L’influsso del pensiero inglese nella pedagogia dell’Ottocento in Sicilia

Nei secoli passati lo spirito dei siciliani sembrò spesso incline al fascino della cultura inglese, così come gli inglesi, popolo di viaggiatori e non soltanto di colonizzatori, furono attratti dalle bellezze della Sicilia e dalle sue tradizioni folcloristiche spesso descritte nei loro libri come, per esempio, risalta dal testo di William Henry Thompson, un viaggiatore dell’Ottocento.(1)

 

Così, anche in campo pedagogico, quando finalmente il governo borbonico comprese che sarebbe stato salutare provvedere all’istruzione del popolo, le attenzioni dei pedagogisti siciliani furono rivolte al metodo educativo dei pedagogisti inglesi, prima del Locke e del Lancaster successivamente. Ci riferiamo agli anni compresi tra l’ultimo decennio del Settecento e il primo trentennio dell’Ottocento.

 

È ben noto quale fosse il quadro politico e socio-culturale di quel tempo sia dell’Europa che dell’Italia tutta; se poi guardiamo, in particolare, la situazione dell’Italia meridionale dopo la ventata napoleonica e post napoleonica, essa appare particolarmente complessa sia per l’azione di governo, non certamente illuminata, dei sovrani borbonici, sia per la presenza di un controllo protettivo inglese nell’area mediterranea e specialmente in Sicilia dove, di fatto, un contingente inglese si era insediato esercitando sia direttamente che indirettamente la propria influenza in tutti i campi: politico, economico, sociale e culturale. Gli inglesi, d’altra parte, avevano trovato nell’isola una situazione a loro favorevole poiché i rapporti tra la nobiltà siciliana e il governo borbonico partenopeo erano sempre carichi di tensione. La vecchia aristocrazia isolana non voleva rinunciare in alcun modo al suo potere feudale e quindi si opponeva a qualsiasi azione riformatrice del sovrano anche se volta al miglioramento delle condizioni dell’Isola.

 

Lo stato di abbandono delle terre, l’assenza di strade e di vie di collegamento tra le città e i centri urbani, le precarie condizioni in cui venivano lasciati i porti, e il conseguente stallo degli scambi commerciali, così resi impossibili, facevano della Sicilia una terra povera e stagnante: Messina era l’unica eccezione. Il popolo continuava a vivere nella miseria, nell’analfabetismo e in condizioni igienico-sanitarie degradanti e mancava la manodopera specializzata proprio in un momento in cui, altrove c’era il fermento delle innovazioni tecniche nel campo del lavoro.

 

La Sicilia languiva sempre più assopita nell’arretratezza a cui era costretta da una classe aristocratica chiusa nell’immobilismo e nelle tradizioni stantie, paurosa di perdere vecchi privilegi con l’arrivo del nuovo e non si accorgeva che, così facendo, sarebbe stata travolta dal cambiamento che, suo malgrado, sarebbe giunto ugualmente.

 

Perfino i sovrani borbonici, quando furono costretti dall’arrivo dei francesi a rifugiarsi a Palermo, notarono una grande differenza con la società napoletana e la regina giudicava, incivile e retrogrado l’ambiente palermitano.

 

Soltanto pochi aristocratici auspicavano un cambiamento convinti che la condizione di abbandono in cui versava l’isola, avrebbe impoverito col tempo anche loro. La maggior parte dei nobili, infatti, ancorchè colti e liberali, si limitava a ricercare nell’agricoltura le ricchezze necessarie alla vita agiata. Nessun investimento veniva fatto per migliorare lo stato della terra in gran parte impoverita; i sistemi di coltivazione erano arretrati così come quelli dell’estrazione dello zolfo dalle miniere, per non parlare del trasporto di quest’ultimo fino alle navi; anche questa risorsa che sarebbe potuta diventare fonte di ricchezza, era ridotta a causa dei costi eccessivi nonostante l’alta richiesta che ne veniva fatta dai vari paesi europei, per essere utilizzata come combustibile per alimentare le macchine a vapore. La Germania e la Francia disdissero ogni contratto e volsero la preferenza all’acquisto del carbone; soltanto l’Inghilterra continuò ad acquistare lo zolfo perché nel primo ventennio dell’Ottocento aveva fatto degli investimenti in Sicilia per migliorare le condizioni di alcuni porti per rendere possibile l’attracco delle navi. Bisogna osservare anche che l’isola non era stata travolta dall’ondata napoleonica come gli altri stati europei e, quindi, era rimasta lontana dal germogliare delle nuove esperienze, delle nuove idee e delle nuove scoperte. In questo contesto non va dimenticato che si andava formando una piccola classe borghese, intellettuale più che economica, i cui esponenti giudicati come i "giacobini" della Sicilia, furono spesso costretti ad andare in esilio e quando nel 1812, la loro patria potè finalmente darsi una costituzione autonoma, sul modello di quella inglese, con l’appoggio di Lord William Bentinck, essi rappresentarono nel Parlamento siciliano i democratici, "e anticiparono, prima e durante la inquieta stagione dei moti del 1820-21, quella fine del sicilianismo che avrebbe trovato concorde la stragrande maggioranza dei siciliani, alimentandone la italianità, dopo il fallimento della Rivoluzione del 1848".(2)

 

In questo clima fermentava la voglia di autonomia dei siciliani dal governo di Napoli. In tale quadro va ricordata la posizione della Chiesa, l’altra grande potenza economica dell’Isola, i cui beni erano resi più produttivi e il ricavato veniva destinato non solo alle esigenze del culto ma alle molteplici opere assistenziali e caritatevoli verso i bisognosi; ciò costituiva parte della ricchezza dell’economia isolana quando non cadeva nelle mani di profittatori o di amministratori poco onesti.

 

Gli Ordini Religiosi e le Opere Pie, per quanto fossero sinceramente impegnati nell’offrire sostegno economico, oltre che spirituale, alle classi più povere, non riuscivano, spesso, a causa di un’insufficiente amministrazione a risolvere i problemi alla radice; i religiosi, inoltre, si dedicavano a impartire un’istruzione di base al popolo abbandonato all’analfabetismo.

 

Alla fine del XVIII secolo sembrava che vi fosse un certo interesse per risolvere quest’ultimo problema. Se nel passato non ci si era troppo preoccupati dell’istruzione in Sicilia, ci si rendeva conto che era arrivato il momento di gettare le basi di un percorso formativo che permettesse anche al popolo di avere una formazione e un’istruzione di base. Era necessario non più soltanto educare, bensì istruire il popolo e renderlo capace di diventare soggetto dei processi produttivi. Inoltre, i Gesuiti erano gli unici che garantivano un’istruzione ai più abbienti, oltre all’educazione religiosa e spirituale, che però non veniva molto ben vista dalle classi dirigenti, per motivi politici e culturali. L’istruzione pertanto, veniva considerata, dai contadini, come un privilegio delle classi aristocratiche.

 

Alla fine del Settecento, con un decreto del 21 marzo del 1788, il Vicerè, principe di Caramanico, diede l’incarico a G. A. De Cosmi di istituire le scuole normali in Sicilia. Veniva fatto così il primo esperimento di scuole popolari in Sicilia con l’attuazione del metodo di De Cosmi che venne eletto direttore delle scuole primarie. Egli era stato molto influenzato dalle dottrine filosofiche del Locke; uno dei suoi principali obbiettivi era quello di rivolgere ai giovani fanciulli il suo insegnamento basato su una dottrina filosofica necessaria, a suo parere, ai maestri e ai direttori per "iscuoprire la dominante abilità di ciascun figliuolo, e per coltivarla a preferenza dell’altre; acciocchè la numerosa gioventù sappia scegliere o nel foro, o nella medicina, o nella chiesa o nella negoziatura, o tra le arti liberali, o tra le manuali, dove meglio potrà impiegarsi".(3)

 

De Cosmi, che si era dedicato allo studio di discipline pedagogiche, filosofiche e teologiche, fu accolto con fervore dai siciliani desiderosi di un rinnovamento nel campo dell’istruzione. Egli aveva avuto modo di conoscere a Napoli il metodo normale tedesco, sotto la direzione di due maestri, il Vuoli e il Gentile, entrambi Padri celestini e si adoperava per espressa volontà del re di far si che i fanciulli apprendessero "una generale, gratuita, e simultanea istruzione nella lettura, nella maniera di scrivere, nell’aritmetica e nel catechismo: quattro cose di prima necessità nelle scuole".(4)

 

Il vicerè di Sicilia, con un "rescritto" del 20 ottobre del 1791, autorizzava l’applicazione, nelle scuole, del metodo elaborato da De Cosmi, anzi incaricava quest’ultimo di adoperarsi in quest’impresa, "come in cosa di pubblica espettazione ed utilità".(5)

 

De Cosmi cercava di attuare un metodo semplice, che non facesse stancare i fanciulli e permettesse loro di apprendere facilmente le nozioni di base dell’aritmetica e dello l’italiano per superare quelle difficoltà che avrebbero reso più complicato l’apprendimento delle materie insegnate. Soprattutto l’aritmetica veniva considerata da De Cosmi come la metà o poco più dell’istruzione.

 

De Cosmi si preoccupò altresì di applicare il metodo analitico alla grammatica italiana e latina e di limitare il numero di fanciulli nelle classi cosicchè essi potessero apprendere meglio le lezioni.

 

Molti erano gli scritti pedagogici che formavano il corpo della sua opera più importante: Elementi di filologia italiana e latina: la lingua italiana era considerata dal pedagogista l’elemento primario per la comprensione e la manifestazione del pensiero umano. Anche se De Cosmi era venuto a contatto con il pensiero di Rousseau e di altri pedagogisti, è all’opera di John Locke, (Pensieri sull’educazione) che guarda quando divide il processo didattico in due momenti corrispondenti alle operazioni mentali indicate da Locke come fonti dell’esperienza: la sensazione e la riflessione. Il primo momento veniva chiamato da De Cosmi, quello della nomenclatura in quanto: "stato per così dire passivo della nostra anima" e a sua volta suddivideva il secondo in due ulteriori momenti corrispondenti al manifestarsi delle due facoltà "la giudiziaria" e "la ragionatrice", ossia la facoltà del giudizio e del ragionamento, e applicava il metodo dei principi generali del discorso per espletare il procedimento didattico.(6)

 

Il metodo d’apprendimento per ogni disciplina, ma ancor più per la sfera linguistica doveva procedere dall’analisi verso la sintesi, percorrendo anche qui la via del Locke: il discente doveva riconoscere le parti del discorso esaminandone le diversità e le concordanze e doveva imparare a scrivere sotto la dettatura delle proprie sensazioni e dei propri sentimenti e non in maniera meccanica; egli doveva leggere con lo scopo di educare l’anima e la mente. Come conseguenza a questo processo, alle classi del leggere e dello scrivere dovevano succedere due classi normali di insegnamento.

 

De Cosmi proponeva ai maestri italiani un metodo nuovo, smantellando i vecchi sistemi educativi tradizionali.

 

La lingua italiana rivestiva un ruolo fondamentale nell’educare lo scolaro non soltanto per facilitare l’apprendimento della lingua latina ma perchè via via gli scolari si impadronissero del linguaggio come strumento per superare quell’ignoranza che adombrava le masse popolari.

 

De Cosmi promulgava un’istruzione allargata a tutte le fasce della popolazione dalla più alta alla più povera, e nel farlo propendeva per un’istruzione che fosse utile, nel senso più ampio del termine, e non più formale esercizio astratto.

 

Si trattava di un nuovo modello scolastico, che adottava programmi di stato, che era diverso da quello tradizionale, basato sull’istruzione precettistica. Appariva, quindi, come una scuola nazionale e pubblica.(7)

 

Ormai era chiara l’esigenza di promuovere un’istruzione allargata a tutte le classi sociali e non più ristretta soltanto ad una fascia elitaria di popolazione.(8)

 

Convinto, come egli stesso afferma, dell’impossibilità di attuare un metodo duraturo e definitivo nel tempo, tuttavia De Cosmi espresse chiaramente il suo invito a "faticare come per maniera di provisione sul piano presente per osservarne i vantaggi, e gli svantaggi, e per tentare i possibili miglioramenti".(9)

 

Egli aveva cercato di condurre l’impresa in maniera decisa ma entrò in contrasto anche con i Padri Celestini per rivendicare l’autonomia scolastica della Sicilia. Comunque, sorsero nell’Isola molte scuole normali, grazie all’intervento dei Municipi siciliani e dei Gesuiti che finanziarono le scuole normali di Palermo, Catania e Messina.

 

G. A. De Cosmi morì nel 1810; fu molto elogiato per avere riformato la scuola e gli vennero riconosciuti molti meriti.

 

Intanto l’interesse per l’educazione del popolo siciliano si accresceva: ciò è dimostrato dal fatto che il Parlamento siciliano di sua iniziativa, durante l’ultima seduta della sessione dell’anno 1812, durante la quale si votava per una nuova costituzione e si riordinava il Parlamento sul modello inglese, stanziò la cifra di once 400, considerevole per quei tempi, per premiare il cittadino che fosse stato in grado di presentare un piano di pubblica istruzione che rispondesse alle esigenze indicate nel bando emanato dal Parlamento: un piano che doveva rimanere nella memoria della popolazione.

 

Era necessario attuare riforme per le scuole, per i collegi e per l’ordine delle accademie civili e militari.

 

Alla gara parteciparono G. E. Ortolani, S. Termini, N. Lisi, Ignazio Roberto di Troina e F. Paternò Castello di Carcaci ed anche un autore anonimo presentò un progetto.

 

In linee generali, gli autori dei progetti propendevano per un’educazione e un’istruzione di massa, liberale, obbligatoria, pubblica, che servisse a formare individui, in grado poi di contribuire concretamente al benessere della Sicilia.(10)

 

Questi progetti, in realtà, non vennero presi in grande considerazione dal Parlamento che nel 1815, considerò le spese per la pubblica istruzione fra quelle meno impellenti; in quell’anno, le scuole normali, in Sicilia, non erano molte e solo alla fine del secondo decennio la situazione sembrò migliorare perchè si apportarono sostanziali modifiche alla normativa scolastica, a favore dell’istruzione e del metodo del De Cosmi.

 

A Palermo furono chiamati i maestri che insegnavano nelle scuole comunali di Monreale, con lo scopo di far loro apprendere il metodo normale per poi spiegarlo agli insegnanti delle altre scuole. Si trattava di una vera e propria istituzione della istruzione dei maestri.(11)

 

Non si trattava soltanto di ideali ma bisognava attuare quelle condizioni necessarie affinchè l’educazione coinvolgesse anche quella parte del popolo che si lamentava della carente istruzione, fino ad allora impartita ai propri figli. Era necessario incrementare delle istituzioni solide e pubbliche marginalizzando quelle private che avevano dominato il campo dell’educazione, fino a quel momento.

 

Le scuole primarie e secondarie erano, in genere, finanziate dai comuni altre invece erano a carico dell’Università o della Deputazione degli Studi di Palermo(12). Altre, come quelle di Leonforte, Palma e S. Mauro, venivano finanziate dai Padri Scolopi e quelle di Castiglione, Taormina, Petralia Sottana, Milazzo erano sostenute da benefattori privati.(13) I problemi economici e gestionali delle amministrazioni, complicavano la già difficile situazione scolastica siciliana. Frattanto, nel 1816 Ferdinando di Borbone, incoraggiò l’abate Antonio Scoppa a recarsi a Parigi per conoscere il nuovo metodo, quello di J. Lancaster per poi applicarlo nelle scuole di Napoli.

 

Erano gli anni in cui Bell e Lancaster erano riusciti ad ottenere larghi consensi al loro metodo di insegnamento nella scuola primaria.

 

L’abate Scoppa tornò dalla Francia entusiasta di avere appreso questo nuovo metodo di insegnamento che, a suo parere, sarebbe stato molto utile per migliorare, da un punto di vista didattico ed economico, le condizioni dell’istruzione nel nostro paese.

 

Egli, in realtà, aveva ragione, perchè ben presto il metodo lancasteriano, o di mutuo insegnamento, ebbe ampi consensi e larga diffusione in Italia e in seguito anche in Sicilia.

 

A. Bell e J. Lancaster avevano sperimentato le difficoltà dell’insegnamento in un momento storico molto difficile, quello che seguiva la caduta di Napoleone. Le scuole erano molto affollate di allievi e vi erano pochi maestri, oltretutto mancavano le risorse finanziarie per pagarli. Bell fece questa esperienza nel 1768 a Madras (India) e Lancaster, nel 1798 a Londra. Dovendosi confrontare con difficoltà economiche e gestionali Lancaster sperimentò un secondo metodo di istruzione popolare e pubblicò un manuale sui principi del nuovo metodo, The British System of Education.(14)

 

Lancaster, pur non essendo annoverato tra i più grandi pedagogisti, va considerato come il precursore di alcune delle più moderne istanze pedagogiche. Il suo metodo valorizza la vivacità dell’insegnamento, lo scambio delle conoscenze fra gli allievi e fra il docente e i discenti; non più alunni statici e silenziosi nel loro banco, non più il lavoro individuale, ma il lavoro dinamico di gruppo. Lungimirante la sua intuizione di quella figura che oggi viene definita tutor del gruppo, colui che più sa e che mette a disposizione degli altri il suo sapere; un metodo, insomma che anticipa i metodi d’autogoverno e della scuola-città odierni. Il sistema lancasteriano si rivelò molto utile poiché un solo maestro poteva dirigere centinaia di alunni e tra questi i più istruiti diventavano docenti degli altri più giovani o meno istruiti raggruppati in classi. Inoltre e la lettura e la scrittura venivano insegnate simultaneamente.

 

A Parigi, il metodo ebbe larga diffusione e grandi sostenitori, tanto che il governo francese stanziò molti fondi per l’apertura di 1500 scuole di mutuo insegnamento e in molte parti d’Italia gli stati e i governi si mostrarono favorevoli all’attuazione del suddetto metodo e lo incoraggiavano finanziando le scuole che da private si andavano trasformando in pubbliche.

 

Anche Ferdinando di Borbone iniziò ad entusiasmarsi dinanzi a codesti cambiamenti, e decise di prendere parte a molte iniziative a favore dell’apertura di queste scuole; anche se poi nei fatti le istituzioni governative non appoggiarono molto l’istituzione delle scuole mutue.

 

Il metodo lancasteriano fece la sua comparsa a Napoli, quando alla morte dell’abate Scoppa, gli succedette l’abate F. Mastroti, che tradusse il manuale di Lancaster dall’inglese all’italiano.(15)

 

In Sicilia, soprattutto, nei primi anni, il metodo seppur accolto con fervore dalla popolazione, non trovò l’appoggio necessario da parte delle istituzioni.

 

Le scuole di mutuo insegnamento, rappresentavano il secondo esperimento di scuola popolare in Sicilia e si distinguevano da quelle conventuali, in quanto aperte e finanziate anche da laici o privati. Era una scuola gratuita che aveva il compito di formare professionalmente i fanciulli e indirizzarli anche a lavori artigianali. Queste scuole rappresentavano quella voglia di cambiamento nell’istruzione, portato al centro dell’attenzione dagli avvenimenti politici del primo Ottocento.

 

Il metodo per l’apprendimento degli scolari, secondo Lancaster doveva essere semplice e bisognava che fosse attuato per economizzare sui fondi stanziati dalle pubbliche istituzioni.(16)

 

L’abate Nicola Scovazzo fu nominato direttore di codeste scuole in Sicilia. La sua vita fu interamente impegnata nella diffusione del metodo di mutuo insegnamento di cui egli si faceva propulsore e sostenitore.

 

Nato in Aidone, nel 1783, aveva dedicato gran parte della sua esistenza allo studio e alla vita conventuale e aveva meditato molto sulle varie forme di insegnamento e di educazione religiosa.

 

Incaricato dal governo di Napoli di aprire la prima scuola di mutuo insegnamento, egli la aprì a Palermo il 25 gennaio del 1819 nella Compagnia del Ponticello, iniziando a istruire venti scolari monitori; con delibera del Decurionato di Palermo, il metodo, venne istituzionalizzato.

 

In seguito venne aperta un’altra scuola a Messina, diretta dall’abate Giacomo Cardile, nel 1820, poi a Catania una seconda scuola venne avviata nel 1827. In parecchi comuni e città c’era la voglia di apprendere il metodo del Lancaster. Nel 1835 il metodo era stato diffuso in tutta la Sicilia.

 

L’intento di Scovazzo era quello di istruire i "bamboli" senza annoiarli troppo, basandosi su una didattica fondata sull’aiuto reciproco degli allievi, e sulla funzione monitoriale concepita come gioco e autodisciplina.(17)

 

Le classi erano otto e ognuna di esse corrispondeva ad un nuovo progressivo stadio di apprendimento dello scolaro, dalla lettura alla scrittura, esattamente come aveva auspicato Lancaster.

 

I fanciulli che appartenevano ad una stessa classe, possedevano all’incirca lo stesso grado di istruzione e erano a loro volta suddivisi in tutori e pupilli e in una stessa classe vi erano un monitore ed un assistente che avevano il compito di controllare gli altri compagni nello studio di alcune discipline. Quando un fanciullo si distingueva per cultura e intelligenza poteva passare ad una classe superiore e in base al profitto poteva andare avanti o regredire a una classe inferiore. Le classi così strutturate, coerentemente al metodo lancasteriano, potevano contenere anche centinaia di allievi con un solo maestro e con una notevole economia di tempo e soldi. Gli allievi scrivevano le lettere anche sulla sabbia per poi imparare a riordinarle e pronunciarle e alternavano la preghiera allo studio impartito come un gioco.

 

Scovazzo esortava incessantemente le istituzioni a prendersi cura del popolo; egli si prodigò affinchè tale metodo venisse introdotto anche nei collegi di Maria. Il metodo era necessario per evitare, secondo Scovazzo, che i figli dei poveri potessero abbandonare la scuola perchè i corsi troppo lunghi non avrebbero consentito agli allievi di andare a lavorare e aiutare le famiglie.

 

Uno studio semplice, quindi, basato sull’apprendimento del "leggere, scrivere, conteggiare, disegno lineare e la cognizione delle lingue". Il disegno lineare in particolare avrebbe aiutato lo scolaro anche nel lavoro agricolo.(18) Il disegno lineare costituisce la base per qualsiasi lavoro: partendo da comuni linee rette, angoli paralleli e perpendicolari, poligoni e poliedri si può giungere a disegnare "oggetti d’uso come zuppiere, bottiglie, tavolini, sedie, carrozze e moltissimi altri oggetti d’arte".(19)

 

L’aritmetica, dovrà essere scevra da astrattismi e calcoli indefiniti e la lingua italiana dovrà essere depurata da lungaggini retoriche. Sarà uno studio privo dell’utilizzo della grammatica e delle regole; non si dovrà più cercare di apprendere la lingua dei dotti attraverso la lettura dei classici. Lo scolaro non avrà bisogno di parlare una lingua aulica per comunicare con gli altri; egli dovrà soltanto sapere collegare i nomi alle cose purchè non commetta errori ortografici. Per ottenere un simile risultato basterà usare un metodo di traduzione dal siciliano all’italiano.

 

L’abate Scovazzo chiude il suo discorso esortando le istituzioni e il popolo a essere realistici "Il tempo delle illusioni metafisiche è finito. Nel secolo in cui viviamo, il calcolo è la prima scienza..."(20); tutte le altre discipline, devono apprendersi presso scuole specialistiche, licei, Università.

 

L’educazione doveva essere, naturalmente, rivolta anche alle donne e la preoccupazione dell’abate Scovazzo fu anche quella di esortare le nobili donne della società ad aiutare le meno fortunate, sovvenzionando privatamente quelle scuole e quegli istituti, come i collegi di Maria, che venivano lasciati nel più ampio degrado. Scovazzo elogia in maniera particolare il metodo dell’inglese Lancaster riferendosi non soltanto all’educazione del popolo in generale ma anche a quella delle donne che - egli scrive - fin dall’antichità non erano state tenute abbastanza in considerazione dalla società: "Nelle scuole di insegnamento mutuo aperte in Francia e in Inghilterra a benefizio delle donne gran parte del giorno è impiegata dalle fanciulle ad un travaglio continuo, alternando esercizi di lettura e scrittura e di calcolo con quelli dei lavori manuali d’ago. Questo metodo sublime, mercè della classificazione minuta delle discipline e la simultanea divisione del travaglio insieme alla reciprocanza dell’insegnamento riunisce tutto quanto all’uopo richiedersi. Per esso, permettendolo solo la estensione delle sale, si ha modo senza danno veruno ad ammettere alla istruzione un numero indeterminato di fanciulle sotto la disciplina di una sola istitutrice, e profittando tutte di tutto il tempo impiegato agli esercizi letterari, o ai lavori d’ago".(21)

 

Notevoli differenze, quindi, caratterizzano le scuole del mutuo insegnamento rispetto alle scuole normali dirette, anni prima, da De Cosmi: entrambe scuole popolari, ma con diversi programmi di studio e basate su diverse metodologie didattiche. Se in qualche modo le scuole normali risentivano ancora dell’influsso di uno studio più tradizionale, basato sul culto della lingua italiana, tanto che De Cosmi privilegiava lo studio di classici toscani come per esempio il Galateo di Mons. della Casa, e lo studio della lingua latina che sarebbe stata agevolata dalla conoscenza della lingua italiana, Lancaster e Scovazzo, fautori del metodo di mutuo insegnamento, abolivano tutto ciò che di classico e retorico poteva esserci nella didattica della lingua italiana.

 

Con molta probabilità l’abate Scovazzo risentiva ancora dell’influenza che gli inglesi avevano esercitato negli anni passati in Sicilia, soprattutto, quando nel primo quindicennio dell’Ottocento, il cambiamento costituzionale del 1812 diede l’avvio a numerosi dibattiti e cambiamenti in diversi settori culturali e intellettuali dell’isola. Da quel momento anche l’economia e la politica risentirono di quei cambiamenti "soprattutto per il tono completamente diverso che da allora in poi è dato cogliere nelle discussioni di politica economica e, più in generale, di pubblico interesse".(22)

 

In realtà, se la Costituzione del 1812 viene attribuita alla presenza degli inglesi in Sicilia, la diffusione della cultura inglese risale alla seconda metà del Settecento, in seguito alla diffusione di molte opere di autori inglesi (Bacone, Bolingbroke, Hobbes, Locke, Hume, Macaulay, Smith ecc.). Lo stesso De Cosmi - come si è detto - aveva preso ampio spunto dalla filosofia di Locke per fondare una didattica nuova alla fine del Settecento. L’influsso culturale che ebbero gli autori inglesi, in Sicilia, fu quindi notevole.

 

Molti nobili e uomini colti siciliani, avevano viaggiato, basti pensare al Balsamo che "dal soggiorno in Gran Bretagna avrebbe tratto idee, suggestioni, impressioni che avrebbe poi trasferito nei suoi studi e nelle sue proposte di politica economica per la trasformazione dell’economia agraria della Sicilia, ma che stanno anche alla base della costituzione del’ 12 alla cui stesura egli diede il maggiore contributo".(23)

 

Anche la lingua inglese aveva finito col diventare elemento di distinzione nella società, molti aristocratici la parlavano perchè l’avevano studiata(24) e molti viaggiatori inglesi già dalla seconda metà del Settecento avevano avuto l’interesse a visitare la Sicilia e a parlarne, descrivendola anche nei diari di viaggio che stilavano durante o poco dopo il loro tour siciliano come nel caso di Brydone.(25)

 

Il modello culturale inglese esercitava la sua influenza anche nella moda: "la moda prevedeva che si vestisse all’inglese, come di tipo inglese erano le vetture di lusso usate dall’aristocrazia".(26)

 

Nelle biblioteche gli scritti di Milton, Dryden, Shakespeare e Bacone erano largamente consultati come fonte di conoscenza e di accostamento intellettuale.

 

L’influsso dei modelli culturali inglesi su quelli siciliani, evidentemente, era ancora forte se si pensa che uomini colti e nobili, come l’abate Scovazzo, avevano dedicato quasi tutta la loro vita a far conoscere e divulgare le filosofie e i modelli didattici e pedagogici inglesi, con l’intento di migliorare la società e portare i siciliani a un livello di cultura accettabile..

 

La monarchia borbonica, purtroppo, ignorava quasi del tutto i problemi connessi all’istruzione siciliana e le scuole, infatti, venivano lasciate in totale stato di abbandono.

 

Il clero e i vescovi siciliani, invece, sostenevano un’educazione come quella del Bell e del Lancaster e cioè l’istruzione del popolo.

 

I preti e i vescovi erano attenti alla situazione, senza, però, poter risolvere il problema "dell’incremento generale dell’istruzione del popolo, che richiedeva l’ intervento dello Stato nella duplice direzione dell’ampliamento delle strutture scolastiche e della eliminazione totale delle viziose istituzioni e dei vincolanti sistemi (privilegi, mancanza di pubblici aiuti al mondo del lavoro, sistemi ingiusti di tassazione, ordinamenti economici assurdi, ecc.)"(27) che rendevano poveri i comuni e la popolazione.

 

La situazione, quindi, era difficile da gestire, se si considera che anche la preparazione e la didattica dei maestri era molto scarsa. Inoltre la situazione delle scuole femminili era peggiore rispetto a quelle maschili, infatti la preparazione delle scolare era affidata a maestri e suore semi-analfabete.

 

Nel 1849 il ministro della Polizia Generale invitava le autorità competenti a pretendere una preparazione completa per le fanciulle, comprensiva delle nozioni di base della grammatica, della lettura e del catechismo e non mirata esclusivamente all’apprendimento del taglio e del cucito.

 

In quegli anni, iniziava l’esigenza di seguire i modelli d’istruzione praticati in tutta l’Europa. In questo generale moto di rinnovamento, si iniziò a prendere in considerazione il gravoso problema dell’istruzione femminile non soltanto fine a sé stessa ma con lo scopo di inserire la donna nel mondo sociale e lavorativo perché anch’ella potesse contribuire al miglioramento generale delle condizioni sociali.

 

In realtà, soltanto dopo il ‘48 si iniziò a prendere coscienza della complicata situazione; ci si rese conto che la responsabilità dei problemi legati all’istruzione non era da attribuire soltanto alla politica, bensì anche alla classe borghese che, finalmente, comprese che soltanto in una società libera l’istruzione sarebbe servita realmente a migliorare l’equilibrio sociale. Purtroppo, però, come scrive Gaetano Bonetta "I contenuti socio-pedagogici alternativi espressi dalle teorie rivoluzionarie del ‘48 furono abilmente sfruttati per la continuità del sistema borbonico, che si avvalse della prevalenza politica che ebbe il moderatismo con la fine del sogno quarantottesco". (28)

 

 

 

Ida Correale

 

 

 

NOTE

 

 

 

(1) W.H. Thompson, Sicily and its Inhabitants: Observations made during a Residence in that Country in the Years 1809 and 1810, London, 1813.

 

(2) G. Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo, Sellerio, 1981, p. 3

 

(3) G. A. De Cosmi, Memoria sull’istituto normale di Sicilia e sulla pubblica educazione, Scuola media statale di Casteltermini, 1987, p.3

 

(4) Ibidem.

 

(5) Ibidem.

 

(6) Ivi, p.10

 

(7) G. A. De Cosmi, Elementi di filolgia italiana e latina, Palermo, R. Stamperia, 1805, vol. III, Appendice, p. 43

 

(8) A. Crimi, Teoria educativa e scuola popolare in Sicilia nel tempo dei borboni, Acireale, 1978

 

(9) Sulla scuola italiana della prima metà dell’Ottocento in Sicilia, cfr. G. Vigo, Istruzione e sviluppo in Italia nel secolo XIX, Torino, 1971; A. Angeli, Storia delle scuole elementari e popolari in Italia, Firenze, 1908; A. Monteperilli, Storia della scuola italiana dell’Ottocento, Milano, 1951; J. Zambaldi, Storia della scuola elementare in Italia, Roma, 1975; A. Poggi, Educazione privata e pubblica nel Ducato di Parma sotto Maria Luigia, in Enciclopedia Formiggini-Pedagogia, Roma, 1930; A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), Il Solco, Città di Castello, 1927; G. Nisio, Della istruzione pubblica e privata in Napoli dal 1806 al 1871, Napoli, 1871; G. Leanti, Istruzione elementare in Sicilia dagli arabi fino al 1860, s.l. 1924, A. Crimi, Teoria educativa e scuola popolare in Sicilia nel tempo dei Borboni, Acireale, 1978; Bonetta G., Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Sellerio Editore, Palermo, 1981; E. Persico, Il reciproco insegnamento in Italia, Lucci, Roma, 1923

 

(10) G. A. De Cosmi, Memoria sull’istituto normale di Sicilia e sulla pubblica educazione, Scuola media statale di Casteltermini, 1987, p. 18.

 

(11) Per un approfondito studio sui singoli progetti, presentati al Parlamento siciliano, si veda A. Crimi, Teoria educativa…, cap. 4, cit., p. 47.

 

(12) N. Giordano, La pubblica istruzione in Monreale dal secolo XVI all’unificazione del Regno, 1961.

 

(13) La deputazione degli studi per la Sicilia, per i decreti del 22 novembre 1813 e dell’11 febbraio 1814 del principe vicario generale, aveva ottenuto il potere di vigilare sull’amministrazione economica delle scuole; essa era composta da cinque membri: il presidente, il Rettore dell’Università di Palermo, e "tre persone distinte per sapere, integrità e zelo del pubblico bene." Ne facevano parte personaggi illustri della nobiltà palermitana, come il filosofo Tommaso Natale e Monsignor Ajroldi. Essa aveva la suprema direzione morale e scientifica di tutta l’Isola; doveva controllare le scuole, i seminari vescovili, i collegi, gli allievi e i maestri. Essa aveva approvato il metodo del De Cosmi perché ritenuto semplice e adeguato ad impartire una buona istruzione scolastica. Nel 1818 essa fu sostituita dalla Commissione di Pubblica Istruzione. Cfr. A. Crimi, Teoria educativa…., p.73 e sgg.; N. Giordano, Istruzione pubblica in Monreale dal secolo XVI alla unificazione del Regno, serie III, vol. XII, 1961, pp. 241-276.

 

(14) J. Lancaster, The British Sistem of Education, London, 1810.

 

(15) F. Mastroti, Manuale del sistema di Bell e Lancaster o mutuo insegnamento di leggere, scrivere, conteggiare e lavorare d’ago nelle scuole elementari, Napoli, Nobile, 1819.

 

(16) J. Lancaster, op. cit.

 

(17) N. Scovazzo, Discorso sopra il metodo di mutuo insegnamento, Palermo, T. Graffeo, 1835.

 

(18) Ivi, pp. 18-20.

 

(19) Ivi, p. 22.

 

(20) Ivi, p. 4

 

(21) N. Scovazzo, Della necessità d’istruzione morale e intellettuale per le donne del popolo e del modo di provvedervi in Palermo. Memoria diretta alle colte dame e signore palermitane dall’abate Nicola Scovazzo, Palermo, Stamperia Spampinato, 1836

 

(22) A. Li Vecchi, Il sogno inglese e la nazione siciliana, in "Sicilia", n. I (90) dicembre 2000, p. 37.

 

(23) Ivi, p. 38.

 

(24) Ibidem.

 

(25) P. Brydone, A Tour through Sicily and Malta, 1773

 

(26) A. Li Vecchi, op. cit., p. 39

 

(27) G. Bonetta, op. cit., p. 38

 

(28) Ivi, p. 53.

 

 

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