NOTE E DISCUSSIONI GENTILE VISTO DA PIERO VASSALLO

Un approccio diverso - questo di Piero Vassallo - al pensiero di Giovanni Gentile e già il titolo, Gentile l’Italiano (Roma, Biblioteca, 2005), è la riprova più lampante. Nel senso che l’Autore non esamina soltanto l’aspetto teoretico dell’attualismo, ma ne sviscera i tratti spesso sfuggiti a tanti studiosi. Ciò perché l’interprete genovese affronta, fin dall’inizio del suo lavoro, non solo l’intera e complessa problematica della riforma della dialettica hegeliana, nella quale Gentile si cimentò con esiti spesso felici, ma anche alcuni temi, politici, metafisici e morali di una dottrina, l’attualistica, appunto, quant’altro mai ricca di spunti e di suggestioni profondi.

 

Già l’affermazione perentoria vassalliana secondo cui "con Gentile finisce l’egemonia filosofica dei tedeschi e però inizia la riabilitazione della metafisica elaborata dall’italianissimo San Tommaso" costituisce una credenziale che lascia trasparire i futuri sviluppi di uno studio condotto con consapevolezza critica e, soprattutto, padronanza dei problemi affrontati. E i problemi affrontati da Vassallo in tale ricerca sono tanti considerata, altresì, la conoscenza sicura dei massimi maestri del pensiero antico, Platone ed Aristotele, di San Tommaso d’Aquino, della Filosofia italiana ed europea contemporanee e, in particolare, del grande Vico, "auttore", per usare le parole del teorico della Scienza nuova, molto caro al nostro studioso.

 

Non mancano, naturalmente, nel saggio vassalliano precisi e puntuali riferimenti a pensatori del calibro di Cornelio Fabro e di tanti altri uomini di cultura e ciò a conferma della versatilità di un Autore che ha fatto della ricerca filosofica la propria scelta di vita. Vassallo intravede, giustamente, nella logica-dialettica hegeliana quelle aporie già individuate da Trendelenburg, K. Fischer, Gentile e Fabro consistenti, in ultima analisi, in quel ‘caput mortuum" racchiuso nella celebre formula di Hegel secondo cui "il niente considerato come codesto immediato uguale a se stesso, è il medesimo che l’essere".

 

In breve, che da tale unità nasce il divenire. Premesso che "Gentile si riteneva capace di condurre a compimento l’opera iniziata da Vico e da Gioberti"; assodato che l’ultimo Del Noce, col saggio su Gentile, dimostrò che il pensatore attualista iniziò la revisione della filosofia risorgimentale; precisato che lo studioso siciliano, contrariamente a Croce, seppe apprezzare il pensiero vichiano che si inseriva "iusto iure" nella tradizione umanistica italiana; riconfermato che la filosofia del Vico sosteneva "in totale sintonia con i teologi della Riforma cattolica, la stretta connessione tra religione e morale"; ribadito, infine, che la Scienza Nuova non concedeva nulla "agli stati d’animo reazionari", l’Autore spezza anche una lancia a favore di Kierkegaard il quale, nella famosa Postilla, individuò con esattezza le difficoltà della speculazione hegeliana segnatamente laddove il filosofo tedesco affermava che "la verità dell’essere come del niente è perciò l’unità di entrambi".

 

Le analisi vassalliane sulla dottrina di Gentile si avvalgono non solo di una conoscenza di prima mano del sistema del filosofo di Castelvetrano, ma affondano anche le radici in una ricca padronanza bibliografica visti i rimandi e i riferimenti ad opere e a filosofi di grande rilevanza. L’Autore asserisce, da una parte, che Gentile seppe, all’occorrenza, prendere le distanze sia da Platone che da Aristotele e sottolinea, dall’altra, che il padre dell’attualismo pur avendo intravisto che "l’accordo tra fede e ragione costituiva l’inevitabile risultato della contraddittoria avventura moderna", non seppe, poi, percorrere il passo ulteriore consistente nel riconoscere la cretività di Dio rispetto all’Atto puro.

 

La disamina vassalliana non si esaurisce soltanto nell’individuare i motivi di vero ed anche i limiti teoretici di un pensiero così profondo come quello gentiliano, ma passa in rassegna pure gli aspetti politici di una filosofia così legata all’azione e, quindi, alla prassi. E ciò, in particolare, di quel periodo storico, come quello degli ultimi anni della Repubblica sociale, così decisivo per le future sorti della storia d’Italia. Gentile volle assumersi le sue responsabilità, per onorare il concetto di "fedeltà", e in questo modo firmò la sua condanna a morte anche se proprio in tale tragico frangente le sue idee religiose si vennero sempre più precisando fino alla celebre professione di fede - del 1943 - di essere cristiano-cattolico secondo, son parole del filosofo, una direttriche che "è la storia di ogni giorno di sempre". Vassallo dà atto a Gentile di tale presa di posizione ed è d’accordo con padre Agostino Gemelli il quale sosteneva, non senza ragione, che lo stava attendendo in un’aspettativa troncata solo dalla tragica morte avvenuta a Firenze il 15 aprile del 1944.

 

Mediante il conforto di pensatori del calibro di Sciacca, Del Noce, Petruzzellis, Francisco Elias de Tejada, Orestano ed altri - sempre con l’occhio fisso a Vico, investito da Vogelin di una ‘grandezza’ "con la quale i filosofi tedeschi non possono competere" - Piero Vassallo rivendica, giustamente, dopo la modernità, il primato della filosofia italiana. E benché egli ascriva all’autore della Teoria generale il difetto dell’identità di mente umana e mente divina, cionondimento gli riconosce il merito di aver, con la sua interpretazione, animato il dibattito filosofico a costo della sua stessa esistenza troncata con violenza proprio dopo la commemorazione del bicentenario vichiano.

 

Piero Vassallo, pur riconoscendo la grandezza di Gentile e pur apprezzando la svolta costituita dal La mia religione, conserva qualche perplessità al riguardo e intravede nell’attualismo una certa forma di averroismo vista, la dicotomìa tra le due verità - Io tracendentale e Dio - presente nella mente del filosofo. Ma, aggiungiamo, il passo fra il trascendentale e il trascendente è breve, sicché Gentile può essere assolto dall’accusa di dualismo dopo la professione di fede, già ricordata, del 1943.

 

Nella parte finale del saggio, Vassallo rende i dovuti riconoscimenti a padre Cornelio Fabro; e ciò, sia perché il sacerdote stimmatino risolve, a suo dire, la questione della doppia verità di Gentile restaurando il più genuino tomismo; sia perché anche Augusto Del Noce aveva, a suo tempo, additato il grande traduttore e interprete di Kierkegaard come il maggior filosofo che in quegli anni avesse l’Italia.

 

La situazione non è sostanzialmente mutata considerato l’imperversare del "pensiero debole" quale negazione, la più perentoria, della genuina ricerca speculativa. Il libro di Vassallo, ricco di suggestioni e di stimoli, conserva il grande merito, come abbiamo suggerito all’inizio, di affrontare la dottrina attualistica "ab intra" sviscerandone momenti felici e talune difficoltà. Esso, inoltre, ha il pregio del saggio che intende, opportunamente, rivalutare la figura di un uomo che oltre che grande filosofo rimane anche un grande italiano.

 

E, non a caso, il lavoro vassalliano esordisce con queste testuali parole a conferma della considerevole valenza nazionale della personalità di Giovanni Gentile: "Con la pubblicazione dei saggi sui Profeti del Risorgimento, Gentile tentò di fondare una "religione della patria", all’interno della quale comporre le discordi fonti delle tradizioni italiane, la fede cattolica, il panteismo rinascimentale e la filosofia romantica, professata, quest’ultima, dai protagonisti del risorgimento (e in modo particolare da Mazzini e Gioberti)".

 

L’aggiunta di Vassallo "impresa non facile" non cambia nulla, a nostro giudizio, per il semplice motivo che il filosofo siciliano ce la mise tutta per superare quegli ostacoli che il medesimo Autore dello studio in questione addita, considerandoli "eterogenei" e spesso inconciliabili fra loro.

 

Ma c’è di più perché l’Autore non si limita soltanto a rivalutare, "sic et simpliciter", la figura del pensatore siciliano, ma riesce, opportunamente, a cogliere anche gli aspetti dell’uomo conciliante il quale durante la Repubblica sociale costituì, a suo dire, "l’ultimo e disperato tentativo di salvare il fondamento spirituale della futura pacificazione fra gli italiani". Vassallo ha, al riguardo, ragioni da vendere giacché la morte violenta del filosofo, impedì a quest’ultimo di fare il passo decisivo sebbene il suo pensiero fosse "in nuce" tutto orientato verso la trascendenza, quantunque in sembianze poligoniche, per usare il linguaggio giobertiano.

 

Gentile, in ultima istanza, era uno spirito "naturaliter" cristiano e cattolico altrimenti non si giustificherebbero la professione di fede racchiusa nella conferenza fiorentina La mia religione e il successivo incontro, in Vaticano, fra il filosofo e il pontefice Pio XII. Incontro che a qualcuno sembrò più un avvenimento politico-culturale che una vera e propria conversione, ma che resta sintomatico ove si pensi alla famosa "attesa" di cui parlava padre Agostino Gemelli e alla grandiosa illusione "stroncata dalla barbara morte", per usare le testuali parole del fondatore dell’Università cattolica. Se - come ci riferisce lo storico Paolo Simoncelli nel suo Gentile e il Vaticano (1997) - il filosofo comunicò al papa che La mia religione rappresentava il massimo dello sforzo di adesione al cattolicesimo e il pontefice rispose dicendo "e vi par poco?", ciò significa che la via di Damasco era a portata di mano e che occorreva, ormai, percorrerla soltanto fino in fondo.

 

Da qui, la puntuale conclusione vassalliana secondo cui "con la morte per mano delle istituzioni dell’empietà, la fede cattolica, dichiarata da Gentile riceve un battesimo del sangue che la separa dall’adesione alla filosofia non cattolica di Hegel e la pone fra i simboli luminosi accesi oltre il secolo buio".

 

 

 

Lino Di Stefano

 

 

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