi è che ciascuno segua la propria direzione. In ogni caso, mentre esistono prove che Bentham stesse lavorando a the Comment nel dicembre 1774, e che egli assunse una responsabilità primaria riguardo al lavoro, non è evidente il coinvolgimento di Lind. Sempre nello stesso testo curato da Burns e Hart, a p. xxvi, nota 7, riguardo ai Remarks on the Principal Acts of the Thirteenth Parliament of Great Britain, si legge una citazione da una corrispondenza di Bentham al fratello, che risale al maggio 1775. Bentham scriveva che "adesso era duramente al lavoro con Lind per rivedere il suo libro, che sarebbe stato dato alla stampa tra circa una settimana".

(7) Ibidem.

(8) Ivi, p. 191; H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 58.

(9) J. Lind, An Answer…, cit., pp. 119-120.

(10) Ivi, pp. 120-122.

(11) Ivi, pp. 119-121.

(12) J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, new edition, Oxford, 1996 (1° ed., 1970), trad. ital. in: ID., Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Torino, 1998, pp. 454-456.

(13) J. Lind, An Answer…, cit., p. 122.

(14) H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 53.

(15) Cfr. J. Lind, An Answer…,. cit., pp. 120-132; J. Bentham, Anarchical Fallacies, in: Nonsense upon Stilts, trad. ital. parziale in: ID., Il libro dei sofismi, a cura di Lia Formigari, pp. 111-166, Roma, 1993.

(16) F.M. Di Sciullo, La critica e il progetto, Milano, 2004, p. 119.

(17) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 104.

(18) D. Hume, Political Discourses, Edimburgo, 1752, trad. ital. in: ID., Discorsi politici, Torino, 1959.

(19) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 104. In particolare, nelle pp. 104-105, a supporto dell’inconsistenza dell’idea di contratto originario, il filosofo cita il terzo volume del Trattato sulla natura umana di Hume, pubblicato tra il 1739 e il 1740. Per un confronto fra Hume e Bentham, cfr.: D. Hume, A Treatise of Human Nature, 1739, trad. ital., in: ID., Trattato sulla natura umana, Bari, 1982; D. Hume, An Inquiry concerning the Principles of Morals, 1751, trad. ital., in: ID., Ricerche sull’intelletto umano e sui principii della morale, Bari, 1927; D. Hume, Saggi e trattati, a cura M. Dal Pra e E. Ronchetti, Torino, 1974. Sulla storiografia dedicata a Hume, cfr., tra l’altro: D. Forbes, Hume’s Philosophical Politics, New York, 1975; K. Haakonssen, The Science of a Legislator: The Natural Jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge, 1981; E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, 1991; F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, Routledge Taylor & Francis Group, 2003.

(20) Ivi, pp. 89-90.

(21) Ivi, p. 90.

(22) Ibid.

(23) J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, cit., p. 456.

(24) H. L. A. Hart, Essays on Bentham , cit., p. 65.

(25) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 101.

(26) J. R. Dinwiddy, Bentham, cit., pp. 74-79.

(27) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 109.

(28) Ivi, pp. 110-114.

(29) Ivi, p. 115.

(30) D. Hume, Discorsi politici, cit., pp. 234-235.

(31) Ibid.

(32) Ivi, p. 236.

(33) Ivi, p. 238.

(34) Ivi, p. 239.

(35) Ivi, p. 240, e cfr. ivi, pp. 242-257.

(36) Su questo punto, si veda il testo di F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, cit., e soprattutto il capitolo Reading Hume backwards. Utility as the foundation of morals, pp. 29-57, in cui l’autore rileva che solo pochi studiosi hanno sottolineato quanto il pensiero di Hume, riguardo all’idea di utilità, abbia influenzato o anticipato l’utilitarismo di Bentham e di J. S. Mill. Rosen procede quindi a rivisitare Hume "all’indietro", alla luce dei temi sviluppati da Bentham. In particolare, a p. 48, si insiste sull’importanza di individuare le affinità e le differenze fra i due filosofi, in modo da evitare alcuni errori ricorrenti a livello storiografico. Rosen scrive che le erronee valutazioni, riguardo al concetto di utilità di Hume, sono infatti andate di pari passo con altrettante erronee valutazioni nel modo di concepire le idee di Bentham. Non a caso, secondo l’autore, gli studiosi che hanno sostenuto che Hume non fosse un utilitarista, o che il suo utilitarismo avesse avuto poca influenza sugli utilitaristi classici, sono spesso pervenuti a questa posizione attraverso una caricatura della teoria di Bentham. Inoltre, nell’analizzare l’influenza di Hume in Bentham, Rosen cita il testo di H. O. Mounce: Hume’s Naturalism, London and New York, 1999. Si tratta di un libro che pone l’accento sulla distinzione fra il naturalismo di Hume e il razionalismo di Bentham. Tuttavia, per Rosen, Mounce non sottolinea abbastanza il filo comune che unisce i due filosofi nella critica all’idea di contratto sociale, né evidenzia la derivazione delle basi della "political obligation" di Bentham dalle concezioni di Hume.

(37) F. Rosen, Classical Utilitarianism from Hume to Mill, cit., pp. 52-55.

(38) Ivi, p. 57.

(39) J. Bentham, Un frammento sul governo, pref. per la seconda edizione, cit., pp. 199-200.

(40) Ivi, p. 201.

(41) J. Bentham, Memoires of Jeremy Bentham, cit., X, pp. 66-67. Le affermazioni di Bentham vengono sottolineate anche da H. L. A. Hart, Essays on Bentham, cit., p. 66.

(42) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., pp. 111-113.

(43) Ivi, pp. 165-166. Sull’attenzione costante e duratura di Bentham nei confronti dei problemi legati al funzionamento di un sistema democratico, cfr. tre testi di F. Rosen: Jeremy Bentham and Representative Democracy. A study of the Constitutional Code, Oxford, 1983; Jeremy Bentham and Democratic Theory, cit., pp. 573-589; Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, cit., pp. 917-933.

(44) J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., p. 202.

(45) Ivi, p. 203.

(46) Ivi, pp. 165-166.

(47) F. Rosen, Elie Halévy and Bentham’s Authoritarian Liberalism, cit., pp. 917-933.

(48) Su questo punto, si veda l’introduzione di Silvestro Marcucci in J. Bentham, Un frammento sul governo, cit., pp. 20-21.

(49) F. M. Di Sciullo, op. cit., p. 119.

(50) Cfr. S. Johnson, Taxation no Tiranny: An Answer to the Resolution and Address of the American Congress in The Works of Samuel Johnson, Troy, New York, 1913 (1°ed. 1775), pp. 93-114; A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Glasgow, 1776, trad. ital., in: Ricerche sopra la Natura e le Cause della Ricchezza delle Nazioni, Torino, 1945; J. Priesley, Political Writings, ed. by P. N. Miller, Cambridge, 1993. Questa edizione degli scritti di Priestley contiene due testi: The Present State of Liberty in Great Britain and Her Colonies (1769) e la 2° ed. (1771) di An Essay on the First Principles of Government, and on the Nature of Political, and Religious Liberty.

(51) Cfr. Due Trattati sul governo e altri scritti politici di John Locke e Patriarca di Robert Filmer, a cura di Luigi Pareyson, Torino, 1982 (1° ed. 1948), pp. 227-239 e pp. 282-339; T. Hobbes, Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune, pp. 397-562, in: Opere Politiche di Thomas Hobbes, a cura di Norberto Bobbio, I, Torino, 1988 (1° ed. 1948).

(52) G. J. Postema, Bentham and the Common Law Tradition, Oxford 1989 (1° ed. 1986), p. 18. Per una riflessione generale, si vedano Ivi, pp. 3-80, e, sulla critica di Bentham al sistema di common law, pp. 147-217. Su questi temi, cfr. Anna Maria Loche, J. Bentham e la ricerca del buongoverno, Milano, 1991; F.M. Di Sciullo, op. cit., pp. 136-138.

 

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