Michelangelo Ingrassia, La rivolta della Gancia. Il racconto dell’insurrezione palermitana del 4 aprile 1860, Palermo, L’EPOS, 2006, pp. 102.
Il pregevole saggio di Michelangelo Ingrassia, docente presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, analizza con il "tono del racconto" la rivolta della Gancia, uno dei fatti storici di notevole importanza nella realizzazione dell’unità d’Italia, ma troppo spesso ingiustamente dimenticato. La rivolta trae il suo nome dalla chiesa francescana dove trovarono rifugio alcuni rivoltosi.
La storia, come ha scritto Georges Duby, "è, in ultima analisi, un genere letterario", e per non tradire tale ritmo narrativo e non venir meno al rigore scientifico, l’autore ha ritenuto opportuno non appesantire il "racconto" con note a pie’ di pagina, dedicando un capitolo ai riferimenti bibliografici, una sorta di bibliografia ragionata, utile agli studiosi che volessero tornare sull’argomento (pp.68-76). Oltre ai documenti d’archivio, Ingrassia ha consultato i numerosi opuscoli pubblicati nell’Ottocento e i lavori degli storici che hanno studiato la rivolta: da Francesco Renda a Massimo Ganci, da Denis Mack Smith a Gaetano Falzone, a Pietro Merenda per citarne solo alcuni. Una fonte privilegiata è stata quella dei quotidiani cittadini "L’Ora" e "Giornale di Sicilia" negli anni delle ricorrenze di quell’evento, articoli utili per tastare il polso sul grado di "memoria storica" del popolo palermitano.
Gli eventi del 4 aprile 1860 diedero un vero e proprio scossone, tanto che Crispi "convinse Garibaldi a comandare una spedizione in Sicilia" (p. 11). Senza quell’insurrezione "eroica ma sfortunata […] l’unità d’Italia non si sarebbe, almeno per allora, compiuta" (p. 61). La rivolta della Gancia fu diversa da quella "separatista" del 1820-21 e da quella "federale" del 1848 poiché ebbe "carattere nazionale" e si concluse "con il plebiscito dell’ottobre 1860 che sancirà l’unione della Sicilia con l’Italia" (p. 16).
L’insuccesso della rivoluzione del 1848, conclusasi con la restaurazione del potere borbonico, aveva sollecitato la costituzione di un Comitato Rivoluzionario Segreto allo scopo di contribuire alla realizzazione dell’unità d’Italia. Il 1859, l’anno della seconda guerra d’indipendenza, riaccese le speranze. E il 26 giugno a Palermo, nella Piazza Bologni e nella vicina via Toledo, la borghesia e la nobiltà palermitana organizzarono festeggiamenti per le vittorie franco-piemontesi sull’Austria. Nel settembre le dimissioni del generale Filangieri e i continui disordini provocati dai repubblicani, misero a dura prova il governo del Regno delle Due Sicilie alla cui corona si era succeduto Francesco II dopo la morte del padre Ferdinando II. Il mese successivo, fallito il moto di Bagheria, il Comitato Rivoluzionario si trovò diviso tra democratici – "fautori di un’immediata azione armata" - e moderati "che si dichiararono attendisti e si opposero al ricorso alle armi" (p. 18). Superando le divergenze, interventisti e attendisti decisero di organizzare un piano insurrezionale senza meglio precisare la data. Nel marzo del 1860 Mazzini sollecitò il Comitato Rivoluzionario a una immediata azione in un clima infiammato dai plebisciti per le annessioni della Toscana, Emilia e Romagna al Piemonte. Il re borbonico affidò la Presidenza del Consiglio al principe del Cassero. Il 3 aprile il governo dispose la chiusura dell’Università di Palermo: tutti avevano compreso che l’insurrezione era imminente.
Protagonista indiscusso della rivolta fu il fontaniere Francesco Riso, definito da Alexandre Dumas "il primo martire" del 1860, morto il 27 aprile in seguito alle ferite riportate nel combattimento. Questi prese in affitto un magazzino dei frati della Gancia e, da solo, vi nascose le armi; alla Magione, poco distante, affittò un altro magazzino. Per lo stesso scopo occultò altre armi nella casa paterna e nella propria. Riso suddivise gli insorti in tre gruppi per un totale di 83 uomini. Ma, a causa delle "voci del popolo" e dell’imprudenza "di alcuni congiurati", che avevano raccontato il piano a un confidente dei gendarmi, la polizia ebbe notizia che si stava tramando qualcosa.
"Tutto finì com’era cominciato: all’improvviso, dopo appena mezz’ora di lotta disperata" (p. 27). Le pattuglie borboniche catturarono quattordici insorti, mentre cinque morirono in combattimento. Se a Palermo la rivolta fu subito spenta, essa si accese nei paesi limitrofi per diramarsi in tutta la Sicilia. Riso, gravemente ferito, fu condotto all’Ospedale Civico di San Francesco Saverio. Furono arrestati alcuni frati del convento, altri fuggirono, due rivoltosi si nascosero nella cripta della Chiesa della Gancia. Gaspare Bivona e Filippo Patti sopravvissero grazie al coraggio degli abitanti del quartiere che riuscirono, nonostante i pattugliamenti, a far passare alcuni viveri dalle grate di una finestrella. Gli abitanti, simulando una rissa finalizzata ad attirare l’attenzione delle guardie e creando una barriera con dei carretti, permisero ai due di uscire da un buco pazientemente creato nei giorni del nascondiglio. Quella buca, chiamata della salvezza, ancora oggi è ricordata da una lapide il più delle volte – commenta Ingrassia – coperta dalle "vetture che indisturbate e irrispettose parcheggiano davanti ad essa" (p. 35).
Gli arrestati furono portati al Carminello, in piazza Bologni, quartier generale delle truppe borboniche. Già la mattina del 4 aprile, con un telegramma, il capo della polizia Salvatore Maniscalco informò il re che una rivolta era stata "completamente" spenta. I membri del Consiglio di Guerra, convocato sui provvedimenti da prendere contro gli insorti, decisero di applicare misure rigorose.
Il re – che aveva riunito un consiglio straordinario - preferì seguire il parere di Giovanni Cassisi secondo cui un atto di clemenza avrebbe sortito maggiori effetti delle pene capitali. Le sentenze, pertanto, dovevano essere sospese. Il 7 aprile numerosi nobili palermitani – tra i quali i principi di Niscemi, Trabia e Pignatelli - furono arrestati con l’accusa di avere finanziato la rivolta. Il 14 aprile tredici "di coloro che, catturati a centinaia durante i combattimenti fuori Palermo, si trovarono rinchiusi nel forte di Castellammare, furono passati per le armi nel largo di porta San Giorgio" (p. 43). Per loro, secondo il principe del Cassero, non poteva essere applicato l’atto di clemenza del re dal momento che si erano "resi colpevoli" di fatti posteriori (p. 45). In realtà, ad essere fucilati vi furono anche cinque uomini che avevano partecipato all’insurrezione del 4 aprile. Le gravi ferite riportate da Riso lo fecero "prigioniero nel letto d’ospedale", cadendo nell’"infame sospetto" di avere rivelato alla polizia i nomi dei suoi compagni. Ma, egli, osserva l’autore, fu sottoposto a tre interrogatori che non ebbero alcuna conseguenza dal momento che Riso parlò solo quando i nobili erano già stati arrestati e quando i patrioti erano stati fucilati.
Il saggio si chiude con il lungo elenco dei nomi dei "picciotti" del 4 aprile organizzati da Francesco Riso, dei frati del convento della Gancia arrestati e processati per la rivolta, dei caduti nello scontro a fuoco, e delle tredici vittime del 14 aprile 1860 delle quali solo la toponomastica cittadina, con la piazzetta delle Tredici vittime, e un monumento, ne ricordano il sacrificio.
La rivolta della Gancia, "con carattere popolare e antiborghese", si infranse nella realtà del moderatismo dei ceti politici dominanti che sostennero il programma di unificazione nazionale non per dovere patriottico, ma per "calcolo sottile che il miglior modo di sopravvivere al crollo del Regno delle Due Sicilie, conservando i vecchi privilegi e l’antico potere, era quello di modificare le forme senza cambiare la sostanza" (p. 65). La riflessione, in termini diversi, ma uguale nel contenuto, è proprio quella che Tomasi di Lampedusa metterà in bocca al giovane Tancredi nel Gattopardo "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, - dirà al Principe di Salina - bisogna che tutto cambi". Gli alti ceti sociali, infatti, "lanciarono il sasso del 4 aprile incoraggiandolo e finanziandolo, ma nascosero subito la mano" (p. 67). Essi si misero a capo delle "squadre dei picciotti" solo per fini egoistici: garantire i propri privilegi e interessi.
Claudia Giurintano
Roberto Patricolo, San Giorgio dei Genovesi. Le fabbriche, le stirpi, i simboli, le epigrafi, fotografie di Enzo Brai con presentazione di Giuseppe Pecoraro, Bagheria, edito dalla Provincia Regionale di Palermo, pp. 216.
La storia di un quartiere, la storia di un edificio, le storie di persone che hanno vissuto quei luoghi: così può definirsi l’ultimo volume pubblicato da Roberto Patricolo sulla chiesa San Giorgio dei Genovesi a Palermo, frutto maturo di una lunga e costante ricerca sulla chiesa e quanto ad essa sia in qualche modo riconducibile. L’autore ha, infatti, pubblicato alcuni volumi su diversi argomenti riguardanti il medesimo edificio sacro, già a partire dal 1977.
La puntuale e diligente ricerca è testimoniata dalle citazioni che costellano il testo, dalle significative appendici documentarie, poste a conclusione di ogni capitolo - che significativamente hanno tutti i titoli riprendendo citazioni latine sull’argomento trattato - nonché dal dettagliato regesto e dall’ampia appendice bibliografica (quest’ultima a cura di Agostino Merlino), che chiudono il volume.
Quasi come una serie di cerchi concentrici, l’articolazione e la successione dei capitoli, partendo dal contesto territoriale e da quello storico, si concentra progressivamente sui protagonisti della storia della chiesa palermitana della "nazione" genovese: quasi con un telescopio che, puntato sulla città di Palermo, arriva a circoscrivere il quartiere ed infine ogni particolare della chiesa ed i suoi abitatori.
La vivacità economica e commerciale che ha caratterizzato nei secoli i quartieri orientali della città, più vicini al porto della Cala, ha comportato una concentrazione di rappresentanti delle nazioni: tra queste una particolarmente numerosa e di maggior rilievo fu quella genovese. Il taglio della via Maqueda rafforzerà l’individualità della zona, compresa quella limitrofa alle Logge mercantili. Qui, nei pressi della medievale Porta San Giorgio - dal 1724 appellata anche Santa Rosalia - si concentrano le attività commerciali delle famiglie genovesi, presenti in città. Meticolosa e particolareggiata è la descrizione storica e l’analisi documentaria di Roberto Patricolo su tutta la zona interessata dalla presenza dei conventi dei Domenicani e dall’insediamento monastico carmelitano di Santa Maria di Valverde e da altri edifici religiosi.
La potente comunità genovese, recuperando il culto al megalomartire Giorgio, già presente ed ampiamente documentato nella città, edifica nella chiesa San Francesco una Cappella Mercatorum, dove nel 1526 viene collocata l’ancóna marmorea, realizzata da Antonello Gagini, raffigurante il Patrono di Genova. Nella medesima chiesa la presenza genovese era già testimoniata dalla tavola raffigurante la Madonna dell’Umiltà, firmata nel 1346 da Bartolomeo da Camogli. Nel quartiere tale presenza si espande nei due oratori di San Lorenzo e dell’Immacolatella, che entrambi riflettono la struttura di potere della Repubblica ligure. Un’ulteriore traccia di questa espansione religiosa è data dalla presenza nella chiesa Sant’Antonino della tela di Gerardo Astorina raffigurante Nostra Signora della Misericordia di Savona (1440 ca.).
Nel 1576 l’architetto piemontese Giorgio De Faccio inizia i lavori per la nuova chiesa dei Genovesi a Palermo, dedicata al patrono San Giorgio, sul luogo ove esisteva già una chiesa della Confraternita di San Luca, fondata nel 1424. Puntuale è la descrizione del Patricolo dell’edificio e delle vicende costruttive, accompagnando la narrazione con una sorprendente e ricchissima serie di citazioni di documenti e di un nutrito repertorio di disegni nonché di un curatissimo corredo fotografico, appositamente realizzato con maestria dal maestro Enzo Brai.
La stessa puntuale attenzione è dedicata nel trattare ogni rispettiva cappella, ponendo l’attenzione e partendo dai committenti e proprietari, con l’analisi araldica, epigrafica, documentaria sia della famiglia, sia della storia del sito, sia delle opere d’arte in esse contenute. In qualche caso la scheda della cappella è accompagnata da un’appendice documentaria con inventari e testamenti.
Completa il volume la descrizione delle sepolture corredata dalla citazione epigrafica e da una breve descrizione del rispettivo defunto.
Sono questi abitatori che continuano, con la loro silente presenza, l’espansione della storia nel presente tramite la dettagliata analisi delle lastre tombali, non di rado preziose testimonianze dell’arte scultorea oltre che vive presenze dei rappresentanti a Palermo della "nazione genovese".
Giuseppe Ingaglio
AA.VV., Uno/molti. Modi della filosofia, Bologna, Pendragon, 2004, pp. 177.
Il libro indaga in che modo il rapporto tra unità e molteplicità viene pensato da alcuni eminenti filosofi e da alcuni illustri scienziati. Gli autori dei cinque saggi che compongono l’opera – Annarita Angelini, Riccardo Caporali, Marco Ciardi, Rossella Lupacchini e Giovanni Matteucci – hanno voluto offrire studi che fossero rappresentativi di ognuno degli indirizzi (epistemologico, estetico, morale, storico-filosofico e storico-scientifico) nei quali si articola per tradizione il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna, presso cui essi svolgono la loro attività didattica e di ricerca.
Come si sottolinea nella Premessa (pp. 7-11), i testi raccolti nel volume ricusano le soluzioni totalizzanti, schierandosi "dalla parte della pluralità: dalla parte del potenziale semantico – multiplo, molteplice, mutevole – delle linee, delle forme, dei simboli, dei modelli, degli oggetti, delle parole" (p. 7). Ne nasce una "discussione a cinque voci, talora disarmonica e dissonante, come può accadere in assenza di un principio d’ordine e quando prevalga l’eccesso dei dubbi, delle incertezze, delle perplessità" (p. 8). Secondo gli autori, queste diverse prospettive – tutte fragili, provvisorie, parziali – sono in relativa consonanza e, "se combinate, possono avvicinarsi transitoriamente, convenzionalmente, ipoteticamente, relativamente, a una soluzione generale senza lasciarsene ipostatizzare e pietrificare" (p. 9).
Il testo di Angelini, dal titolo La moltitudine di mezzi. Immagini e ossimori in Giordano Bruno (pp. 13-50), mostra come la "nova filosofia" propugnata dal Nolano passi anche attraverso una "riconsiderazione della topica di simboli, di allegorie, di metafore e di immagini dalla quale le tradizioni avevano ampiamente attinto" (p. 19). In opposizione alla tendenza iconoclasta di Cusano, Bruno recupera termini, tropi, miti e figure del passato (recente, antico e antichissimo), deformandone però scientemente il significato e l’intensione.
Un esempio significativo di "uso" e "riuso" della tradizione da parte del filosofo campano è costituito dall’immagine della scala naturae. Mentre, nel De infinito, ne viene irrisa la connotazione originaria, volta a rappresentare il "bell’ordine" scandito dalla gerarchia aristotelica degli enti o dal processo emanativo dei neoplatonici, il De la causa propone un modello "riformato" di scala, i cui estremi non sono più due princìpi contrari e diversi, cioè la sostanza prima e la molteplicità degli individui, ma "uno concordante e medesimo": il mezzo e la pluralità delle forme vengono così riconosciuti come l’unico motore dell’universo e delle infinite trasformazioni che determina.
Nella Cena delle ceneri, Nolano utilizza l’immagine della nave per rappresentare questo sistema autoreferenziale in perenne movimento: in mancanza di ancoraggi assoluti e stabili, rimangono gli appigli, "solo in apparenza "fissi", posti all’interno dello scafo entro il quale ciascuno e tutti si trovano, in ogni momento e per sempre, a navigare" (p. 32). Servendosi di un altro ossimoro, Bruno ricorre alla firmitas e alla finitio vitruviana e albertiana per definire la propria filosofia nei termini di "universal architettura": in questo modo, a parere di Angelini, egli si prefigge di mostrare come "il piano del conoscere e del posse, simbolicamente riconducibile all’immagine della nave, e quello del esse, analogamente rappresentato dalla scala del De la causa, tendano a coincidere e a riconoscersi su un esse posse che si identifica nelle figure della fabbrica e del cantiere" (p. 33).
Aptituto patientis. Spinoza, la moltitudine, la tolleranza (pp. 51-79), il saggio di Caporali, approfondisce il tema della tolleranza nel pensiero del filosofo olandese allo scopo di mettere in luce la questione del rapporto fra sovrano e governati. Se in Spinoza l’idea classica di tolleranza – cioè "la logica "postribolare" della concessione, quella per la quale Tommaso vede il principe rassegnarsi ai culti diversi allo stesso modo in cui si rassegna ai bordelli e ai vizi umani" (p. 53) – risulta tutto sommato marginale, è però possibile rinvenire nella sua opera una peculiare declinazione concettuale della tolerantia, incentrata sul rovesciamento dei ruoli tradizionali del "tollerante" (della summa potestas, cioè dell’uno) e del "tollerato" (dei subalterni, cioè dei molti). Come evidenzia Caporali, quest’originale idea di "sopportazione" viene a costituire, nell’ambito della filosofia politica spinoziana, "una sorta di "basso continuo", le cui variazioni risultano decisive, determinanti per il mettersi in forma dell’"imperium"" (ibid.).
Ne Il sogno della materia prima. Prout, Mendeleev, la nuova chimica e la filosofia antica (pp. 80-111), Ciardi ripercorre le tappe principali della rivoluzione chimica. Nel corso del Settecento, la tradizionale visione della materia – fondata sui quattro elementi di Aristotele (aria, acqua, terra e fuoco) e sui cosiddetti tria prima di Paracelso (zolfo, sale e mercurio) – viene definitivamente a crollare sotto i colpi di una serie di ricerche ed esperimenti assai fruttuosi, condotti in primis da Cavendish, Priestley e Lavoiser.
Nel 1816 Prout pubblica l’ipotesi secondo cui l’idrogeno sta alla base di tutta la materia, e dunque ogni elemento chimico deriva dall’unione di un numero diverso di atomi di idrogeno; come sottolinea Ciardi, l’elaborazione di questa ipotesi risente in maniera decisiva delle concezioni espresse dagli antichi intorno alla "materia primordiale". Contro Prout si schiera Mendeleev, che nel 1869 abbozza la prima versione della sua celebre tavola periodica, finalizzata a ordinare gli elementi chimici secondo i loro rispettivi pesi atomici: egli è convinto che la base della realtà materiale sia costituita dell’esistenza di molteplici elementi non riducibili ad un unico modello, ma soggetti alla disciplina di una legge generale.
Il testo di Lupacchini, L’ineffabile pasticcio dei quanti (pp. 112-142), analizza alcune linee di ricerca che trovano il loro punto di convergenza nella teoria dei quanti. In generale, rispetto al meccanicismo deterministico atomista dominante nel pensiero scientifico del XIX secolo, la nuova fisica energetica – incentrata sul concetto di energia come "capacità di produrre cambiamenti" (p. 117) – ritiene che il mondo fisico non sia composto di atomi inalterabili, bensì di forme, e risulti dall’insieme degli effettivi processi di interazione e delle possibili modalità di trasformazione. Accantonata ogni ipotesi esplicativa "sostanziale", l’energetica si propone allora lo scopo di "indicare una possibile struttura matematica della fisica, in grado di tradurre in un semplice rapporto numerico la relazione che governa il passaggio da un determinato ordinamento "seriale" dei nostri dati percettivi in un altro" (ibid.).
Partendo da tale distinzione, Lupacchini mette in risalto come la meccanica quantistica e quella classica siano inconciliabili: la prima, infatti, descrive la realtà con strumenti matematici che, pur dando conto degli eventi, non si riferiscono necessariamente ad entità reali. Per la meccanica quantistica non è possibile stabilire alcuna corrispondenza tra l’onda associata al moto degli elettroni e la traiettoria del moto; l’elettrone risulta irraggiungibile "perché è logicamente impossibile, per la nuvola di probabilità, assumere due forme diverse nel medesimo tempo, quella delocalizzata delle onde e quella localizzata delle particelle, e qualsiasi osservazione comporta la possibilità di preparare la nuvola in modo che assuma solo una delle due forme" (p. 142).
Obiettivo di Figurazione del senso come unità del molteplice (pp. 143-172) è prendere in esame "alcuni aspetti della declinazione del nesso tra unità e molteplicità che passa attraverso concezioni dell’esperienza non sintetiche ma articolative" (p. 146). Secondo Matteucci, l’autore del saggio, le prospettive di Dilthey, di Cassirer e di Dewey mostrano come sia possibile pervenire a "una figurazione di senso che realizza il nesso tra unità e molteplicità senza collassare in determinazioni categoriali, ossia come unità nel (non del) molteplice" (p. 172). Non dimentichi della terza Critica kantiana, questi studiosi riescono infatti a "valorizzare lo statuto esperienziale dell’arte, scorgendo nelle opere non mere rappresentazioni di nature o di idee, bensì moduli d’esperienza possibile, attuazioni e prospettazioni – cioè – del nesso tra l’unità di un senso sempre nuovo da articolare e la molteplicità dei momenti in cui e per cui tale senso si figura" (p. 145).
Al fine di mettere meglio in luce la profondità storica e semantica del binomio uno/molti, i saggi qui esaminati hanno dunque scelto di privilegiare "le declinazioni più tenui, più fluttuanti, più precarie e relative" (p. 9), accettando sconfinamenti in campi disciplinari altrui nella convinzione – spiegano i cinque studiosi nella Premessa – che non esistano situazioni di pertinenza esclusiva di questo o di quell’indirizzo, e che "gli ambiti della ricerca filosofica siano definibili anche attraverso le interconnessioni, gli apporti e le interferenze di linguaggi e di discipline diverse dalla filosofia" (p. 10).
Piero Venturelli
Sandro Ciurlia, Diritto, Giustizia, Stato. Leibniz e la rifondazione etica della politica, Prefazione di M. Proto, Lecce, Pensa Multimedia, 2005, pp.180.
Il contributo critico che Sandro Ciurlia ci offre con questo volume si configura, da una parte, come un’ulteriore tappa nel lavoro di esplorazione del continente leibniziano condotto dallo studioso con riconosciuta perizia e sottigliezza ermeneutica, dall’altra, come un’attenta ricognizione di un aspetto dell’opera leibniziana che concerne il problema dell’incidenza della riflessione politica o, per meglio dire, etico-politica, sull’architettura generale del pensiero del filosofo tedesco.
Non si tratta di una questione poco rilevante né di carattere puramente accademico-erudito. L’analisi della politica in Leibniz può condurre non solo ad esiti diversi nella rilettura di questo autore ma può, entro certi limiti, incidere sulla fecondità di certe intuizioni leibniziane e sulla loro possibile utilizzabilità nella prospettiva della formazione di una identità europea fondata sul pluralismo culturale e sulla condivisione di alcuni fondamentali principi di carattere costituzionale.
Alla luce di queste sollecitazioni, gli scritti politici di Leibniz possono sfuggire al "sostanziale disinteresse" presente nella storia della critica ed essere utilmente riconsiderati. La noncuranza verso le meditazioni politologiche di Leibniz – si chiede Ciurlia – "è giustificata dalla limitata originalità di tale tipo di riflessione o essa non ha ancora ricevuto l’attenzione ed il rilievo che merità? Quanto hanno contato certe ipoteche interpretative del passato, responsabili di aver dettato per generazioni le linee-guida del dibattito?" (p.25).
Gli esempi, a questo proposito non mancano. Nelle pagine dedicate a Leibniz dell’antologia dal titolo Il politico. Da Hobbes a Smith, a cura di M. Tronti (Feltrinelli, Milano 1982), Tito Magri osserva che i problemi della politica non hanno mai assunto per la filosofia di Leibniz un rilievo centrale. Non che Leibniz non si sia praticamente interessato di politica: è vero piuttosto il contrario. Nessuno, forse, dei grandi filosofi del Seicento ha svolto un’attività politica paragonabile a quella di Leibniz al servizio delle case di Magonza e di Hannover, in rapporto con la casa del Brandeburgo, con Pietro il Grande, con l’Imperatore. Se consideriamo l’opera di Leibniz a favore dell’unità dei cristiani come una parte rilevante della sua attività politica, si deve concludere che la politica rappresentò l’interesse pratico fondamentale e che la pace e l’ecumenismo siano stati i problemi politici decisivi attorno a cui si è incardinata l’attività di Leibniz finalizzata a quella che J. Baruzi definiva "l’organizzazione religiosa della terra".
Ma questa intensissima attività non troverebbe una corrispondenza adeguata sul piano della riflessione teorica. Secondo Magri, qui richiamato come autorevole rappresentante di una consolidata linea interpretativa, il filo conduttore del pensiero di Leibniz è costituito dalla definizione laboriosa delle categorie della Morale e del Diritto naturale nelle quali verrebbe assorbita la categoria della politica. Ne deriva che Leibniz rimanga schiacciato in un orizzonte pre-moderno nella misura in cui non attribuirebbe alla politica una dimensione autonoma.
Lo studio di Ciurlia, se non rovescia nettamente questa linea interpretativa, per lo meno la ridimensiona, rendendola problematica con argomentazioni abbastanza convincenti. Il richiamo esplicito, nel sottotitolo del suo volume, all’idea di una "rifondazione etica della politica" implica la ricerca di un legame complesso, o meglio di un a intersecazione di piani per cui la Politica, la Morale, il Diritto non si presentano come sfere della vita umana senza legami e influenze reciproche, come realtà non comunicanti. Si può discutere quanto, in questo gioco di relazioni, prevalga questa o quell’altra istanza, in momenti diversi, ma sempre dentro una prospettiva unitaria che privilegia le conciliazioni rispetto alle opposizioni, in cui le parti partecipano all’ordine del tutto, in cui, attraverso la ricerca di un linguaggio universale si unificano le conoscenze ma non si uniformano gli specialisti e, sul piano pratico, individui, popoli e Stati tendono ad un ordine etico-giuridico-istituzionale che non livella le differenze ma impedisce che degenerino in particolarismi esasperati, in giochi egocentrici che dissolvano l’armonia dell’insieme.
In questa prospettiva universalistica la politica non può essere disgiunta da quella che Ciurlia definisce la "piattaforma speculativa" su cui si regge l’intero sistema leibniziano: "le idee e le proposte di natura giuridico-politica di Leibniz sarebbero incomprensibili, prescindendo dalle idee d’ordine logico-epistemologico che maturano nel giovanissimo Leibniz alla fine degli ani Sessanta. Il tutto costituisce il basamento del sistema su cui si fonderanno tutte le sue meditazioni future" (p.37).
Da questa base scaturiscono i più arditi progetti del Leibniz diplomatico e filosofo della politica intesa come un campo di attività retto da principi razionali, attività organizzata che riflette il principio di organizzazione della ricerca scientifica.
Il Diritto, in particolare, assume le connotazioni di un ordine discorsivo, linguisticamente organizzato e formalizzato. Il Diritto – avverte Ciurlia – resta per Leibniz il principio regolatore delle dinamiche umane perché riduce, senza annullarlo, il carattere aleatorio e variabile della vita sociale. Si tratta di un’esigenza avvertita da Leibniz con particolare forza, un’esigenza di regole rigorose, capace di governare i contrasti alla luce di una metodologia certa e sicura. Certo, ragionare giuridicamente e operare giuridicamente significa sempre applicare l’universalità della legge ai fatti particolari e quindi richiedere un’attività interpretativa ma ciò che più conta – per Leibniz – è che una rigorosa logica giuridica riduca, fin dove è possibile, i margini dell’errore e limiti le possibilità dell’arbitrio.
L’opera di Leibniz, nell’imponenza e profondità dei temi e dei problemi affrontati, resta, per molti aspetti, sovraccarica di elementi legati alla tradizione ma è indubbio – il saggio di Sandro Ciurlia lo dimostra ampiamente – che è possibile rintracciare dentro il guscio teologico e metafisico del sistema leibniziano un nocciolo razionale pieno di sollecitazioni per il futuro. Liberata dai limiti strutturali del suo tempo, la riflessione politica di Leibniz potrebbe così diventare un utile sostegno alla costruzione dell’identità politico-culturale del cittadino europeo.
Antonio Quarta
Gaetano Augello, Agostino La Lomia. Un Gattopardo nella terra del Parnaso, Canicattì, Ed. Cerrito, 2006, pp. 285
La pregiata e divertente ricerca di Gaetano Augello sul folkloristico personaggio dell’aristocrazia siciliana, il barone Agostino La Lomia, è, in verità un omaggio alla città sua e del protagonista del libro. È infatti, Canicattì, con il suo Parnaso, con l’arguzia dei suoi personaggi, con le sue tradizioni che s’impone su tutto e su tutti, diventando il filo conduttore di una storia che si snoda all’ombra dei protagonisti dell’Accademia parnasiana con particolare attenzione per l’originale barone, a ragione definito "l’ultimo dei Gattopardi".
Agostino La Lomia, infatti, volle imporsi nell’immaginario collettivo come l’ultimo rappresentante di un mondo, ormai in via di estinzione, fatto su misura per una aristocrazia spagnolesca e parassitaria, paternalista e sciupona, legata alle tradizioni, ma desiderosa di essere à la page. Il barone si serviva delle sue stranezze, del suo abbigliamento estroso, per vivere un’eterna mascherata, per nascondere dietro il travestimento esteriore, le insicurezze di una vita fondata sull’effimero e sul sogno, effettivamente vuota di affetti, di scopi e di certezze. La solitudine del barone si evince, oltre che dalla sua continua ricerca del protagonismo - nota è l’anticipazione del suo funerale che ebbe l’onore della cronaca fra i maggiori giornali del tempo - dall’originale, ridicolo, ma anche commovente rapporto con gli animali di casa, il gatto, eredità del defunto don Paolo Meli, chiamato Paolo, in onore del vecchio proprietario, "Annarino", per la sua tendenza a girovagare sui tetti e fra le strade del quartiere, in cerca di gatte disponibili, investito del titolo di referendario, per poter essere ufficialmente accolto alla corte dell’aristocratico canicattinese, e il merlo, Don Turiddu Capra, Duca di santa Flavia. Paradossalmente il gatto alla sua morte ebbe l’onore di un lungo necrologio sul "Giornale di Sicilia" e su altri due quotidiani a diffusione nazionale, onore che il buon barone, alla sua morte, non avrebbe avuto.
La sua ostentata originalità, il suo legame agli usi e alle tradizioni della sua terra, con l’illusione di perpetrare un passato ormai anacronistico, fanno di questo personaggio, avulso dalla realtà, un perfetto protagonista di quella mentalità parnasiana, con la quale i fondatori dell’Accademia canicattinese, elevarono a filosofia il modo di vivere dei loro concittadini, la tendenza all’autoironia, al sorridere della vita quotidiana, anche nei suoi aspetti drammatici e a volte tragici.
Il racconto risulta scorrevole, avvincente e spesso esilarante, soprattutto quando magistralmente,viene sottolineato il ridicolo della realtà quotidiana, quando, come spesso avviene nella terra di Pirandello, di Sciascia, di Camilleri, essa diventa paradosso. Così non possiamo non sorridere davanti alla descrizione di don Paolo Meli il " don Pirrone locale", il parroco, vicino e amico del barone o a quella della sua perpetua Deca la Marina intesa la Simenta: "Era una donna molto alta con la testa asimmetrica rispetto al corpo oblungo. All’interno della bocca faceva la sua figura un solo dente a sua volta asimmetrico rispetto a tutto il resto. Era per tutti la "Simenta" perché il suo viso ricordava un grosso seme per la forma allungata e irregolare e il colorito giallognolo" (p. 21).
Estremamente divertenti risultano le pagine che Augello dedica alle "quotazioni nella borsa dello spirito"; esse concernerebbero il variare dei prezzi relativi all’affitto della sedia, durante la S. Messa, o dei requiem che ogni anno per i morti, il prete recitava, dietro compenso, per i defunti delle famiglie che ne facessero appositamente richiesta. La religiosità popolare, come spesso avviene nel meridione, risulta inficiata da superstizioni e da riti di tipo pagano che tuttavia rasserenano l’animo dei più umili e rendono la vita dei meno sfortunati più sopportabile.
Fra un sorriso e un altro, scaturisce la nostalgia per quella società patriarcale, fatta di piccole cose, ma soprattutto caratterizzata da una vita vissuta in perenne compagnia, che, ahimé si contrappone facilmente alla solitudine attuale che attanaglia ciascuno di noi. I rapporti di buon vicinato, oggi inesistenti, rendevano normale il concetto di famiglia allargata, non soltanto a parenti ed affini, ma anche ad estranei che, per contiguità, diventavano partecipi di gioie e dolori, di abbracci e di scontri, di divertimenti e di lutti, rendendo più divertenti i momenti di letizia e più sopportabili, perché condivisi, i momenti di dolore.
Alla fine del libro, Canicattì continua ad essere protagonista dell’analisi dell’autore, imponendosi ancora attraverso le sue tradizioni culinarie; infatti, l’ultima parte del lavoro di Gaetano Augello, curata dalla figlia Carmen, è costituita da una serie di ricette di cucina, tratte dal ricettario della cognata del barone, pienamente conformi alla tradizione culinaria cittadina.
Gabriella Portalone
Paolo Pastori, Da Atene a Napoli via Marbugo-Treviri. L’itinerario di Antonio Labriola e Georges Sorel verso la rifondazione etica della politica, Trepuzzi (Le), Publigrafic Edizioni, 2002, pp. 172.
Nel panorama della riflessione filosofica occidentale, la figura di Socrate è sempre stata unica e paradossale. Come aveva sottolineato, già nel 1913, H. Maier, "non si può cancellare l’impressione di trovarsi di fronte ad un grandissimo, a uno di coloro che non hanno vissuto solo per la loro età e per il proprio popolo, né soltanto per qualche secolo, ma che conserveranno la loro importanza finché ci saranno gli uomini". L’enfasi non è eccessiva. La rivoluzione socratica è stata clamorosa e duratura. La concezione della filosofia come maieutica, il metodo brachilogico incentrato sull’ironia, cioè sulla dissimulazione della propria ignoranza dinanzi alla pretesa sapienza altrui, la scoperta del concetto, l’idea della virtù come una forma di sapere ricercabile ed insegnabile rendono Socrate uno dei baluardi della cultura filosofica occidentale. Eppure tanta grandezza è persino bizzarra, se si considera che l’autore non ha scritto, anzi c’è chi si è spento, addirittura, a mettere in discussione la sua esistenza. Il fascino di questa figura, tuttavia, rimane intatto, tant’è che per la filosofia di ogni epoca è stato un ineludibile elemento di confronto.
Nell’Ottocento, questo confronto assume particolari venature etico-politiche in autori impegnati a ridefinire concettualmente un mondo che cambia ed intenti a fare della politica uno strumento volto a garantire il progresso ed il benessere delle comunità umane. All’illustrazione della presenza di Socrate di quattro grandi figure (Hegel, Bertrando Spaventa, Labriola, Sorel) della tradizione filosofico-politica otto-novecentesca è dedicato questo prezioso studio di Paolo Pastori. Sottolineando l’importanza del pensiero di Socrate in tal senso, l’autore ne definisce l’opera come un "archetipo", vale a dire come un paradigma valoriale e critico di riferimento, che ripropone ad ogni epoca motivi speculativi decisivi per la costituzione della dignità morale dell’individuo e dell’identità politico-civile delle società umane.
Come sottolinea l’autore, "[…] per un insieme di convergenze politico-ideologiche e storico-filosofiche, la figura di Socrate risulta il fuoco centrale di un’intersezione fra la riscoperta dell’importanza del fattore morale (riflesso ‘volgarizzato’ dell’imperativo categorico di Kant) e la rinnovata consapevolezza della complessità dell’esperienza umana […]" (p. 7). L’"antefatto" di tale vicenda viene rintracciato da Pastori in Hegel, per il quale Socrate riveste un ruolo tutto particolare. Per il filosofo tedesco, Socrate rappresenta l’emblema del confronto tragico tra le leggi della polis ed il principio di libertà su cui si fonda la ricerca filosofica individuale.
Sandro Ciurlia
Zerlmira Marazio, Il mio fascismo storia di una donna, Ed.Melaverde, 2005, pp. 260
È un racconto intenso e sofferto, dove la testimonianza si sovrappone ai ricordi, la memoria diviene diario di uno dei periodi più discussi della nostra storia; qui l’odio e la rabbia si distendono nei gesti quotidiani dello studio, della scrittura, della ricerca di una normalità interrotta soltanto dall’entusiasmo che esplode nelle cerimonie solenni, nel desiderio di "riscattare l’onore dell’Italia", nella volontà di scoprire, al di là della realtà contingente, qualcosa di duraturo, di eterno, di Assoluto.
E questo Assoluto è, dice Mirella, "il fascismo, cioè la Patria per cui era doveroso vivere e, se necessario, morire" (p.100).
C’è rispetto per idealità politiche diverse, ma affiora, talvolta la rabbia per chi ha accolto lo straniero, dimenticando le glorie passate dell’Italia e c’è l’orgoglio di riconoscersi in un governo, moderno, che ha varato, fra le altre, anche la legge sulla socializzazione delle imprese.
"Ora lo ritrovo il Mussolini che conoscevo io! – esclama – Quello che sta col popolo lavoratore, che oggi lo rende partecipe dello sviluppo economico del nostro paese.
Il fascismo ama gli operai e li nobilita, altrochè marxismo! A noi giovani della Repubblica Sociale - continua la scrittrice – quell’ innovazione parve una cosa meravigliosa che avrebbe sanato i dissidi interni e ridato energia alla nazione" (p.111).
A poco a poco, tuttavia, l’entusiasmo, la fiducia, la sicurezza nella vittoria lasciano spazio alla tristezza, allo sconforto, al dolore.
Siamo agli inizi del 1945: anche a Torino si viveva tra bombardamenti, imboscate, agguati e la guerra civile infuriava; spesso, racconta Zelmira Marzio, "da casa littoria partivano camion e auto per andare a compiere azioni di rastrellamento dei ribelli odi recupero dei caduti a sostegno dei presidi minacciati".
Migliaia, riferisce l’autrice, erano i giovani schierati dall’altra parte, "che avevano preferito darsi alla macchia anziché correre a difendere la patria invasa dal nemico. Le violenze che essi compivano ci facevano inorridire", ma l’odio chiamava odio, alla violenza si rispondeva con la violenza, alle fucilazioni seguivano, dall’altra parte, nuove fucilazioni.
"Sapevamo, racconta, che non c’erano più speranze, che tutto stava per finire: non lo volevamo ammettere, ma sentivamo che era così. Si continuava a vivere, a lavorare, a parlare, come se tutto fosse come prima, ma eravamo consapevoli che erano gli ultimi giorni della nostra amata Repubblica. Nel nostro inconscio ci sentivamo come i personaggi dell’Enrico IV pirandelliano: obbligati a recitare un ruolo in cui non credevamo più, in una farsa che si stava mutando in tragedia" (p. 217).
Non era un incubo, ma una realtà terribile!
"Noi – dice – che ci credevamo i depositari della verità, i difensori dell’onore dell’Italiaeravamo, non soltanto i vinti, ma i reietti, i traditori, i fratricidi a cui bisognava dare la caccia".
E insinua il dubbio:
"Perché Dio aveva dato la vittoria agli Alleati e aveva permesso lo sfacelo della nostra Repubblica? Perché aveva abbandonato gli italiani, un popolo povero e laborioso che cercava il suo posto al sole? Perché aveva consentito che la potenza economica, e quindi la forza militare, trionfassero sulla disperata resistenza di chi difendeva l’onore della patria?" (p. 236).
Presto fu necessario pensare a salvarsi, a cercare scampo nella fuga e, dopo aver bruciato tutto quello che poteva collegarla agli avvenimenti trascorsi, Zelmira Schiera trovò rifugio in un convento di suore, poi in un palazzo semidistrutto; quando fu chiaro che questo non bastava, ecco il lungo viaggio fino in Sicilia, alla nuova, ma sempre desiderata professione di insegnante prima, e di direttrice didattica negli anni successivi.
"Nel tracciare questo memoriale – conclude l’autrice - ho voluto tentare di esprimere i sentimenti che mi animavano: ho scritto perciò con la testa di oggi, ma con il cuore di allora".
"Quella di noi fascisti repubblicani sembra una vicenda assurda. Ho indagato a lungo dentro di me alla ricerca di un senso.
Nella vita di ogni essere umano c’è un filo sottile che tiene legati tutti gli eventi e li giustifica. Io l’ho trovato in me e l’ho definito: la ricerca dell’Assoluto. Ne ero e ne sono ancora assetata. Ho creduto per vent’anni che quell’Assoluto fosse la Patria, cioè – come ho già detto – il fascismo.
Sono sempre alla ricerca di una perfezione che non potrò mai raggiungere, se non di là, dove l’Assoluto, il solo vero Assoluto, mi attende.
Per me vivere è sempre servire un ideale" (p. 255).
Fausta Puccio
Sergio Marano, Sinfonia prussiana,Treviso, Santi Quaranta, 2006
"Ma gli animali, pensava, anche i più feroci, vivono in pace tra loro. Perché gli uomini no? Gioiscono anzi del sangue che fanno versare e non se ne vergognano".
È una delle innumerevoli riflessioni sulla guerra che Sergio Marano consegna ai protagonisti del suo recente romanzo: Sinfonia prussiana.
Nato a Mantova nel 1923 da famiglia trapanese, il nostro autore ha trascorso a Trapani gli anni della giovinezza. Dal 1954 vive a Castelfranco Veneto, insegnando discipline letterarie a Treviso. Il suo debutto da scrittore è del 1989, con la raccolta di racconti siciliani Pietrarsa.
Nel 1993 pubblicò Il bosco di Rinaldo, in cui rievocava "una carcerazione sofferta all’Ucciardone di Palermo (1943-1946) per avere partecipato, in modo non violento, a una "cellula d’italianità" contro l’invasione anglo-americana della Sicilia: l’episodio di resistenza accadde, a Trapani, nell’estate del 1943". Tra quei "fedelissimi" fascisti (condannato a dieci anni di reclusione) vi era anche il futuro deputato, saggista e poeta trapanese Dino Grammatico.
Nel 2001, Marano diede alle stampe Le trottole di legno, un volume autobiografico.
Sinfonia prussiana, adesso, avvalora e conferma il percorso di narratore da lui intrapreso. La vicenda di Emil e Anneliese – giovani di umile status, alle prese con la loro accidentale, travagliata e infelice storia d’amore – travolti da una guerra napoleonica in Turingia e Sassonia nel 1806 è molto ben rappresentata. L’autore dimostra notevole destrezza nella definizione degli scenari e dei profili psicologici dei personaggi che li attraversano. Rilevante è anche l’abilità dell’autore nel districarsi tra eventi storici assai complessi e nel dominio del frasario militaresco.
Molte pagine del romanzo scorrono con ammirevole precisione affabulatoria: si intuisce l’efficace labor limae che le ha accompagnate e si avvertono il ricco patrimonio di letture di argomento "marziale" dell’autore (supponiamo da La Certosa di Parma di Stendhal a L’ussaro sul tetto di Jean Giono) e il suo sguardo rivolto alla grande tradizione mitteleuropea. Molti sono anche, nel romanzo, i riferimenti e le allusioni all’auspicio di un’Europa - allora di là da venire - coesa e in pace. Un’ottima prova, insomma, a nostro avviso, per Marano.
Salvatore Mugno
Il "libro", di Salvatore Costanza, Tra Sicilia e Africa. Trapani. Storia di una città mediterranea (Corrao ed. Trapani 2006, pp. 415), non uno studio o un lavoro, ma assolutamente un "libro" - così come lo definisce nella presentazione, il sen. D’Alì – viene accolto dai trapanesi come un monumento alla città atteso da quasi cinquecento anni, tanti quanti sono gli anni ormai trascorsi dalla pubblicazione dell’ultima grande opera storica sulla città, "la più esatta e completa", fonte di tutte le scritture erudite trapanesi. Mi riferisco alla Istoria di Trapani, del 1591, del bresciano capitan d’armi Giovan Francesco Pugnatore, dietro il cui pseudonimo si nasconde l’ingegnere Lazzaro Locadello, di cui lo stesso Costanza vent’anni fa pubblicava l’edizione critica, rivelando il mistero dell’identità dell’autore.
Il motivo per cui a Trapani manchino degli esaustivi studi storici sulla città, se si eccettua l’opera cinquecentesca del Pugnatore, uno straniero, secondo Costanza, non è conseguenza dell’insufficiente livello della cultura locale, ma della assenza della cosiddetta cultura della tradizione. Tale mancanza è essenzialmente dovuta al fatto che il ceto patrizio cittadino, spinto dai frequenti ricambi sociali e dai flussi migratori, non si pose il problema di immortalare il passato delle proprie famiglie che non avevano certo brillato per dedizione alla Civitas. E infatti fu uno straniero, che non aveva glorie familiari da rivendicare, a scrivere, su incarico dei giurati cittadini, l’unica monumentale opera sulla città, degna di citazione e di ricordo, visto che la storia scritta dall’Orlandini nel 1591, Trapani in una breve descittione tratta fuori dal compendio di cinque antiche città di Sicilia, e quella coeva di Vito Sorba, De Rebus Drepanitanis, risultano delle imitazioni succinte dell’opera del Pugnatore. Del resto, Trapani produsse ben poco anche dal punto di vista della poesia e della letteratura in genere. Durante il fervore letterario dovuto all’età umanistica, la città si mostrò alquanto insensibile ai nuovi fermenti artistici vivacissimi a Palermo, Messina e anche in alcuni centri minori del suo stesso entroterra, come Marsala, Mazara e Alcamo. Ciò fu dovuto, non solo agli interessi pragmatici del ceto erudito cittadino, che preferiva dedicarsi agli studi astronomici o nautici, ma anche all’assenza dell’influenza della Chiesa la cui più vicina sede vescovile si trovava a Mazara.
La monumentale opera di Costanza, arricchita da un’iconografia preziosa e abbondante, costituita da stampe antiche, da carte topografiche e geografiche anche risalenti al XVI e al XVII secolo, nonché di fotografie difficoltosamente reperite in archivi privati, riveste una particolare importanza scientifica per la serietà delle ricerche e per l‘originalità dei documenti su cui poggia. L’autore oltre a servirsi dell’Istoria del Pugnatore, attinge a piene mani dalle fonti finanziarie, amministrative e giudiziarie che si trovano nell’Archivio di Stato di Palermo ( Real Cancelleria di Sicilia, Protonotaro del Regno, Tribunale del Real Patrimonio, ecc.), dalle carte del Consejo de Estrado, conservate a Simancas e a Madrid, dai reveli dei beni e delle anime ordinati in Sicilia tra l’inizio del XVI secolo e la fina del XVIII, dai documenti conservati negli archivi di Stato di Genova, Dubrovnik, Tunisi e Venezia, nonché dagli atti notarili dell’Archivio di Stato di Trapani dal XIV secolo in poi. A tutto ciò si aggiungano gli atti della Sacrezia, organo finanziario e giurisdizionale che si occupava di materia fiscale, e i documenti relativi alle Corporazioni Religiose soppresse, dal XV al XIX secolo, con particolare attenzione alla Compagnia di Gesù. Non sono stati trascurati gli atti dell’Archivio del Senato di Trapani conservati nella locale Biblioteca Fardelliana.
Grande attenzione, nel formare l’ordito dell’opera, è stata data agli studi del grande Braudel, concernenti la Sicilia e le civiltà mediterranee, soprattutto in relazione ai collegamenti che lo storico francese, sottolinea con particolare enfasi, tra l’Isola e l’Africa. La vocazione propria della Sicilia di fungere da ponte nel mediterraneo tra l’Europa e l’Africa, tra l’est e l’Ovest, vocazione compresa appieno dai re della dinastia normanna, da Federico II e da Federico III, è stata insufficientemente evidenziata dalla storiografia moderna. La Sicilia tende ad essere vista in funzione del continente europeo, della penisola italiana e soprattutto in subordine a Napoli e quasi mai in rapporto con il Sud, con il continente africano, verso cui la proietta inevitabilmente il suo mare.
La Trapani che scaturisce dall’amoroso, quanto rigoroso studio del Costanza, è una città fatta per il mare, che dal mare trae il suo sostentamento e che nel mare vede il realizzarsi dei suoi sogni di ricchezza e di prosperità. Il mare, per la Trapani, identificata dall’inglese Butler con la città dei Feaci toccata da Ulisse nel suo decennale viaggio, che altro non sarebbe se non il periplo della Sicilia, non costituisce una barriera di isolamento, un marchio indelebile di insularità, bensì uno scrigno di ricchezze che collega la città al mondo, ma soprattutto all’Africa, le cui coste distano dalla città siciliana molto meno delle coste della penisola italiana. Dal mare del resto, giunsero in Sicilia, e in particolare in questa sua propaggine occidentale, gli alfieri della civiltà mediterranea, e del progresso, sotto le insegne dei navigatori fenici, che sulla vetta del monte Erice edificarono il tempio della dea Astarte, dei Greci, dei Cartaginesi, dei Romani, degli Arabi, dei Normanni, degli Spagnoli e degli Inglesi.
L’importanza della città lilibea, soprattutto per la sua posizione strategica sul mare, nell’estrema punta occidentale della Trinacria, cominciò a manifestarsi durante le guerre puniche, di cui molte battaglie furono, appunto, combattute nel tratto di mare compreso tra Drepanum e le Isole Egadi. Quando la Sicilia divenne provincia romana, Drepanum fu compresa fra le città censorie i cui abitanti erano obbligati verso Roma come stipendiarii, dotata di un suo Senato e con dignità sociale di civitas, fornita di notevole quantità di manodopera servile, adibita, prevalentemente ai lavori agricoli. Durante l’impero, così come nel periodo della dominazione dei Vandali e poi sotto il dominio bizantino, Trapani, come gli altri municipi dell’Isola, mantenne la sua autonomia, mentre il suo porto, nella logica dello scontro tra bizantini e barbari, bizantini ed arabi, acquistava un’importanza ogni giorno maggiore.
Sotto i Normanni, Trapani, benché meno importante di Mazara, elevata da Ruggero II a sede di episcopato, fu compresa fra le quaranta città demaniali dell’isola. Grazie alla politica "africana" di Ruggero II e al passaggio di alcune spedizioni crociate, nei due secoli di dominio normanno, il porto di Trapani ebbe un notevole progresso e ad esso furono estesi i privilegi goduti da Messina in relazione alla riduzione o all’esenzione dei dazi di importazione. Ma dal porto di Trapani, che ebbe un ruolo privilegiato per il flusso di uomini e di merci con Tunisi ( era trapanese il console siciliano a Tunisi, Enrico Abbate), partivano navi anche per Genova, Venezia e Pisa. Per i mercanti pisani e genovesi, quel porto costituiva un indispensabile appoggio nei loro traffici con l’Africa, tanto che accarezzarono l’idea di creare nella città siciliana una loro colonia. Dovettero poi accontentarsi di costituire in essa magazzini o logge che resero, man mano, più frequente lo stanziamento in loco di toscani e di liguri, la cui presenza è comprovata dalla facoltà, concessa loro da Federico II, di costruire all’interno della chiesa di San Lorenzo, una cappella intitolata al patrono di Genova, San Giorgio. Il porto di Trapani, divenne così, dopo il porto di Palermo, lo scalo siciliano più importante in relazione al commercio del grano, inoltre la presenza di nuclei sempre più numerosi di commercianti genovesi e pisani, lo sviluppo delle saline e delle tonnare e il decollare del commercio degli schiavi, fecero sì che a partire dalla metà del XIII secolo la città vivesse un periodo di particolare prosperità, anche per la sua posizione marginale rispetto alle zone dell’Isola funestate dalle lotte intestine fra i baroni, o maggiormente coinvolte nelle guerre fra le grandi potenze per la conquista dell’appetibile territorio siciliano; tutto ciò comportò un incremento demografico della popolazione e l’avvento in città di un nucleo numeroso e attivo di commercianti ebrei. Nel XV secolo la comunità ebraica di Trapani, prevalentemente di lingua araba, era stimabile intorno ai tremila individui, circa un quarto della popolazione, aveva una sua sinagoga e si dedicava all’artigianato del corallo, del ferro e dei tessuti, al commercio dei prodotti agricoli e del pesce e all’esercizio della professione medica, nonché allo sfruttamento delle sorgenti termali di monte San Giuliano. La cacciata degli ebrei nel 1492, se fu accolta come una benedizione da parte della popolazione indottrinata dalla propaganda antisemita di cui si fece portavoce la Chiesa locale, fu accompagnata dalle proteste della parte più attiva della popolazione, che vedeva nell’espulsione di quella comunità laboriosa e lautamente fornita di capitale liquido, un vero danno per l’economia cittadina.
I tentativi d’invasione da parte saracena, soprattutto sotto il regno di Carlo V, non potevano non coinvolgere Trapani che, essendo la città portuale più vicina all’Africa, fu necessariamente dotata d’imponenti fortificazioni, divenne, anzi, l’epicentro del sistema fortificatorio che la monarchia spagnola decise di costruire nella costa nord-occidentale siciliana. La costruzione delle opera di difesa fu affidata ad un ingegnere militare originario di Brescia, Vincenzo Locadello, insieme a suo figlio Lazzaro che gli succederà nell’incarico e che sarà poi l’autore di quella famosa Istoria di Trapani, sotto lo pseudonimo di Pugnatore.
Dai reveli della popolazione e dalle relazioni ad limina dei vescovi, la popolazione della città di Trapani, che contava, sia nel XVI che nel XVII secolo, circa sedicimila individui, era prevalentemente dedita alle attività marinare, a differenza di quella della vicina Marsala che trovava il suo principale sfogo nelle attività agricole. Esisteva una notevole parte della popolazione, costituita soprattutto da marrani, ebrei apparentemente convertitisi per evitare l’espulsione, dedita alle attività artigianali, come la lavorazione del corallo e dell’argento. Scarso il numero dei liberi professionisti, notevole, invece, quello dei membri del clero secolare. Alla fine del ’500 si manifestò, fra il patriziato locale, la tendenza ad investire nell’acquisto di terre; il fenomeno era dovuto sia all’aumento del prezzo del grano, sia al rischio che comportavano i commerci marittimi, per le scorrerie dei pirati barbareschi che infestavano il mediterraneo.
Le leve del potere erano nelle mani dell’aristocrazia che deteneva le magistrature civili e militari, ma la presenza in città di una borghesia imprenditoriale che costituiva la spina dorsale dell’economia cittadina, determinò vivaci scontri interni relativamente al controllo politico locale. Malgrado l’estrazione nobiliare, tuttavia, i Giurati cittadini, rivelarono di essere sensibili alle esigenze produttive e commerciali della loro città e di non appartenere a quella nobiltà parassitaria che con il suo immobilismo avrebbe segnato tristemente i destini dell’Isola. Infatti, si operarono attivamente per sconfiggere il problema della sete, atavico per i siciliani, e per arricchire la città di nuove attività produttive, finanziando, per esempio, il trasferimento in loco e l’attività di un maestro tessitore messinese, perché importasse nel centro lilibeo l’arte di tessere la seta, vista la fiorente coltivazione del baco nella vicina Marsala.
In una città ricca e attiva quale era la Trapani cinquecentesca, il pauperismo era visto come un fastidio dalle pubbliche autorità che poco o niente fecero per arginare il problema, affidandone la soluzione alla carità dei singoli. L’istituzione del Monte di Pietà fu voluta dal carmelitano Vincenzo de Leone, non tanto per combattere l’usura, quanto per dispensare l’elemosina, impedire l’accattonaggio, procurare lavoro alle orfane presso le famiglie patrizie e curare l’assistenza medica per i più poveri per i quali venivano approntate anche le spese funerarie.
Nel XIII secolo fu costruito a spese della famiglia Luna l’ospedale S. Antonio, affidato, alla fine del’500, alla compagnia dei Bon Fratelli, cacciati sette anni dopo per "cattivo governo". Tale Ospedale, oltre ad essere centro di cura per gli ammalati, divenne in seguito, centro di ricerca medica e Studium per l’abilitazione all’esercizio della professione medica. In esso insegnarono Erasmo Salato e Pietro Parisi che si distinsero soprattutto per la cura e la profilassi della peste che si manifestò in maniera particolarmente grave a Trapani nel 1575, causando circa cinque mila vittime.
Poche città come Trapani hanno saputo sfruttare così bene e così razionalmente il mare, porta d’ingresso di civiltà, ma anche di guerre, di novità e di progresso; non tutte le popolazioni costiere, infatti, hanno saputo ingegnarsi per fare del mare la loro principale risorsa di vita. Se prendiamo, ad esempio, le popolazioni sarde, ebbero con il mare un rapporto conflittuale che determinò lo svilupparsi di un’economia nettamente agricola e pastorale; probabilmente ciò fu dovuto alla malaria che infestava la maggior parte delle coste sarde o alla paura di razzie e di invasioni; fatto sta che i porti sardi non ebbero alcuna rilevanza né militare, né commerciale all’interno del Mediterraneo e per indicare il rapporto della popolazione con il mare, basta pensare alla tradizione culinaria sarda in cui è assente il pesce, mentre sono assolutamente dominanti la carne e i formaggi. In Sicilia le cose andarono diversamente; il mare, lo abbiamo già detto, fu visto dalle popolazioni non come una barriera d’isolamento, ma come una porta che le metteva in contatto con il resto del mondo, con altre civiltà da cui i siciliani presero elementi positivi e negativi riadattati alle esigenze economiche e sociali del luogo. La nostra stessa cucina è costituita da un insieme di tradizioni diverse importate dai vari popoli le cui navi approdarono nei nostri porti. Questo sincretismo culturale, aspetto peculiare della storia siciliana, favorito soprattutto dalla politica illuminata e pragmatica dei sovrani normanni, si avverte in particolar modo a Trapani e nel suo territorio; se si guarda alla cucina trapanese si coglie subito la predisposizione di quella gente a trarre da ciò che era importato dalla sponda africana il meglio, rielaborandolo e adattandolo agli usi e ai gusti locali. Il pensiero corre chiaramente al cous cous, piatto che Trapani importò dalla Tunisia e che rielaborò sostituendo la carne di montone con il pesce più consono al gusto della sua gente.
Il rapporto con le popolazioni africane della costa opposta è sempre stato vissuto dai trapanesi in maniera particolare; in un contesto caratterizzato dalla totale assenza di razzismo o di fondamentalismo religioso, le popolazioni lilibee miravano a trarre il massimo profitto dalla vicinanza delle coste africane, in termini soprattutto commerciali, ma anche sfruttando quei mari, particolarmente pescosi, per incrementare il loro patrimonio ittico. La tendenza della popolazione ad investire capitali in Africa, costituendo delle vere e proprie colonie di imprenditori e di lavoratori, non si arrestò mai, nemmeno dopo la conquista della Tunisia da parte della Francia nel 1881, quando la popolazione di Tunisi era costituita per il 10% da italiani, di cui i trapanesi rappresentavano la porzione più consistente. La Tunisia era vista dalle popolazioni della costa occidentale siciliana non tanto come terra di emigrazione, ma come parte integrante della nazione italiana. Particolarmente sentite furono, dunque, per i trapanesi, le discriminazioni create dalla Francia dopo la colonizzazione del Paese, nei confronti soprattutto degli italiani, sia perché rappresentavano la più cospicua minoranza straniera, sia per il contenzioso politico e doganale che aveva determinato forti tensioni con lo stato italiano. Fu Nunzio Nasi a preoccuparsi di rendere più distesi i rapporti con la colonia francese, rendendosi conto di quanto importante fosse per la città lilibea mantenere la piena libertà di commercio con la costa africana e la possibilità di continuare ad investire in Tunisia i capitali eccedenti. Peraltro, essendo Trapani la porta dell’Italia dalla parte dell’Africa, la costruzione del fortificatissimo porto militare di Biserta, si presentava particolarmente minaccioso soprattutto nei suoi confronti.
Con il passare degli anni, vista la percentuale della popolazione che si dedicava ad attività connesse allo sfruttamento delle risorse marine, (nel 1881 su una popolazione di 39.240 abitanti, ben dodicimila lavoravano nel settore marittimo come pescatori, salinari, tonnaroti, portuali, naviganti, corallari, impiegati nelle industrie conserviere) il porto di Trapani acquisì gradatamente un ruolo sempre più importante, soprattutto per l’esportazione di sale e di tonno. Il naviglio trapanese, che costituiva la più numerosa flotta della Sicilia (nel 1839 i natanti erano 729 per una stazza di 8865 tonnellate, su un totale di 2371 natanti siciliani), apparteneva in gran parte alla categoria del cabotaggio, confermando che la parte principale del commercio marittimo di quel porto avveniva all’interno del regno italiano, tuttavia, l’enorme quantità di sale esportato, rendeva il porto trapanese fortemente frequentato anche dal naviglio straniero. Nel ventennio precedente l’Unità d’Italia, l’esportazione di sale registrò un incremento del 53,85%, soprattutto per le misure agevolative predisposte dal governo borbonico che culminarono nel 1840 con l’abolizione del dazio sul sale. Tutto ciò portò alcuni tecnici, fra cui l’ing. Paleocapa, tra i progettisti del canale di Suez, a chiedere al governo la costruzione di un bacino di carenaggio nel porto di Trapani che presentava condizioni quanto mai favorevoli per la costruzione all’asciutto di detto bacino, con una spesa relativamente modica. L’opposizione di Palermo e le difficoltà finanziare, oltre allo scarso interesse manifestato dal governo, costrinsero i trapanesi a rinunciare ad un’opera che avrebbe potuto fare del loro porto uno dei più importanti del Mediterraneo.
Il frutto più prezioso che i trapanesi ricavavano dal mare era senz’altro il rosso corallo la cui lavorazione era presente in città fin dalla prima metà del XVI secolo. La lavorazione del corallo era un’attività da sempre praticata da un certo numero di abitanti della città siciliana, anche se ad un livello molto elementare; i corallieri, infatti, per la maggior parte ebrei, si limitarono per molto tempo ad utilizzare il corallo pescato, solo per fabbricare i grani delle coroncine del S. Rosario. Nel cinquecento erano presenti a Trapani ben venticinque botteghe di corallieri, tutte disposte lungo la medesima strada, che davano lavoro ciascuna ad un discreto numero di persone; da queste botteghe non uscivano più solo coroncine per il Rosario, ma manufatti di grande maestria, fra cui si ricorda il collage di 85 figure sacre in corallo, dono del vicerè Avalos de Aquino a Filippo II, regalo che non arrivò mai a destinazione, poiché la nave che lo trasportava fu intercettata dai pirati. Il periodo di maggior splendore di tale attività oltre che economica, soprattutto artistica, è quello relativo ai secoli XVI e XVII, successivamente alla scoperta di un ricchissimo banco corallifero, in prossimità della coste tunisine, nella località chiamata Tabarka.
Le società dei pescatori di corallo venivano costituite tra i proprietari delle barche (ligudelli) e degli attrezzi e i componenti la ciurma, che erano cinque o sei uomini se la pesca avveniva nella lontana località di Tabarka, due o tre per la pesca nei mari più vicini. L’industria del corallo, malgrado una breve stasi alla fine dl secolo XV, in corrispondenza con la cacciata degli ebrei (che tuttavia in gran parte si convertirono per rimanere in Sicilia), si incrementò di anno in anno, producendo manufatti di rara qualità richiesti in Italia e in Europa, dove erano conosciuti, anche perché i maestri corallari trapanesi esponevano i loro prodotti nelle principali fiere italiane. La piccola bottega domestica, quasi sempre di proprietà di ebrei, della Trapani del ‘400, nel XVI e nel XVII secolo si trasforma quasi in una piccola fabbrica, con varie fasi di lavorazione affidate ad un personale che diventa via,via, più numeroso e qualificato e si arricchisce anche della presenza femminile. Nel ‘600 gli addetti alla pesca e alla lavorazione del corallo erano circa 500 e, nel 1785, il viaggiatore straniero Friedrich Munter, contava 3000 addetti a tali attività. I mastri corallari godevano di esclusive protezioni regie volte ad incentivare la produzione dei manufatti in corallo ed erano tenuti a pagare soltanto la gabella della cassa d’estrazione per il corallo esportato. I corallini, ovvero i pescatori di corallo era stati esentati dal Re Alfonso dal pagamento dei tributi doganali sul corallo grezzo pescato e dovevano pagare solo una gabella regia di 10 grani al giorno per ogni barca che armavano con gli arnesi adatti alla bisogna (ingegna), mentre non erano esentati dal dazio sul corallo acquistato in Sardegna, a Napoli o a Messina.
La Corporazione dei corallari si distingueva per la sua turbolenza - furono i protagonisti dell’insurrezione del 1672-73 a carattere antinobiliare - e per la vivacità con cui partecipava alla vita comunitaria, ritenendosi portavoce degli interessi dell’intera Civitas; ciò determinava una progressiva acquisizione di prestigio sociale che li vedeva spesso accanto ai rappresentanti del patriziato cittadino durante la manifestazioni pubbliche. Il ceto dei corallari si presentava come un ceto aperto visto che molti dei rappresentanti delle generazioni successive passarono all’esercizio del commercio o delle professioni libere. Questo abbandono dell’arte paterna, diventato sempre più frequente nel ‘700, oltre all’emigrazione di alcuni maestri corallari in Sardegna o nel napoletano, nonché l’agguerrita concorrenza straniera, comportarono il declino ineluttabile dell’industria corallifera.
Altro tesoro che il mare forniva alla popolazione trapanese era il tonno, detto anche il maiale del mare, poiché, così come avviene per i suini, anche per questo tipo di pesce ogni parte del suo corpo viene utilizzata e commerciata, favorendo così la nascita di attività legate alla sua trasformazione e conservazione. La pesca del tonno, nel trapanese, ha origini molto lontane, visto che dei graffiti trovati in una caverna preistorica dell’isola di Favignana richiamano le sagome dei tonni e visto che lo stesso Plinio parla diffusamente di tale attività. Alla pesca e alla lavorazione del tonno diedero forte impulso gli arabi introducendo metodi di lavorazione e di pesca prima sconosciuti, tanto è vero che molti termini legati a tali attività, hanno origini indiscutibilmente arabe, a cominciare dal titolo con cui viene indicato il capo della ciurma, il rais per arrivar poi ai nomi dei diversi tipi di barche impiegate nella pesca: caicco, filuca, musciara, ecc. Con l’avvento dei normanni, fu necessaria una concessione regia per autorizzare i privati allo sfruttamento delle tonnare già esistenti. Le tonnare, insieme al terreno circostante, venivano date in concessione alla stregua di veri e propri feudi e i concessionari dovevano pagare le decime al vescovo di Mazara in tonni.
Il tonno si vendeva fondamentalmente sotto sale e ciò consentiva sia di esportarlo, sia di sottrarsi alla necessità di vendere il prodotto anche nei momenti in cui i prezzi risultavano particolarmente bassi. Le tonnare, che lavoravano anche al di fuori della stagione della pesca, che andava da aprile a giugno, per la preparazione delle barche, dell’attrezzatura, per la conservazione e la lavorazione del tonno, impiegavano circa 100 persone tra ciurma di mare e ciurma di terra (falegnami, bottai, calafati, ecc.), costituendo, dunque, un’industria importantissima sia per l’ammontare del fatturato che per le numerose persone coinvolte.
Un’altra fonte di ricchezza offerta dal mare, era il sale, raccolto nelle saline costruite sul litorale trapanese fin dall’antichità per le particolari condizioni climatiche e morfologiche dei luoghi (clima asciutto, alte temperature, mancanza di precipitazioni, fondi bassi ed arenosi). Importante era il ruolo esercitato dalle isole Egadi, sulle saline trapanesi, per favorire l’evaporazione del sale dalle vasche; tali isole, infatti, riuscivano a difenderle, a mo’ di barriera, dai venti di scirocco e di maestrale. Per l’esistenza di tutte queste condizioni naturali favorevoli, nell’immaginario popolare, il mestiere del salinaro era considerato particolarmente leggero. Si pensava che poco dovesse faticare per raccogliere la ricchezza che mare, sole e venti gli fornivano gratuitamente; nulla di più sbagliato, visto che la costruzione e la sistemazione delle vasche, in modo da ovviare alle intemperie e alle forze contrarie della natura, abbisognava di notevoli conoscenze tecniche e di duro lavoro. Alla fine del ‘700 fu introdotto nelle saline trapanesi un ingegnoso sistema di macinazione attuato attraverso i mulini a vento che precedentemente venivano usati solo per il sollevamento delle acque.
La gestione delle saline era generalmente di competenza della nobiltà proveniente dai ranghi della burocrazia fiscale o giudiziaria o dalle libere professioni, nobilitata poi dai titoli che accompagnavano la concessione regia delle saline.
L’industria del sale decollò progressivamente soprattutto dopo la perdita da parte dei veneziani dell’isola di Cipro, ricca di saline, che nel 1570, cadde in mano turca.
Il pregio dell’opera sta, non solo nel rigore e nella scientificità delle ricerche, nella ricchezza e bellezza dell’iconografia, nell’abbondanza e originalità dei documenti riportati, ma anche nel messaggio che Salvatore Costanza trasmette attraverso la storia della sua città. È un messaggio che riguarda tutti i siciliani e che ci sprona a cercare nel nostro passato per modellare il nostro presente. La Sicilia è ricca di industrie da sempre presenti nel territorio; sono le industrie relative ai prodotti che il nostro mare ci dà, le industrie relative alle attività, sia commerciali che turistiche, dei nostri porti, le industrie concernenti la trasformazione dei prodotti della nostra terra, l’artigianato, di antichissime tradizioni, ma il cui declino appare oggi inarrestabile.
Ma, soprattutto, questo libro ci invita a dar vita ad un rapporto particolare con la costa africana che ci fronteggia, e a riprendere il ruolo di ponte con il sud del mondo e di principale referente commerciale e culturale del nord-Africa. La Sicilia potrebbe attrezzarsi per accogliere un’immigrazione africana anche culturale, le nostre università potrebbero essere porti d’accoglienza per quelle popolazioni in cerca non soltanto di lavoro, ma anche di moderni apporti scientifici e di tecnologia.
Forse tornando alla politica "africana" che fu propria di grandi sovrani siciliani come Ruggero II, Federico II e Federico III, la Sicilia potrebbe ritrovare la sua vocazione naturale, potrebbe tornare ad occupare, con i suoi porti, un ruolo commerciale strategico nel Mediterraneo, potrebbe ovviare a quelle situazioni di svantaggio e di emarginazione che la costituzione del mercato europeo le ha causato.
Gabriella Portatone
È apparso nel 2003, curato da Stefano Simonetta, medievista che ha tra i suoi autori Marsilio, Wyclif e Occam, ma anche, come si vedrà a proposito del testo che di seguito si discuterà, una particolare familiarità con il periodo tudoriano della storia inglese che conduce alla frattura istituzionale ed intellettuale della rivoluzione repubblicana, un volume collettaneo per i tipi del Mulino, dal titolo Potere sovrano: simboli, limiti, abusi. La nota da me proposta prenderà spunto proprio dalla natura complessiva del progetto di ricerca di Simonetta, e svilupperà criticamente sia il taglio dell’opera che alcuni specifici contributi. Un’occasione per una riflessione sulle tematiche indagate dal testo, un concetto – quello del potere sovrano – straordinariamente primario della tradizione filosofico-politica occidentale.
Come sarà subito visibile, il primo pregio di quest’opera è quello della sua impostazione. Come un ipertesto, i link dei vari contributi si collegano in un itinerario che traccia un viaggio parallelo ad una storia canonica del pensiero politico. La rappresentazione della sovranità in differenti luoghi storici (e, quindi, intellettuali, ideologici, politici) della civiltà occidentale è l’oggetto della ricerca che, proprio per questa strutturazione, procede da un criterio di coralità. Il plurale risulterà armonioso nel metodo di lavoro che offre, e si giustifica per due ragioni, a cominciare da quello evidente del carattere miscellaneo che può riunire così competenze specifiche, voci diverse per un dibattito che focalizza la propria attenzione sul modo con cui via via è stata elaborata una concezione del potere capace di essere condivisa, attraverso una precisa mediazione simbolica, in una determinata comunità. La polifonia (uso il termine del curatore) è oltremodo una ricchezza per la diversa provenienza degli approcci con cui è guardato l’oggetto della ricerca: filosofi politici e del diritto, storici del pensiero politico, storici dell’antichità, medievalisti e contemporaneisti, antropologi, intervengono per raccontare da punti di vista diversi la metafora ‘vincente’ per la proiezione dell’autorità nei processi di dominio nella prima sezione (Simbologie, immagini e metafore del potere sovrano); il sottostante meccanismo istituzionale nel secondo momento dello studio, con particolare riguardo al modello costituzionalista, che in fondo rappresenta la prassi politica più affermata tra le possibili organizzazioni del potere nell’Europa moderna (Anatomie e dissezioni del potere sovrano). La conclusione della tripartizione (Deformazioni e metamorfosi del potere sovrano) riflette sulla distorsione dell’immagine e della realtà del potere, ovvero lo ‘sdrucciolare’ della sovranità in quelle forme perniciose e ree, come diceva l’antico Segretario fiorentino. L’idea suggerita è che la metamorfosi del potere si riveli una deformazione, con precisa galleria di famiglia – l’usurpatore (di Tebe), il principe barbaro (il Serse del Gorgia), il tiranno (municipale) e l’incognita tenuta della sovranità moderna di fronte al futuro – ma si lascia al contempo la sensazione che sia intervenuta nella catalogazione scientifica un’ispirazione latu sensu ideologica. Ma anche quest’ultimo è un dubbio che riesce a problematizzarsi, dato che due saggi per certi versi paralleli, quello sul fascismo, ottima scelta sulla simbologia del potere, e la riflessione su Lorenzo il Magnifico, ulteriore simbolo di sapienza mediatica della trasmissione dell’immagine dell’egemonia, sono posti rispettivamente nella prima e nella seconda sezione, e non nella terza, la cui aderenza sarebbe stata forse più conveniente. Probabilmente una introduzione chiarificatrice sulle ragioni delle collocazioni dei contributi avrebbe dato una chiave di accesso ai quadri tematici, che estendono un arco temporale che affonda un’estremità nella spiegazione mitologica della questione, per arrivare agli orizzonti odierni, l’"età globale", indubbiamente una felice espressione che di per sé spinge nell’archeologia la vecchia polis, il luogo geo-storico di nascita della politica, e impone una riconsiderazione sulla natura e i fini della sovranità nell’universo (post)attuale.
Il progetto, l’esperimento (un’ulteriore, onesta, autodefinizione), forse ha un’inconsapevole struttura, dato che sembra poggiarsi su due assi. Il versante del faticoso percorso del costituzionalismo anglosassone, considerato centrale da una consolidata storiografia (ma qui spostato indietro, nei precorrimenti ed anticipazioni della formulazione della ‘libertà inglese’ tra medioevo e conclusione dell’era tudoriana), come saggio che dialoga con altri testi dell’opera: l’imprescindibile idea di sovranità di Thomas Hobbes, le successive risposte liberali e radicali di Jeremy Bentham e Thomas Paine, vale a dire il momento cruciale della formazione del mondo politico contemporaneo rappresentato dalla lotta della nascente democrazia americana all’impero britannico. Quattro tasselli sui compressivi quattordici che, variamente incardinati nelle tre aree indicate, esplorano la speculazione platonica e quella senechiana, la ricezione aristotelica nel Duecento nell’elaborazione delle cautelae tyrannicae, la riflessione umanistica sulla figura del tiranno personificata in Lorenzo de’ Medici, per arrivare al Novecento proposto con una ‘simbologia’ presa dalla retorica fascista e una ‘dissezione’ studiata dalla microfisica del potere di Foucault.
Per necessità di cose la scelta rimane non esauriente dei contesti storico-linguistici possibili, tendenzialmente inesauribili, ma la selezione è ugualmente significativa, talvolta anche stimolante nell’accostamento, per esempio nell’ultimo ritaglio, della degenerazione dispotica del sovrano, un topos colto nella trattatistica medievale, compreso da uno studio sull’opposizione, primordiale nella nostra civiltà, tra democrazia occidentale (Callicle) e dispotismo persiano (Serse), e una riflessione sulle attuali sfide alla sovranità della globalizzazione.
Ma il volume mostra anche di prediligere ancora più opportunamente, nel secondo fondamento del progetto, una puntualizzazione della radice classica della filosofia politica europea, cosicché diversi saggi (ben 5) insistono sulla originaria riflessione della cultura greca e latina attorno alla simbologia del potere da cui si evince il debito che le successive ‘civiltà’ occidentali hanno contratto con Omero o Seneca.
Simili contenuti che il piano dell’opera offre non coprono però un seme vitale della nostra tradizione, perfino dominante, rappresentato dalla cultura biblica. Non traslare l’esame che è stato condotto su alcuni testi mitologici, letterari e storici del mondo antico a uno spazio confinante e tuttavia decisivo come quello in cui viene concepito il corpus di scritti che proprio l’Europa adotterà come sacri può essere una lacuna importante. A mio modo di vedere manca in tal senso un presupposto ermeneutico considerevole nello studio della civiltà medievale, o in quella puritana inglese del Seicento, solo per accennare a plateali connessioni. Sarebbe stato più agevole per il lettore seguire l’elaborazione concettuale delle dinamiche di dominio durante la scolastica o nel periodo in cui l’esercito dei santi porta sul patibolo Carlo Stuart attraverso un precedente esame su ‘Gerusalemme’, usando le figure della dicotomia di Leo Strauss, per proporre anche la genesi e le genealogie dei riferimenti ideologici ed intellettuali familiari a quelle culture, così come è stato fatto abbondantemente per ‘Atene’. Un esempio quasi obbligatorio è un noto saggio di Michel Walzer, che ha mostrato come il linguaggio biblico fosse il naturale mezzo espressivo per Girolamo Savonarola o Martin Luther King, costituendo un paradigma del processo politico di emancipazione dalla condizione di servitù fortemente condiviso e dunque immediatamente accessibile nei loro rispettivi ambienti, l’umanesimo fiorentino e la lotta afroamericana per i diritti civili negli anni Sessanta.
Qui si potrebbe inserire, in forma di proposta, un duplice lemma che forse avrebbe arricchito la polifonia. Lo studio della simbologia del potere, le varie strategie comunicative a cui è ricorso il detentore dell’autorità per significare il proprio comando, avrebbe potuto includere, anche in un solo, emblematico esempio, un discorso sull’arte in tutte le sue espressioni (pittura, scultura, architettura, letteratura …), che ha avuto un ruolo sicuramente privilegiato nella trasmissione dell’idea, dominante o alternativa, di potere.
Penso intanto ad un primo semplice passo. Sarebbe stato interessante percorrere il genere utopico e fantastico (o toglierne da quello una citazione), che, come il viaggiatore rinascimentale Itlodeo o gli orientali di Montesquieu, ha variamente descritto in termini di rappresentazioni critiche la realtà della ‘nostra’ civiltà politica (che è di volta in volta quella inglese di Enrico VIII o quella francese del Re Sole) da altri punti di vista. La favola delle api o la fattoria degli animali possono dirci, con altre simbologie rispetto alla fraseologia immediatamente politica, la rappresentazione vulgata di un modello ideologico affermato, ovvero la denuncia, da altre angolature del gioco ideologico, di deformazioni, anche latenti e potenziali, della sovranità; o recuperare da questo linguaggio letterario, attraverso le parabole ‘perdenti’ di gruppi concorrenti alle elites predominanti, aspirazioni irrealizzate ma comunque produttive di cultura politica.
Allo stesso modo al taglio dell’opera, così originalmente attenta alla complessità della storia intellettuale, non sarebbe neanche dispiaciuto il contributo dello storico dell’arte, i cui panni indossano di tanto in tanto gli storici politici come Nicolai Rubinstein o Quentin Skinner, ai quali chiedere la decifrazione politica, proprio nel senso indagato in questi saggi, dei contenuti ideologici e dei messaggi imperativi di un affresco (si pensi anche allo studio degli affreschi perduti di Portorno a San Lorenzo studiati da Massimo Firpo), o delle ragioni politiche della committenza di una statua, o ancora degli equivalenti significati del progetto di una chiesa o di un palazzo, dalla sua ubicazione urbanistica alla configurazione architettonica fino alla decorazione artistica.
In sostanza, incrociare per esempio la mitologia greca con la favola letteraria latina (per quanto riguarda altri linguaggi), e proporre un confronto con i testi della tradizione biblica (per ciò che concerne altre culture antiche) può essere un esercizio interessante e proficuo.
Pur avendo trascurato queste ultime opportunità, l’opera propone in ogni caso una molteplicità di spunti che inducono alla riflessione e, se si vuole, alla riscrittura. Sotto questo aspetto, non credo ci possa essere migliore pregio per un’impresa culturale e, nel caso, per un libro. Come le differenti versioni della storia di Abramo raccontate, nelle medesime pagine, da Kierkegaard, o la variante proposta da Andrè Gide alla parabola del figliol prodigo, il lettore reinterpreta le interpretazioni degli autori di questi saggi, offrendo la propria suggestione, come analisi, come contributo, come risposta all’invito che la coralità, che nella scienza non è un cerchio chiuso, quasi per definizione propone. Ho letto così il saggio, brillante, di Marxiano Melotti sullo Scettro di Zeus, senza alcuna presunzione critica, guidato dalle indicazioni che il mito sempre suscita – "i miti sono fatti perché l’immaginazione li animi" – un fiume fecondo che ha ispirato le letture di Camus su Sisifo, o il nuovo Prometeo dello stesso Gide o di un Dürrenmatt. Sono invece tornato alla critica storiografica e filologica, pensando di esercitare una qualche competenza scientifica, per il saggio di Giuseppe Civati su Lorenzo, il tiranno. Il resto è lasciato ad altre letture, ad altri interpreti, a nuove occasioni.
Gli abitanti di Cheronea tra gli dei onorano soprattutto lo scettro che, secondo Omero, Efesto fece per Zeus, Hermes, ricevuto da Zeus, diede a Pelope, Pelope lasciò ad Atreo, Atreo passò a Tieste a da Tieste ebbe Agamennone. Venerano questo scettro, chiamandolo Lancia.
La sua "epifania" tra gli uomini chiarisce appieno la sua natura particolarmente divina. Raccontano infatti che venne scoperto sui loro confini con Panopeo in Focile e che con esso i Focesi scoprirono anche dell’oro, ma preferirono tenere lo scettro invece dell’oro. Io sono invece convinto che questo scettro sia stato portato in Focile da Elettra, figlia di Agamennone.
Per questo scettro non c’è un tempio costruito a spese pubbliche, ma chi officia la funzione sacra tiene lo scettro nella propria casa per un anno e ogni giorno vengono effettuati sacrifici e viene preparata una tavola piena di carni e dolci di ogni tipo.
I Focesi, come racconta Pausania (Guida della Grecia, 9, 40, 11-12), scoprirono ai loro confini uno scettro e dell’oro, e lasciarono l’oro per portare in patria lo scettro. Nella mia opinione, tra le parole-chiave, oltre a quelle evidenti di oro e scettro, c’è anche il confine; e che esse siano tali risulta dal loro reciproco rimando, dal gioco di specchi che produce.
Che Pausania non creda alla versione locale della regalità, che contempla una trasmissione, con vari passaggi, da Zeus ad Agamennone, non sposta di molto l’idea di potere che il racconto consegna, sia perché il suo intervento da commentatore esterno partecipa comunque di un cosmo a cui egli appartiene, sia perché la sua opinione, nel condividere quel cosmo, è in definitiva un’inconsapevole (inevitabilmente inconsapevole) variante della trama mitica. È stata Elettra, figlia di Agamennone, a portare lo scettro a Cheronea. L’origine divina e religiosa del potere è la lezione immediata. Io rimango incuriosito non tanto dalla sfida oro e scettro – che motivo c’è infatti di scegliere tra le due scoperte? non è possibile portare in città entrambi? – che è ovviamente una traduzione dell’opposizione tra economia e politica, ma dal ‘confine’, il luogo del ritrovamento delle risorse, che in definitiva non salta dalla critica ‘illuministica’ di Pausania.
Anche nel secondo caso infatti il potere, il suo simbolo più significativo, lo scettro, viene da fuori, con una trama che ha un’evocazione sovrumana. Questo dettaglio trascende la lettura più ovvia (ma non è una deminutio dell’interpretazione), il valore politico e militare della funzione dello scettro-lancia che delimita la sovranità, segna la riappacificazione dopo la (probabile) conquista. Lo scettro è infatti una metafora gentile, rassicurante nella sua autorevolezza, che cela la prima sembianza senza cui non può esistere, il momento della guerra. Il posto del ritrovamento dell’oggetto, lontano dalla città, parla verosimilmente di una dinamica originaria di scontro cruento rielaborata con il rito dell’apparizione magica dello scettro: il confine segna la costituzione della sovranità, il suo primo atto, l’estensione della sua effettività.
Eppure la strutturazione della vicenda può offrire una lettura sottostante che l’epifania dello scettro inizia, e che la sua inclusione, che avviene secondo la modalità itinerante della turnazione, completa. C’è forse, ai confini storici, laddove, nel mito, si perviene ad una dimensione ancestrale, il magma di una violenza che è stata ‘interna’, ‘civile’, in cui ogni famiglia era (divenuta?) hobbesiana, straniera all’altra. Sembrerebbe il movimento inverso nella degenerazione di Agamennone, identificato allo scettro dal racconto omerico nella funzione simbolica del potere, che da pastore diviene lupo. La degenerazione è appunto una regressione, un’involuzione da un’iniziale normalità. I Focesi invece preferirono all’oro lo scettro perché il metallo prezioso divideva, squartava il tessuto sociale; lo scettro, la politica, riuscì invece a riannodare la lacerazione. La normalità civile è il risultato di un processo faticoso che sconfigge la lotta sublimandola nelle regole del gioco politico. Il rito dello scettro senza re e della sua peregrinazione di casa in casa, come lo descrive Pausania, pongono l’idea che il potere non appartiene a nessuno specificatamente ma a dio, e la politica ha un’origine religiosa, come il mito suggerisce, per ciò che essa svolge: legare la potenziale dissolvenza umana. E ha un’origine divina perché solo un dio può deviare il conflitto naturale attraverso la legge. Il confine allora evoca anche questo, l’alterità della politica rispetto alle possibilità umane per un’impresa titanica. Benché dunque assolutamente umana, come l’autorevolezza di Aristotele sancirà – talmente umana nell’immaginario greco che l’allontanamento dalla polis, per il barbaro come per lo schiavo, è un distacco antropologico – la politica è tuttavia ai ‘limiti’ delle capacità del dio che Prometeo ha plasmato: l’uomo. Sconfiggere la violenza non è facile. Pausania perfino rafforza, con la sua correzione, una simile idea: lo scettro condotto da Elettra è un dono degli dei. Se la politica sostituisce la violenza, se uno scettro riesce ad essere tale, l’uomo si appropria di se stesso, scarta la degradazione belluina ed assume la dignità che la polis gli assegna. C’è un iniziale movimento infatti prima di compiere all’infinito la danza rituale tra le famiglie di Cherorea, che è un simbolo di ouverture ancora più significativo: il viaggio dal confine alla città. Alla fine possiamo esplicitare le due cose con un’anacronistica categoria politica, e avremo nei due passaggi – il primo dall’esterno all’interno della polis, che è un atto iniziale ed unico, e il secondo tra le famiglie, i gruppi che compongono la polis, che è un rituale, un atto destinato a ripetersi nel tempo – la descrizione dei due patti secondo quella linea contrattualistica dal medioevo a Rousseau, vale a dire il duplice momento del patto sociale che fonda la sovranità, quello istituitivo, e il successivo di governo, che la gestisce ed esercita. Sotto questo profilo, a rafforzarmi nell’idea di una metafora fondativa della politica nella scoperta/apparizione dello scettro al di fuori della mura cittadine, è un tratto tipico di una simbologia che dall’antichità, greca latina ed ebraica, arriva fino al rinascimento. Sul Sinai Mosè riceve da Dio le tavole della legge, e Numa, dopo la precaria fondazione di Romolo, ricorre alla ninfa silvestre per accreditarsi come provvidenziale legislatore presso il suo popolo. Sia il monte che la foresta, come il confine della regione della Focide, parlano, esaltando la lontananza dalla ordinarietà civica, dell’origine divina della politica (Dio, la ninfa, gli dei), ma vogliono significare con questo la natura ‘divina’ di quella, più preziosa dell’oro. Etsi Deus non daretur, anche se gli dei non ci fossero, la politica rimarrebbe divina. La conclusione credo sia questa. Ma non definitiva. Due interessanti divagazioni il bastone del comando, divino e regale, può ancora darlo. La trasmissione del potere da Dio a Mosè avviene con una serie di prodigi, a partire dall’epifania del roveto ardente (altra zona di distanza dal quotidiano transito umano, ed esplicitamente sacra), necessari a superare quel comprensibile scetticismo mosaico nell’accettazione della missione divina. Il passaggio centrale della persuasione che il Signore compie su Mosè è compiuto nel bastone, che diviene per intervento miracoloso un serpente, ovvero da pastorale a regale, con significati che si sovrappongono, si arricchiscono. Anche i sacerdoti del faraone dovranno arrendersi al nuovo potere di Mosè significato nel suo bastone straordinario. Ma in ciò è anche racchiuso il senso della possibile degenerazione della politica. Il potere è, può essere, pastorale o demonico (il serpente). Come in Agamennone, o per lo scettro di Zeus, il modello si ripete nelle altre culture antiche che tematizzano la questione della politica. Con la favola di Esopo tramandata da Fedro, chiudiamo la questione con la satira, che ripete esattamente, curiosamente, il modello ebraico: le rane vagabonde (liberis vagantes paludibus) lamentano al Padre degli Dei la mancanza di un sovrano. Zeus rise (!), e getta nello stagno un bastoncino di legno (parvum tigillum), che dapprima atterrì le bestie paurose, ma alla fine il lignum mandato da Zeus non reggerà il peso della turba insolente (turba petulans). Ne chiederanno dunque un altro più capace, e il pietoso dio manderà loro un terrificante hydrum, peraltro dai duri denti, aspero dente, come si compiace di puntualizzare il poeta, per enfatizzare il fatto che prese a divorarle una per una, corripere coepit singulas. Un serpente d’acqua dunque, ricordato anche nell’Eneide, seguendo la mitologia, come mostro infernale. L’apologo è fin troppo chiaro in tutti i suoi passaggi, ma piace rivedervi i simboli del potere fino nella sua mostruosa, infernale degenerazione.
Ma le suggestioni si susseguono nella stratificazione dei significati. Il potere, capace di sdoppiarsi a seconda dei casi, scettro e lancia al contempo, prisma da più volti secondo la necessità, ordina e si fa obbedire. Piantandosi sul suolo delimita un confine o, come benissimo è stato osservato, conficcandosi su una porta ne segna il possesso. Proprio qui è evocato un altro conflitto, notturno e irrisolto. Lo scettro, con un tropo perfetto, indica il genere della potenza, specifica una supremazia: il potere è fallocratico. Del resto Crono, nelle genesi delle storie mitologiche, per spodestare suo padre Urano dal regno dell’universo lo evira, e sarà sconfitto a sua volta, in queste saghe familiari e regali, dal figlio Zeus, secondo uno schema ancor più atroce del delitto di Edipo, sublimato nell’inconsapevolezza del parricida. Ma quest’ultimo mito intreccia in modo ancor più chiaro la polivalenza semiotica dello scettro, dato che la tragedia si consuma nella duplice lotta – maschile – per il potere, che è politico e nuziale, combinando i differenti spazi del possesso. La repubblica ideale depotenzia, con la comunanza delle donne, impulsi nocivi all’ordine civico provenienti dai maschi – i pretendenti naturali, esclusivi al potere. Più prammaticamente di Platone, Aristotele, con un consiglio particolarmente indicato dai suoi commentatori di epoche successive, invita il principe ad astenersi dalla brama maschile verso la donna altrui, cosa del resto evidente ai legislatori antichi di altre culture, a partire da quelli biblici ma anche dagli storici latini, come la vicenda di Lucrezia insegna. Sullo sfondo di questa variegata e comune conoscenza, lo scontro leggendario che è alla base della sapienza arcaica, in cui si assommano tutti questi significati: quello per la conquista della città, Troia, causato, come si ricorderà, dal desiderio principesco (Paride, il figlio di Priamo) per Elena, la più bella delle donne, ma già sposa di un re, Agamennone. La lotta per lo scettro è su due livelli comunicanti, per il dominio della polis e della casa: ciò che è inferiore, la donna e lo schiavo, è il bottino del vincitore. La politica è indubbiamente una questione maschile.
L’aspirazione dei diritti femminili saranno relegati nell’imponderabile, capricciosa, talvolta onnipotente fortuna, che gli umanisti, amorosi eredi di quella cultura, immaginano aiutare gli audaci e i giovani (un evidente sinonimo), ovvero, nella tematizzazione (erotica) machiavelliana, preferire gli impetuosi rispetto al procedere freddo dei tiepidi, raffigurazione (malevola) della saggezza senile. Al di là di questo regno intoccabile se non per arcani favori della dea, il potere argina la donna nei confini del focolare domestico, con le relative, sorvegliate, esaltazioni, che appartengono anche alla tradizione cristiana, laddove il femminile è talmente esaltato fino ad essere depotenziato – sine macula o semper virgo, come i successivi dogmi morbosamente puntualizzeranno – essendo affidato esclusivamente all’angelico volto mariano, un’icona magnificata negli spazi angusti del cenacolo apostolico. O la brucia nelle eresie di ogni civiltà, che ha creato le proprie verità e i suoi necessari, eccitati controllori: figure oracolanti e spettrali, streghe utili per tutte le repressioni. La rivincita di questo cosmo su cui si erge lo scettro maschile del paterfamilias, è fatalmente quel focolare in cui, secondo la sociologia adorniana dei tempi presenti, Bauci ‘finalmente’ domina Filomene.
La sezione sulle Anatomie e dissezioni del potere sovrano è inaugurata da un saggio incentrato sulla figura di Lorenzo de’ Medici, il tiranno, come è definito fin dal titolo, e nella specificazione del sottotitolo – Dalla sovranità della legge al governo di "uno solo" – il canale entro cui l’autore intende svolgere la propria riflessione storiografica. Un percorso e una meta, come dichiarano le preposizioni, da una situazione (il governo della legge) ad un’altra (quello personale del Magnifico).
Questo itinerario si poggia particolarmente, come risulterà con maggiore chiarezza nella conclusione, su due maestri del pensiero politico umanistico e rinascimentale, Hans Baron e Quentin Skinner, ciascuno dei quali incarna, come è noto, una fase precisa della storiografia politica sull’Europa che si affaccia alle soglie della modernità. Potremmo dire due generazioni di studiosi a confronto, come il più recente manuale sull’origine del pensiero politico moderno di Skinner (edizione inglese 1978) esplicitamente si pone: una dichiarata divergenza dalle tesi di Baron sul sorgere della libertà comunale italiana. Questa precisazione, non marginale, è doverosamente offerta al lettore fin da subito, e dato il preciso richiamo, che vuole essere strategico nell’economia del contributo, alle differenti ricostruzioni che i due storici hanno dato dello sviluppo delle idee politiche di quell’epoca, forse una nota per contestualizzare e definire anche i loro studi sarebbe stata utile, nonostante gli stretti margini entro cui l’autore è costretto a muoversi.
Sulla scia di questa storiografia, il discorso su cui si ergerà ad emblema dell’epoca Lorenzo de’ Medici è innanzitutto centrato nell’antitesi storico-politica – repubblica versus (lasciamo l’ottimo simbolo oppositivo di Civati) principato – ed ideologico-ideale (la libertà contro la tirannide) tra Firenze e Milano, su cui Eugenio Garin (richiamato peraltro in testo celebre quale Medioevo e Rinascimento) ha in particolare lasciato pagine, come si suol dire, definitive, con i celebri ritratti dei cancellieri umanisti inquadrati nella cultura filosofica del rinascimento italiano.
Manca, tuttavia, nell’inevitabilmente veloce apparato bibliografico che è possibile lasciare in quegli spazi, un altrettanto inevitabile riferimento, insieme ai debiti rimandi a Kristeller, Rubinstein, a quel ricco – e a mio parere imprescindibile – binomio machiavelliano costituito da Gennaro Sasso e Mario Martelli (sebbene un articolo di quest’ultimo venga richiamato a proposito di Alamanno Rinuccini, irrilevante rispetto alla copiosa interpretazione machiavelliana). Del tutto assente sono poi una bibliografia savonaroliana, a parte un’introduzione di Ciliberto al Trattato sul governo del frate (citato solitamente dall’edizione nazionale), e un’altra guicciardiniana. Ma rimane soprattutto curioso che, se almeno questi ultimi compaiano nel corpo del discorso, Niccolò Machiavelli sia tenuto fuori da un tema così machiavelliano come quello della contrapposizione tra libertà e tirannide focalizzato peraltro ‘in casa sua’ (luogo e data), vale a dire nella Firenze medicea. A meno che non si consideri l’epilogo del saggio rispetto di matrice skinneriana relativa al Segretario fiorentino come un compendio esaustivo della riflessione machiavelliana sulla libertà. Una conclusione che lascia comunque la sensazione di rimanere ‘strozzata’ (forse per esigenze editoriali?) e certamente il dubbio che è proprio lì che la ricerca avrebbe potuto fornire alcune riflessioni salienti sul tema.
Tutto ciò serve per argomentare il mio parere, ritenendo che uno studio che guarda al tiranno rinascimentale attraverso la riflessione che i contemporanei produssero sulla personalità di Lorenzo sia una scelta doppiamente appropriata e significativa, sia per l’individuazione di una figura emblematica come l’erede di Cosimo, il vero fondatore della fortuna e della stirpe ‘principesca’ medicea, sia per l’approccio contestualistico con cui lo storico ha osservato il signore di Firenze. Ma il metodo rischia di dare frutti insufficienti se poggia quasi esclusivamente sul De Libertate di Rinuccini. Una testimonianza indiscutibilmente importante, quella che lo studioso Giustiniani definì "intrinseca" a Lorenzo, e proprio per questo l’apprezzabile recupero e riproposizione in questo saggio è opportuna, pur precisando che l’opposizione di Rinuccini, colta e nobiliare (il suo dialogo è scritto in latino), rivela e anticipa quella che sarà una vera e propria fronda aristocratica alla morte di Lorenzo (indicativo il fatto che Rinuccini ebbe a dedicare una traduzione di Plutarco a Piero de’ Medici, padre del futuro tiranno), quando gli equilibri oligarchici salteranno a causa dell’alterazione degli ordini tenuti dal successore del Magnifico (un caso, non è stato in genere granché notato, discusso nella trattazione dei principati ereditari da Machiavelli). Soprattutto, non si evince dal testo la diffusione della critica di Rinuccini, né è chiarita la circolazione del testo, che comunque avrei portato a corredo delle più robuste percezioni che di quel ‘tiranno’ (un virgolettato comunque sempre opportuno, dato che si tratta, come bene spiega Civati, di una potestà esercitata in maniera del tutto sui generis, rimanendo intatta la superficie delle magistrature repubblicane) ebbero altre personalità decisive di quel contesto quali il priore di San Marco, il vero (ma inizialmente ambiguo, se prestiamo fede più a Weinstein che a Ridolfi) rivale di Lorenzo, il Profeta, la reale alterativa politica a quella costituita dalla strategia istituzionale medicea. Alternativa non illusoria o coltivata nel locus amenus dell’evasione letteraria e affidata ai diari privati e ai ricordi di famiglia, ma pericolosamente manifesta e praticabile, tanto che al frate la città si rivolse e quindi si consegnò nel momento drammatico dell’invasione francese. Un dato, quest’ultimo, enorme, essenziale, di cui bisogna tener conto nella ricostruzione del contesto che vede l’affermazione del tiranno fiorentino con gli immancabili corollari dell’adulazione e reazione.
E a proposito del contesto, con Savonarola, ovviamente l’autore del Principe e quello della Storia d’Italia.
Una triade, come è evidente, d’eccezione, che ci consegna peraltro "in tempo reale" la fabbrica dell’immagine del pater patriae da angolature e sensibilità autonome e simultanee. Il potere di Lorenzo è giudicato dalle stesse relazioni con cui si innerva ogni potere, religioso popolare ed aristocratico, e nell’elaborazione storiografica che quell’ambiente appronta è utile scorgervi, per il nostro discorso storiografico, il motivo ideologico e politico che agisce nei detrattori come nei lodatori. E qui si apre la vera riflessione che una simile ricerca sollecita, sulle ragioni della nascita di quel mito che finisce con il condizionare la nostra stessa percezione di un personaggio come Lorenzo de’ Medici, data la formidabile autorevolezza di quei giudizi coevi. Una ricerca che farei muovere da un dato apparentemente banale, vale a dire come quel titolo con cui si omaggiano i signori della città (lo stesso Principe è indirizzato al "Magnifico Laurentio Medici Iuniori", finisca per qualificare, tra i suoi concittadini e contemporanei, questo tiranno, che diviene appunto il magnifico per antonomasia.
Un’indagine suggestiva, su cui Felix Gilbert ha indagato in testi oramai da letteratura ma specialmente in un saggio del 1958, naturalmente citato da Sasso (sia pure in nota) nel quale fa luce sul ruolo primario che nella formazione del mito laurenziano ebbe Niccolò Valori, il cui elogio del Magnifico è un documento prezioso già per la stessa vicenda editoriale dello scritto, quasi uno specchio di una cronaca municipale che testimonia il correre, il farsi e il disfarsi di alleanze e fazioni, decisive nel sostegno di un regime e dell’affermazione di un altro. Composto infatti all’epoca dell’apogeo di Lorenzo, per celebrarne la scomparsa, viene ripreso e pubblicato in volgare dall’autore, eminente cittadino della stagione repubblicana e quindi inevitabile avversario dei Medici, allorquando questi ultimi riprendono nel 1512 il potere della città. La vita esemplare che Valori racconta e accredita ai suoi lettori (idest i nuovi signori, i discendenti del Magnifico) è tesa ad avvalorare l’idea di una concordia civica e di un rispetto della legge a cui la maggiore casa di Firenze si è tradizionalmente attenuta, specialmente nel binomio aureo di Cosimo e Lorenzo, una rilettura ideologica del governo mediceo quattrocentesco. Gilbert ha potuto facilmente dimostrare che dalla Vita di Lorenzo di Niccolò Valori dipendono, per lo meno per le notizie biografiche, il successivo ritratto delle Istorie fiorentine machiavelliane e quello di Guicciardini. Ma è la nuova collocazione dell’opera che indica la specificità del diverso clima intellettuale. È in questa fase nuova della vita fiorentina, quella della restaurazione che costa la fine del Consiglio Maggiore, del Gonfalonierato perpetuo, e l’esilio di chi al Gonfaloniere era stato vicino (Niccolò Valori appunto) se non addirittura "mannerino" (Niccolò Machiavelli), in una fase cioè in cui inizia il percorso, che condurrà alla formalizzazione del Granducato, di una signoria ispirata dai papi di famiglia, Leone X, figlio di Lorenzo, a cui viene dedicata la Vita laurenziana del Valori, e Clemente VII, nipote carissimo allo stesso Lorenzo (figlio di quel fratello rimasto ucciso nella congiura dei Pazzi), che commissionerà all’ex segretario della cancelleria repubblicana la storia della città, che l’elogio del Magnifico viene tessuto. Così come, talvolta dissimulata tra le medesime pagine, talvolta nell’irriducibilità repubblicana o piagnona, viene adombrata o esaltata la sua condanna.
Se mai esiste, nella storia politica ed intellettuale, un esempio della metafora del potere, della sua capacità di proporsi attraverso i canali ideologici della propria cultura per la trasmissione del comando ovvero per la sua legittimazione e accettabilità, e nella resistenza che per ciò stesso suscita in quelle zone che per varie ragioni sono indisponibili all’adesione della vulgata dominante, e se ne discostano come possono, dalla dissimulazione alla contestazione, se non aperta almeno traslata su campi collaterali alla politica (religione, letteratura, arte…) – un ulteriore tema che approfondisce lo studio della creazione o percezione del tiranno – la vicenda di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico è indubbiamente tra le più espressive e, almeno per chi scrive, tra le più affascinanti.
Giorgio E.M. Scichilone
V. L’attività politica
Un uomo così sensibile ai problemi sociali ed animato da un forte senso umanitario come era Piraino, non poteva rimanere estraneo alle vicende politiche del suo tempo, segnato dall’epopea risorgimentale, portatrice di nuovi ideali, di cui egli stesso si fece portavoce fino alla morte. L’attività politica del barone va inquadrata considerando la sua missione filantropica, a completamento di un percorso che aveva come scopo la promozione dell’individuo sotto il profilo sociale, culturale, umano. Sarebbe, pertanto, un grave errore ritenere questo aspetto del Nostro una semplice cornice alla sua poliedricità, caratterizzata dai più disparati interessi; numerosi episodi confermano lo scetticismo ed il distacco con cui affrontò situazioni a lui poco congeniali, preferendo alle attività pubbliche lo studio o la ricerca.
Le stesse dimissioni dalla carica di Deputato al primo Parlamento italiano sorpresero i suoi familiari, increduli nel vederlo ritornare a Lipari, tra le rocce con cui trascorse la sua vita. Ma l’incapacità di contrastare coloro che volevano soffocare le speranze ed i principi nati con l’unità d’Italia, lo demoralizzarono a tal punto da sottrarlo ai grandi palcoscenici della politica per ricondurlo tra gli umili pescatori, considerati la sua gente. Il religioso senso del dovere, caratterizzante la sua personalità, sposato alla causa liberal-moderata gli produsse fin da giovanissimo, un forte desiderio di rivalsa e nei confronti di un governo dispotico ed oppressore come quello Borbone e nei riguardi di una classe politica locale, avversa ad ogni apertura che potesse favorire il riscatto sociale dei cittadini.
Pertanto l’azione politica intrapresa dal Mandralisca va studiata su due piani diversi e paralleli: una tendente ad un raggio d’azione più ampio, che lo vede protagonista nella lotta allo straniero e alla costituzione di uno stato italiano, attraverso le cariche prima di Deputato al General Parlamento di Ruggero Settimo e poi al primo Parlamento italiano, l’altra confinata ad un ambito più circonciso, ricoprendo cariche pubbliche comunali e provinciali, in favore dei diritti civili e delle opere di pubblica utilità.
La preparazione storico-politica del Mandralisca fu formata non solo attraverso uno studio attento di manuali e codici presenti nella biblioteca di famiglia, ma anche grazie allo scambio ed all’acquisto di testi con illustri politici e letterati. Egli, pur essendo essenzialmente uno scienziato, visse sempre nella convinzione che la conoscenza del solo diritto non fosse sufficiente per comprendere i problemi di un popolo, ma occorresse anche una preparazione sugli usi e costumi, sulle vicende storiche del passato e sulle relazioni con gli altri stati. A conferma di ciò, tra gli scaffali della sua libreria, si trovano dei volumi che evidenziano questa concezione come: Usi e costumi di tutti i popoli del mondo(45), Storia della decadenza e rovina dell’impero romano(46), Della democrazia di Francia(47), Storia d’Inghilterra(48), Storia della guerra d’indipendenza degli Stati Uniti d’America(49), Storia del reame di Napoli(50), Storia cronologica dei Viceré luogotenenti e presidenti del Regno di Napoli(51), Delle rivoluzioni d’Italia(52), Gli ultimi rivolgimenti italiani(53), Storia d’Italia(54).
Il grandissimo prestigio di cui godeva il barone Mandralisca presso la comunità locale già agli inizi degli anni quaranta, permise allo scienziato cefaludese di ricoprire il suo primo incarico politico nel 1844, in qualità di Consigliere Provinciale di Palermo. Una circolare del 12 aprile firmata dall’ Intendente invitava Piraino a partecipare all’apertura del Consiglio in data 1° maggio.(55) In seno a questa carica egli si adoperò affinché venissero aboliti i privilegi della Curia, scrivendo tra l’altro il libretto: Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù. Dimostrò così grandi capacità nell’affrontare i problemi di natura amministrativa, che neanche tre anni dopo il 3 aprile del 1847, con regio decreto di Ferdinando II del 22 marzo si ritrovò ad accettare la carica di Presidente del Consiglio Distrettuale.(56) Ma l’anno successivo, grazie allo scoppio del moto insurrezionale potè finalmente manifestare la sua avversità nei confronti del Borbone, dapprima come Presidente del Comitato di Cefalù(57), poi il 15 marzo 1848 come Deputato al Parlamento siciliano di Ruggero Settimo, nel quale votò la decadenza del governo napoletano.
In assenza, nell’isola, di un ceto medio-borghese che potesse fare da collante con le classi più disagiate dei contadini, braccianti ed operai, la guida rivoluzionaria fu assunta dagli intellettuali nelle figure di Emerico Amari, D’Ondes Reggio, Francesco Ferrara, Gabriele e Francesco Perez.(58) Tra questi possiamo sicuramente includere anche Mandralisca, nonostante Marino ci riferisca della carenza di elementi che possano qualificare la sua partecipazione in seno al moto(59) e la Liberto sottolinei come, negli atti autentitici del Parlamento Generale di Sicilia, il nome di Piraino non risuoni sovente.(60) Considerando che nella sua breve esistenza lo stesso Parlamento decise di esaminare come tema prioritario la precarietà del settore scolastico nell’ isola, credo ritenere, visto quanto stava a cuore questo argomento al Nostro, che il barone abbia impiegato tutte le sue energie per dar forza ad un progetto, per cui si prodigò tutta una vita.(61)
Oltretutto ricoprendo questa carica diede un’ulteriore prova del suo senso di umanità e giustizia, indirizzando al Presidente e ai Deputati della Camera dei Comuni, una lettera, nella quale citava un grave errore giudiziario di cui era stato vittima un certo Calogero Giardina, costretto a pagare ingiustamente una somma di cento onze all’usciere di S. Agata di Militello Ant. Mancuso.(62) Dopo la breve parentesi rivoluzionaria, conclusasi con il ripristino della sovranità di Federico II, e con il ritorno delle truppe di Carlo Filangeri Principe di Satriano a Palermo il 15 maggio 1849, il barone ritornò ai suoi studi prediletti, abbandonando la scena politica, convinto che solo la cultura potesse far germogliare in un popolo il seme del riscatto sociale. Trascorsi sei anni - nei quali si dedicò completamente alla realizzazione di opere di pubblica utilità come l’istituzione di una botte di ancoraggio e di un faro nell’isola di Lipari e l’ampliamento dell’ospedale civico di Cefalù - ritornò a sedere nuovamente nel Consiglio dell’Intendenza della Provincia di Palermo in data 17 marzo 1855, pur cominciando ad accusare un serio peggioramento dell’asma che lo affligeva. La consapevolezza del suo precario stato di salute lo indusse a redigere le volontà testamentarie alla giovane età di 44 anni. Il 1856 è l’anno in cui la cospirazione antiborbonica prende nuovamente linfa e si sviluppa tramite l’azione di alcuni patrioti molto determinati. Purtroppo non esistono documenti o notizie organiche relative a questo lasso di tempo, che ci possano consentire la ricostruzione dei singoli episodi, di cui fu protagonista lo stesso Mandralisca, con l’arresto avvenuto a Napoli. In primavera il Congresso di Parigi aveva fomentato il desiderio di rivolta, tra coloro che speravano in un intervento degli inglesi e francesi, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche di questi con la capitale partenopea. Il trentenne Barone Francesco Bentivegna di Corleone, non nuovo all’attività sovversiva, dal momento che già nel 1853 era stato catturato dalla polizia borbonica, processato e prosciolto dalla corte criminale napoletana, decise di farsi promotore di una repentina azione che avrebbe dovuto coinvolgere diversi comuni tra cui Lercara, Prizzi, Marineo e Corleone.(63) Dopo aver liberato alcuni carcerati a Mezzojuso, riuscì a far insorgere Villafrati, muovendo su Palermo, dove il Comitato della città si era mosso con lentezza, inviando tardivamente gli emissari a Cefalù ed a Mezzojuso. Al repubblicano mazziniano Cesare Civello fu dato l’incarico di sollevare la banda armata cefalutana, composta da Salvatore Guarneri, Andrea Maggio, i fratelli Nicola e Carlo botta. Il solo esito positivo fu la scarcerazione di Salvatore Spinuzza, un giovane medio borghese, che nonostante fosse stato da sempre nel mirino delle guardie borboniche, non tardò a porsi alla direzione della sommossa, facilmente dispersa dall’intervento della polizia per l’assenza di un valido coordinamento tra i vari comitati insurrezionali. La vicenda si concluse con il tragico epilogo della fucilazione di Francesco Bentivegna il 25 dicembre 1856 e di Salvatore Spinuzza il 14 marzo 1857. Singolare è il confronto tra il barone corleonese ed Enrico Piraino: entrambi in qualità di Deputati in seno al Parlamento di Ruggero Settimo nel 1848 avevano sottoscritto l’atto di decadenza del Re Borbone, entrambi furono arrestati a Napoli. Ma se per il primo abbiamo delle notizie certe sulla sua attività cospirativa, per il secondo possiamo avvalerci soltanto di ipotesi, le quali ci portano a credere che una personalità amante della libertà come era quella del Mandralisca, dovesse necessariamente scontrarsi ideologicamente con un governo dispotico ed oppressore qual era quello di Ferdinando II.
Dopo i tristi episodi del 1856, gli avvenimenti internazionali sembravano prospettare nuove possibili alternative. In una lettera del 10 dicembre 1859 il barone Nicolò Turrisi descriveva a Piraino, nei dettagli, la situazione politica del tempo(64): "…Che dire del gran mondo. Poco ne sappiamo di più di quanto leggasi sul giornale officiale […] Garibaldi si ritirava per consiglio del Re Galantuomo non potendo più stare col Generale Fanti comandante superiore della lega militare dell’Italia centrale (Regno di Etruria). Il Consiglio finalmente per cosa certa va ad unirsi a Parigi nel prossimo Gennaro, ma di questo Areopago Europeo si voglion dire tali e tante cose da farci impazzire […] Voi comprendete bene che in questo modo la questione d’Italia Centrale trovasi in un bel terreno, e si può con ragione sperare che un nuovo Stato […] col titolo di Regno d’Etruria sarà formato della Toscana e del Modenese, mentre Parma e Piacenza saranno aggregate al Piemonte. Nessun parla delle legazioni ma le nordiche potenze insistono a chieder che si facessero governare dal re d’Etruria, pagando un tributo al decaduto monarca […] Il Principe di Carignano già reggente sarà allora Re. A questo mira l’opinione pubblica d’Europa e se il Consiglio deve qualche tributo a questa grande potenza che l’attuale incivilimento umano ha creato, non può fare a meno che sanzionare questa sentenza già professata con le più calde simpatie dell’Europa intera. L’Inghilterra che vuole andare sempre avanti, spinge per mezzo dei giornali l’opinione pubblica inglese a desiderare che l’Europa riunita imponga all’Austria l’abbandono dell’Italia e la cessione della Venezia al Gran Duca di Toscana: questa preposizione mi pare troppo spinta, anzi credo che un tal fatto potrebbe essere effetto d’una o due battaglie più crudeli di quelle di Magenta e Solferino…".
Dopo lo sbarco a Marsala di Garibaldi e dei Mille, avvenuto l’11 maggio del 1860, la Sicilia è tutto un pullulare di comitati. Alla presidenza del comitato di Cefalù viene nominato Piraino, il quale riuscirà con destrezza a coordinare le attività dei comuni del circondario, in attesa che Palermo venga conquistata dalle camicie rosse il 27 maggio. A testimonianza di questo impegno politico del Mandralisca vi sono, nella sua biblioteca, diversi documenti riguardanti i rapporti che legavano i Comitati distrettuali provvisori di Collesano(65), Gangi(66), Petralia Soprana(67), a quello di Cefalù, unitamente ad un proclama in copia conforme a favore di Garibaldi emesso dallo stesso Piraino.(68) Dopo la liberazione del capoluogo siciliano, la situazione appare nettamente sotto controllo, poiché i funzionari borbonici hanno progressivamente abbandonato il loro posto, facilitando così i trasporti e le comunicazioni.
Il 2 giugno 1860 il mecenate cefaludese veniva nominato Presidente del Consiglio Civico. Volendo rifiutare, fu convinto dal Governatore G. Scelsi, che in una lettera del 10 giugno lo invitava ad accettare.(69) Piraino si occupò del vettovagliamento di Cefalù e dei comuni limitrofi, facilitando l’arrivo delle provviste anche nei luoghi meno accessibili. Sempre il 2 giugno è da ricordare per via di un documento del Comitato distrettuale cefaludese che porge il benvenuto a Garibaldi celebrandone le gesta eroiche.(70) In questo contesto sembra paradossale la posizione assunta dal Capo dello Stato Maggiore Salvo di Pietraganzili, il quale accusava la guardia cittadina di Cefalù di aver accolto freddamente il corteo dei rivoluzionari, soprattutto se si considera che prese di mira proprio Piraino accusandolo di non adoperarsi sufficientemente all’interno del Comitato.
Gli argomenti politici assumevano in quei mesi una importanza tale da catturare l’attenzione anche di coloro che erano estranei alla politica come l’archeologo Giulio Minervini, il quale, dall’Accademia Pontaniana di Napoli, in data 28 novembre 1860, scriveva all’amico Mandralisca quanto segue:(71) "La sua carissima lettera del 15 di questo mese, che ho ricevuto con grandissimo ritardo, mi è riuscita oltremodo piacevole. Io non avevo mancato di prender notizie di lei e poco tempo fa mi […] di averne bene della sua salute. Ora la sua lettera viene ad accettarmelo, e nel tempo stesso mi fa conoscere di un grave malore, che fortunatamente fu da lei superato. I suoi sentimenti che ora mi manifesta sui grandi avvenimenti politici ch’ebbero luogo in Italia trovano un’eco nel mio cuore. E io rammento che né nostri antichi discorsi Ella già si dichiarava nemico del gretto municipalismo che ha sempre fuorviato le menti in tutti i movimenti italiani, che ricordi la storia. Spero che il progresso della nostra rivoluzione non sia turbato da partiti estranei e dalla intemperanza. Questa volta ho fede che l’Italia si farà. Come in lei così pure in me le emozioni e le impressioni mi tennero tanto divagato e distratto che da più mesi lasciai quasi l’archeologia, avendo quasi necessità di trovarmi in convegni politici, di seguir l’andamento di fatti politici leggendo avidamente i giornali nostri o quelli di fuori. La mente non si preparava allo studio ed alle ricerche. Questo motivo mi fece procedere assai lento nel pubblicare l’anno ottavo del mio bollettino…".
Nel frattempo i meriti scientifici e culturali del mecenate cefaludese venivano premiati durante la Prodittatura con la nomina a Consigliere di Luogotenenza per il Dicastero della Pubblica Istruzione sotto il marchese Massimo Cordero di Montezemolo, ma non appena questi fu sostituito con Alessandro della Rovere preferì dimettersi. Durante gli ultimi mesi del 1860 le sofferenze dovute all’aggravarsi della sua malattia polmonare sembravano non dargli più tregua, malgrado ciò l’elezione a Deputato del primo Parlamento Nazionale il 27 Gennaio 1861(72) gli diede nuova linfa, permettendogli di intraprendere una lunga serie di viaggi nel nord Italia che caratterizzarono un periodo parecchio intenso. L’illusione durò poco, infatti, non appena si accorse dell’ottusaggine con cui i membri della camera affrontavano problemi vitali per il neonato stato italiano, preferì dimettersi, molto probabilmente perché si rese conto di non essere mai stato un politico nel senso stretto del termine, capace di far buon viso a cattivo gioco, ma solo un uomo che aveva usufruito delle cariche istituzionali per venire incontro alle esigenze dei più deboli, in nome della giustizia e della parità dei diritti.
Ciononostante, nel corso della sua breve esperienza parlamentare, Piraino si fece sostenitore di diverse leggi che avrebbero potuto fare il bene della Sicilia, come quella sulle strade ferrate. Abbiamo sentore del suo stato d’animo leggendo qualche riga di una lettera scritta all’amico letterato e direttore della biblioteca comunale di Palermo Agostino Gallo in data 22 luglio 1861:(73) "…Io appartenendo alla debole minoranza, non già allo esagerato partito d’opposizione, mi son rimasto nel mio cantuccio, contando unicamente da aver contribuito al bene della Sicilia colla legge sulle strade ferrate le quali faranno sviluppare nell’isola nostra tutti gli interessi materiali e morali che verranno ad aumentare le naturali sue ricchezze…".
Da Cefalù, intanto, il sindaco Salvatore Misuraca ringraziava l’illustre concittadino per aver sovvenzionato a proprie spese la progettazione del porto alla calura e si impegnava affinché gli ingegneri potessero avvalersi di tutti i mezzi necessari ed indispensabili per rilevare le condizioni topografiche, economiche e commerciali.(74) In quel tempo il nome e la statura del Mandralisca riecheggiavano non solo negli ambienti politici ma anche in quelli culturali e scientifici, lo dimostra una epistola scritta dal prof. Gaetano Cacciatore, direttore del Real Osservatorio di Palermo, il 25 giugno 1861, il quale lo esortava ad usare la sua influenza presso il Governo, affinché si procedesse al recupero dello stabilimento del capoluogo siciliano:(75) "Alla direzione di uno illustre scientifico istituto ho adempiuto al mio debito esponendo al governo la sua attuale deplorabile condizione e i mezzi necessari a farlo risorgere a vita novella. In tre distinti rapporti ho manifestato le mie idee per una nuova ristrutturazione dello stabilimento, che riguardano il suo piano organico, gli stipendi, il collocamento di nuove macchine, la ristrutturazione dell’edificio. La celebrità del di lei nome mi anima a volgere direttamente alla S.V i miei reclami, che spero accoglierà di buon grado, reputando […] mio essenziale obbligo ricorrere ad ogni mezzo valevole che possa influire ad una soluzione che quanto più sarà pronta tanto maggiore decoro e lustro ne acquisterà la scienza in Italia. Il Reale Osservatorio Astronomico di Palermo, uno dei più interessanti stabilimenti d’Europa, che alta fama levò sempre di sé e per egregie opere e per la valenza degli astronomi, oggi presentasi in tale stato di decadenza da ridursi di peso allo Stato e di nessuno utile alla scienza".
La prematura morte del barone, avvenuta alla giovane età di 54 anni, sottrasse alle scienze ed alla cultura un uomo che aveva dedicato interamente la sua esistenza al progresso, sposando la causa della crescita morale e civile dell’individuo. Ma se l’opera di mecenate della cultura trovava un validissimo erede nel liceo da lui voluto, l’impegno politico sembrava disperdersi nel nulla. Di ciò non poteva non rendersene conto la municipalità cefaludese, tanto che subito dopo la sua scomparsa nel 1864 il collegio della città eleggeva Nicola botta al Parlamento Nazionale, dimostrando di voler proseguire l’azione del Piraino.(76) Distintosi a solo 22 anni durante la sommossa del 1856, insieme al fratello Carlo, Andrea Maggio, Cesare Civello, Salvatore Spinuzza ed Alessandro Guarneri, fu imprigionato per diversi anni, durante i quali alimentò gli ideali di libertà e patriottismo. Dopo la sua liberazione partecipò alla rivoluzione delle camicie rosse del 1860, ospitando in luglio Garibaldi, quando questi entrò a Cefalù; ed in seguito alla notevole prova di coraggio nel 1866 sui campi di battaglia della Terza Guerra d’Indipendenza fu insignito del grado di Maggiore.
I progetti politici avviati dal Mandralisca in ambito locale trovavano pertanto nel Botta un valido continuatore, almeno per quanto riguardava la realizzazione del porto e delle linee ferroviarie, che furono sempre posti come obiettivi principali durante i 22 anni in cui ricoprì la carica di Deputato alla Commissione Bilancio.
VI. Enrico Piraino: uomo di cultura
"…Noi poveri provinciali privi di tutti i mezzi, che ad ogni passo dobbiamo arrestarci, senza aiuto di librerie pubbliche dobbiamo comprare tutti i libri che bisognano [...] So che lo scrivermi spesso mentre a me farebbe un gran bene, lo toglierebbe alla Repubblica Letteraria ma potendolo fare senza molto detrimento la prego scrivermi quanto più spesso e lungamente rammentandole che vivendo o piuttosto vegetando in provincia, senza le lettere di care persone non si potrebbe sopportare l’infelice dimora".(77) In queste frasi, scritte da Piraino all’amico Agostino Gallo è possibile cogliere nel significato più profondo lo spirito di grande mecenate della cultura del barone, il quale lottò tutta la vita per sradicare ogni parvenza di provincialismo, grazie ad una visione filosofica e cosmopolita del mondo, impregnata di pragmatismo illuministico. La necessità di un riscatto sociale, diveniva in tal guisa imprescindibile dalla crescita culturale, unica arma per sottrarre dalla palude dell’ignoranza le menti degli uomini, confinate in uno stato di passività e sottomissione. All’amico letterato, il barone confidava quanto il torpore delle monotone giornate cefalutane rattristasse il suo cuore, e quanto importanza avessero quelle lettere che gli ritempravano lo spirito. Cefalù, nonostante in passato fosse stato un importante polo attrattivo di culture ed etnie diverse, adesso si trovava lontana dalla scena politica ed intellettuale. Piraino fin da giovane, sentendosi figlio del mondo, decise di evadere dal luogo natio, intraprendendo continui viaggi che gli diedero la possibilità di ampliare le sue conoscenze letterarie e scientifiche, proiettandolo in una dimensione internazionale. Non a caso divenne socio dell’Accademia di Scienze Naturali di Hildesheim di Hannover ed intrattenne un’importante relazione scientifica con Charles Th. Gaudin, scienziato ginevrino della Società Elvetica di Scienze Naturali, non trascurando però i rapporti con le altre accademie italiane alle quali era iscritto: l’Accademia di Agricoltura, commercio ed arti di Verona; l’Istituto Archeologico di Roma; l’Accademia di scienze e Lettere di Palermo; quelle di Lettere ed Arti di Acireale; l’Accademia di Scienze Naturali di Catania; il Gabinetto Letterario e di Storia Naturale di Siracusa; l’Accademia di Castroreale; il Reale Istituto d’Incoraggiamento di ogni Natura, Arti e Mestieri per la Sicilia; la Società Economica della provincia di Girgenti; la Commissione di Agricoltura e Pastorizia per la Sicilia.(78) Durante i soggiorni nelle varie regioni italiane, Enrico ebbe modo di venire a contatto con alcune esperienze pedagogiche che avevano assimilato il sistema scolastico lancasteriano, elaborato oltre manica da Joseph Lancaster e Andrews Bell, concepito secondo il metodo del mutuo insegnamento. Questa formula che trovò la sua massima applicazione in Toscana, attraverso l’azione del marchese Cosimo Ridolfi, fu percepita dal Piraino come una valida soluzione al problema dell’ istruzione in Sicilia, ove mancava una struttura statale burocratizzata, capace di venir in aiuto alle sporadiche iniziative private di pochi uomini facoltosi. Decise pertanto di traslare tutti i suoi convincimenti nel testamento, considerato più che un veicolo di memorie da tramandare, un vero progetto di natura didattico-pedagogica, dove la sua opera sarebbe stata concretizzata nella realizzazione di un liceo, unico erede universale. Il concetto di sapere inteso nel suo aspetto dinamico, come elemento plasmante le coscienze, era scaturito dall’illuminismo, una corrente che il Piraino assimilò unitamente a quella positivistica, credendo fermamente nella scienza e nella ragione. Sotto questo profilo l’impegno del barone cefaludese può essere affiancato a quello di un altro pensatore di rilievo nel risorgimento, il milanese Carlo Cattaneo. Quest’ ultimo, infatti, pur lontano ideologicamente dall’ambiente del Piraino, aveva intrapreso lo stesso impegno etico e sociale basato sull’educazione morale e civile dell’uomo. Per entrambi la scuola costituiva la via maestra, attraverso la quale sarebbe stato possibile formare le nuove generazioni, consapevoli di una propria identità e capaci di combattere il sopruso e la sottomissione. Enrico, oltre al liceo, prevedeva un’alfabetizzazione di base, con il metodo lancasteriano, un tirocinio professionale per i pescatori e contadini, attraverso dei corsi di base, e delle lezioni di igiene affiancate ad esercitazioni per le ostetriche. In una prospettica più ampia, possiamo affermare che avendo scritto il testamento nel 1853, egli prevedeva e reputava fondamentale per la realizzazione della tanta auspicata unità italiana, una riforma scolastica che permettesse ai cittadini del nuovo stato di apportare il loro contributo professionale ed intellettuale alla cosa pubblica. Prima di ripercorrere le vicende del liceo e della sua realizzazione sarebbe opportuno prendere visione della volontà testamentaria del Mandralisca, attraverso la quale è possibile innanzitutto cogliere la sua personalità e secondariamente apprezzarne la perspicacia delle disposizioni.(79)
VI.a Il Liceo
Il punto centrale del testamento, su cui è opportuno focalizzare la nostra attenzione, è costituito dalla seguente disposizione: "Voglio che dell’annua rendita di tutti i miei beni eccetto i legati di che disporrò appresso, si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un liceo, con le norme che qui appresso detterò. Detto corpo morale voglio che fosse il mio erede universale". Nella volontà del barone c’era il desiderio che si istituisse non una fondazione culturale, nell’accezione che ha oggi un tale istituto giuridico, ma un liceo.(80) All’epoca in cui visse Piraino, la popolazione di Cefalù era per quattro quinti analfabeta e l’unico istituto di istruzione era rappresentato dal seminario vescovile; in una situazione simile, sarebbe stato poco utile fondare una biblioteca pubblica o un’ istituzione culturale a vantaggio di una comunità che non avrebbe avuto modo di servirsene. Pertanto un ente scolastico sembrava meglio rispondere al bisogno impellente di cultura. Ma la piemontizzazione del nuovo stato unitario rese difficile l’attuazione del liceo concepito dal Mandralisca, dal momento che la legge Casati del 1859 prevedeva il collegamento tra il ginnasio ed il liceo. Quindi, lo stesso barone, negli ultimi anni di vita si adoperò affinchè si iniziassero presso il comune le pratiche per l’apertura di un ginnasio, che grazie all’intervento del professore Giovanni Conforti venne istituito con decreto del 16 maggio 1863. Dopo la morte, i suoi parenti Cipolla impugnarono il testamento, appellandosi all’articolo 646 del codice civile del Regno delle due Sicilie, che disponeva che la creazione di un ente morale fosse riservata esclusivamente al potere sovrano e non ai privati, identificati nella fattispecie nelle persone di Don Antonino Agnello, del barone Carlo Ortolano e del dottor Vincenzo Pernice, nominati dal Nostro suoi eredi fiduciari. A difesa dell’illustre concittadino si schierò lo stesso Consiglio Comunale di Cefalù, che nella seduta del primo novembre 1865, presieduta dal sindaco Carlo Botta, espresse un voto al governo del regno affinchè costituisse il liceo Mandralisca in corpo morale.(81) Ciò avvenne con il regio decreto del 21 luglio 1866; ma si dovette attendere solo il 1° novembre del 1890 per l’inaugurazione del liceo-ginnasio diretto dal professore Giuseppe Gaeta e il 14 maggio 1895 perchè si ottenesse il pareggiamento tramite decreto ministeriale. All’istituzione Piraino aveva dedicato un patrimonio che si costituiva oltre che dalle opere d’arte, collezioni e libri del suo gabinetto, dalla sua stessa abitazione sita in via Badia, poi via Mandralisca, da una casa a Palermo in via Giacalone a da diverse proprietà che egli aveva nei poderi di Gangi, ex feudo Mandralisca, in località Leonarda, nella contrada di San Biagio, a Piano Marsala, a Torretonda e nella Piana di Lascari in contrada Salinelle. Ma, a lungo andare, le rendite agricole di queste terre che erano state cospicue in un’ economia prevalentemente agricola come quella dell’Ottocento, si rivelarono piuttosto basse, determinando seri problemi al finanziamento del liceo. Nel nostro cammino cronologico sono da ricordare altre due date di una certa importanza: l’11 marzo 1926 quando con regio decreto viene approvato lo statuto della istituzione che per la prima volta è chiamata "Fondazione scolastica" e il 14 settembre 1934 quando avvenne la statalizzazione del liceo, intitolato finalmente al suo fondatore. Ma con quest’ultimo decreto veniva meno la volontà testamentaria poichè si scindeva il liceo (pubblico) dalla fondazione culturale (biblioteca e museo) che rimaneva ente privato. Dopo la morte dei suoi tre eredi fiduciari e dei successori nominati da questi ultimi, Piraino, per assicurare una continuità nella direzione dell’ istituzione volle che i tre componenti del collegio fossero sempre di nomina del Decurionato di Cefalù o "a quel corpo che in appresso, sotto qualsiasi denominazione, potrà supplirlo". Con questa disposizione si evince come il barone pronosticasse un mutamento dell’assetto istituzionale in seguito all’auspicata unità italiana. Per quanto concerne invece l’indirizzo scolastico vero e proprio, Mandralisca aveva concepito il liceo come una scuola media inferiore completa dove venissero insegnate le seguenti materie: italiano, latino, greco, storia, geografia, matematica, filosofia, chimica, fisica, scienze naturali, agricoltura, disegno, calligrafia e nautica.
Il corso propriamente liceale era di quattro anni più un biennio preparatorio. Nonostante le difficoltà iniziali di cui abbiamo poco sopra parlato, l’istituzione poté contare fin dall’inizio e per tutti i 44 anni nei quali il liceo fece tutt’uno con la fondazione Mandralisca, di un corpo docenti di comprovata esperienza e preparazione. Ricordiamo brevemente: Eugenio Donadoni, illustre storico della letteratura italiana, Annibale Pastore, un pioniere degli studi di filosofia della scienza e psicologia sperimentale, Guido Camozzi, studioso di storia antica e medievale, Eugenio Di Carlo e Ferdinando Albeggiani, che tennero poi per diversi anni rispettivamente la cattedra di filosofia del diritto e filosofia all’Università di Palermo, il matematico Francesco Cavallaro, Mons. Mariano Campo docente di latino e greco, Adolfo Amodeo, poi rettore dell’Università di Napoli.
VI.b La biblioteca
"Voglio che si fondasse una biblioteca entro il Liceo. Per primo fondo di detta biblioteca serviranno i miei libri…" Anche questa disposizione testamentaria del barone ci illumina sulle sue qualità di uomo votato al progresso ed alla cultura, desideroso di mettere a disposizione della comunità tutto il patrimonio letterario raccolto nella sua breve esistenza, per consentire l’instaurarsi di condizioni di pari opportunità e di uguaglianza tra i diversi strati sociali. In effetti la biblioteca del Mandralisca con i suoi circa sei mila volumi (tra libri ed opuscoli) costituisce una sorgente preziosa ove è possibile consultare testi di svariata natura, a riprova dei vasti interessi del Nostro.(82)
Infatti Piraino, pur connotando i suoi studi di un’ impronta scientifica, manifestò ugualmente un grande interesse per gli studi umanistici e filologici, storici e filosofici. Le edizioni dei diversi testi di scienze naturali, religione, archeologia, numismatica, storia e filosofia, i classici latini e greci ecc, furono sempre scelte con cura ed attenzione al valore. Tra le opere più datate è possibile consultare due incunaboli: I Punica di Silio Italico (Venezia 1483) e la Schola Paradisi di Giovanni Climaco (Venezia 1491). Del XVI secolo si hanno ben quarantasei testi classici, scientifici, letterari e filosofici. Tra quelli classici meritano menzione: De rerum natura di Lucrezio (1515); De re rustica, raccolta di testi di Catone, Marrone, Columella (1529); i Commentarii di Cesare (1569); qualche opera di Cicerone (Retorica ad Herennium, De Officiis, De invenzione, De claribus Oratoribus, ed altri); la Descrizione della Grecia di Pausania (1593); gli Annali di Tacito (1563), le Historiae di Plinio (1553); una raccolta di tragedie scelte di Eschilo, Sofocle, Euripide (1567); una raccolta di poesie di Pindaro in greco, tradotte in latino (1599); alcune opere filosofiche di Aristotele; la Adversus paganos di Orosio (1582). Tra le opere letterarie italiane, meritano riguardo tre pregevoli edizioni dei grandi del Trecento: una Divina Commedia con il commento del Landino (1529); le Rime del Petrarca con le note del Bembo (1558); il Decamerone. Tra le opere in latino sono da ricordare anche le poesie di Lorenzo Valla (1575) e quelle di Teofilo Folengo (1585), in latino maccheronico. Fra i testi storici il Compendium rerum Sicaniarum di F. Maurolico (1574), la Historia di Ugo Falcando (1550), la Historia di Sicilia di T. Fazello (1574), l’ Itinerario di Beniamino da Tutela (1575). Nel campo scientifico due testi: un Herbarius del 1586, Due regole della prospettiva pratica del Vignola (1583). Per la numismatica: Discorso sopra le medaglie degli antichi di Sebastiano Erizzo (1568). Tra gli scaffali della biblioteca suscitano curiosità due importanti vocabolari: il primo dal latino in siciliano e spagnolo di Cristoforo Scobar; il secondo del greco in latino di Konrad Gesner del 1545. Per quanto riguarda lo studio della cultura locale un’ottima piattaforma di ricerca è costituita dalla raccolta di sette manoscritti, quattro dei quali opera di illustri cefaludesi. Segnaliamo: Brocchi, conchiglie fossili degli appennini e contorni dello stesso barone Mandralisca, i Manoscritti originali di Michele D’Anna (secolo XIX); le Institutiones Iuris Feudalis di Rosario Porpora (XVIII secolo), la Storia del Vescovato di Cefalù di Antonio Maria Musso (1811). Gli altri manoscritti sono: la Istoria del Ministero del Cardinale Ximenes (tradotta dal francese da R. Porpora) del 1754, opere del Marsoliers, I due volumi dei Diplomi dell’archivio Capitolare della Cattedrale di Cefalù che il barone utilizzo come fonte per la pubblicazione del libretto Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù. Nel corso del tempo la biblioteca si è arricchita di ulteriori testi, soprattutto di narrativa moderna, grazie alle donazioni della BB.CC e P.I e dei privati cittadini.
VI.c Il museo
Della vastità e profondità degli interessi scientifici e culturali del barone Enrico Piraino se ne possiede una prova tangibile all’interno del museo, tanto che lo stesso botanico Filippo Parlatore, intimo amico del Nostro, in seguito ad un soggiorno in casa Mandralisca ebbe a scrivere quanto segue: "…questo giovane scienziato della cui amicizia tanto mi onoro datosi da più anni allo studio delle scienze naturali è, fortunatamente per i mezzi che possiede, riuscito (a raccogliere) un museo di oggetti siciliani e stranieri acquistati per vari viaggi da lui intrapresi in Sicilia e alle isole adiacenti (sie) e con cambi e con denari per quelli di fuori da rendere veramente pregevole il suo museo e degno non di un (uomo) particolare, ma di una Università".(83) In verità il mecenate cefaludese era arrivato troppo tardi nella realizzazione di questo centro di cultura, poichè già da tempo, i musei nazionali ed internazionali avevano acquistato, quanto di più raro e pregiato era affiorato dagli scavi archeologici, ed i quadri o le suppellettili di valore più considerevole dalle soppresse congregazioni religiose. Oltretutto, Piraino nel perseverare in una simile opera, confidò esclusivamente sul proprio intuito artistico, e sulla cognizione scientifica non indifferente, che gli permise di condurre le ricerche e gli scavi in prima persona, peregrinando tra boschi e paeselli, armato della sola volontà tenace e da una pazienza invincibile.
L’impegno e la sua dedizione nel dotare la cittadina madonita di un museo di pubblica utilità, assumono una connotazione più significativa, se pensiamo per un istante alle difficoltà oggettive, con cui egli ebbe a scontrarsi, ben note allo stesso Parlatore: "…oh quanto sono da lodarsi questi uomini che sanno far uso dè loro danari per vantaggio delle scienze e che lungi di vivere fra gli agi e le mollezze impiegano preziosamente le ore negli studi naturali, e quel che esponendosi a mille disagi e a mille pericoli arrampicandosi per le ripide balze dè monti, viaggiando sotto la sferza ardente del sole e spesso non avendo di che cibarsi tranne che un pezzo di pane, ed altro letto ove giacersi che un misero e durissimo di canne".
In tempi recenti, l’importanza del museo è stata sottolineata da Maria Miceli nella sua tesi di laurea, la quale citando un articolo del giornale palermitano "L’ora", ci presenta un inconsueto parallelismo tra la biblioteca Ambrosiana di Milano, che oltre a testi e manoscritti, custodisce vari oggetti d’arte e il centro di cultura voluto dal Nostro. Se un confronto quantitativo e qualitativo risulta improponibile dato che l’istituzione fondata dal Cardinale Federico Borromeo poteva celebrare al suo interno circa quindicimiladuecento manoscritti e duemila incunaboli e svariati capolavori come L’Adorazione dei Maggi del Tiziano o il Musicista di Leonardo, sotto l’aspetto umano le collezioni del Mandralisca riflettono di una luce particolare. Infatti girando per le sale dell’abitazione del barone, dove è possibile ammirare le raccolte, si rimane immediatamente pervasi da un’atmosfera intima, carica di sensazioni visive, che ci riporta indietro nel tempo in cui egli visse. E se il Cardinale lombardo poté contare sull’aiuto di collaboratori e coadiuvatori di prestigio, come il conte Fabio Visconti che generosamente cedette per una cifra irrisoria, il cartone di Raffaello della Scuola di Atene, di certo ciò non avvenne per Piraino, il quale dedicò molti anni alla realizzazione del nucleo centrale della sua raccolta. Pertanto, considerando il contesto e l’epoca differente in cui vissero i due benefattori, l’opera del Nostro è senza dubbio caratterizzata da un significato più profondo ed intrinseco di valori affettivi.
Sicuramente il capolavoro che meglio identifica ed eleva la collezione del Mandralisca ad un livello internazionale è Il Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina, quadro che ispirò Vincenzo Consolo nella realizzazione del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio e Laura Frezza nel Ritratto d’ignoto in un interno di famiglia. Diverse ipotesi sono state avanzate circa l’identità dell’uomo raffigurato nel dipinto, anche se mai nessuna è riuscita a prevalere sull’altra, conferendo un maggior fascino a questo personaggio dall’aspetto enigmatico. La tela pare che sia stata acquistata dal barone, presso un mercante, durante i suoi frequenti viaggi nell’isola di Lipari, nella quale era solito recarsi per gli scavi archeologici, dove rinvenne la più ampia e completa raccolta di numismatica, comprendente monete greco-romane e siciliane. Le conchiglie fossili, oggetto principale dei suoi studi, fanno parte di una assortita collezione malacologica, comprendente ben ventimila esemplari, rinvenuti in ogni parte del mondo e risalenti al quaternario.
Nella sezione archeologica primeggia un singolare cratere a campana che raffigura un venditore di tonno (IV sec. a.C.), immagine simbolica della storia dell’antica Kefalè; in ottimo stato di conservazione sono poi dei vasi greci, italioti e sicelioti di rinomanza universale, come anche i bronzi, i cammei, gli epigrafi, le colonne funerarie e gli idoli egiziani. Dalle grotte della rocca cittadina il Nostro riportò alla luce diversi reperti che suscitavano di volta in volta l’interesse e l’entusiasmo di illustri scienziati e studiosi siciliani, colpiti dai risultati scientifici ottenuti in ambito europeo, specialmente nel settore malacologico, dove le sue ricerche risultarono totalmente inedite. Tra i nomi illustri possiamo annoverare: Vito D’Ondes Reggio, Domenico Scinà, Stalislao Cannizzaro, Francesco Minà Palumbo, Agostino Todaro solo per citarne alcuni.
Conclusione
L’opera del Barone Enrico Piraino di Mandralisca non può essere compresa se non la si consideri nel significato più alto che il mecenate cefaludese gli volle dare. Soffermarsi solo sulla esteriorità delle sue molteplici attitudini vanificherebbe la portata del suo insegnamento, che va colto nell’intimità dell’uomo e nella profondità degli studi condotti con zelo e passione, distinguendolo da altri eruditi del tempo, pervasi da uno sterile nozionismo dottrinario. Le accademie alle quali egli era associato si onoravano di averlo come membro, oltre per i suoi successi scientifici e culturali, per la nuova concezione del sapere, ritenuto l’unico elemento che potesse far crescere civilmente l’individuo, sottraendolo dal giogo dell’ignoranza.
La genialità di Piraino sta nell’aver promosso e diffuso questo convincimento, evitando di considerare le conoscenze acquisite come un patrimonio personale da custodire gelosamente. In tal senso tutta la comunità avrebbe dovuto usufruire di ogni mezzo necessario per plasmare una propria coscienza nazionale, libera dalle catene dello straniero e pronta al riscatto morale e sociale oltre che politico. Tra i tanti benefattori che in quel periodo lasciavano i loro averi a vantaggio del bene pubblico, il barone fu uno dei più lungimiranti, poiché si rese conto anzitempo che per realizzare un’opera veramente utile al prossimo occorresse un’istituzione sempre attuale e portatrice di ricchezza umana e spirituale. La identificò nel liceo, valutandolo come l’unico suo erede universale che potesse diffondere dopo la morte tutto quel filantropismo di cui si era fatto paladino. Nella Sicilia di quel tempo, dove vi era l’assenza di una struttura scolastica ben organizzata, la creazione di un liceo nella sua città natale rappresentava il dono più significativo.
Se consideriamo quanto breve fu la sua vita, segnata oltretutto negli ultimi dieci anni dalle sofferenze procurategli dall’ asma, e teniamo conto di quante e quali attività egli riuscì a condurre contemporaneamente con egregi risultati, non possiamo che rimanerne sorpresi. In questa prospettiva Mandralisca ci lascia in eredità un ulteriore insegnamento: la fugacità dell’esistenza dell’uomo può essere combattuta soltanto attraverso la realizzazione di opere che permetteranno ai posteri di ricordarsi positivamente di noi.
Piraino oltremodo ebbe la straordinaria capacità di interpretare il tempo in cui visse e saperne prevedere i risvolti futuri, in virtù di ciò comprese fin da giovane che la Sicilia doveva combattere la struttura feudale per uscire dal suo isolamento; giudicò conclusa l’esperienza risorgimentale proprio con la realizzazione dell’unità d’Italia, ponendosi come un antesignano della questione meridionale; viaggiando lungo tutta la penisola si rese conto dell’importanza dei trasporti che successivamente dovevano essere oggetto di dibattito in seno al Parlamento Nazionale; vide nell’istruzione la musa liberatrice delle menti offuscate dall’oscurantismo. Computando a tutto questo i suoi meriti scientifici, riconosciuti in ambito internazionale, soprattutto nel settore malacologico, dove le sue ricerche vennero considerate inedite, e le battaglie sociali intraprese in favore della parità dei diritti, inevitabilmente Mandralisca si manifesterà a noi come uno spirito progressista assertore della dinamica storica e dei valori della libertà.
La sua figura di uomo equilibrato e capace nasce proprio dalla corretta interpretazione che egli diede alle due felici stagioni del pensiero umano, armonizzandone i contenuti con la mediazione patriottica-romantica: l’illuminismo ed il positivismo. Nella società concepita dal Nostro anche l’umile pescatore doveva contribuire con la sua operosità alla crescita collettiva, da realizzarsi attraverso la fede nella cultura e nella scienza.
Nonostante egli fosse legato morbosamente alla sua Sicilia, che per molti era solo una "terra che bruciava in mezzo al mare", si sentì sempre figlio del mondo, inneggiando ad un aperto cosmopolitismo, in nome dell’uguaglianza dei popoli.
La scarsa considerazione riservata dalla letteratura nazionale al barone Enrico Piraino, non può che stupirci, soprattutto nell’ottica di un’opera e di un insegnamento ancora attuale dopo quasi centoquaranta anni dalla sua morte e tuttora riproponibile alle generazioni future. Evidentemente la chiave di lettura è da ricercarsi in quella concezione errata che tende ad esaltare o sminuire le grandi figure del passato, semplicemente basandosi più sulla celebrità dell’uomo che sulla portata delle iniziative, ed in questo il mecenate cefaludese fu sempre schivo al clamore ed alla notorietà, preferendo lasciare il suo messaggio nelle menti e nei cuori dei posteri, eludendo i contemporanei, forse ancora non pronti a recepirlo. Oltretutto Piraino, visse sempre con la falsa convinzione di non essere un grande scienziato ed intellettuale, ma un semplice dilettante che aveva preferito investire l’ingente patrimonio familiare in studi e viaggi di ricerca, suscitando così incredulità all’interno delle accademie. Anche se il nome del barone non risulta sovente negli archivi e nelle biblioteche che non siano la sua, a noi importa cogliere la grande umanità e spiritualità ereditata dal pensiero di quest’ uomo, valorizzandola attraverso la continuazione della sua opera di filantropismo e diffondendo gli ideali di giustizia, cultura, progresso, sempre attuali e validi in una società che si voglia definire civile.
Luciano Candia
Testamento di Enrico Piraino di Mandralisca
Io Enrico Piraino, barone di Mandralisca, per la grazia di Dio sano di corpo e di mente, col presente mio olografo dispongo dei miei beni nel modo che segue. Istituisco mia erede universale usufruttuaria sopra tutti e singoli miei beni la mia cara moglie Maria Francesca Parisi figlia del fu Barone D. Francesco, espressamente dispensandola dell’obbligo di dar cauzione, e fare inventario. Se però detta mia moglie passasse in seconde nozze, voglio che cessasse il legato usufrutto fattole di tutti i miei beni, ed in questo ultimo caso, dal giorno del nuovo matrimonio, le lego onze 100 all’anno vitalizie. Voglio che dell’annua rendita di tutti i miei beni eccetto i legati di che disporrò appresso, si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un Liceo, con le norme che qui appresso detterò. Detto corpo morale voglio che fosse il mio Erede universale. Nomino miei fiduciari il Cavaliere D. Antonino Agnello mio cugino, il Barone D. Carlo Ortolano di Bordonaro, ed il Dr. D. Vincenzo Pernice del Dr. Biaggio, pregandoli che pel bene del paese natio volessero accettare la presente fiducia, e volessero prestare l’opera loro per dare esecuzione alla presente mia testamentaria disposizione. Accordo ad ognuno dè sopradetti miei Fiduciari la facoltà di poter eliggere il suo successore in detta qualità di Erede Fiduciario, il quale dovrà riputarsi come se fosse stato nominato direttamente da me. Morti detti tre Eredi Fiduciari, e gli altri tre nominati da costoro, il diritto di scelta in perpetuo passerà al Decurionato di Cefalù o a quel corpo di Consiglio Civico che in appresso sotto qualunque denominazione potrà supplirlo, il quale eliggerà tre individui, i quali prenderanno nome di Deputati.
I tre Fiduciari eletti da me, e gli altri tre pei quali ho accordato ai primi il diritto di nomina saranno a vita. I deputati che sceglierà il Decurionato di Cefalù saranno per un triennio, potendo ognuno di loro essere riconfermato per un altro triennio e non altrimenti. Potrà bensì ogni Deputato essere rieletto dopo scorso un triennio nel quale non abbia occupato quella carica. I Deputati scelti dal Decurionato dovranno rinnovellarsi uno per anno, dovendo ognuno compiere il rispettivo triennio, od un sessennio in caso di conferma, meno nelle prime elezioni nelle quali la sorte deciderà chi deve anteriormente uscire. Voglio però che fra i Deputati il Decurionato non potesse giammai eleggere un prete.
I Fiduciari, ed in appresso i Deputati avranno la legale amministrazione di tutti i miei beni da cominciare quando l’usufrutto legato a mia moglie durante la sua vedovanza verrà a consolidarsi colla proprietà. Appena pubblicato il presente testamento i Fiduciarii dovranno curare di dimandare ed ottenere dal Governo l’autorizzazione per fondarsi il nuovo Liceo in Cefalù da me stabilito sopra. Prego ancora la mia diletta moglie a cooperarsi perchè si ottenghi presto la sopradetta autorizzazione. Nel caso che alla mia morte si trovasse in vita mia moglie, in questo caso i miei Fiduciari in quanto ai miei beni non dovranno far nulla, dovendo aver luogo il legato universale di usufrutto che sopra tutti i miei beni, con dispensa di cauzione, e d’inventario, ho disposto a favore di Lei durante viduità, che se però mia moglie fosse morta, ovvero in avvenire passasse a seconde nozze, in questi due casi i Fiduciari dovranno mettersi in possesso di tutti e singoli miei beni e procedere ad un esatto inventario. Dopo di che passeranno alla vendita all’asta publica, e dietro triplicati avvisi in stampa in Cefalù, nei comuni circostanti, ed in Palermo, di tutti gli oggetti mobili di qualunque natura, che troveranno, eccetto libri, i quadri ad olio, ed incisione, gli oggetti tutti di Storia Naturale e di antichità, le macchine ed i strumenti di Fisica, il medagliere, e tutt’altro che forma parte del mio Gabinetto di Storia Naturale e Belle Arti, i quali oggetti tutti debbono conservarsi per servire al Liceo. Il Capitale che sarà per ricavarsi dagl’ altri oggetti mobili, esclusi i sopra descritti, dovrà destinarsi per fabbricarsi un luogo adatto pel nuovo Liceo coi suoi Gabinetti e Biblioteca. I miei Fiduciari col loro zelo e prudenza cercheranno di scegliere un buon luogo adatto per la fabbrica del Liceo. Vedranno ancora se sarà possibile di ottenere dal Governo un qualche luogo pubblico da potersi destinare comodamente, e con poca spesa a quell’uso. In caso diverso lo fabbricheranno appositamente, anche se sarà possibile nella mia casa d’abitazione a Cefalù impiegandovi il capitale che avranno ricavato dalla vendita dei sopradetti oggetti mobili, e la rendita annuale che ritrarranno dei miei beni, la quale, detratti prima gli annuali pesi, e legati dei quali infra si dirà, e le onze cento vitalizie lasciate a mia moglie nel caso che passasse a seconde nozze, nel resto dovrà destinarsi alla nuova fabbrica e spese di prima fondazione. Voglio espressamente che per le fabbriche del Liceo e per le spese di prima fondazione, non fosse venduto alcun fondo, o esatto alcun capitale, ma che esclusivamente venissero fatte col fruttato delle sole rendite dè miei beni, e con ciò che sarà per ricavarsi dalla vendita dei miei mobili come di sopra ho disposto. Sopra i miei beni tutti che lascio al nuovo Liceo a fondarsi, voglio che fossero sodisfatti i seguenti particolari legati, di avere però tutti esecuzione dopo finito l’usufrutto universale lasciato a mia moglie durante viduità, meno i legati per lutto, e per i servitori come infra disporrò. Lego a mia nipote Annetta Parisi e Pereira figlia del fu mio Cognato Barone Domenico Parisi i miei due fondi nominati di Giarrosello e Colombo. Lego onze cinquanta all’anno all’Ospedale degli infermi di Cefalù per lo mantenimento di poveri ammalati di qualunque natura. Voglio che si destinasse una stanza di detto Ospedale da servire per darvi lezione due volte la settimana di Ostetricia per apprendimento ed istruzione delle levatrici. Detta lezione dovrà darsi pubblicamente dal Chirurgo dell’Ospedale sudetto a cui lego onze sei all’anno come gratificazione per la detta lezione di ostetricia. Dette onze sei all’anno di gratificazione sono oltre al soldo che il detto Chirurgo riceve dall’Ospedale, e dovrà ricevere dette sei onze sei all’anno se effettivamente darà sudetta lezione. Dichiarando espressamente che dette onze sei sono oltre le onze cinquanta lasciate direttamente dall’ Ospedale. La detta lezione di Ostetricia dovrà non solamente essere teorica, ma doppiamente pratica, o almeno con un fantoccio, ed una pelve o bacino tanto di forme regolari che morbose. Lego onze venti all’anno al Collegio di Maria di Cefalù con l’obbligo di mantenere una scuola Lancastriana per le fanciulle, nella quale espressamente voglio che si insegnasse anche a scrivere, e che non si seguitasse più oltre a tenere il costume di non istruirle nella scrittura. Che se mai i miei Fiduciari, o Deputati pro tempore del Liceo conosceranno che non ostante la mia espressa volontà, le monache del detto Collegio di Maria non insegnassero a leggere e scrivere secondo il metodo di mutuo insegnamento, in questo caso voglio che il detto Collegio restasse caducato del sopradetto annuo legato di onze venti e che a cura di detti miei Fiduciari e Deputati si erigesse e mantenesse sopra i fondi da me lasciati al Liceo una Scuola Lancastriana pubblica esclusivamente per le ragazze. Lego al mio caro cognato Cavaliere Don Antonino Agnello l’anello di brillanti tutto in giro per la mia memoria, d’averlo appena seguita la morte. Lego a mia cognata Claudia Parisi in Agnello due de miei reliquiari a fiori di argento, da averli appena seguita la mia morte. Lego a mia nipote Annetta Parisi e Pereira la freccia di diamante con in mezzo uno smeraldo, d’averla appena seguita la mia morte. Lego al Dr. D. Salvatore Invidiato Piraino figlio del fu Barone D. Girolamo onze sessanta per il lutto, da averla appena seguita la mia morte. Lego al Barone D. Paolo Invidiato figlio di detto Barone D. Girolamo onze sessanta per il lutto, da averle appena seguita la mia morte. Lego al D. Girolamo Invidiato Piraino e Concina figlio di detto Barone D. Paolo onze venti per il lutto, d’averle appena seguita la mia morte. Lego al Cavaliere Natale la Placa Figlio del Cav. D. Pietro onze trenta per il lutto, da averle appena seguita la mia morte. Lego ad ognuna delle persone che si troveranno addette al mio servizio all’epoca della mia morte, cioè camerieri e servitori tanto maschi che femine, come anche al mio fattore, una doppia mesata, che loro rispettivamente compete di salario. Voglio che nella Chiesa del mio fondo Torretonda fosse celebrata in tutte le Domeniche, e feste di doppio precetto una messa letta d’applicarsi in suffraggio dell’anima mia, e dei miei parenti, come ancora voglio che ogni anno si spendesse onze una per celebrare la festa con messa cantata, di San Francesco Saverio in detta Chiesa rurale di Torretonda. Lascio per mantenimento ed elemosina delle messe festive, inclusa la spesa per la festa di San Francesco Saverio onze tredici all’anno, da servire per elemosina delle messe, rifrazione dei paramenti, e fabbriche, cera, e la suddetta festività. Lego alla chiesa rurale di Santo Ambrogio esistente nel Villaggio di tal nome nel territorio di Cefalù onze dodici all’anno, quante quante volte sarà elevata a Chiesa Sacramentale con dimora fissa di un Cappellano. Dette onze Dodici all’anno dovranno darsi al Cappellano con l’obbligo a costui di celebrare una messa di requie all’anno nel giorno anniversario della mia morte, ed in suffraggio dell’anima mia, e di dovere in oltre giornalmente, escluse le feste di precetto, istruire i suoi parrocchiani nel leggere, scrivere e nelle quattro regole principali di aritmetica, secondo il metodo di mutuo insegnamento. Lego inoltre per una sol volta la somma di onze dieci per le spese abbisognevoli onde acquistare le tabbelle, lavagne, lapis ed altro necessario per fondare la detta scuola primaria. I miei Fiduciari, ed in appresso i Deputati del Liceo, cureranno lo esatto adempimento di sudetto legato, sotto pena di caducità a favore della mia Eredità. Dichiaro che avendo edificato e fondato una Chiesa rurale nel mio ex feudo Mandralisca, previo il superiore permesso, stabbilii un’annua assegnazione per le dote di detta Chiesa, e per celebrazione delle messe festive nel tempo della semina e del raccolto. Ora è mia volontà darsi l’obbligo allo affittatore pro tempore del detto ex feudo di dover far celebrare le messe in tutte le feste di doppio precetto che occorrono nell’interno corso dell’anno, come a sue spese, dovrà eseguire le riparazioni, il mantenimento dè giogali ossia suppellettili, ed annua festività in onore del Patriarca San Giuseppe. Prego caldamente i miei Eredi Fiduciarii, ed i Deputati del Liceo a curare la esatta osservanza dei sopradetti particolari legati, poicchè in specie i legati fatti alle tre suddette chiese rurali, oltre di tornare vantaggio all’anima mia, spero che contribuiranno allo accrescimento delle popolazioni rurali, dalle quali promana tanto bene all’agricoltura e sicurezza dè territorii. Allorchè si consoliderà l’usufrutto alla proprietà, i miei Eredi Fiduciarii detratti tutti i legati di cui sopra è parola, della rendita netta faranno sorgere il Liceo erede universale. Nel detto nuovo liceo vi si stabiliranno le seguenti cattedre con i seguenti rispettivi soldi da darsi ai professori, cioè prima scuola preparatoria nella quale s’ingegnerà ai giovanetti usciti dalla scuola lancastriana, di già esistente, e mantenuta dal Comune, la lingua italiana, ed i principii dell’aritmetica. S’insegneranno nello stesso tempo agli allievi i primissimi elementi della Geografia, della istoria Sacra e Patria, ed in generale si daranno le conoscenze più necessarie negli usi della vita, che potessero servire nello stesso tempo a svolgere l’ingegno, come a dire la conoscenza delle monete correnti, dè pesi e delle misure, e detto professore avrà onze venti all’anno. Vi sarà, una seconda scuola, detta anche preparatoria nella quale sarà continuato l’istesso insegnamento come nella prima, ma più svolto secondo l’accresciuto sviluppo dè giovinetti, e che formerà il secondo anno della istruzione del Liceo. Il professore di questa seconda scuola preparatoria avrà il soldo di onze ventiquattro all’anno. Vi sarà un professore di lingua e letteratura italiana, il quale insegnerà alle varie classi, nel modo che saranno graduate appresso, in quattro anni, la lingua, i precetti dello stile, le teoriche della eloquenza, e nel quarto anno darà la storia della letteratura italiana. Voglio che le teorie non fossero niente scompagnate dalla pratica, che giornalmente i discendenti venissero esercitati nell’arte dello scrivere, lo stesso professore dovrà insegnare gli elementi della lingua francese portando gli allievi sino al punto di comprendere bene i classici. Costui avrà il soldo di onze quarantotto all’anno. Vi sarà un professore di lingua e letteratura latina, costui in anni quattro ed a quattro distinte classi in ogn’anno, dovrà insegnare con metodo facile ed abbreviato la lingua latina. Nell’ultimo anno di ogni classe darà un corso di letteratura latina, non scompagnandola dallo studio della lingua, e facendo delle osservazioni sui principali scrittori latini. Costui avrà il soldo di onze quaranta all’anno.Vi sarà un professore di lingua e letteratura greca, il quale si regolerà come quello della lingua e letteratura latina, aggiungendo l’obbligo di iniziare gli allievi nello studio dell’archeologia greca e romana. Costui avrà il soldo di onze quaranta all’anno. Vi sarà un professore di geografia ed istoria. Costui in quattro anni, ed a quattro distinte classi in ogn’anno, dovrà insegnare la geografia moderna, in tutte le sue branche, la geografia descrittiva antica e del medio evo, come ancora in quattro anni ed a quattro distinte classi in ogni anno insegnerà la storia moderna e particolarmente patria, la storia antica, e quella del medio evo. Costui avrà per soldo onze quaranta all’anno. Vi sarà un professore di matematiche. Costui in quattro anni, ed in quattro distinte classi dovrà insegnare l’aritmetica scientificamente, l’algebra, la geometria, e le due trigonometrie. Costui per soldo avrà onze quaranta all’anno. Vi sarà un professore di filosofia, il quale detterà in due anni, ed a due prime classi in ogni anno lezioni di filosofia cioè logica, ideologica, e metafisica, filosofia morale, ed un breve corso di storia della filosofia. Costui avrà il soldo di onze quaranta all’anno. Vi sarà un professore di fisica generale e sperimentale di chimica. Il corso di queste due scienze verrà dettato in due anni, nel primo si darà la fisica generale e sperimentale, e nel secondo la chimica, le quali due scienze dovranno studiarsi ex professo teoricamente e praticamente, avvezzando gli allievi a fare da loro stessi gli sperimenti. Il detto professore dovrà in ogni giorno dettare due lezioni a due classi separate, una cioè di fisica, e l’altra di chimica, costui avrà il soldo di onze quarantotto all’anno. Vi sarà un professore di scienze naturali per la parte inorganica e geologica, il quale dovrà anche dettare lezioni di paleontologia e di fisiologia. Il corso dovrà essere compito in due anni ed a due separate classi dettato. Il detto professore avrà per soldo onze quaranta all’anno. Vi sarà un professore di scienze naturali per la parte organica, costui dovrà dettare in due anni, ed a due separate classi, gli elementi di botanica, di zoologia, di anatomia, e di fisiologia in ogni anno. Dovrà inoltre nel caso che non si trovasse provveduta la cattedra di mineralogia e geologia, dettare anche i primi elementi di mineralogia. Costui godrà il soldo di onze quarantotto all’anno. Vi sarà un professore di agricoltura teorica e pratica il quale detterà una sola lezione al giorno, ed avrà il soldo di onze trentasei all’anno. Gli si raccomanda d’intrattenersi specialmente nelle teorie e pratiche di quella coltura più interessante del paese. Vi sarà un professore di disegno lineare e di figura, col soldo di onze venti all’anno. Vi sarà un professore di Calligrafia col soldo di onze dodici all’anno. Vi sarà un professore di Nautica ossia di navigazione mercantile, che darà una lezione al giorno, col soldo, di onze ventiquattro all’anno. Vi sarà un direttore degli studi e dei gabinetti di Storia naturale, di Fisica e Chimica, e di Archeologia, incluso il Medagliere. Costui presiederà agli studi giornalmente, dirigerà l’insegnamento stabilirà d’accordo coi professori i metodi delle varie branche dello insegnamento, e ne sorveglierà la esatta esecuzione, come altresì la suprema sorveglianza della disciplina. Avrà inoltre la custodia e la direzione dei gabinetti che curerà aumentare, e mantenere in buon ordine. Questo Direttore avrà il soldo di onze sessanta all’anno. Vi sarà un prefetto per la disciplina delle scuole e dello intero Liceo, col soldo di onze ventiquattro all’anno, con l’obligo di dover dimorare nel liceo per tutto lo intero orario delle scuole. Vi saranno due massari o bidelli da servire il Liceo, biblioteca e gabinetti. Costoro avranno il soldo di onze dodici per ciascuno anno. Voglio che si fondasse una Biblioteca pubblica dentro il Liceo. Per primo fondo di detta biblioteca serviranno tutti i miei libri. Vi si impiegheranno inoltre onze sessanta all’anno, come certa dote. Vi sarà un Bibliotecario, il quale avrà l’obbligo di mantenere aperta la detta biblioteca per cinque ore al giorno, durante l’intiero corso dell’anno, meno nelle feste di doppio precetto, e nel mese di ottobre che servirà per spolverare tutti i libri. Costui avrà il soldo di onze trentasei all’anno. Voglio che per mantenimento ed aumento dei gabinetti di Storia Naturale, Fisica e Chimica, ed Archeologia nonchè per istrumenti di Nautica, e carte geografiche, e disegno fossero assegnate annue onze sessanta. Se le rendite della mia Eredità non bastassero da principio, dedotti i legati sopra stabiliti, al mantenimento di tutte le sopradette scuole, ed impiegati, in questo caso voglio, che si sospendessero provvisoriamente, e finchè non si avranno i mezzi le seguenti Cattedre cioè a preferenza quella di Lingua e Letteratura greca, poscia quella della Mineralogia e Geologia ed in ultimo di Filosofia. Voglio che tanto lo studio del Greco, e quello della Lingua Latina non fossero obbligatorio, per tutt’altri studii lascio piena libertà al direttore di accordo coi Deputati di stabilire il conveniente. Desidero che gli alunni del Liceo, esclusi quelli delle due prime scuole preparatorie, della nautica e dell’agricoltura, tutto il resto indistintamente pagassero al Liceo tarì sei al mese per ognuno. La somma che si ricaverà da queste mensili contribuzioni sarà divisa in due uguali porzioni una delle quali sarà suddivisa tra tutti i Professori ed ufficiali del Liceo nessuno escluso, cioè a dire inclusi ancora i Professori delle Scuole preparatorie, quelli della Nautica ed Agricoltura, Bibliotecario, assitente e facchini, ed incluso ancora il Direttore, ed il prefetto, ognuno in proporzione del rispettivo soldo. L’altra metà andrà in beneficio del Liceo per lo avanzamento dei gabinetti, ed anche della rendita. Ciò desidero perché la istruzione assolutamente gratuita non è mai apprezzata, affinchè i Professori avessero una ricompensa giusta del loro zelo, e la rendita del Liceo potesse avere un piccolo accrescimento per sopperire ai bisogni crescenti della pubblica istruzione. Voglio che sia fondato, o in pubblico luogo da ottenersi dalla Comune o dal Governo, o in un mio magazzino una scuola Lancasteriana notturna. Il precettore di detta scuola godrà il soldo di onze diciotto all’anno. In oltre lego onze venti per una sola volta per le spese di prima fondazione ed onze due all’anno per piccole spese di manutenzione, oltre onze sei all’anno per mantenere i lumi necessarii. Voglio che i miei Eredi Fiduciari e dopo i Deputati pro tempore eligessero due Deputati degli studii, i quali assieme col Direttore che dovrà farla da presidente di detta Deputazione degli studi, cureranno per la scelta del personale del Liceo, per la compra dei libri, macchine, strumenti, ed oggetti di storia naturale ed antichità, invigileranno ancora pel buono andamento della istruzione: avendo dritto di poter visitare le Scuole, la Biblioteca e di gabinetti per osservare se tutto proceda in piena regola. Costoro avran dritto di nominare ed eligere tutti gli ufficiali del Liceo e Biblioteca, cioè il Direttore del Liceo, il Prefetto ed i due massari uno del Liceo, e l’altro per la Biblioteca. Tutti i professori dovranno eleggersi a concorso. Raccomando che il direttore, il quale non può, ne dee eligersi a concorso, dovrà essere di sperimentata dottrina, abilità nel modo di condurre l’insegnamento, e di somma probità, colle quali doti tutte degnamente stare a capo del Liceo. In caso di malattia, o di temporaneo impedimento esso sarà supplito dal più anziano, in ordine di nomina dè professori di scienze o lettere, esclusi quelli di disegno calligrafia, nautica, agricoltura, e delle due scuole preparatorie. I miei tre Eredi Fiduciari ed i tre che saranno da costoro nominati, ed i tre deputati scelti dal Decurionato, dovranno unicamente amministrare da buoni padri di famiglia tutte le mie rendite, Essi eligeranno un Cassiere con obligo espresso di dare esecuzione e con il soldo di onze quaranta annue. Provvederanno inoltre a tutti i bisogni dell’amministrazione. I detti miei tre Eredi Fiduciari e quelli che essi eligeranno, ed i tre Deputati scelti dal Decurionato pro tempore, nonchè i deputati degli studii non potranno goder soldo alcuno sopra i miei beni, e sopra qualunque altro introito del Liceo, neppure a titolo di gratificazione o indennità, dovendo unicamente prestar l’opera loro gratuita per il bene del paese natio. Revoco qualunque mia altra disposizione testamentaria e voglio che solamente abbia esecuzione il presente mio olografo testamento, scritto intieramente da me, datato e sottoscritto.
Fatto in Palermo oggi li ventisei ottobre milleottocentocinquantatrè.
Enrico Pirajno B.ne. di Mandralisca
NOTE
(45) E. Gibone, Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano, Palermo, Editrice Altieri, 1833
(46) F. Guizot, Della democrazia di Francia, Torino, Giamini e Fiore, 1849
(47) T. Macaulay, Storia d’Inghilterra, Torino, Cugini Pomba & C, 1854
(48) C. Botta, Storia della guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Firenze, Le Monnier-Felice, 1856
(49) P. Colletta, Storia del reame di Napoli, Firenze, Le Monnier-Felice, 1856
(50) DI Blasi, Storia cronologica dei Viceré Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo Areta , 1842
(51) C. Denina, Delle rivoluzioni d’Italia, Milano, Editrice soc.tip.dei classici italiani, 1820
(52) F. A. Gualtieri, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Firenze, Le Monnier-Felice, 1852
(53) F. Guicciardini, Storia d’Italia (1490-1534), Firenze, Borghi & C, 1836
(54) Doc.n.14.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(55) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 10
(56) Ivi, p. 11
(57) D. Portera, Cospirazioni democratiche in Sicilia (1820-1860) Cefalù, Editrice Giorni Nuovi, 1973, cit., p .44
(58) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 11
(59) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 21
(60) D. Portera, L’eredità…, cit, p. 54
(61) Doc. n.2. Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca).
(62) D. Portera, Cospirazioni…, cit., pp. 95-96
(63) Doc.n 23 Sezione I:Registri e volumi- Serie 1- Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(64) Doc.n.17.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7 - Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(65) Doc.n.18.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(66) Doc.n.97.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(67) Doc.n.5.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(68) Doc.n.43.Sezione I: Registri e volumi-Serie I-Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(69) Doc.n.12.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(70) Doc.n.14.Sezione I: Registri e volumi -Serie I- Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(71) Doc.n.6.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7 - Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(72) Raccolta di quattordici lettere…cit.
(73) Doc.n.66. Sezione II: Carte sciolte-Serie 7 - Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(74) Doc.n.20.Sezione I: Registri e volumi-Serie I - Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(75) D. Portera, Il libro d’oro della città di Cefalù, Cefalù, Salvatore Misuraca Editore, 2001, cit., pp. 47-48
(76) Raccolta di quattordici lettere…cit.
(77) D. Portera in Enrico Piraino…, cit., p. 122
(78) Vedi testamento in appendice
(79) G. Palmeri, La fondazione…, cit., p. 19
(80) Ivi, p. 24
(81) A. Rosso, in L’eredità del Mandralisca, Palermo, Stass, 1991, cit., p. 85
(82) D. Portera, in L’eredità…, cit., p. 69
(83) M. Miceli, La biblioteca Mandralisca, Tesi di Laurea, Facoltà di Lettere Palermo,1967-68, cit., p. 70
È alquanto diffusa la convinzione che la pietà popolare ebbe inizio nell’Età di Mezzo. Un’opinione palesemente falsa, o quanto meno, infelice.
Le prime avvisaglie di devozione popolare si manifestarono già agli inizi del cristianesimo, ma poiché esse, mediante uno spontaneo cammino di convergenza, si armonizzarono così perfettamente con la nascente liturgia neocristiana, si annullò qualsiasi forma di diversità, anzi si consolidò un consapevole adattamento ed una precisa inculturazione.
È pur vero che per le più antiche comunità cristiane la sola realtà necessaria era Cristo con la sua vita, le sue parole, i suoi comandamenti, tutto il resto - giorni e mesi, feste e noviluni, cibi e bevande - diventava secondario(1).
Nel Medioevo, invece, il dualismo culturale si palesò. La Chiesa si chiuse dentro una liturgia troppo clericale, si irrigidì in forme ed espressioni squisitamente latine mentre il popolo, per vivere una fede più coerente al proprio status sociale, sviluppò alcuni usi, gesti ed espressioni, per lo più in lingua volgare. Nel Medioevo si ebbe soltanto un rifiorire della pietà popolare.
1. Agli inizi della cristianità
Nei secoli IV e V i protocristiani iniziarono a diffondere il messaggio di Cristo in tutto l’Impero romano.
Da un gruppo minoritario che erano prima dell’Editto di Costantino, essi divennero la maggioranza grazie alla precedente missione degli Apostoli e di San Paolo proseguita, in seguito, dall’impegno di vescovi, asceti, sacerdoti e laici in genere.
Proprio in questi primi secoli di vita cristiana si possono riconoscere alcune pratiche di pietà popolare.
Ciascun cristiano iniziava la giornata lodando e ringraziando Dio. Ogni momento del giorno, sia esso lieto o triste, era offerto a Dio come rendimento di grazie. L’orazione avveniva rivolgendosi verso Oriente, perché da lì si aspettava la parusia del Signore:
Come la folgore viene da oriente e brilla fino ad occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo (Mt 24,27).
Inoltre, l’usanza di segnarsi la fronte con il segno della croce, era molto comune tra i primi cristiani:
Ad ogni uscita o partenza, ad ogni principio o fine nel vestirsi e calzarsi, prima del bagno, quando ci mettiamo a tavola, quando accendiamo la luce, quando ci corichiamo o ci mettiamo seduti, insomma in ogni atto delle occupazioni quotidiane ci segniamo la fronte col segno della croce(2).
Anche il culto dei martiri, dei santi, la venerazione verso la beata Vergine Maria (si veda l’iconografia mariana nelle catacombe di Priscilla a Roma, la preghiera Sub tuum praesidium), i pellegrinaggi, sono tracce di usi popolari riscontrabili nei primi secoli di cristianesimo.
I martiri furono considerati i perfetti imitatori di Cristo in virtù del fatto che, per diffondere il messaggio evangelico, patirono sofferenza e morte. I primi cristiani videro in loro i propri intercessori e protettori, così iniziò la ricerca delle loro tombe e delle loro reliquie. Le ossa, una volta ritrovate, venivano traslate e trasportate in città dove si erigevano chiese per custodirne le spoglie.
I pellegrinaggi, metafora del viaggio, caratteristica per indicare la vita terrena(3), erano compiuti per ottemperare al desiderio e alla speranza di aiuto nelle avversità, oppure come gratitudine per le grazie ricevute.
Meta obbligatoria era la Palestina che, per i suoi "luoghi santi", assunse il nome di Terrasanta. Lo testimoniano i resoconti di famosi pellegrini, quali l’Itinerarium Burgigalense e l’Itinerarium Egeriae, entrambi del IV secolo. Sui "luoghi santi" si costruirono basiliche, quali l’Anastasis, edificata sul Santo Sepolcro e il Martyrium eretto sul monte Calvario, che costituirono un forte richiamo per i pellegrini. Oltre la Terrasanta altre mete - per citarne alcune -, furono la tomba dell’apostolo Tommaso ad Edessa, il santuario dei santi Cosma e Damiano a Costantinopoli, le tombe di Pietro e Paolo a Roma.
2. Nel Medioevo
Il Medioevo ebbe inizio con la caduta dell’Impero romano e con l’invasione, a più riprese, delle popolazioni barbariche. Roma, in un primo momento, riuscì a contenere gli invasori, ma all’inizio del V secolo la lotta divenne impari e la decadenza dell’Impero fu pressoché totale. Oramai tutto l’Occidente era invaso.
Immaginiamo in tali condizioni le difficoltà evangelizzatrici della Chiesa. Le popolazioni barbariche, pur accettando forzatamente la cristianizzazione, conservarono ostinate credenze, superstizioni e pratiche magiche.
Nel periodo compreso tra il VII e la metà del XV secolo, si assistette ad una progressiva differenziazione tra liturgia e pietà popolare. Si arrivò ad un punto in cui si pose in essere un dualismo: da una parte la liturgia officiata dal clero in lingua latina, dall’altra la gente che, estraniandosi dalla dotta teologia, viveva un cammino di fede più libero, pregando e cantando, per lo più, in lingua volgare(4).
Molti furono i fattori che contribuirono a tale separazione. Paradigmatici furono l’idea di una liturgia di competenza dei chierici e l’insufficiente conoscenza delle Sacre Scritture. Questi, e tanti altri motivi, fecero sì che la pietà popolare, la cosiddetta liturgia pauperum, fungesse da insegnamento quando la Bibbia era allontanata dal popolo e la liturgia distante; un po’ come le rappresentazioni pittoriche e scultorie che costituivano la Biblia pauperum che invece avevano lo scopo di colpire l’immaginazione dei fedeli(5).
Nel Medioevo non si notarono molte differenze rispetto ai secoli precedenti. Continuò, intensificandosi, il culto dei santi. Al bambino, fin dalla nascita, veniva dato il nome di un santo rimettendo a lui la protezione del nascituro; inoltre, tutto il calendario lavorativo, così come l’alternanza delle stagioni, fu contrassegnato dalle feste dei santi.
Anche la devozione verso la Madonna subì una crescita. A Lei vennero dedicate molte chiese e, sotto la sua protezione e il suo nome, furono istituite diverse confraternite.
Fin dal X secolo, uomini e donne si riunirono in associazioni dirette ed organizzate da laici i cui scopi erano la formazione dei confrati, la penitenza e le opere di pietà e di carità.
Si diffuse la pratica della recita dell’Ave Maria(6), dell’Angelus(7), del Rosario e delle Litanie alla Vergine Maria. Nacquero nuove feste dedicate alla Madre di Dio, mentre i teologi approfondirono alcuni misteri mariani, come quello dell’Immacolata Concezione, diffusosi grazie all’azione incessante dei francescani che ebbero, in questo ruolo, il loro massimo esponente nel beato Giovanni Duns Scoto:
La beata Vergine Maria, Madre di Dio, non fu mai in atto nemica di Dio né per il peccato attuale né per il peccato originale, perché è stata preservata dall’eccellenza della redenzione del Figlio suo(8).
Non bisogna dimenticare che il Medioevo fu il periodo storico in cui venne esaltata la figura di Cristo, e di Cristo sofferente.
Una rappresentazione molto adoperata fu il crocifisso, soprattutto dipinto. Il Redentore era raffigurato isolato ed iconizzato nel momento supremo del supplizio.
I crocifissi, dalle grandi dimensioni, pendevano dalle navate delle chiese come monito perpetuo al fedele che vi vedeva il più eloquente messaggio cristiano(10).
La partecipazione popolare alle sofferenze di Cristo fu pienamente evidenziata da questi oggetti di culto che, con i loro cambiamenti iconografici, sottolineavano il cammino di contrizione dei fedeli in età medievale.
La più antica croce dipinta giunta fino a noi è quella del Maestro Guglielmo, datata 1138. Si trova nella Cattedrale di Sarzana e testimonia bene il primo modulo pittorico. Cristo è rappresentato con gli occhi ben aperti, gli arti rilassati, il volto privo di qualunque emozione. Gesù non sembra essere appeso in croce, ma davanti alla croce. Egli è vivo. È il risorto, il vincitore della morte. È il Christus triumphans.
Con il trascorrere del tempo, intorno alla metà del Duecento, si definì un nuovo modello di crocifisso che, a poco a poco, sostituì il precedente. Venne abbandonata la divinità di Cristo a favore della sua umanità. La risurrezione lasciò il posto alla drammaticità della passione. Gesù è morto, gli occhi sono pesantemente chiusi, il capo reclinato, il viso contratto dal dolore. Cristo è fissato alla croce per mezzo di chiodi che aprono grandi ferite e da cui sgorgano fiotti di sangue. Tale è la tipologia del Christus patiens. Il Salvatore diventa, così, uomo tra uomini e, ogni devoto che osserva tale immagine, comprende profondamente il valore della missione terrena di Gesù.
Le croci non sono altro che un segno, ma hanno il merito di introdurci alla comprensione di alcuni gesti popolari rivolti al Salvatore come la ricerca delle reliquie del martirio di Cristo, la divulgazione delle immagini della passione, la diffusione della Via Crucis, l’istituzione della Settimana Santa, l’organizzazione delle sacre rappresentazioni tra cui I Misteri che, nel periodo medievale, altro non furono che spettacoli a carattere teatrale il cui scopo era quello di contentare popoli e comunità desiderose di grandi finzioni sceniche(11).
I Misteri erano incentrati sulla storia di Cristo, ma anche sulle narrazioni bibliche ed agiografiche. Generalmente erano componimenti molto estesi, la cui rappresentazione richiedeva parecchi giorni. Per la narrazione del mistero della Passione di Valenciennes, consegnataci in due manoscritti, di cui uno del 1577 illustrato con una serie di splendide miniature, occorrevano venticinque giornate complessive(11).
Anche la devozione all’Eucaristia, corpo di Cristo e modello di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che ha valore(12), assunse la propria importanza. La festività del Corpus Domini venne estesa dal papa Urbano IV l’11 agosto 1264 a tutta la Chiesa e da quel momento divenne una delle solennità più importanti dell’intero anno liturgico.
In continuità con i secoli precedenti si ricorse ai pellegrinaggi. I motivi di fondo rimasero sempre gli stessi: ottenere una guarigione da una malattia, chiedere una grazia, sciogliere un voto, compiere una penitenza.
Gerusalemme - anche se al termine del Medioevo iniziava a scemare di popolarità -, rimaneva sempre il luogo più frequentato.
Altre mete furono: Santiago de Compostela, dove si venerava il corpo di San Giacomo apostolo. Ci si arrivava percorrendo il cosiddetto Camino de Santiago che, attraversando la Spagna settentrionale, si prolungava in Francia, in Italia e in Germania(13); Montserrat, dove i pellegrini eseguivano la "danza della morte"(14); Conques, dove si venerava la preziosa statua-reliquiario di Santa Fede(15); Rodez, dove si venerava sia il velo di Maria, sia la santa scarpa.
In Italia i luoghi più visitati furono: Roma, dove si venerava la tomba dei santi Pietro e Paolo; Loreto, dove si venerava la "Casa Santa" di Maria che, come vuole la tradizione, venne misteriosamente prelevata e trasportata dagli angeli dall’Asia Minore minacciata dagli infedeli(16); Orvieto, dove si venerava la reliquia del sangue di Cristo; Lucca, dove era custodita l’immagine in legno del Cristo detto "Santo Volto"(17); Bari, dove si venerava San Nicola; il Monte Gargano, dove si officiava il culto rivolto all’arcangelo Michele.
3. Nell’epoca moderna
Nella seconda metà del XV secolo, la devotio moderna favorì la nascita di pii esercizi il cui principale punto di riferimento fu l’umanità di Cristo. La più alta espressione di detta devozione fu la celeberrima opera De imitatione Christi.
Nel XVI secolo, poco dopo la chiusura del Concilio Lateranense V (1512-1517), imperversò in alcuni Paesi dell’Europa, l’avvento del protestantesimo avviato da Martin Lutero. Soggiogati dai principi luterani della sola fides e della sola Scriptura, negli Stati dove la riforma trovò terreno fertile, vacillarono i punti essenziali della dottrina cattolica.
Per la pietà popolare si prospettò un periodo decisamente incerto. I gesti più comuni come il culto a Maria, ai santi, la devozione eucaristica, i pellegrinaggi, iniziarono a scomparire.
In questa fase di confusione, fu affidato al Concilio di Trento (1545-1563) il compito di riportare l’equilibrio e l’ordine nei concetti. Il Sinodo, che seppe raccogliere il patrimonio delle forme devozionali tardo-medievali, riordinandolo nei contenuti, nella celebrazione e nei suoi protagonisti(18), promosse un’azione che mirò a correggere tutte le divergenze e deviazioni della pietà popolare; contemporaneamente tese ad elevarne il tono, rendendola degno strumento per ricondurre il popolo alla riscoperta delle verità di fede. Così purificata, la pietà popolare si rivelò un prezioso mezzo per combattere il protestantesimo e difendere la fede cattolica.
Contro la negazione luterana nei confronti della presenza eucaristica i gesuiti diffusero, all’inizio della seconda metà del XVI secolo, la pratica delle Quarantore, cioè l’esposizione solenne del Santissimo Sacramento per quaranta ore. La processione del Corpus Domini assunse un aspetto più solenne e, in Spagna, la Fiesta del Corpus, divenne la solennità più importante di tutte le feste religiose.
Nel contempo, riprese vigore la devozione verso la Madre di Dio. Si moltiplicarono le confraternite dedicate al suo nome, il rosario assunse la forma attuale(19), i pellegrinaggi verso mete mariane si intensificarono.
Sempre nello stesso periodo si organizzarono le missioni al popolo(20) che contribuirono alla diffusione dei pii esercizi i quali, in seguito ad approvazione ecclesiastica, furono raccolti in libretti di preghiera, diventati, poi, strumenti di propagazione cultuale.
Nel Seicento si affermò la complessa cultura barocca con tutti gli aspetti che la caratterizzarono e la distinsero. Un valido modello furono le processioni. Esse divennero più sontuose, più sfarzose, più lunghe, grazie anche alla partecipazione delle confraternite fattesi, in questo periodo storico, più numerose. Sempre nel XVII secolo si moltiplicarono le novene, i tridui e le preghiere.
Nel Settecento, il cosiddetto "secolo dei lumi", l’intero cristianesimo dovette lottare contro l’Illuminismo, soprattutto su due fronti: il razionalismo, che esaltava la ragione umana come unica fonte di conoscenza e di verità, disprezzando l’irrazionale cristianesimo che ostacolava il pieno sviluppo della persona e il materialismo, che negava ogni realtà spirituale come Dio, l’anima, le leggi morali, la vita dopo la morte.
Anche in questa lotta la Chiesa, assieme alla pietà popolare, ne uscì fortificata. Fiorirono le devozioni al Preziosissimo Sangue di Gesù, al suo Sacro Cuore con la pratica dei nove primi venerdì del mese.
Contemporaneamente un ulteriore sviluppo delle missioni popolari assicurò al popolo, mediante l’insegnamento del catechismo, la necessaria conoscenza delle verità di fede vissute, fino ad allora, in maniera piuttosto superficiale ed esteriore. E fu proprio la catechesi a caratterizzare l’azione evangelizzatrice e riformatrice di alcuni vescovi siciliani pastoralmente illuminati, missionariamente impegnati, catechisticamente preparati(21).
In tale prospettiva si collocava in Sicilia il catechismo, in lingua dialettale, del vescovo di Catania Salvatore Ventimiglia che, di fronte all’ignoranza e alla superstizione, vedeva nell’insegnamento della dottrina cristiana la condizione per la salvezza eterna. Riportiamo un breve stralcio del suo catechismo in cui si affermava:
D. Ccè obbligu pr’un Cristianu di sapiri la Duttrina Cristiana?
R. Ccè obbligu grannissimu.
D. Pirchì diciti ca cc’è obbligu grannissimu?
R. Pirchì s’un Cristianu nun sapi la Duttrina Cristiana, non avirà la saluti eterna, e sarà dannatu(22).
Ed, inoltre, per chiarire il significato di dottrina cristiana, il testo catechetico chiedeva:
D. Chi voli diri sapiri la Duttrina Cristiana?
R. Voli diri sapiri li cosi nicissari pri la saluti eterna.
D. Quali su ti cosi nicissari pri la saluti eterna?
R. Sunnu la fidi, la speranza e la carità. Cull’operi boni(23).
Sempre nel Settecento è da ricordare l’attività di Ludovico Antonio Muratori che seppe coniugare le nuove esigenze culturali proprie del tempo con la dottrina della Chiesa. Nella celebre opera Della regolata devozione dei cristiani egli propose una religiosità che, alimentata dalla liturgia e dalla Sacra Scrittura, si mantenesse lontana dagli abusi e dalle deformazioni.
L’Ottocento, per sua cultura, rivalutò il sentimento dell’uomo valorizzandone l’elemento popolare.
Si ebbe un risveglio sia della liturgia, sia della pietà popolare. Nacquero espressioni di culto locale legate ad eventi eccezionali come miracoli ed apparizioni. Ricordiamo soltanto l’apparizione della "Signora" alla giovanissima Bernardette Soubirous, avvenuta nel 1858 nella grotta detta di Massabielle, a circa un chilometro da Lourdes.
Iniziò la pratica del mese di maggio consacrato a Maria. Si affermò la devozione all’Immacolata Concezione grazie all’enunciazione della Costituzione dogmatica Ineffabilis Deus. Il beato papa Pio IX, l’8 dicembre 1854 nella Basilica Vaticana, definì il dogma dell’Immacolato Concepimento di Maria, mettendo così irrevocabilmente fine al lungo e travagliato processo storico-teologico che vide, peraltro, l’incessante ed accorata difesa del singolare privilegio della Vergine Maria da parte dei francescani.
Sul finire del XIX secolo, si accentuò il divario tra pietà popolare ed azioni liturgiche. Il papa San Pio X, per respingere questa nascente confusione, accelerò la nascita del cosiddetto movimento liturgico che si propose di favorire nei fedeli l’intelligenza e l’amore per la celebrazione dei divini misteri e di ridare loro la consapevolezza di appartenere ad un popolo sacerdotale(24).
Spetterà, in ogni modo, al Concilio Ecumenico Vaticano II riportare, in piena luce e in feconda collaborazione, il rapporto tra la pietà popolare e la liturgia.
In ogni religione la preghiera è il gesto centrale(25) attraverso cui l’uomo si rivolge a Dio con il desiderio di accostarsi a Lui.
Per i cristiani la preghiera diventa un atteggiamento incessante di adorazione. I credenti, come figli di Dio, s’incamminano verso una relazione personale e viva con il loro Padre infinitamente buono(26); dialogano con Lui da persona a persona, viso a viso, cuore a cuore(27).
Nelle preghiere popolari, inoltre, emerge una grande umanità, frutto di una fede autentica e semplice del popolo, della sua coscienza religiosa che sente sempre la necessità di porsi in relazione con Dio.
La gente, con il suo modo di essere e di sentire, esprime con immediatezza i caratteri fondamentali della propria fede vissuta con naturalezza in tutto l’anno liturgico. Dalle sue labbra sgorgano suppliche nel momento della prova, dello scoramento, della morte, ma anche lodi di ringraziamento nei momenti di gioia e di festa. In ogni caso, comunque, attraverso la loro elevazione, si pone in essere il senso teocentrico dell’esistenza umana.
Nel volume Patri, Figliu e Spiritu Santu (di nuova pubblicazione), si sono volute raccogliere le orazioni sacre della tradizione popolare gangitana - i cosi di Dia, come tuttora li amano definire le generazioni più anziane -, unicamente per compiere un’opera che si vuole definire di salvataggio, volto a sottrarre dall’oblìo un bagaglio religioso e culturale, espressione di quell’anima cristiana che sottostava come radice di cultura e di tradizioni ben collaudate nel nostro popolo.
Nell’intraprendere la ricerca non ci si è certo imbattuti in una letteratura popolare frutto della creatività di autori ben definiti. Autore, protagonista e vero soggetto è tutto un popolo che, col trascorrere dei secoli, ha creato e custodito un patrimonio di preghiere in lingua dialettale anche se ad esso, in realtà, si sono spesso aggiunte delle acquisizioni italianeggianti.
Il dialetto, certamente, non è una lingua che vincola a rigide obbedienze, anzi, offre ad ognuno la possibilità di continui rifacimenti, per cui non esistendo una tradizione scritta tutto è affidato alla sola trasmissione orale; conseguentemente, per una stessa preghiera, è stato possibile trovare diverse versioni, molto spesso anche soggettive, adattate al modo di percepire dello stesso ricevente.
Una raccolta di esercizi di pietà, come quella che si vuole offrire in questo contributo, ci costringerà a riconsiderare alcuni temi che per lungo tempo sono stati lasciati nell’ombra, forse perché scomodi, scartati magari con una battuta di spirito o con un sorriso di sufficienza.
Roberto Franco
Preghiere
Preghiere del mattino e della sera
Signuri, vi ladu e vi ringraziu
di quanti grazii m’atu datu,
na bona e santa nuttata;
accussì vi prigu stamatina
di dàrimi na bona e santa iurnata
ppi amari e servìri a vui.
Signore, vi lodo e vi ringrazio / di quante grazie mi avete dato, / una buona e santa notte; / così vi prego stamattina / di darmi una buona e santa giornata / per amare e servire a voi.
Ia sacciu la curcata,
ma nun sacciu la livata,
l’arma mia nun cunfissata
a vossia la raccumannu,
bedda Matri Immaculata.
Io so quando mi corico, / ma non so se mi sveglierò, / l’anima mia non confessata / a voi la raccomando, / bella Madre Immacolata.
Nta lu littu mi curcu ia
ccu quattru ancili di Dia:
dui a la testa e dui a li pidi,
nta lu minzu San Micheli,
a lu latu l’Ancilu Santu,
Patri, Figliu e Spiritu Santu.
Io mi corico nel letto / con quattro angeli di Dio: / due alla testa e due ai piedi, / in mezzo San Michele, / a lato l’Angelo Custode, / Padre, Figlio e Spirito Santo.
Ia nun mi curcu sula,
ma mi curcu accumpagnata
ccu quattru ancili ncapu u littu
e Maria supra lu pittu,
ia durmu e iddi viglianu,
si c’è cosa mi sdruviglianu.
Io non mi corico sola, / ma mi corico accompagnata / con quattro angeli sopra il letto / e Maria sopra il petto, / io dormo e loro vegliano, / se c’è necessità mi svegliano.
Preghiera alla Santissima Trinità
Salutamu e prigamu
a Santissima Tirnità
ppi li grazii cuncessi
a Maria Santissima.
Gloria ô Patri, ô Figliu,
ô Spiritu Santu,
accussì sarà
ppi tutta l’eternità.
Salutiamo e preghiamo / la Santissima Trinità / per le grazie concesse / a Maria Santissima. / Gloria al Padre, / al Figlio / allo Spirito Santo, / così sarà / per tutta l’eternità.
Preghiera a Nostro Signore Gesù Cristo
Binidici, o Signuri,
tutti i carusi dû munnu
e tutti gl’ùmini dâ terra
e fa ca si vunu beni cumu i frati.
Grazie, o Signuri,
ca mi dasti a menti ppi pinsari,
i manu ppi travagliari,
u cori pp’amari.
Benedici, o Signore, / tutti i bambini del mondo / e tutti gli uomini della terra / e fai che si vogliano bene come fratelli. / Grazie, o Signore, / per avermi dato l’intelligenza per pensare, / le mani per lavorare, / il cuore per amare.
Preghiera prima della Santa Comunione
Ràpiti porta di lu cori mia
vidica veni lu divinu Dia,
veni ccu la Vergini Maria,
fatti ncuntru armuzza mia.
Apriti porta del mio cuore / bada che viene il divino Dio, / viene con la Vergine Maria, / vai incontro anima mia.
Preghiere a Maria Santissima
Bedda Matri di la Grazia,
siti china e siti sazia,
Riggina di lu cilu,
culonna di lu mari.
A vinutu na puvuredda,
si a vuliti cunsulari,
ppi li tridici scaluna
c’acchianastivu ncunucchiuni,
ppi li tridici paroli
ca dicistivu a lu Signuri,
diciticcinni una ppi mia
ca vi dicu na Ffimmaria.
Bella Madre della Grazia, / siete piena e siete appagata, / Regina del cielo, / colonna del mare. / È venuta una poverella, / se la volte consolare, / per i tredici scalini / che avete salito in ginocchio, / per le tredici parole / che avete detto al Signore, / ditene una per me / che io vi dico un’Ave Maria.
Bedda Matri di la Catina,
siti stidda mattutina,
siti rosa senza spina,
tanti petali c’aviti,
tanti grazii cunciditi,
cunciditini una a mia
ca vi dicu na Ffimmaria.
Bella Madre della Catena, / siete stella mattutina, / siete rosa senza spine, / tanti petali che avete, / tante grazie concedete, / concedetene una a me / che vi dico un’Ave Maria.
Vui sula sacratissima Signura
fustivu senza macula Cuncetta,
lu munnu tinibrusu illuminastivu
quannu l’Ancilu Domini ricivistivu.
Voi sola sacratissima Signora / siete stata concepita senza macchia, / il mondo tenebroso avete illuminato / quando l’Angelo del Signore avete ricevuto.
Preghiera a San Michele Arcangelo
San Michele arcancilu miu dilettu,
viniti dda ma casa ca v’aspittu,
viniti ccu tanta rivirenza,
purtatimi saluti e pruvvidenza.
San Michele arcangelo mio diletto, / venite nella mia casa che vi aspetto, / venite con tanta riverenza, / portatemi salute e provvidenza.
NOTE
(*) Questo intervento è un breve stralcio del libro: Patri, Figliu e Spiritu Santu… Viaggio alla scoperta delle preghiere popolari recitate a Gangi (in corso di pubblicazione), a cura di Roberto Franco e Salvatore Germanà, Edizioni Arianna.
(1) Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, n. 23.
(2) Cfr. G. De Rosa, Che cos’è la "religione popolare"?, in "La Civiltà Cattolica", 130 (1979) II, p. 121.
(3) F. Cardini, Il fiorire dei pellegrinaggi in età medievale. Tra pietà e richiesta di grazie, in "CredereOggi", XV(1995/3)87, p. 44.
(4) Cfr. C. Maggioni, Cosa significa "educare alla pietà popolare" a partire da Sacrosanctum Concilium 13, in "Rivista Liturgica", LXXXIX (2002) 6, p. 971.
(5) Considerare l’arte semplicemente come "Bibbia dei poveri" può risultare riduttivo. Per chiarezza e completezza di esposizione si deve segnalare il fatto che la Chiesa di Roma, fin dal VII secolo, ha visto nell’arte un prezioso "instrumentum Evangelii": Lia P., Dire Dio con arte. Un approccio teologico al linguaggio artistico, Milano, Àncora, 2003, p. 9.
Papa Wojtyla, in sintonia con i suoi predecessori, sottolineava: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile": Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, in EV 18, n. 438.
(6) La diffusione di questa preghiera mariana è da attribuirsi ai francescani. Fu lo stesso Francesco d’Assisi, secondo la testimonianza di Enrico d’Avranches, ad insegnare ai suoi frati la recita dell’Ave Maria con questa forma: O pia mater, ave, Maria, charismate plena / Sit Dominus tecum, mulieribus in benedicta / Tu, ventrisque tui fructus benedictus. S. M. Cecchin, Maria Signora Santa e Immacolata nel pensiero francescano, Città del Vaticano, PAMI, 2001, p. 32.
(6) L’Angelus Domini si diffuse sin dal XIII secolo sempre ad opera dell’Ordine francescano. Ivi, p. 33.
(8) G. Duns Scoto, Antologia, a cura di Lauriola G., Aga Alberobello, Alberobello 1996, p. 217.
(9) La testimonianza scritta dal domenicano pisano Domenico Cavalca nello Specchio de croce, sintetizza l’importanza dei messaggi lanciati dalle immagini: "Perho che Christo crucifixo ne mostra et insegna ogni perfectione et ogni scientia utile, possiamo veramente dire ch’egli è libro di vita nel quale ogni seculare idiota e d’ogni altra conditione può leggere e vedere la legge tutta abbreviata. Perho che Christo in croce observò tutti gli comandamenti e compite e fece intendere tutte le prophetie, et adimpì tutte le promissione di lui facte a gli sancti padri e patriarchi e misse in opera quello che predicò; e perho chi ben studia leggermente impara tutta la Bibia": C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, Storia d’Italia 1. I caratteri originari, Torino, Einaudi, 1972, p. 621.
(10) G. Pitrè, Delle sacre rappresentazioni in Sicilia, "Nuove Effemeridi siciliane", serie terza, vol. 1, Luigi Pedone Lauriel, Palermo 1876, p. 129.
(11) Cfr. S. Pietrini, Il tempo dei misteri, in "Medioevo", VIII(2004)4, pp. 78-80.
(12) J. Le Goff, Alla ricerca del Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 95.
(13) Cfr. F. Cardini, Il fiorire dei pellegrinaggi in età medievale. Tra pietà e richiesta di grazie, in "CredereOggi", XV(1995/3)87, p.49.
(14) "La danza della morte" (Ad mortem festinamus) era una sorta di danza macabra, probabilmente ispirata dalla pestilenza del 1347-48, che colpì tutta l’Europa. Il canto è contenuto, insieme ad altre nove canzoni dedicate alla Vergine, all’interno del Llibre Vermell (Libro Vermiglio), un prezioso codice medievale del monastero benedettino di Montserrat.
(15) F. Cardini, Il fiorire dei pellegrinaggi in età medievale. Tra pietà e richiesta di grazie, in "CredereOggi", XV(1995/3)87, p. 48.
(16) Ibidem.
(17) Ibidem.
(18) V. Soncini, Spiritualità, devozioni, trasmissione della fede, in "La Rivista del Clero italiano", LXXXIII (2002) 11, p. 777.
(19) La forma sostanzialmente non dissimile da quella in uso oggi è stata consacrata definitivamente da papa San Pio V il 17 settembre 1569, mediante la Bolla Consueverunt romani Pontifices. Paolo VI, Recurrens mensis october. Esortazione apostolica, 7 ottobre 1969, in EV 3, n. 1611.
(20) Esemplare l’azione di alcuni predicatori delle missioni popolari. Ricordiamo Sant’Alfonso dè Liguori e i redentoristi da lui fondati, i gesuiti, i francescani, i passionisti.
(21) Ricordiamo il Gioeni e il Lucchesi Palli ad Agrigento, il Ventimiglia a Catania, il Di Blasi a Messina, il Testa a Monreale, il Papiniano Cusani e il Filangeri a Palermo, il De Requesens a Siracusa. V. Sorce, Inculturazione e fede. L’esperienza della Sicilia, Torino , SEI, 1996, p. 26.
(22) G. Zito, L’influsso della predicazione religiosa sull’immagine popolare del Cristo nel Settecento in Sicilia. Atti del Convegno: Catania 22-23 Aprile 1999, "Quaderni di Synaxis" 4, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2000, p. 122.
(23) V. Sorce, Inculturazione e fede. L’esperienza della Sicilia, Torino, SEI, 1996, p. 33.
(24) Cfr. Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, Direttorio su pietà popolare e liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2002, n. 46.
(25) Catechismo degli adulti, La verità vi farà liberi, 16 aprile 1995, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1995, n. 965.
(26) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 11 ottobre 1992, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, nn. 2558; 2565; 2590.
(27) Cfr. Catechismo degli adulti, La verità vi farà liberi, 16 aprile 1995, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1995, n. 966.
I. La riscossa della monarchia
Furono in molti a stupirsi per il risultato che la monarchia riportò nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Sull’esito erano in pochi a nutrire dubbi: nel clima avvelenato di quei mesi la vittoria della repubblica avrebbe dovuto essere tanto netta e schiacciante da far risultare inequivocabile la condanna del popolo italiano della monarchia, rea di aver colluso con il fascismo e di aver trascinato l’Italia in una guerra rovinosa. Ad avvalorare tali pronostici contribuirono notevolmente pure i risultati delle precedenti elezioni amministrative. In 5.580 comuni solamente l’1,9% dei seggi era andato ai partiti monarchici, mentre i partiti repubblicani avevano raggiunto il 42%, gli indipendenti l’11% ed i partiti di centro (DC e PLI) il 41% complessivo(1). Nella migliore delle ipotesi per i monarchici almeno un terzo degli elettori di centro potevano ritenersi a favore della repubblica: il quadro della situazione era per essi piuttosto sconfortante.
Quando il 25 luglio 1943 si seppe che il Re aveva destituito formalmente Mussolini sostituendolo con Badoglio, Roma acclamò Vittorio Emanuele III e per la città vennero esposte sue immagini e lo stemma sabaudo. Questa ondata di entusiasmo era giustificata dalla sensazione che la fine della guerra fosse imminente ed in quel momento era l’unica cosa che contasse veramente per la popolazione sfinita dai lunghi mesi della guerra, tanto più che pochi giorni prima, il 19 luglio, Roma era stata sottoposta ad un violento bombardamento da parte degli Alleati. Invece la guerra proseguì e la disillusione che la gente ebbe al proclama di Badoglio sulla sua continuazione non giovò di certo all’immagine del re. Ancor meno giovò, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, la clamorosa fuga a Pescara inscenata dal re, dal principe ereditario Umberto e da Badoglio, attuata con l’evidente scopo di sottrarsi alla prevedibile ritorsione dei tedeschi. Anche il capo di stato maggiore dell’esercito Roatta ed il capo di stato maggiore generale Ambrosio seguirono il re e Badoglio. Tale abbandono ebbe prevedibilmente ripercussioni sia sul morale dei combattenti che sull’organizzazione delle operazioni militari. Prima della fuga Roatta firmò un ordine di concentrazione delle truppe corazzate su Tivoli, dove non vi erano forze nemiche, lasciando Roma indifesa(2). È probabile che Roatta mirasse a proteggere le spalle al re in fuga più che a proteggere la popolazione. Tale abbandono del campo da parte di Vittorio Emanuele III è stato visto certamente come un atto di viltà che ne che minò pesantemente il senso di autorità. Secondo Melograni(3) fu proprio in quei drammatici giorni che ebbe inizio il grande processo alla monarchia. Gli oltre dieci milioni di suffragi avuti dalla casa regnante quasi tre anni dopo dimostrarono che l’attaccamento del popolo italiano ai Savoia non era stato del tutto cancellato dalle sofferenze della guerra persa. È possibile che il passare del tempo, allontanando il ricordo dell’8 settembre, affievolisse le passioni e favorisse una ripresa dei consensi alla monarchia. Domenico Bartoli(4) ritiene che lo stesso re Umberto II (luogotenente fino all’abdicazione del padre) favorì tale rimonta. L’atteggiamento di Umberto in un clima fortemente ostile alla monarchia fu improntato alla massima regalità. Accettò insulti e offese con grande serenità, ricevette tutti i ministri del governo sempre con il sorriso ed una affabilità disarmante; dovette firmare anche leggi per lui ripugnanti, ma lo fece con paziente rassegnazione, senza creare scontri con i partiti. Questo atteggiamento garbato contribuì non poco a risollevare la monarchia. Lo stesso autore ritiene sia stato un errore la mancata partecipazione, pur simbolica, della casa regnante alla resistenza nel periodo della lotta di liberazione. Ma sostanzialmente Bartoli evidenzia quanto il contributo di Umberto fosse stato importante nella rimonta monarchica. Alla vigilia del voto egli fece una promessa solenne. Dichiarò che in caso di successo monarchico al referendum, non appena la costituente avesse "assolto al suo compito", avrebbe indetto un nuovo referendum sulla questione istituzionale. Nelle parole del proclama vi sono, implicite, anche le motivazioni: "Allora molte passioni si saranno placate; molti che oggi sono perplessi avranno avuto il tempo per fare una scelta ponderata. Allora potranno partecipare alla consultazione - come ognuno di noi fervidamente desidera - tutti i cittadini italiani, anche quelli dei territori di frontiera, oggi esclusi dal diritto di voto, anche i prigionieri di guerra che ancora attendono di ritornare alle loro case"(5). Così il re faceva leva ancora sull’ incompletezza della consultazione, ma l’abilità della mossa fu nello sdrammatizzare il referendum promettendone un altro e dare così agli incerti la possibilità di una prova d’ appello se la monarchia avesse vinto(6). Anche gli avversari della corona, a ridosso del referendum, ebbero la sensazione di quanto la real Casa si fosse risollevata. E prova ne fu l’energica protesta di Togliatti alla notizia dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, al quale succedeva automaticamente il figlio Umberto II. A circa un mese dalle elezioni la mossa del re aveva chiaramente il fine di favorire la dinastia togliendo di mezzo l’ uomo che aveva "collaborato" "con il fascismo, ed il leader comunista non esitò a definirla l’"ultima fellonia di casa Savoia". Dietro tale protesta è difficile non cogliere la preoccupazione di chi sapeva che era in atto una rimonta monarchica e che l’ abdicazione del "re fascista" l’avrebbe potuta accelerare. Questa sensazione non doveva essere estranea neppure allo stesso Umberto ed ai suoi consiglieri che cercarono di far rinviare la data del referendum sottolineando che le urne sarebbero state forzatamente disertate da centinaia di migliaia di prigionieri in attesa del rimpatrio, nonché dai cittadini della Venezia Giulia e del Trentino Alto Adige. Si può presumere che i reduci militari avrebbero votato per il re, essendo tradizionalmente legati all’ istituto monarchico. Gli alleati, che in precedenza erano stati determinanti in merito alla decisione di risolvere la questione istituzionale con il referendum, non appoggiarono ulteriormente la monarchia per il rischio di creare attriti troppo forti con i partiti repubblicani. Può essere un’altra prova della percezione di una rimonta monarchica e che il fattore tempo giocasse in favore del re. Dunque l’esito del referendum non era più scontato.
II. La posizione del Vaticano e la politica della DC in merito alla questione istituzionale
Come ricorda Melograni(7), in mesi così concitati e difficili le passioni avevano la meglio su ogni altro tipo di valutazione; così la monarchia trasse sicuro vantaggio dall’assopimento nel tempo della forte ostilità nei suoi confronti procurata dalla continuazione della guerra e dall’infamante fuga dopo l’armistizio. Ma intorno al ribollire delle passioni vi fu una serie di manovre per incanalarle a vantaggio dell’una o dell’altra parte. L’esito finale della consultazione referendaria ha evidenziato quanto esigua fosse la maggioranza dei voti dati alla repubblica. In una situazione di sostanziale equilibrio qualsiasi avvenimento, situazione o decisione poteva avere nell’ambito della contesa un peso importante. Quando fu certo che la scelta istituzionale sarebbe stata demandata ad un referendum popolare, il re tentò di procurarsi l’appoggio della Chiesa, che avrebbe potuto indirizzare decisamente il voto di milioni di cattolici italiani. Una certa tradizione pubblicistica ritiene che la Chiesa durante quei mesi rimase sostanzialmente neutrale. Anche la stampa cattolica di allora proclamava con fierezza l’assoluta imparzialità nella scelta istituzionale. Un’analisi sufficientemente approfondita evidenzia, però, quanto sia superficiale attribuire alla Chiesa cattolica una totale astensione dalla contesa tra monarchia e repubblica. Certo non vi fu una posizione ufficiale né un appoggio totale e manifesto, ma è difficile sostenere l’estraneità della Chiesa nel risultato conseguito dalla monarchia. Mi sembra si possa sostenere, invece, che una certa stampa cattolica del tempo, al di là di una neutralità di facciata, proponesse tesi di intonazione chiaramente monarchica. È questo per esempio che si evince scorrendo alcune note e chiose apparse a fine ’45 su "Civiltà Cattolica", nello spazio titolato Cronaca contemporanea. In data 20 ottobre 1945 si parla di un discorso del Presidente del Consiglio Parri, da questi concluso in invettive contro fascismo e monarchia, suscitando gli applausi dei sostenitori delle sinistre, ma non dei sostenitori della DC e della destra. Il 1° dicembre "Civiltà Cattolica" si schierò apertamente contro l’Esecutivo Parri, reo di aver scritto che la permanenza della monarchia avrebbe significato la guerra civile. In una nota del 15 dicembre dello stesso anno il periodico dichiara, senza troppa convinzione, essere false le voci in merito ad un presunto veto del Vaticano al ritorno in Italia dall’America di don Sturzo, che aveva assunto una posizione repubblicana, ma ricorda che il Concordato sanciva il divieto assoluto per i sacerdoti di iscriversi e militare in un qualsiasi partito politico. E ancora più decisa mi sembra la posizione del periodico cattolico pochi giorni prima del referendum, quando criticò quei democristiani che si frammisero tra le bandiere comuniste a manifestare per la repubblica(8).
Una lettera apostolica di Pio XII, indirizzata al cardinale Luigi Lavitrano, presidente della commissione ecclesiastica per l’alta direzione dell’Azione Cattolica Italiana, in occasione della diciannovesima Settimana sociale (Firenze 22-28 ottobre 1945), spiega i timori del Pontefice sulla diffusa brama di novità in campo politico, timori giustificati dal fatto che non sempre "la novità delle leggi è fonte di salute del popolo" e che anzi le "radicali innovazioni" sono indice di oblio della propria storia e di un popolo permeabile a strane influenze e "idee non meditate". Da qui l’esortazione ai cattolici di rimanere fedeli alle migliori e provate tradizioni spirituali e giuridiche(9). Interessante è pure l’articolo, apparso alla vigilia del voto, di monsignor Pietro Barbieri sulla rivista "Idea" da lui diretta e fondata(10). Lo scritto mette in un piano di parità repubblica e monarchia come istituzioni e pone l’accento sull’importanza dei loro rappresentanti. E nella situazione italiana, secondo monsignor Barbieri, difficilmente si avrà attuazione di una buona repubblica, anzi, essa porterebbe "nuovi e gravi" problemi e mutamenti costituzionali che avranno notevoli conseguenze sull’ordine economico e sociale. Il giorno prima del voto Pio XII, in una "allocuzione al S. Collegio sulla condizioni presenti nel mondo e della Chiesa"(11) dichiarò che le forze dell’ateismo si adoperavano per condurre gli uomini verso mete tenute nascoste sotto false sembianze. Inoltre ricordò i reduci di guerra e quelli tenuti ancora in prigionia, tema sul quale avevano fatto leva i monarchici nel già ricordato tentativo di posticipare la data del referendum. Urettini, in un’opera apposita(12), ci parla di comitati elettorali cattolici sorti nel trevigiano e ci dice che nel marzo 1946 una circolare ordinava a tali comitati di procurarsi l’elenco degli elettori delle varie parrocchie e segnare con una crocetta colorata quelli che presumibilmente avrebbero votato per il partito cristiano; doveva seguire poi la visita alle famiglie per insegnare a votare, e ancora l’elenco di vecchi e ammalati per procurare loro un trasporto il giorno delle elezioni. È evidente che interesse della Chiesa fosse soprattutto la sorte elettorale della Democrazia Cristiana, ma da quanto esposto sembra altresì chiaro l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche alla corona. A conferma della tendenza della Chiesa in favore della monarchia credo sia illuminante l’episodio, già citato, del mancato ritorno in Italia di don Luigi Sturzo, esule in America. La posizione repubblicana del fondatore del PPI era ben nota. Nell’agosto del 1945 scrisse dagli USA una lettera a De Gasperi in cui si diceva sicuro del successo della repubblica, e anzi riteneva non necessario il referendum per la scelta istituzionale, in quanto avrebbe dovuto essere l’Assemblea Costituente eletta a decidere la forma istituzionale dell’Italia(13). Inoltre ammoniva De Gasperi che una eventuale scelta del partito di non appoggiare la repubblica gli avrebbe fatto perdere autorità nell’ambito della Costituente e spinto a destra tutta la DC.
Nell’ottobre del 1945 don Sturzo decise di tornare in Italia ma, valigie pronte, arrivò il veto del Vaticano, comunicatogli dal Delegato Apostolico a Washington Amleto Cicognani. De Gasperi, in una successiva lettera a don Sturzo(14), ne spiega chiaramente le ragioni: la sua ben nota posizione sulla questione istituzionale avrebbe rotto la neutralità della Chiesa, considerato il seguito e il prestigio che egli aveva. In definitiva, è presumibile che l’organizzazione gerarchica, periferica e capillare della Chiesa giovasse senz’altro alla causa del re, se non altro perché la monarchia veniva vista come un baluardo nei confronti del comunismo che stava dilagando in Europa. Ma è pur vero che la mobilitazione della Chiesa a favore della monarchia non fu né totale né massiccia come è stato per la DC e ancor più per la DC nelle elezioni del 18 aprile 1948. Come ricorda Jemolo(15), la maggioranza del clero votò monarchia, ma l’autorità ecclesiastica mai prospettò ai cattolici di votare monarchia come un dovere di coscienza. Ed è sicuramente lecito chiedersi se un appoggio più deciso della Chiesa a casa Savoia non ne avrebbe potuto determinare la vittoria, visto lo scarto che ne ha sancito invece la sconfitta. Probabilmente lo stesso re non si aspettò niente di più dal Vaticano. Del resto, al di là della paura del comunismo, non c’era tanto altro, se non a livello simbolico, che legasse la Chiesa alla Casa reale. Come ci ricorda Melograni(16), l’unità d’Italia si realizzò proprio con una guerra contro il Papa nel 1870. Pio IX allora scomunicò i Savoia, ed essi nei primi anni post unitari dovettero accollarsi anche il conflitto con la Chiesa di Roma, oltre che i problemi logistici dovuti alle profonde diversità socio-economiche della penisola. Nel 1878, in punto di morte, Vittorio Emanuele II chiese i sacramenti al canonico della Chiesa dei SS. Vincenzo e SS. Anastasio, ma questi inizialmente si rifiutò. L’eventuale liquidazione della monarchia poteva dunque essere vista pure come una storica vittoria della Chiesa nel contrasto con lo stato sviluppatosi durante il processo unitario. Certamente nel 1913, con il patto Gentiloni, le organizzazioni cattoliche erano rientrate nella vita politica, e nel 1929 il Concordato aveva sancito la riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, ma la "vecchia ruggine"(17) non si era cancellata del tutto. Domenico Bartoli(18) pone invece l’accento su una sorta di "antagonismo" fra la corona e la Chiesa nel dividersi il sentimento di devozione del popolo italiano. E lo stesso Melograni(19) afferma che casa Savoia poteva rappresentare un contrappeso al potere carismatico del Pontefice; venendo meno la popolarità del re tutta la devozione popolare si sarebbe indirizzata verso il Papa, come accadde il giorno della ritirata dei tedeschi da Roma, allorché vi fu un’immensa adunata in piazza S. Pietro per acclamare Pio XII.
Un appoggio della Chiesa alla monarchia meno ambiguo e nascosto, come ci ricorda Brucculeri,(20) non vi fu anche perché la vittoria repubblicana era data per certa, anche se forse sempre meno con il passare del tempo. Si preferì dunque concentrare gli sforzi nel favorire il successo del partito cattolico alla Costituente. Per Carlo Arturo Jemolo(21) sembra esserci anzi quasi un nesso causale tra la caduta della monarchia e la seguente egemonia politica dei cattolici.
La Democrazia Cristiana, sotto la sapiente conduzione di Alcide De Gasperi, in merito alla questione istituzionale ebbe per lungo tempo una posizione di neutralità del tutto simile, a mio avviso, a quella della Chiesa. Del resto un partito di ispirazione cristiana non poteva non risentire delle posizioni del Vaticano nei momenti delle scelte cruciali, ma, come vedremo, la DC fu un interlocutore privilegiato degli alleati ed è indubbio che essi ne condizionarono fortemente la politica. Un referendum interno alla DC svoltosi in occasione del Congresso Nazionale di Roma tra il 18 ed il 24 aprile del 1946 dette un risultato ampiamente favorevole alla repubblica, che ottenne 503.085 consensi contro i 146.081 della monarchia, mentre 187.660 si dichiararono agnostici(22). Un tale risultato autorizzava a credere che la DC avrebbe attuato una politica di pieno appoggio ai partiti ad orientamento repubblicano. Ma i condizionamenti cui era sottoposto il maggior partito italiano ed il suo segretario furono molteplici e vari.
Il segretario della DC, e capo del governo, De Gasperi finì con l’assumere un ruolo di arbitro tra le parti, in questo certamente influenzato dalle decisioni degli alleati e dal volere delle alte gerarchie ecclesiastiche. Così si vedrà come anche l’ambigua neutralità della DC si risolverà, in alcuni casi, in una parzialità a favore della monarchia. Ciò che emerge dalle testimonianze, dai discorsi, e dalle manovre di De Gasperi, è come la DC rappresentasse in quel tempo la forza sulla quale puntavano tanto gli alleati quanto la Chiesa per garantire all’Italia un posto sicuro nel campo occidentale dello scacchiere internazionale che si andava definendo e l’egemonia dei cattolici in politica interna. Partiamo dal dato elettorale. Come lucidamente dimostrò Felice Platone su "Rinascita", organo del PCI, in un articolo riportato anche in una raccolta di saggi curata da Enzo Santarelli(23), il 2 giugno nelle schede riguardanti la Costituente la DC riportò 8.102.828 voti mentre i partiti monarchici e di destra andarono di poco oltre i quattro milioni; avendo riportato la monarchia 10.719.502 voti, risulta evidente che più di sei milioni dei votanti DC si espressero per la monarchia. Così nonostante la pronuncia repubblicana scaturita al congresso della DC, ben 2/3 dei suoi elettori votarono monarchia. In questa marcata incoerenza vi stanno tutte le contraddizioni, le esitazioni, i contrasti interni, i condizionamenti che gravavano allora sul partito cattolico. In un contesto così complicato emerse l’autorevole guida di Alcide De Gasperi. È vero che egli non poté trascurare il parere degli alleati o quello della Chiesa, né poté sottrarsi a varie pressioni interne ed esterne al suo partito, ma lo statista trentino riuscì comunque a ritagliarsi un margine di autonomia, che seppe gestire con profondo realismo e che gli consentì di servire meglio i suoi ideali cattolici. Del resto le affermazioni elettorali della DC del dopoguerra non possono essere disgiunte dall’opera di De Gasperi. Pietro Scoppola(24) ritiene che De Gasperi fu uomo attento più alla realtà politica che alle ideologie, ed anche lo spinoso problema istituzionale si pose per lui in termini concreti e storici. Lo stesso Scoppola evidenzia come De Gasperi abbia ricevuto una formazione austriaca, al contrario di Sturzo, che aveva vissuto esule in regimi repubblicani (Francia e USA). Dai suoi studi sulla tradizione cattolico-liberale francese aveva ereditato una relativa indifferenza per la forma istituzionale, ma non aveva alcuna simpatia per i Savoia, soprattutto in ricordo delle collusioni con il regime(25).
La scelta istituzionale non aveva dunque, per De Gasperi, una valenza ideologica, né egli vedeva nello scontro una portata drammatica. Credo che su questo aspetto ben renda l’idea la testimonianza della figlia Maria Romana(26), la quale affermò che lei ed il padre votarono per la repubblica, la zia per la monarchia e la madre non lo dichiarò mai "lasciando a noi repubblicani l’illusione di una maggioranza". Ritengo che ciò faccia comprendere la serenità che regnava in casa De Gasperi in merito alla scelta istituzionale. Anche l’"Osservatore Romano" ci riferisce in una cronaca del 1 giugno ’46 di un discorso elettorale di De Gasperi in cui egli tende a sdrammatizzare la questione istituzionale e dare ben altra importanza alla "sostanza costituzionale". La vera preoccupazione del leader democristiano è espressa nella lettera da lui inviata a don Sturzo in data 26 ottobre 1945 e riportata nell’appendice documentaria dell’opera biografica della figlia Maria Romana(27). Egli fa capire che lo scopo della sua politica ("rebus") è quello di "come impedire l’avvento di una maggioranza social-comunista". E come spiega espressamente a don Sturzo, il rischio da evitare era quello di "buttare" a destra i cattolici conservatori; e per questo gli risulta "difficile trovare la strategia giusta". In queste righe della lettera a don Luigi Sturzo vi è il condizionamento o il movente principale della politica degasperiana, in piena sintonia con gli alleati e il Vaticano. Ma ancor prima, in una lettera del 15 giugno 1944(28), De Gasperi espresse a don Sturzo tutta la sua preoccupazione che la questione istituzionale potesse spaccare il partito, nonché quanto difficile fosse per lui mantenere "la tregua" tra le correnti cattolico-monarchiche e quelle repubblicane. Il 18 agosto(29) scrisse sempre a don Sturzo la difficoltà di "unire tutti i democristiani e sollevarli al di sopra della questione contingente della forma statale", e come i repubblicani "a qualunque costo" gli creassero "imbarazzi", così come i monarchici. Fatta questa doverosa premessa, credo si possano giudicare meglio le manovre di De Gasperi e tutta la politica della DC nei mesi che precedettero il referendum istituzionale e gli immediati giorni che lo seguirono. Il relativo disinteresse per la scelta istituzionale non comportò però un’assoluta neutralità del partito cattolico.
Una lettera apostolica di Pio XII, indirizzata al cardinale Luigi Lavitrano, presidente della commissione ecclesiastica per l’alta direzione dell’Azione Cattolica Italiana, in occasione della diciannovesima Settimana sociale (Firenze 22-28 ottobre 1945), spiega i timori del Pontefice sulla diffusa brama di novità in campo politico, timori giustificati dal fatto che non sempre "la novità delle leggi è fonte di salute del popolo" e che anzi le "radicali innovazioni" sono indice di oblio della propria storia e di un popolo permeabile a strane influenze e "idee non meditate". Da qui l’esortazione ai cattolici di rimanere fedeli alle migliori e provate tradizioni spirituali e giuridiche(9). Interessante è pure l’articolo, apparso alla vigilia del voto, di monsignor Pietro Barbieri sulla rivista "Idea" da lui diretta e fondata(10). Lo scritto mette in un piano di parità repubblica e monarchia come istituzioni e pone l’accento sull’importanza dei loro rappresentanti. E nella situazione italiana, secondo monsignor Barbieri, difficilmente si avrà attuazione di una buona repubblica, anzi, essa porterebbe "nuovi e gravi" problemi e mutamenti costituzionali che avranno notevoli conseguenze sull’ordine economico e sociale. Il giorno prima del voto Pio XII, in una "allocuzione al S. Collegio sulla condizioni presenti nel mondo e della Chiesa"(11) dichiarò che le forze dell’ateismo si adoperavano per condurre gli uomini verso mete tenute nascoste sotto false sembianze. Inoltre ricordò i reduci di guerra e quelli tenuti ancora in prigionia, tema sul quale avevano fatto leva i monarchici nel già ricordato tentativo di posticipare la data del referendum. Urettini, in un’opera apposita(12), ci parla di comitati elettorali cattolici sorti nel trevigiano e ci dice che nel marzo 1946 una circolare ordinava a tali comitati di procurarsi l’elenco degli elettori delle varie parrocchie e segnare con una crocetta colorata quelli che presumibilmente avrebbero votato per il partito cristiano; doveva seguire poi la visita alle famiglie per insegnare a votare, e ancora l’elenco di vecchi e ammalati per procurare loro un trasporto il giorno delle elezioni. È evidente che interesse della Chiesa fosse soprattutto la sorte elettorale della Democrazia Cristiana, ma da quanto esposto sembra altresì chiaro l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche alla corona. A conferma della tendenza della Chiesa in favore della monarchia credo sia illuminante l’episodio, già citato, del mancato ritorno in Italia di don Luigi Sturzo, esule in America. La posizione repubblicana del fondatore del PPI era ben nota. Nell’agosto del 1945 scrisse dagli USA una lettera a De Gasperi in cui si diceva sicuro del successo della repubblica, e anzi riteneva non necessario il referendum per la scelta istituzionale, in quanto avrebbe dovuto essere l’Assemblea Costituente eletta a decidere la forma istituzionale dell’Italia(13). Inoltre ammoniva De Gasperi che una eventuale scelta del partito di non appoggiare la repubblica gli avrebbe fatto perdere autorità nell’ambito della Costituente e spinto a destra tutta la DC.
Nell’ottobre del 1945 don Sturzo decise di tornare in Italia ma, valigie pronte, arrivò il veto del Vaticano, comunicatogli dal Delegato Apostolico a Washington Amleto Cicognani. De Gasperi, in una successiva lettera a don Sturzo(14), ne spiega chiaramente le ragioni: la sua ben nota posizione sulla questione istituzionale avrebbe rotto la neutralità della Chiesa, considerato il seguito e il prestigio che egli aveva. In definitiva, è presumibile che l’organizzazione gerarchica, periferica e capillare della Chiesa giovasse senz’altro alla causa del re, se non altro perché la monarchia veniva vista come un baluardo nei confronti del comunismo che stava dilagando in Europa. Ma è pur vero che la mobilitazione della Chiesa a favore della monarchia non fu né totale né massiccia come è stato per la DC e ancor più per la DC nelle elezioni del 18 aprile 1948. Come ricorda Jemolo(15), la maggioranza del clero votò monarchia, ma l’autorità ecclesiastica mai prospettò ai cattolici di votare monarchia come un dovere di coscienza. Ed è sicuramente lecito chiedersi se un appoggio più deciso della Chiesa a casa Savoia non ne avrebbe potuto determinare la vittoria, visto lo scarto che ne ha sancito invece la sconfitta. Probabilmente lo stesso re non si aspettò niente di più dal Vaticano. Del resto, al di là della paura del comunismo, non c’era tanto altro, se non a livello simbolico, che legasse la Chiesa alla Casa reale. Come ci ricorda Melograni(16), l’unità d’Italia si realizzò proprio con una guerra contro il Papa nel 1870. Pio IX allora scomunicò i Savoia, ed essi nei primi anni post unitari dovettero accollarsi anche il conflitto con la Chiesa di Roma, oltre che i problemi logistici dovuti alle profonde diversità socio-economiche della penisola. Nel 1878, in punto di morte, Vittorio Emanuele II chiese i sacramenti al canonico della Chiesa dei SS. Vincenzo e SS. Anastasio, ma questi inizialmente si rifiutò. L’eventuale liquidazione della monarchia poteva dunque essere vista pure come una storica vittoria della Chiesa nel contrasto con lo stato sviluppatosi durante il processo unitario. Certamente nel 1913, con il patto Gentiloni, le organizzazioni cattoliche erano rientrate nella vita politica, e nel 1929 il Concordato aveva sancito la riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, ma la "vecchia ruggine"(17) non si era cancellata del tutto. Domenico Bartoli(18) pone invece l’accento su una sorta di "antagonismo" fra la corona e la Chiesa nel dividersi il sentimento di devozione del popolo italiano. E lo stesso Melograni(19) afferma che casa Savoia poteva rappresentare un contrappeso al potere carismatico del Pontefice; venendo meno la popolarità del re tutta la devozione popolare si sarebbe indirizzata verso il Papa, come accadde il giorno della ritirata dei tedeschi da Roma, allorché vi fu un’immensa adunata in piazza S. Pietro per acclamare Pio XII.
Un appoggio della Chiesa alla monarchia meno ambiguo e nascosto, come ci ricorda Brucculeri,(20) non vi fu anche perché la vittoria repubblicana era data per certa, anche se forse sempre meno con il passare del tempo. Si preferì dunque concentrare gli sforzi nel favorire il successo del partito cattolico alla Costituente. Per Carlo Arturo Jemolo(21) sembra esserci anzi quasi un nesso causale tra la caduta della monarchia e la seguente egemonia politica dei cattolici.
La Democrazia Cristiana, sotto la sapiente conduzione di Alcide De Gasperi, in merito alla questione istituzionale ebbe per lungo tempo una posizione di neutralità del tutto simile, a mio avviso, a quella della Chiesa. Del resto un partito di ispirazione cristiana non poteva non risentire delle posizioni del Vaticano nei momenti delle scelte cruciali, ma, come vedremo, la DC fu un interlocutore privilegiato degli alleati ed è indubbio che essi ne condizionarono fortemente la politica. Un referendum interno alla DC svoltosi in occasione del Congresso Nazionale di Roma tra il 18 ed il 24 aprile del 1946 dette un risultato ampiamente favorevole alla repubblica, che ottenne 503.085 consensi contro i 146.081 della monarchia, mentre 187.660 si dichiararono agnostici(22). Un tale risultato autorizzava a credere che la DC avrebbe attuato una politica di pieno appoggio ai partiti ad orientamento repubblicano. Ma i condizionamenti cui era sottoposto il maggior partito italiano ed il suo segretario furono molteplici e vari.
Il segretario della DC, e capo del governo, De Gasperi finì con l’assumere un ruolo di arbitro tra le parti, in questo certamente influenzato dalle decisioni degli alleati e dal volere delle alte gerarchie ecclesiastiche. Così si vedrà come anche l’ambigua neutralità della DC si risolverà, in alcuni casi, in una parzialità a favore della monarchia. Ciò che emerge dalle testimonianze, dai discorsi, e dalle manovre di De Gasperi, è come la DC rappresentasse in quel tempo la forza sulla quale puntavano tanto gli alleati quanto la Chiesa per garantire all’Italia un posto sicuro nel campo occidentale dello scacchiere internazionale che si andava definendo e l’egemonia dei cattolici in politica interna. Partiamo dal dato elettorale. Come lucidamente dimostrò Felice Platone su "Rinascita", organo del PCI, in un articolo riportato anche in una raccolta di saggi curata da Enzo Santarelli(23), il 2 giugno nelle schede riguardanti la Costituente la DC riportò 8.102.828 voti mentre i partiti monarchici e di destra andarono di poco oltre i quattro milioni; avendo riportato la monarchia 10.719.502 voti, risulta evidente che più di sei milioni dei votanti DC si espressero per la monarchia. Così nonostante la pronuncia repubblicana scaturita al congresso della DC, ben 2/3 dei suoi elettori votarono monarchia. In questa marcata incoerenza vi stanno tutte le contraddizioni, le esitazioni, i contrasti interni, i condizionamenti che gravavano allora sul partito cattolico. In un contesto così complicato emerse l’autorevole guida di Alcide De Gasperi. È vero che egli non poté trascurare il parere degli alleati o quello della Chiesa, né poté sottrarsi a varie pressioni interne ed esterne al suo partito, ma lo statista trentino riuscì comunque a ritagliarsi un margine di autonomia, che seppe gestire con profondo realismo e che gli consentì di servire meglio i suoi ideali cattolici. Del resto le affermazioni elettorali della DC del dopoguerra non possono essere disgiunte dall’opera di De Gasperi. Pietro Scoppola(24) ritiene che De Gasperi fu uomo attento più alla realtà politica che alle ideologie, ed anche lo spinoso problema istituzionale si pose per lui in termini concreti e storici. Lo stesso Scoppola evidenzia come De Gasperi abbia ricevuto una formazione austriaca, al contrario di Sturzo, che aveva vissuto esule in regimi repubblicani (Francia e USA). Dai suoi studi sulla tradizione cattolico-liberale francese aveva ereditato una relativa indifferenza per la forma istituzionale, ma non aveva alcuna simpatia per i Savoia, soprattutto in ricordo delle collusioni con il regime(25).
La scelta istituzionale non aveva dunque, per De Gasperi, una valenza ideologica, né egli vedeva nello scontro una portata drammatica. Credo che su questo aspetto ben renda l’idea la testimonianza della figlia Maria Romana(26), la quale affermò che lei ed il padre votarono per la repubblica, la zia per la monarchia e la madre non lo dichiarò mai "lasciando a noi repubblicani l’illusione di una maggioranza". Ritengo che ciò faccia comprendere la serenità che regnava in casa De Gasperi in merito alla scelta istituzionale. Anche l’"Osservatore Romano" ci riferisce in una cronaca del 1 giugno ’46 di un discorso elettorale di De Gasperi in cui egli tende a sdrammatizzare la questione istituzionale e dare ben altra importanza alla "sostanza costituzionale". La vera preoccupazione del leader democristiano è espressa nella lettera da lui inviata a don Sturzo in data 26 ottobre 1945 e riportata nell’appendice documentaria dell’opera biografica della figlia Maria Romana(27). Egli fa capire che lo scopo della sua politica ("rebus") è quello di "come impedire l’avvento di una maggioranza social-comunista". E come spiega espressamente a don Sturzo, il rischio da evitare era quello di "buttare" a destra i cattolici conservatori; e per questo gli risulta "difficile trovare la strategia giusta". In queste righe della lettera a don Luigi Sturzo vi è il condizionamento o il movente principale della politica degasperiana, in piena sintonia con gli alleati e il Vaticano. Ma ancor prima, in una lettera del 15 giugno 1944(28), De Gasperi espresse a don Sturzo tutta la sua preoccupazione che la questione istituzionale potesse spaccare il partito, nonché quanto difficile fosse per lui mantenere "la tregua" tra le correnti cattolico-monarchiche e quelle repubblicane. Il 18 agosto(29) scrisse sempre a don Sturzo la difficoltà di "unire tutti i democristiani e sollevarli al di sopra della questione contingente della forma statale", e come i repubblicani "a qualunque costo" gli creassero "imbarazzi", così come i monarchici. Fatta questa doverosa premessa, credo si possano giudicare meglio le manovre di De Gasperi e tutta la politica della DC nei mesi che precedettero il referendum istituzionale e gli immediati giorni che lo seguirono. Il relativo disinteresse per la scelta istituzionale non comportò però un’assoluta neutralità del partito cattolico.
La strategia seguita da De Gasperi per ottimizzare il risultato elettorale del suo partito nella Costituente risultò spesso di aiuto alla monarchia, ma viene da dire che lo fu inevitabilmente, e non per una precisa volontà. E questo a cominciare dalla scelta del referendum. I fautori della monarchia volevano il referendum perché vedevano in esso l’unica via di scampo. Una decisione presa in seno alla Costituente non sarebbe certo stata influenzata da fattori emotivi di attaccamento all’istituzione monarchica come invece sarebbe stato prevedibilmente per vasti strati della popolazione. Il decreto del governo Bonomi del 25 giugno 1944 n° 251 prevedeva che ad avvenuta liberazione del territorio nazionale il popolo italiano avrebbe scelto la forma istituzionale, e "che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, un’assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato". Il decreto escludeva dunque implicitamente il ricorso al referendum, ma lasciava comunque aperta la "possibilità di tornare sulla questione"(30). Le tesi dei monarchici furono assecondate da De Gasperi, ma con fini profondamente diversi da essi. Il 12 novembre 1944(31) il leader democristiano scriveva a don Sturzo sull’"alto valore morale" del referendum, che "dà il senso democratico e pacificatore di una suprema decisione popolare", ed aggiungeva che gli stessi alleati, nelle conferenze di Mosca e Teheran, "pensavano" ad un referendum per la scelta istituzionale in Italia. Da qui un rapporto di frequenti contatti tra De Gasperi e l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Alexander Kirk. Il 22 ottobre il governo degli Stati Uniti comunicò a Kirk di approvare l’idea del referendum espressa da De Gasperi all’ambasciatore stesso(32).
In un rapporto del 7 gennaio 1946(33) sempre Alexander Kirk annunciò la richiesta di De Gasperi di un intervento degli Alleati per appoggiare il referendum, perché ciò avrebbe rafforzato la posizione dei partiti moderati. Enzo Piscitelli(34) scrive che De Gasperi si rivolse ancora a Kirk chiedendogli di far pressione sul ministro degli Esteri inglese, il laburista Bevin, affinché convincesse Nenni sull’opportunità del referendum. Il fatto è confermato da una dichiarazione di Kirk al Dipartimento di Stato del 22 febbraio ’46, nella quale afferma che De Gasperi chiese se Bevin fosse stato disposto a dire a Nenni che sarebbe stato auspicabile un plebiscito o un referendum. E questo riflette la coerenza di de Gasperi nel timore, espresso a Kirk a metà estate del ’45, che un’assemblea costituente con troppi poteri avrebbe preparato la dittatura di Nenni e Togliatti. Così gli ultimi giorni del febbraio 1946, dopo una serie di riunioni del Consiglio di Gabinetto, anche i leader dei partiti di sinistra Nenni e Togliatti si videro disposti o costretti ad accettare il referendum; del resto De Gasperi era forte dell’appoggio, se pur ufficioso, dei governi alleati, e le sinistre non volevano offrire alla DC il pretesto di una rottura per spezzare la coalizione dei partiti antifascisti; una rottura che, come disse Nenni, sarebbe avvenuta "su delle questioni che sono più di forma che di sostanza"(35). L’atteggiamento di De Gasperi fu valutato come filo-monarchico da Giuseppe Dossetti, primo esponente della sinistra democristiana. In un’appassionata lettera a De Gasperi del 28 febbraio ’46(36), Dossetti poneva l’accento sulle ragioni che hanno determinato l’azione del leader democristiano. Sosteneva come essa fosse solo il frutto di calcoli elettorali che tengono conto delle tendenze monarchiche dei cattolici del sud, del pericolo di una frattura interna del partito e delle preferenze di un clero per lo più monarchico. Lo sfogo di Dossetti continuava con la previsione categorica che il referendum avrebbe visto vincere la monarchia, accusa De Gasperi di aver portato il peso del suo partito in favore del re, e ancora di volere la vittoria della monarchia. Al termine della lettera Dossetti dichiarava, quindi, di dimettersi da membro della Segreteria, della Direzione e del Consiglio Nazionale. Ma quella di Dossetti non rimase una voce isolata. Anche Mario Scelba, in una lettera a Sturzo dell’11 aprile(37) riprese le accuse di Dossetti. De Gasperi, secondo Scelba, vede che è in gioco la "civiltà cristiana" e che essa sia meglio tutelata dalla monarchia che non dalla repubblica. Prosegue affermando che forti sono le pressioni delle alte gerarchie ecclesiastiche ("quasi tutti i vescovi sono per la monarchia la quale, in questi ultimi tempi, ha guadagnato qualche punto"), e come De Gasperi tema il congresso della DC in quanto un pronunciamento repubblicano sarebbe inevitabile, visto l’esito del referendum interno. Pietro Scoppola ritiene invece che l’intento di De Gasperi fosse addirittura opposto a quello dei monarchici: il referendum avrebbe portato alla repubblica senza uno scontro di partiti, senza spaccare il mondo cattolico, e la vittoria della repubblica avrebbe avuto una base molto più solida(38). Scoppola respinge decisamente i giudizi che vedono in De Gasperi un conservatore. A sostegno della sua tesi ricorda il fatto, confermato dalla figlia Maria Romana, che De Gasperi aveva tentato inizialmente di indire prima le elezioni della costituente e dopo quattro mesi, una volta delineate le linee generali della nuova costituzione, scegliere la forma istituzionale con referendum popolare. La proposta venne rigettata sia dalle sinistre che dai monarchici, entrambi fautori invece del referendum preventivo (contemporaneo alle elezioni per la Costituente). E direi che Scoppola ne coglie bene i motivi quando afferma che i partiti monarchici temevano che dopo le elezioni avrebbe perduto di consistenza la paura del "salto nel buio" sulla quale facevano leva per convincere gli incerti; così le sinistre speravano di giovarsi di uno scontro aspro tra monarchia e repubblica perché, in un clima carico di tensione, l’elettore repubblicano sarebbe stato meglio portato a votare contemporaneamente per i partiti di sinistra. Unire dunque il voto per il referendun al voto per la Costituente svantaggiava evidentemente la DC, che nella contesa aveva assunto una posizione sfumata ed incerta. Ma Scoppola va oltre, ed afferma che il referendum preventivo, secondo la logica di De Gasperi, avvantaggiava la monarchia, che poteva così contare sui timori degli incerti di "un salto nel buio" di cui , senza la nuova costituzione, non si potevano valutarne le conseguenze(39).
Così la proposta di De Gasperi, se accettata, avrebbe favorito la soluzione repubblicana, e ciò contribuisce a confutare, per Scoppola , "l’immagine di un De Gasperi schierato con la destra" contro la sinistra, che Dossetti invece aveva sostenuto.
Non è del tutto agevole scorgere nelle manovre di De Gasperi un disegno che potesse favorire la repubblica, pur premesso che neanche la tesi dossettiana di un De Gasperi filo-monarchico sembra facilmente dimostrabile. Del resto, il rinvio del referendum era stato inizialmente chiesto agli Alleati dallo stesso re che, come abbiamo visto, contava sul fattore tempo per stiepidire le passioni e i sentimenti di avversione alla monarchia. Inoltre la sdrammatizzazione dello scontro cui, come giustamente ricorda Scoppola, avrebbe portato un referendum fatto dopo l’elezione della Costituente, non necessariamente avrebbe favorito la repubblica. È vero che la paura del "salto nel buio" ne sarebbe stata stemperata, ma è altrettanto vero che i grandi cambiamenti sono favoriti dalle esasperazioni, dagli aspri scontri, dalle passioni più violente, mentre le "acque calme" tendono a favorire lo statu quo. Mario Scelba, in una lettera a Sturzo del 1° luglio 1956, affermò che De Gasperi aveva fatto di tutto per salvare la monarchia e che, contrariamente alla direzione del suo partito, volle che la mozione uscente dal congresso DC dell’aprile 1946 parlasse di "orientamento repubblicano" e non di "indirizzo", e che per il rifiuto unanime che se ne ebbe, "piantò in asso la direzione"(40). È giusto tenere in conto le testimonianze di Scelba, come pure quelle di Dossetti, tenendo presente però che essi erano fautori, così come Sturzo, di un ufficiale pronunciamento della DC in favore della repubblica; invece rimasero fortemente delusi dal comportamento di De Gasperi che, stando alle testimonianze delle lettere, appare più come un avversario politico che un compagno di partito. Si può presumere, al di là delle convinzioni personali dello statista trentino, che la testimonianza della figlia ci porta a credere filo-repubblicano, che l’azione di De Gasperi portò probabilmente più giovamento alla causa monarchica. Del resto Catalano e Jemolo ritengono gli ultimi discorsi di De Gasperi di intonazione "sostanzialmente monarchica"(41).
In effetti basta esaminare il discorso tenuto dal leader della DC l’11 maggio 1946 alla Basilica di Massenzio in Roma, per comprendere la fondatezza di tali opinioni. Rivolgendosi ai cittadini romani chiese loro se si sentissero pronti ad assumersi quelle responsabilità che richiede un regime in cui tutto dipende dalla volontà di ognuno, anche il capo dello stato. Poi, riflettendo sulla forma repubblicana, De Gasperi affermò che essa non sarebbe stata automaticamente una repubblica cristiana e che "il marxismo abusa del referendum considerando la repubblica l’anticamera del socialismo e del comunismo". E ancora parlò del rischio di "un nuovo regime e di una responsabilità personale", che chi vota repubblica deve sentirsi di assumere, e della comprensione per chi non se la sentisse e volesse "onestamente differire a tempi più calmi il perfezionamento del sistema democratico". Così De Gasperi non chiese "per il referendum un obbligo morale" come invece "abbiamo il diritto di chiedere per tutto ciò che è sostanza della Costituzione"(42). Le preoccupazioni di De Gasperi erano in fondo tutte legate al "salto nel buio", tema caro ai monarchici; inoltre veniva prospettato in maniera palese il pericolo che la repubblica potesse favorire i disegni rivoluzionari dei comunisti. Da qui l’implicito invito ad aspettare tempi più calmi prima di prendere decisioni così importanti e gravose. Va anche ricordato che tale discorso fu fatto da De Gasperi pochi giorni dopo il congresso del suo partito, nel quale risultò vincente la mozione Pellizzari, che sanciva l’indirizzo repubblicano della DC. Ma Scoppola, che pur riporta il discorso dell’11 maggio, non sembra coglierne gli accenti monarchici, ma solo un De Gasperi che, "scavalcando la scelta", si pone al di sopra della contesa.(43) Certo, però, all’autorevole storico non sfugge la portata generale ed il valore complessivo dell’atteggiamento dello statista trentino. L’opera di De Gasperi in merito alla questione istituzionale fu quella di evitare qualsiasi frattura all’interno del partito, ma soprattutto del mondo cattolico in genere. Non si fidava affatto del risultato del referendum interno, che vedeva i repubblicani in netta maggioranza, anche per la provenienza settentrionale della maggioranza dei votanti. De Gasperi coglieva bene più di altri quanto forte fosse l’anima conservatrice degli elettori cattolici. E, cifre alla mano, i 2/3 dell’elettorato DC si espressero in effetti a favore della monarchia, confermando l’intuizione di De Gasperi. Ancor più aveva compreso l’orientamento monarchico della Chiesa.
Dalle pagine del quotidiano "Osservatore Romano", organo del Vaticano, risulta chiara ed espressa ufficialmente l’adesione della Chiesa alla DC nel sostenerla nello sforzo elettorale. In un fondo apparso il 24 maggio 1946 per spiegare la posizione del quotidiano e dare ai suoi lettori le indicazioni di voto, viene affermata la scelta di puntare sulla DC nelle elezioni della Costituente per la difesa e l’affermazione dei valori religiosi. Per quanto riguarda il referendum, viene dichiarato che nessuna delle due forme istituzionali "si oppone di per sé alla religione", ma "dall’astrazione ai fatti", considerando dunque il momento attraversato dall’Italia, la difesa della religione sarebbe stata meglio assicurata da un istituto piuttosto che da un altro. È fin troppo evidente il richiamo ai pericoli che il mondo cattolico avrebbe derivato da un’affermazione del comunismo, e come quindi nella situazione italiana fosse auspicabile la vittoria dell’istituto monarchico. Le preoccupazioni del Vaticano sono ben analizzate da David W. Ellwood in un’opera in cui si serve abbondantemente di fonti d’archivio(44). Da esse risulta che l’incaricato d’affari americano al Vaticano, Harold Tittman, trasmise al suo governo in data 8 dicembre 1945 le preoccupazioni del Papa nel constatare l’unione dei partiti di sinistra, nonché il loro attivismo, la loro tenacia, il fatto che disponessero di fondi illimitati, ed il timore che al momento delle elezioni avessero applicato una tecnica terrorista(45). Appena pochi giorni più tardi, il 14 dicembre, lo stesso Tittman riferì al Dipartimento di Stato lo scontento del Vaticano per il diffondersi del repubblicanesimo nei cattolici, e che per questo la Chiesa era pronta a dare istruzioni ai propri fedeli affinché, ove possibile, votassero per partiti e candidati filo-monarchici piuttosto che per i democristiani repubblicani(46).
Quanto riportato da Ellwood, grazie alla documentazione che ha rinvenuto nei National Archives a Washington, fa piena luce su quanto fossero legittime le apprensioni di De Gasperi sui rischi di perdere, almeno in parte, l’appoggio del mondo cattolico, e che la Chiesa potesse orientare i suoi favori verso altre formazioni politiche più a destra della DC, come l’ "Uomo Qualunque", un partito considerato cattolico, che godeva di un buon seguito e di molte simpatie negli ambienti ecclesiastici. È dunque pienamente condivisibile il pensiero di Scoppola quando afferma che l’opera di De Gasperi sia da valutare alla luce dei condizionamenti che la contingenza dei tempi gli portava, quasi a salvarlo dal giudizio di chi lo vede come uomo di destra che ha condotto il partito ad una politica che ha assecondato le forze moderate monarchiche, ma ben lontana dall’ideale politico che la DC avrebbe dovuto rappresentare.
III. Gli Alleati e la questione istituzionale
Come abbiamo visto, in ambito cattolico risultava evidente l’interesse relativo mostrato sia dalla Chiesa che dalla DC per la questione istituzionale. Eppure con il referendum del 2 giugno si decideva la forma del futuro assetto istituzionale; veniva decisa la prosecuzione o meno della vecchia dinastia sabauda, sotto la quale il paese aveva raggiunto l’unità politica e aveva vissuto le gloriose pagine del Risorgimento. In un contesto esclusivamente nazionale la questione avrebbe avuto una rilevanza certamente ben maggiore ed anzi, alla luce di ciò che accadde all’indomani del 2 giugno, lo scontro avrebbe potuto spaccare irrimediabilmente il paese e portarlo alla guerra civile. Ma la situazione italiana del dopoguerra non poteva essere disgiunta dal clima internazionale creatosi alla fine delle ostilità. Stati Uniti ed Unione Sovietica, le grandi potenze uscite vincitrici dalla guerra, stavano dividendo il mondo in due distinti blocchi e quello che più premeva loro era estendere il più possibile la propria sfera di influenza. Lo sbarco in Sicilia delle truppe americane ed inglesi, con la conseguente occupazione del territorio nazionale, aveva posto una certa garanzia sull’appartenenza dell’Italia alla parte occidentale. La presenza interna di un partito comunista molto forte ed organizzato e la vicinanza della Jugoslavia del maresciallo Tito rendeva però la situazione meno certa e sicura. Ed è in quest’ottica che gli Alleati vedevano la questione istituzionale italiana, che certo non poteva rappresentare un problema centrale, tanto più che tra essi vi era rappresentata sia la forma monarchica che quella repubblicana. Dunque la posizione degli Alleati in merito alla questione istituzionale non fu affatto diversa da quella assunta dalla Chiesa e dalla DC.
Da un punto di vista rigorosamente ufficiale il comando alleato in Italia e gli stessi governi americano ed inglese ribadirono più volte la propria estraneità alla contesa istituzionale e di voler rispettare la volontà del popolo italiano, ma sicuramente tennero ben presente che la liquidazione di casa Savoia poteva rappresentare per i comunisti un primo ed essenziale passo verso la creazione di una repubblica socialista sul modello di quella sovietica. Emblematica a questo riguardo è la dichiarazione del Foreign Office britannico contenuta nel memorandum Italy: the institutional question del 16 maggio 1945(47); infatti veniva affermato che il problema non era tanto quello di favorire la monarchia, quanto quello di mettere in atto procedure che ostacolassero i comunisti. David W. Ellwood afferma che già prima dell’armistizio gli Alleati avevano deciso che casa Savoia fosse la legittima fonte di autorità dello Stato italiano. I dubbi riguardavano la persona di Vittorio Emanuele III, in quanto, secondo gli alleati non aveva la popolarità dei suoi antenati, soprattutto era macchiato di infamia per aver violato lo Statuto quando aprì la via del potere a Mussolini. Per questo venne convinto a ritirarsi a vita privata dopo la liberazione di Roma, lasciando la luogotenenza del regno al principe ereditario Umberto(48). Da diversi documenti risulta quanto la situazione postbellica italiana preoccupasse gli Alleati. Un saggio del giugno 1945 del comandante alleato in Italia, ammiraglio Ellery Stone, descriveva una lunga serie di miserie, una grave mancanza di mezzi di produzione, una frammentazione politica esasperata, milioni di disoccupati. Inoltre vi si rilevava la presenza di armi detenute illegalmente e nascoste ovunque. Una situazione esplosiva ed allarmante, dalla quale l’ammiraglio americano traeva la conclusione che in Italia fosse urgente un aiuto economico ed una guida, per impedire che il paese si unisse agli stati comunisti passando nel campo di egemonia sovietica(49).
Il governo inglese, come testimonia un discorso di Churchill alla Camera dei Comuni il 22 febbraio 1944, in cui si difendeva lo statu quo in Italia contro qualsiasi forma di eccesso di potere dei partiti antifascisti, inizialmente teneva alla conservazione della monarchia(50). Ma il Foreign Office proprio dal giugno del 1945 cambiò indirizzo: se prima salvare la monarchia italiana poteva essere comunque un obiettivo della politica inglese, ora il problema non si poneva più nei termini di monarchia o repubblica, bensì nel sapere se il futuro riservava per l’Italia una dittatura comunista o una democrazia liberale. Ed è per questo che Churchill insistette con il partner americano per l’invio in Italia di un ingente fornitura di materie prime ed altri vari aiuti. Lo scopo era quello di sostenere "una serie di manovre che egli stava preparando"(51) per la questione istituzionale e le elezioni, misure atte a frenare i partiti di sinistra e favorire i moderati. Nel già citato memorandum del 16 maggio 1945 del Foreign Office si constatava fra l’altro quanto fossero sfortunati gli anticomunisti a dover combattere sotto la bandiera della monarchia e si valutavano le difficoltà a sostenere un istituto screditato come baluardo alla penetrazione dell’ideologia comunista. La debolezza di casa Savoia era dunque ben compresa dagli inglesi, così che si potevano favorire decisamente i partiti moderati, ma non la monarchia. Infatti nello stesso memorandum si valuta il fatto che appoggiare il re avrebbe significato correre il rischio di rafforzare l’opposizione a sinistra, rischio valutato troppo alto, visto che la sopravvivenza di quella dinastia in Italia non dava comunque garanzia di un regime moderato e stabile. Il memorandum si concludeva con la constatazione che il Dipartimento di Stato americano non aveva alcuna simpatia per i Savoia, ma che fosse altresì conveniente evitare possibili accuse di indebite ingerenze su questioni altrui, lasciando casa Savoia al corso degli eventi(52). Ed è plausibile che per gli Alleati anche il problema se decidere la forma istituzionale italiana tramite referendum o conferirne il potere all’Assemblea Costituente eletta venne inquadrato in questa ottica.
Abbiamo già parlato del pieno appoggio accordato dagli Alleati a De Gasperi nella richiesta del referendum, che già garantiva al re una prova d’appello dopo la sconfitta militare. Già il 10 agosto 1944 il Dipartimento di Stato aveva dichiarato che nel decidere la questione istituzionale con una consultazione popolare o con una decisione della Costituente bisognava tener conto che quest’ultima sarebbe stata facilmente manovrabile dalle sinistre(53). Quanto poco gli Alleati si fidassero dell’eleggenda Assemblea Costituente e quanti timori avessero nell’affidarle ampi poteri risulta chiaro dai carteggi studiati da David Ellwood, relativi ai contatti fra De Gasperi e l’ambasciatore statunitense Alexander Kirk. A metà estate del 1945 De Gasperi espresse a Kirk la sua preoccupazione sul rapporto di forze che si sarebbe potuto verificare in seno alla Costituente e per questo chiese che si tenessero elezioni amministrative preventive. Così il Dipartimento di Stato prese posizione per lo svolgimento di elezioni amministrative da svolgersi prima della consultazione politica, così da valutare la forma ed il seguito dei partiti settore per settore(54).
Come abbiamo già visto nel primo paragrafo, la monarchia nel corso dei mesi andò recuperando gran parte del credito presso la pubblica opinione anche grazie al comportamento del luogotenente Umberto. Ma gli scenari che si delineavano in quei mesi in politica internazionale contribuirono non poco a polarizzare la vicenda politica italiana ed a drammatizzarla. Così lo slogan monarchico del "salto nel buio" ebbe una presa maggiore sugli indecisi ed il recupero di consensi da parte della monarchia fu notevole negli ultimi tempi. Tutto questo non poteva sfuggire agli Alleati, che erano ancora presenti sul territorio italiano. La storiografia contemporanea è generalmente unita nel ritenere che l’episodio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III il 9 maggio fu favorito e forse determinato dalla volontà dei governi alleati. L’ufficio stampa del Ministero della Real Casa, la sera del 9 maggio, annunciava che in tale giorno "…alle ore 12 in Napoli, il re Vittorio Emanuele III ha firmato l’atto di abdicazione e, secondo la consuetudine, è partito in volontario esilio…". L’atto di abdicazione fu firmato nello studio del re a Villa Maria Pia. Così diceva: "Abdico alla corona del Regno d’Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia Principe di Piemonte. Vittorio Emanuele III re d’Italia – Napoli 9 maggio 1946". L’atto venne poi consegnato al notaio Nicola Angrisani, residente a Napoli, per l’autenticazione(55). Anche Catalano sostiene la tesi dell’intervento alleato nell’atto di abdicazione, aggiungendo che forte di tale appoggio il re sfidò la nazione dichiarando che l’abdicazione avvantaggiava il figlio e che dell’opinione pubblica nulla gli importava(56). Il diario del generale Paolo Puntoni, aiutante in campo del re, sembra tra l’altro spazzare via ogni dubbio in proposito: ci rivela infatti che il 25 aprile Vittorio Emanuele III si confidò con lui rivelando che "gli Alleati, di accordo con il luogotenente e con i capi dei partiti di centro e di destra, [avevano] manifestato l’opinione che [egli dovesse] abdicare prima del 2 giugno", perché ciò avrebbe reso più probabile la vittoria della monarchia(57). Queste poche righe del diario del generale Puntoni riflettono perfettamente la realtà di quei due mesi che precedettero il 2 giugno. Non solo emerge il peso decisivo degli Alleati nelle vicende interne italiane, ma anche la loro sottile intesa con le forze moderate conservatrici. Anche la testimonianza di Giulio Andreotti (De Gasperi e il suo tempo) riportata da Franco Catalano, che parla di un De Gasperi assolutamente non sorpreso dalla notizia dell’abdicazione, ci porta a credere ciò(58). Ad essere sorpresi furono invece i partiti repubblicani, come testimonia la dura protesta inscenata dal leader comunista Togliatti, già menzionata nel primo paragrafo. La mossa dell’abdicazione aveva uno scopo palesemente elettorale. Vittorio Emanuele III, mettendosi da parte, ammetteva implicitamente le proprie responsabilità sull’era fascista e sulla guerra. Gli succedeva il figlio Umberto, che da luogotenente del regno diventava automaticamente sovrano. Umberto veniva generalmente giudicato più progressista di suo padre e dunque l’intento era quello di far apparire una monarchia più democratica e più favorevole di un tempo alle trasformazioni sociali. Anche dal punto di vista degli equilibri politici la mossa del re non fu certo priva di implicazioni. Infatti l’automatica successione del figlio senza interpellare i partiti del governo provvisorio andava a modificare un compromesso stabilito fra i partiti e la corona con la luogotenenza, che avrebbe dovuto protrarsi sino al referendum. Il 10 maggio Umberto ricevette al Quirinale De Gasperi, al quale diede una copia notarile dell’atto di abdicazione ed una lettera da lui firmata, nella quale dichiarava che "l’abdicazione (del padre lo aveva) portato ope legis alla successione", e che comunque l’atto non avrebbe mutato "in nulla i poteri costituzionali da (egli) esercitati in qualità di luogotenente generale", né avrebbe modificato "in alcuna maniera l’impegno da (esso) assunto in confronto del referendum e della Costituente"(59). Mentre "l’Avanti", organo socialista, parlava di "un diversivo per turbare l’ordinata preparazione del referendum" e di una "fuga del sovrano di fronte all’imminente giudizio del popolo"(60), ben più deciso il leader comunista Togliatti affermava che si trattava di una "violazione degli impegni assunti dalla corona" e ancora di più di un atto nullo, in quanto l’abdicazione era un atto che non gli competeva più(61). Ancora Togliatti insistette sul fatto che mancando il capo dello stato spettasse al presidente del consiglio in carica assumere temporaneamente l’incarico, come prevedeva la legge in caso, però, di vittoria repubblicana. Ma più rilevante fu l’affermazione relativa alla possibilità di non "collaborazione con la monarchia in caso di successo monarchico del referendum"(62). Come rilevò il ministro liberale Cattani, una tale dichiarazione suonava come un preavviso di passaggio al "metodo rivoluzionario" ed anche un espresso "ricatto alla nazione"(63). La situazione divenne piuttosto tesa, ma l’abilità diplomatica di De Gasperi riuscì a ricomporre la frattura con le sinistre. Egli ricevette una lettera dal capo della commissione alleata Ellery Stone in data 8 maggio in seguito ad una precisa richiesta di un parere agli Alleati riguardo all’ipotesi di abdicazione. Il supremo comando alleato, fece sapere Stone a De Gasperi, riteneva che l’abdicazione del re "non comporta nessuna azione o commento da parte della Commissione Alleata, in quanto non tocca per nulla i poteri costituzionali del principe Umberto"(64). Dunque gli alleati accettavano di fatto la successione. Forte così del parere degli Alleati, De Gasperi fece accettare un compromesso: Umberto non avrebbe ereditato la formula "Per Grazia di Dio e volontà della Nazione" che si apponeva ai decreti regi e alle sentenze giudiziarie.
IV. Il 2 giugno e le giornate successive
La giornata elettorale del 2 giugno non mise fine alle lotte e alle controversie tra gli attori della vicenda politica italiana, ma anzi ne inasprì alquanto i toni. La prima manifestazione di ritorno alla vita democratica dopo gli anni del fascismo fu seguita infatti da una lunga serie di accuse e polemiche oltreché da movimentate e spesso violente manifestazioni di piazza. La giornata delle elezioni, come si apprende da varie fonti, trascorse piuttosto tranquilla, nonostante le apprensioni della vigilia. Il primo degli ordini del giorno del governo del 23 maggio riguardava infatti proprio l’ordine pubblico, e testimoniava i timori di possibili atti di violenza, tanto che si annunciava la repressione di "ogni eventuale tentativo di preparare o costituire formazioni armate di parte".(65) Lo stesso presidente del consiglio De Gasperi, in quei giorni, tenendo discorsi nel Meridione, espresse la sua preoccupazione per possibili "moti inconsulti" che potessero far apparire le elezioni contestabili e giustificare l’intervento degli Alleati(66). Il 5 giugno il Corriere della Sera riportava invece la notizia dei commenti degli Alleati, che parlavano della grande prova di maturità data e del perfetto ordine in cui si erano svolte le elezioni. Umberto, il 2 giugno, si recò a votare a Roma in via Lovagno, accompagnato dal Ministro della Real Casa Marchese Falcone Lucifero, che in seguito, intervistato dai giornalisti, dichiarò che presumibilmente il re aveva deposto nelle urne due schede bianche(67). Era la prima volta, dopo la dittatura fascista, che il paese viveva l’esperienza di libere elezioni e l’affluenza al voto fu altissima in quasi tutte le zone d’Italia. Il "Corriere della Sera", il 4 giugno, al giungere dei primi dati, evidenziava proprio la grande partecipazione popolare al voto, che aveva superato ogni più ottimistica previsione. E anzi, veniva sollevato il dubbio che l’affluenza sarebbe potuta essere ancora maggiore se non si fossero create, in parecchi casi, lunghissime file ai seggi, che avevano quasi certamente reso impraticabile per alcuni la via al voto, nonostante si potesse votare anche il lunedì mattina. Tutti i giornali parlavano di un’affluenza alle urne che di provincia in provincia variava dal 75% al 90% degli aventi diritto, ma in alcuni casi era anche superiore(68).
I primi dati sul risultato del referendum cominciarono ad arrivare lentamente e in maniera contraddittoria. I primi dati che confluirono al Viminale videro in vantaggio la monarchia, poi vi fu una ripresa della repubblica e ancora la monarchia si riportò in vantaggio fra il 3 e il 4 giugno, tanto che De Gasperi inviò una lettera al Ministro della Real Casa Lucifero informandolo che una vittoria della repubblica fosse da ritenere ormai improbabile. Sembra che un alto ufficiale ascoltò per caso una telefonata del ministro della guerra Brosio a Romita, dalla quale comprese l’amarezza dei due per come si stavano profilando gli esiti del referendum(69). Un lungo silenzio sui risultati e minacce di scioperi generali precedettero la definitiva rimonta repubblicana. Circolarono anche voci su movimenti di truppe jugoslave alla frontiera e di "propositi insurrezionali dei social comunisti"(70). Il generale Artieri non mancò di parlare di "assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte"(71). La vittoria della repubblica apparve già sicura nella giornata del 4 giugno, ed il 5 tutti i giornali ne riportavano ormai la notizia. Il Ministro degli Interni Romita, il giorno 4, dichiarò che vi era "una leggera maggioranza repubblicana", ma che mancavano ancora i dati di molte sezioni. Poi, dalle indiscrezioni provenienti dal Viminale, si venne comunque a sapere che il margine era consistente(72). Il "Corriere della Sera" del 5 giugno riporta la notizia di una telefonata del ministro Romita a Togliatti, alle due del mattino, con la quale riservatamente gli comunicava che in base a venti milioni di voti scrutinati la repubblica aveva ormai un vantaggio ben definito intorno ai due milioni di voti. Per di più Romita espresse la convinzione che mutamenti importanti non avrebbero potuto esserci, in quanto le sezioni "dalle quali si attendeva un risultato monarchico avevano già inviato i dati sul referendum".
La proclamazione ufficiale della repubblica italiana avrebbe dovuto avere luogo già sabato 8 da parte della Corte di Cassazione. I verbali con i risultati ufficiali della doppia consultazione confluivano a Roma da tutt’Italia con gli aerei militari che per l’occasione avevano sospeso il loro normale servizio, ma, non arrivando in tempo tutti i verbali, la proclamazione venne rinviata al giorno 10. Mentre ancora erano in conteggio i voti dei candidati alla Costituente, il risultato del referendum istituzionale fu oggetto di una lunga serie di contestazioni, di gravi accuse di brogli ed anche di numerosi ricorsi alla magistratura. Una prima rivendicazione monarchica, tra l’altro già espressa prima del referendum, riguardò lo status d’inferiorità dal quale la monarchia affrontò la battaglia referendaria. Il periodico monarchico "Italia Nuova" il 6 giugno affermava che i ministeri più importanti, tra cui quello degli Interni, erano controllati dai repubblicani, ma anche tutti gli enti parastatali, le industrie, le banche, le aziende commerciali erano in mano ai commissari politici del CLN, e così pure le prefetture. Un ufficiale monarchico parlò di un "regolare duello a dieci passi di distanza; ma la repubblica si è battuta alla pistola, mentre la monarchia disponeva soltanto di una sciabola"(73). Vale la pena ricordare che probabilmente queste cose fossero ben note, tanto che di una smentita da parte repubblicana non v’è traccia; resta da giudicare quanto tutto ciò abbia influenzato il voto e comunque se mai, dopo la caduta del fascismo, fosse stato possibile creare una situazione più equilibrata di quella denunciata dai monarchici. Il giorno dopo "Italia Nuova" rincarava la dose parlando di una consultazione "arbitraria, intempestiva, incompleta e impreparata, senza parlare dell’onestà delle elezioni, della quale si potrà parlare a misura che ne emergano le prove".
Come emerge dalla "Civiltà Cattolica" del 25 maggio nello spazio riservato alla cronaca contemporanea, i giornali di destra stavano denunciando brogli e irregolarità nella distribuzione dei certificati elettorali che in alcune occasioni sarebbero stati duplicati e persino triplicati a vantaggio di chi era ritenuto un fautore dei partiti di sinistra, mentre a "decine di migliaia di cittadini" non sarebbero stati recapitati. E su questo si pronunciò anche la Corte di Cassazione in seguito a due ricorsi presentati dall’avvocato Riccardo Antonucci, uno dei quali riguardava il fatto che non tutti gli elettori ricevettero il certificato elettorale, mentre alcuni ne ebbero più di uno perché iscritti in due o più liste. Inoltre la maggioranza dei reduci di guerra non ebbe mai il certificato, e stesso trattamento vi fu per chi si trovava lontano dal comune di residenza e per gli ammalati. La pronuncia della Cassazione fu di incompetenza a giudicare, in quanto la legge riservava al giudizio della Corte solo le contestazioni che riguardassero "lo svolgimento delle operazioni relative al referendum". Si parlò anche di certificati distribuiti in modo da rendere difficile la partecipazione al voto di una stessa famiglia, indirizzandola a votare in luoghi lontani. E ancora si scrisse che il certificato elettorale era un articolo molto ricercato, e a volte quotato diverse migliaia di lire. "Civiltà Cattolica" non sembra porre troppa attenzione a tali accuse dei monarchici, ma tiene in seria considerazione il pericolo del formarsi di squadre armate disposte a servire il proprio partito con la forza. Anche il governo, abbiamo visto, era in allarme, tanto più che venivano spesso scoperti depositi di armi clandestine e alcuni volantini che si facevano circolare fra i soldati, nei quali si esortavano tutti i militari ad abbandonare le caserme dopo le elezioni. Del resto dai partiti di sinistra, sia al vertice che alla base, più volte riecheggiò la minaccia "O repubblica o rivoluzione". È difficile giudicare quanto reali fossero queste minacce, ma certo è che i partiti di sinistra in alcune occasioni alimentarono queste prospettive sulla questione istituzionale. Si ripensi al già citato episodio dei tempi dell’esecutivo Parri, il quale aveva sostenuto che la permanenza della monarchia avrebbe determinato la guerra civile(74); o ancora alle dichiarazioni di Togliatti alla notizia dell’abdicazione del re, quando mise in dubbio, senza mezzi termini, il prosieguo della collaborazione del partito comunista in caso di successo del partito monarchico, tanto che il ministro liberale Cattani parlò di "ricatto alla nazione"(75). E la politica di Togliatti nel dopoguerra fu ispirata da profondo realismo e sempre fu conciliante e collaborativa nei rapporti fra partiti di governo, ma sulla questione istituzionale mostrò un’intransigenza assoluta, così come tutti i partiti dell’area repubblicana. Aveva bandito il metodo rivoluzionario nonostante le aspettative degli elettori comunisti, aveva accettato di buon grado le regole di una democrazia liberale, ma non la prospettiva di una permanenza della monarchia sabauda. Emblematiche sono a mio avviso le parole riportate dal "Corriere della Sera" del 5 giugno, che il leader comunista pronunciò non appena il ministro Romita gli comunicò l’ormai certa vittoria della repubblica nel referendum: "avevamo un solo scopo: quello di fare la repubblica. Lo abbiamo raggiunto, e il nostro programma è realizzato". Non si può amplificare l’importanza di una dichiarazione fatta a caldo dopo la notizia della vittoria repubblicana, ma è evidente come Togliatti sia ben consapevole che, per gli equilibri internazionali che si stavano definendo, il massimo obiettivo raggiungibile in Italia fosse quello della cacciata dei Savoia e l’instaurazione della repubblica.
Un’altra accusa dell’opposizione monarchica fu quella di arresti arbitrari di persone presumibilmente monarchiche, avvenuti a ridosso delle elezioni con la pretestuosa accusa di "neofascismo". A Milano e a Roma alcune persone vennero effettivamente arrestate, ma il numero esiguo di esse e le seguenti dichiarazioni di Romita sul pronto rilascio di gran parte delle persone fermate attenuarono l’importanza di questi episodi, che restano pur sempre possibili atti intimidatori di rivali politici. Il giornale monarchico "Italia Nuova", diretto dal segretario del Partito Democratico Enzo Selvaggi, il 10 giugno dava voce a nuove recriminazioni avanzando sospetti sull’autenticità delle cifre degli elettori recatisi a votare. Come è noto, l’affluenza alle urne fu molto elevata, ed il governo rese pubbliche le cifre dichiarando che su 28.021.375 iscritti avevano partecipato al voto in 24.935.343, che equivale a dire 89,1% degli aventi diritto. Una partecipazione al voto così alta sembrava cosa impossibile ai monarchici, anche considerando le difficoltà a votare che si ebbero per l’alta affluenza, i già citati problemi con i certificati elettorali, e i disagi per gli spostamenti solo in parte risolti dai partiti, che organizzarono dei servizi di trasporto per gli elettori.
La polemica dei monarchici riguardò anche la pubblicistica, in quanto quasi interamente ostile al re. Come ricordano Indro Montanelli e Mario Cervi, la lotta non fu in effetti ad armi pari, considerato che, a parte qualche giornale romano, tutti i periodici erano chiaramente repubblicani e tra questi il "Corriere della Sera", di gran lunga il più influente. Essi ricordano anche come in ampie aree del Settentrione vi furono pesanti intimidazioni contro gli attacchini dei manifesti monarchici, e addirittura che molti tipografi si rifiutavano di stampare volantini e pubblicazioni monarchiche, mentre abbondava la pubblicistica ostile(76). Anche Domenico Bartoli parla di sicure violenze e pressioni intimidatorie, non esclude anche frodi elettorali isolate, ma non crede ad un voto "manipolato o coatto", in quanto il risultato finale fu comunque sorprendente per la monarchia, che veniva giudicata nel suo momento di massimo declino(77). In quei giorni si parlò, e tutt’oggi alcuni nostalgici del re ne parlano, di un gigantesco broglio perpetrato al Ministero degli Interni, ma molti storici non sembrano attribuire fondamento a tali tesi, e Bartoli le esclude decisamente, considerato che il ministro Romita era circondato al Viminale da molti collaboratori di dichiarata fede monarchica, come il capo dell’Ufficio Elettorale del Viminale, Straneo.
Ma le contestazioni monarchiche investirono anche l’aspetto giuridico. Mentre il re sembrava disposto ad andarsene senza porre tanti problemi, i suoi fedelissimi speravano ancora di salvare la monarchia. Il giorno 7 giugno Enzo Selvaggi, insieme ad un comitato di eminenti giuristi padovani, presentò un ricorso alla Corte di Cassazione contestando il criterio seguito da Romita nel conteggio della maggioranza in base ai soli voti validi espressi in favore della monarchia o della repubblica. Secondo tali giuristi la forma istituzionale vincente avrebbe invece dovuto ottenere la maggioranza assoluta dei votanti, mettendo nel computo anche le schede lasciate in bianco ed i voti nulli. In base alle cifre diffuse dal Ministero degli Interni la repubblica aveva vinto la battaglia elettorale sopravanzando la monarchia con una differenza di circa due milioni di voti, e vi furono quasi un milione e mezzo di schede senza voto, tra bianche e nulle. È facile osservare che pure sommando queste ultime ai voti della monarchia non sarebbero bastate per colmare lo scarto dalla repubblica, ma certamente esso viene sensibilmente ridotto. Ed infatti con il metodo di conteggio adoperato dal Viminale, la repubblica si attestava intorno al 54% dei suffragi, mentre il calcolo effettuato tenendo conto anche delle schede senza voto le dava una maggioranza di appena il 51%. Il fatto che comunque la repubblica andasse oltre la metà dei suffragi complessivi mitigò le tensioni, le attese e le aspettative intorno alla pronuncia della Cassazione, ma è anche vero che se la magistratura avesse accolto il ricorso dei monarchici la maggioranza repubblicana sarebbe stata così esigua e impugnabile che la scoperta di qualche errore o illegalità avrebbe potuto vanificarla del tutto.
Il comitato di eminenti giuristi che presentò il ricorso alla Corte di Cassazione basava le contestazioni in merito alla dicitura dell’Art. 2 del Decreto Luogotenenziale n° 98 del 16 marzo 1946, che disciplinava per l’appunto il referendum istituzionale. Esso stabiliva che "Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della repubblica, l’Assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto, eleggerà il Capo provvisorio dello Stato" e ancora "Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia", 23 marzo 1946 n° 69). Il nodo centrale della questione stava su cosa la legge intendesse per "maggioranza degli elettori votanti". Come pubblicato da "Il Tempo" l’8 giugno, i giuristi promotori del ricorso affermavano che erano da considerarsi come elettori votanti anche coloro che avevano annullato la scheda o l’avevano lasciata in bianco "perché anch’essi hanno compiuto una manifestazione elettorale". Per quanto riguarda i voti nulli, il Decreto Luogotenenziale del 23 aprile 1946 n° 219, all’art. 15, così spiegava: "Sono nulli i voti per il referendum quando le schede: 1) non siano quelle prescritte all’art. 1 o non portino il bollo o la firma dello scrutatore… 2) Presentino qualsiasi traccia di scrittura o segni i quali debbano ritenersi fatti artificiosamente dal votante. 3) Non esprimano un voto per alcuno dei due contrassegni, o lo esprimano per entrambi, o non offrano la possibilità di identificare il contrassegno prescelto" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia", 3 maggio 1946). L’art. 2 del Decreto Luogotenenziale n° 98 sembra, in effetti, lasciare piuttosto indefinito il significato del termine "votanti" e quindi soggetto a fondate contestazioni, ma l’art. 16 dello stesso Decreto dà implicitamente una riposta. Al comma terzo esso afferma che "l’ufficio centrale circoscrizionale effettua le somme dei voti validi attribuiti rispettivamente alla repubblica e alla monarchia". E ancora l’art. 17, al comma primo così stabilisce: "La corte di Cassazione, in pubblica adunanza…, appena pervenuti i verbali di cui all’art. 16, trasmessi da tutti gli uffici centrali circoscrizionali, procede alla somma dei voti attribuiti alla repubblica e di quelli attribuiti alla monarchia in tutti i collegi e fa la proclamazione dei risultati del referendum" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia" n° 102, 3 maggio 1946). E fu proprio tenendo conto di questi che la Cassazione, come vedremo, respinse il ricorso.
Ma il comitato di eminenti giuristi presentò un secondo ricorso, con lo scopo di rinviare la proclamazione, obiettando su ciò che veniva stabilito dalla legge del 16 marzo 1946 n° 99, che all’art. 1 convocava i comizi elettorali e al secondo comma affermava che facevano "…eccezione per il Collegio elettorale delle Venezia Giulia e la provincia di Bolzano, per i quali la convocazione dei comizi elettorali sarà disposta con successivi provvedimenti". La richiesta dei ricorrenti era, quindi, che la Corte di Cassazione dovesse attendere la convocazione di tali comizi elettorali, prima di una pronuncia definitiva. L’eco delle contestazioni e dei ricorsi sul referendum fu notevole in tutta Italia, anche perché esse ridiedero speranza ai fedeli della monarchia. Furono giornate di enormi tensioni e, come i risultati del referendum evidenziarono, vi erano due Italie contrapposte: una repubblicana delle regioni del centro e del nord e una, fedele al re, delle regioni meridionali e delle isole. La spaccatura non era dunque solo nel voto, ma anche geografica, e questo inaspriva senza dubbio i termini della contrapposizione. Di manifestazioni di piazza con relativi incidenti è piena la cronaca contemporanea. Nella città di Napoli, in Puglia, in Calabria, in Sicilia, il separatismo trasse nuova linfa dal risultato referendario. Si fece leva sul fatto che la Sicilia venne unita al Regno d’Italia con il Plebiscito del 1860 sotto Vittorio Emanuele II e i suoi discendenti, così l’allontanamento dei Savoia creava le premesse perché le fosse restituita in pieno la sovranità. Il giorno 9 il "Corriere della Sera" diede notizia che il presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Tullio Benedetti, aveva inviato una lettera all’ammiraglio Stone in cui dichiarava che alla sua organizzazione erano giunte notizie di gravi brogli elettorali in favore della repubblica. Questo l’aveva portato a chiedere all’autorità alleata di verificare immediatamente i verbali elettorali ed i reclami inoltrati dai cittadini, revisionando tutto il materiale presso la Corte di Cassazione prima che essa procedesse alla proclamazione ufficiale dei risultati. Secondo Benedetti questo era dovere degli Alleati, in quanto si erano impegnati a vigilare sulla perfetta regolarità delle elezioni, ed inoltre un controllo alleato avrebbe dato la più completa garanzia sulla lealtà dell’esito elettorale, scacciando tutti i dubbi e i sospetti, così da poter avere una serena accettazione dei risultati(78). Domenico Bartoli ci dice che la speranza dei monarchici era quella di creare le condizioni per un intervento degli Alleati, tanto che il generale Infante fece loro giungere la notizia delle pressioni del governo sulla Corte di Cassazione per la proclamazione del risultato(79). Invece "L’Avanti", quotidiano socialista, accusò Benedetti di "servilismo" nei confronti degli stranieri, per averli invitati a controllare la regolarità delle elezioni, usurpando i poteri della Corte di Cassazione, tanto più che Benedetti era stato eletto deputato alla Costituente(80).
Franco Catalano riporta una tesi dell’ammiraglio Franco Garofalo, aiutante di campo del re, il quale vedeva nell’ "acrimonia" dei repubblicani nei confronti dei ricorsi dei monarchici quanto fosse fragile la coscienza dei vincitori ed impugnabile la loro vittoria, così che cercavano con "frettolosa intransigenza di velare l’una e l’altra indagine dell’opinione pubblica"(81). Fervida fu anche l’attività di Enzo Selvaggi, leader del Partito Democratico e fervente monarchico. La cronaca dell’edizione pomeridiana del "Corriere d’informazione" del 10 giugno diede la notizia di una lettera inviata da Selvaggi a De Gasperi, tramite la quale lo informava di aver ricevuto notizia che il governo avrebbe voluto, anticipando la sentenza della Corte di Cassazione, "far funzionare un governo provvisorio repubblicano", cosa paragonabile ad un colpo di stato, in quanto non avrebbe lasciato la Corte serena e libera nel decidere. Ed ancora Selvaggi fece la proposta che un governo provvisorio repubblicano avrebbe dovuto prendere l’impegno di fronte alla nazione e garantito internazionalmente, di indire un nuovo e regolare referendum sulla questione istituzionale. Il "Corriere della Sera", il 9 giugno, parlò di ben 150 ricorsi presentati alla Cassazione. Luigi Cavicchioli(82) scrisse a sei anni di distanza come il governo volesse "mettere i monarchici di fronte al fatto compiuto". Raccontò anche di un trucco cui ricorse Romita per esercitare pressioni sulla Cassazione: il 9 giugno il segretario generale della Camera Cosentino inviò il consigliere Vitali dal presidente della Corte Pagano a riferirgli che il Re aveva deciso di partire in esilio, ma prima desiderava che la situazione si fosse normalizzata. Dunque il Re avrebbe voluto che la Corte si riunisse presto per una proclamazione ufficiale. In seguito Lucifero scoprì l’ inganno e ne riferì a De Gasperi che tramite il segretario del governo Arpesani informò Pagano dell’inganno. Arpesani, poi, riferì a Lucifero che il mandante di Cosentino e Vitali era Romita, cosa a lui detta direttamente dallo stesso Cosentino "raccomandandosi che la cosa resti fra noi".
In tale clima si arrivò al giorno 10, atteso per la proclamazione dei risultati definitivi e della vittoria della Repubblica. Alle ore 18, nella sala della Lupa di Montecitorio, il presidente della suprema Corte di Cassazione Giuseppe Pagano proclamò i risultati dando lettura della "somma dei voti conseguiti secondo quanto attestavano i verbali: repubblica 12.672.767; monarchia 10.688.905. Pagano continuò annunciando che la Corte, in altra adunanza, avrebbe emesso un giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste ed i reclami presentati agli uffici delle singole sezioni ed agli uffici centrali circoscrizionali, o alla stessa corte, concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum, integrerà i risultati con i dati delle sezioni ancora mancanti ed indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e dei voti nulli"(83). Melograni è convinto che una simile pronunzia, senza fornire la cifra dei voti validi "avvalorò i peggiori sospetti"(84). Certo è che, invece di porre fine alla conflittualità dei due schieramenti, la pronunzia parziale della corte inasprì ulteriormente lo scontro e diede vita ad un lungo braccio di ferro tra il re ed il governo, tanto da far pensare, ci dice Domenico Bartoli, che l’Italia fosse giunta sull’orlo di una guerra civile(85).
A Napoli il 12 giugno, durante una dimostrazione monarchica, scoppiò un conflitto che produsse sette morti ed una settantina di feriti. Il 14 vi furono scontri e feriti a Taranto, Napoli e Reggio Calabria(86). La parziale pronunzia della Cassazione del 10 giugno pose immediatamente la questione del trapasso dei poteri. La legge sulla Costituente stabiliva che, in caso di successo repubblicano, dal giorno della proclamazione, le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, in attesa della sua elezione da parte della Costituente, dovesse essere esercitata dal Presidente del Consiglio in carica. Ora era da vedere se si poteva ritenere la proclamazione come cosa avvenuta. Anche la "Voce Repubblicana", del resto, riconosceva come non fossero senza valide ragioni le tesi di chi pensava che la Cassazione non avesse ancora fatto la sua proclamazione(87). La tesi del re e dei suoi consiglieri era quella di aspettare il 18 giugno, giorno stabilito per la definitiva proclamazione dei risultati e della decisione sui ricorsi. Il governo riteneva invece che la repubblica poteva considerarsi nata a tutti gli effetti, in quanto le contestazioni non erano tali da poter mettere in discussione l’esito del referendum, considerando lo scarto di voti che vi era in favore della repubblica. Umberto sembrava disposto ad una delega di poteri, ma non quella prevista dalla legge sulla Costituente, perché non voleva perdere definitivamente i suoi, e studiava insieme ai suoi collaboratori una formula di delega a lui accettabile. La sera del 10 giugno, su proposta di Togliatti, il Consiglio dei Ministri propose al re che la delega dei poteri avvenisse con una dichiarazione del governo secondo cui, visto l’art. 2 della legge sul referendum, i poteri passavano al presidente del consiglio, ed un’altra dichiarazione contemporanea da parte del re, con la quale avrebbe delegato i suoi poteri al capo del governo. Umberto prese tempo per consultare i suoi giuristi e consiglieri. E fu in riferimento all’art. 2 per la delega dei poteri che Umberto non accettò, in quanto avrebbe così riconosciuta come già nata la repubblica. Dalle memorie del ministro degli Interni Romita sappiamo che De Gasperi era in attesa di ricevere la lettera di delega da parte di Umberto, ma alla mezzanotte fra il giorno 11 e 12 giugno ne ebbe un rifiuto. Romita ci dice poi che il mattino successivo De Gasperi si vide consegnare la lettera di rifiuto dal ministro della Real Casa Falcone Lucifero: il re avrebbe accettato il trapasso dei poteri solo dopo la definitiva sentenza della Corte di Cassazione(88).
Le possibilità di manovra che i monarchici discutevano erano essenzialmente tre: la tesi più estremista era quella di un colpo di stato, pure a costo di una guerra civile, i moderati pensavano ad una partenza del re seguita da un documento di ufficiale protesta, mentre altri credevano fosse meglio che il re restasse in attesa senza prendere posizione alcuna. Anche al governo, del resto, come disse De Gasperi, si prospettavano tre ipotesi da considerare: quella di un compromesso con il re, quella di restare fermi sulle proprie posizioni e lottare e quella di attendere il 18 giugno la definitiva sanzione della Cassazione, ma quest’ultima ipotesi, che pure sembrò tanto ovvia e naturale da essere battezzata come l’"uovo di Colombo", non fu presa molto in considerazione. La sera del 12 giugno il re apprese che il governo aveva annunciato il passaggio dei poteri di capo dello Stato al presidente del consiglio in carica on. Alcide De Gasperi. Era così il governo, e non la Corte di Cassazione, a decidere il trapasso dei poteri. Bartoli vede molta sbrigatività nella decisione dei partiti del governo(89). Anche il "Corriere della Sera", il quotidiano più importante e di chiara fede repubblicana, sembra suffragare questa tesi. Nel fondo di prima pagina del 13 giugno vi è infatti un invito all’attesa della proclamazione della Cassazione, motivato dal fatto che proprio la "puntigliosa precipitazione" può gettare sospetti e ombre sulla vittoria repubblicana, e che il voler "anticipare il verdetto della magistratura" dava la sensazione che "il dissidio non è tra governo e re per l’interpretazione formale di un testo, ma tra governo e magistratura su una questione di sostanza"(90). Va detto che la sollecitudine del governo nel risolvere la crisi politica determinatasi dal contrasto con il re può, in parte, trovare giustificazione nella situazione interna del paese. Le manifestazioni di piazza, gli incidenti anche tragici, alcune volte, la presenza di armi detenute clandestinamente e pronte all’uso, le varie voci su possibili colpi di stato rendevano il clima piuttosto avvelenato e urgente una pacificazione. Nel già citato articolo del "Corriere della Sera" del 13 giugno vi è comunque una netta sdrammatizzazione sulla pericolosità delle manifestazioni di piazza, sugli incidenti che sono "dolorosi, ma non preordinati", come pure la confutazione di probabili azioni di forza "per la situazione di fatto che evidentissimamente non la consente".
Non ho trovato molte spiegazioni da parte della storiografia contemporanea sulla decisione del governo di non attendere i pochi giorni che mancavano al 18 giugno. Certo è però che si possa facilmente cadere in errore se non si giudicano quasi tutti gli avvenimenti di quel tempo non tenendo presente i forti condizionamenti internazionali esistenti. Le memorie di Romita ci parlano di colloqui avvenuti tra Umberto e l’ammiraglio Stone, durante i quali il re voleva rendersi conto dell’atteggiamento delle forze di occupazione alleate e se avessero accettato un eventuale colpo si stato monarchico. Secondo una fonte che cita come autorevole, Romita dice di essere stato informato in via riservata che gli alleati non volevano intromettersi(91). Anche Catalano riferisce sui colloqui fra Umberto e Stone, citando come fonte Romita, che sarebbe stato informato dal servizio americano(92). Abbiamo già parlato del vano tentativo del generale Infante presso gli alleati. L’"Osservatore Romano" del 14 giugno riporta una notizia di agenzia secondo la quale Bevin avrebbe comunicato a De Gasperi che la Gran Bretagna non avrebbe riconosciuto la nuova repubblica italiana finché i dati del referendum non fossero stati ufficialmente proclamati e resi definitivi. Ma nello stesso articolo tale notizia viene smentita facendo riferimento all’organo democristiano "Il Popolo" il quale, negando qualsiasi messaggio di Bevin in tal senso, riporta che l’ambasciatore italiano a Londra Carandini aveva invece comunicato a De Gasperi la soddisfazione di Bevin per lo svolgimento delle elezioni in Italia, e che non appena ne fosse giunta notizia, Londra sarebbe stata ben lieta di riconoscere il nuovo governo repubblicano. È comprensibile come il re e i suoi consiglieri, nell’accanimento contro i risultati del referendum, cercassero dagli alleati almeno un tiepido appoggio, e contassero anche sul fatto che il capo del governo fosse anche il leader di un partito i cui elettori si erano espressi per due terzi a favore della monarchia. Ma nessun appoggio al re venne dagli alleati; Catalano ritiene che Umberto ed il suo entourage rimasero addirittura sorpresi dalla difesa del risultato del referendum da parte di De Gasperi, considerando l’orientamento del suo elettorato, ma anche dagli alleati, che comunque gli avevano garantito la via di scampo dal referendum(93). Ma gli alleati, secondo Catalano, avevano ormai interesse a difendere la repubblica istituita con il referendum(94). Se le contestazioni monarchiche avessero avuto la meglio e portato magari ad un nuovo referendum, difficilmente si sarebbe potuto garantire la sopravvivenza del metodo democratico; si sarebbe creato un precedente pericoloso e veramente si sarebbe potuta verificare una guerra civile, della quale avrebbe potuto approfittare l’Unione Sovietica, che manteneva ancora aperta la questione della nostra frontiera orientale. In effetti, togliere credibilità alla neonata democrazia, con un partito comunista italiano così forte, e ricordando anche l’intransigenza delle sinistre sulla questione istituzionale, poteva significare mettere in pericolo il compromesso raggiunto sulla divisione delle zone di influenza in Europa a favore dell’area comunista. Mi sembra opportuno aggiungere che l’esito dell’elezione dell’Assemblea Costituente fu largamente propizio per la DC, e quindi l’obiettivo che come abbiamo visto era quello di gran lunga più importante era stato comunque raggiunto, cosicché appoggiare la monarchia nella contestazione del referendum avrebbe significato correre dei rischi pressoché gratuiti. Catalano sostiene che fu proprio questa posizione degli alleati a portare probabilmente De Gasperi, che dapprima aveva mediato tra corona e governo con molto equilibrio, anche per evitare che si arrivasse a soluzioni estreme, definitivamente dalla parte repubblicana(95). Ed il colloquio dell’11 giugno tra Umberto e Stone, secondo Catalano, placò definitivamente le acque(96).
In effetti, il trapasso dei poteri compiuto dal governo con un atto unilaterale poneva Umberto innanzi alla scelta di abbandonare la lotta lasciando l’Italia o resistere, con tutte le conseguenze che il caso comportava. E Umberto decise di lasciar cadere gli incitamenti alla resistenza provenienti dai suoi più stretti collaboratori. Così il 13 giugno partì dall’aeroporto di Ciampino alle 15.40 alla volta di Lisbona in Portogallo. Prima della partenza Umberto rilasciò un proclama ufficiale di protesta, in cui manifestò il rifiuto di considerare definitivamente risolta la questione istituzionale. Puntò l’indice contro "il colpo di stato" compiuto dal governo che, "in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura", lo aveva messo nella situazione di "spargere sangue o subire la violenza". Il proclama di Umberto conteneva anche lo scioglimento del giuramento di fedeltà al re ed il saluto finale agli Italiani(97). Su "Il Popolo" del 14 giugno si avanzò l’ipotesi che il proclama del re fosse ben altro. Del testo originale sarebbero rimasti solamente i saluti finali e lo scioglimento del giuramento di fedeltà, mentre la parte del proclama riguardante le accuse sarebbe stato voluto dai collaboratori di Umberto. Al di là dell’episodio del proclama va detto che tutti gli storici concordano nel considerare Umberto, anche per la mitezza che contraddistingueva il suo carattere, piuttosto restio ad una resistenza ad oltranza di opposizione al governo e ai risultati del referendum, ma erano i consiglieri che lo incoraggiavano a dare battaglia e a non arrendersi. Secondo Romita il proclama era invece un invito alla violenza rivolto ai dieci milioni di persone che avevano votato la monarchia, mentre il re avrebbe atteso in Portogallo l’evolvere della situazione(98). È vero che nel testo Umberto si diceva ancora fiducioso che la magistratura, "la cui tradizione di indipendenza e libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola", e dunque alimentava ancora delle speranze, ma al tempo stesso invitava "a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del paese…e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace"(99). Così Indro Montanelli e Mario Cervi definiscono quella del re "la scelta più distensiva"(100). Ma su tale scelta è difficile pensare che non abbia pesato la volontà degli Alleati, considerato l’accanimento che animava i fedeli collaboratori del re prima della sua partenza per l’esilio.
Il 14 giugno "Il Popolo" smentiva con un piccolo articolo in prima pagina, dal titolo Fantasie e fandonie della stampa serale, la notizia trasmessa da "Il giornale della sera" e dal "Giornale d’Italia", che l’immediata partenza del re fosse da attribuirsi all’iniziativa degli Alleati. E lo stesso ammiraglio Stone aveva chiesto a De Gasperi di smentire tale notizia, in quanto "inventata di sana pianta"(101). Nello stesso articolo viene pure confutata due volte la voce che circolava sulle dimissioni del presidente della Cassazione Pagano, smentita proveniente dall’ANSA ed autorizzata espressamente dall’interessato. Giuseppe Pagano era un monarchico, e le sue eventuali dimissioni avrebbero avuto un significato piuttosto forte, perché sarebbero state la conferma di indebite pressioni del governo sulla magistratura, e dell’usurpazione avvenuta con il trapasso dei poteri senza attendere la sentenza della Corte. È probabile che certe notizie non trovassero fondamento, soprattutto perché sostenute da giornali e ambienti monarchici, ma pensando ai contatti che si ebbero, e che trovano puntuale conferma nei giornali di allora, è difficile pensare che non vi fosse alcuna ingerenza da parte alleata, anche considerando quanto l’Italia fosse punto importante della politica internazionale degli Anglo-Americani. Il "Corriere d’informazione", nell’edizione del pomeriggio del 12-13 giugno, nella cronaca di prima pagina, dava notizia di un incontro tenutosi nella mattinata del 12 giugno al Viminale tra De Gasperi e l’ambasciatore d’Inghilterra sir Noel Charles e con l’ammiraglio Stone. Del colloquio viene riportata un’"impressione" di Noel Charles, secondo la quale è comprensibile ritenere la decisione della Corte di Cassazione come non definitiva. Per quanto riguarda Stone, che aveva avuto il giorno prima un colloquio con Umberto, egli espresse l’opinione che la Cassazione aveva dato l’impressione di voler "sfuggire al rapporto definitivo". Inoltre Stone fece presente a De Gasperi come la miglior cosa sarebbe stata che il potere "venisse messo nelle mani del presidente del consiglio", ma su questo punto si chiedeva che cosa sarebbe accaduto se la Corte avesse ancora rimandata la sentenza definitiva(102). Da parte inglese si riconosceva l’ambiguità della prima pronuncia della magistratura, e quanto essa fosse pericolosa. È pure evidente l’apprensione che le contestazioni sfociate nei ricorsi non fossero così facilmente risolvibili dalla magistratura, la quale si era riservata infatti un tempo maggiore per prendere le sue decisioni. È naturale la sensazione che anche da parte inglese la mezza pronuncia della Cassazione fosse considerata come un intralcio inopportuno al passaggio dei poteri, cosa ormai gradita agli alleati.
Il "Corriere della Sera" del 14 giugno fa menzione delle voci che si erano diffuse intorno all’improvvisa partenza del re. Une delle ipotesi più accreditate fu quella di un intervento da parte del Vaticano. Vi fu infatti una lunga visita del nunzio apostolico mons. Borgoncini Duca a De Gasperi, il quale lo aveva invitato a Palazzo Chigi. Inoltre, i fogli monarchici, secondo il "Corriere della Sera" hanno dato notizia che alle 14.15 l’autorità alleata aveva comunicato al re "il desiderio che egli si allontanasse immediatamente dal territorio nazionale, allo scopo di evitare disordini". Questo stato di cose sarebbe stato determinato dalla notizia avuta dagli Alleati di "una imminente mossa militare di Tito su Trieste qualora Umberto fosse rimasto in Italia"(103). Il "Corriere" dice però che la notizia era stata subito smentita dal segretario di De Gasperi su autorizzazione di Stone, il quale, da fonte ben informata, sapeva al contrario che il re non era ancora disposto a partire. Inoltre l’ufficio romano dell’agenzia Reuter, su autorizzazione dell’autorità britannica, provvide alla smentita ufficiale delle voci di un intervento alleato sulla partenza del re, in quanto "la questione istituzionale è stata considerata dagli Alleati come una questione di politica interna italiana nella quale essi non avevano motivo di ingerirsi". Ma di nuovo l’"Osservatore Romano" del 16 giugno riferiva le accuse del monarchico "Italia nuova", secondo il quale gli alleati avrebbero fatto valere ancora le ragioni superiori di interesse internazionale e che l’interesse alleato era quello di instaurare la repubblica in Italia. Le smentite ufficiali da sole non possono avere che un credito assai relativo, in quanto gli Alleati non potevano certo ingerirsi nelle faccende italiane in modo dichiarato, così come non si possono prender per buone le ipotesi che la stampa monarchica sosteneva, per evidenti ragioni di parzialità. Ho già affermato come mi sia stato difficile trovare delle spiegazioni da parte degli storici sulla presa di posizione del governo e sull’uscita di scena del re, ma comunque è del tutto errato negare l’influenza dei governi alleati. Per l’autorità che essi avevano in quanto ancora forze di occupazione sul territorio nazionale, anche un semplice parere, per quanto informale fosse, poteva avere una forza di fatto vincolante, e una decisione presa con il consenso o il parere favorevole degli alleati era destinata a sicuro successo. Del resto, pur ritenendo valida la smentita del "Corriere della Sera" sul pericolo di una mossa militare slava nei nostri confronti, erano comunque reali le pressioni di Tito su Trieste e la forza del Partito Comunista Italiano era ben presente a tutti. Lo stesso proclama di Umberto, a ben guardare, parla espressamente di "frontiere minacciate", di "unità in pericolo" e invita i fedeli monarchici a seguire il suo esempio ed "evitare l’acuirsi dei dissensi che minaccerebbero l’unità del paese"(104). Una guerra civile avrebbe senz’altro sconvolto i delicati equilibri creatisi all’interno del paese, ma anche, e forse soprattutto, la posizione dell’Italia in ambito internazionale. Questo non poteva certo piacere agli alleati che, smentite a parte, a ben vedere, non potevano considerare le nostre vicende solo come "una questione di politica interna italiana"(105).
Il giudizio definitivo della Corte di Cassazione si ebbe, come previsto, il giorno 18 giugno in un’aula di Montecitorio alle ore 18.00. Era presente il procuratore generale Massimo Pilotti. La partenza del re aveva senza dubbio mitigato il clima e stemperato le tensioni intorno a questa seconda pronuncia dei magistrati della corte e le aspettative del monarchici erano ormai alquanto tiepide. Il primo presidente Giuseppe Pagano diede lettura di qualche modifica di scarsa entità sull’attribuzione di alcuni voti. Integrò poi i risultati annunciati il 10 giugno con quelli delle sezioni che allora mancavano e dichiarò che i voti dati alla repubblica erano 12.717.923, quelli dati alla monarchia 10.719.284, le schede nulle complessivamente arrivavano a 1.498.136. Nei giorni successivi la Corte avrebbe deciso sui reclami e le proteste contenute nel verbale depositato alla cancelleria della Corte. Il ricorso principale, quello promosso dall’on. Enzo Selvaggi, che chiedeva una nuova consultazione e che riteneva giuridicamente corretto un modo di calcolare la maggioranza in base alla cifra complessiva degli elettori e non in base ai soli voti validi, venne respinto. Il "Corriere della Sera" del 19 giugno dà notizia anche delle motivazioni e di altri particolari. La sentenza che respingeva il ricorso venne emessa dai diciannove giudici della Cassazione con una maggioranza di dodici a sette. In seno alla corte, sul modo di calcolare la maggioranza, si erano manifestate due correnti, una per l’accoglimento del ricorso, sostenuta dal procuratore generale Pilotto, e un’altra sostenuta dal consigliere Colagrosso, che era per il rigetto del ricorso. La camera di consiglio durò circa tre ore e finì dunque col respingere il ricorso di Selvaggi e degli eminenti giuristi. La Corte aveva così deciso che per "elettori votanti", come si legge nel Decreto Luogotenenziale del 16 marzo 1946 n° 98 all’art. 2, debbano intendersi coloro che hanno depositato nell’urna dei voti validamente espressi. Questo perché il Decreto Luogotenenziale n° 98 del 16 marzo deve collegarsi, per comprendere la volontà del legislatore, con il Decreto Luogotenenziale del 23 aprile 1946 n° 219 agli art. 16 e 17 che, come abbiamo visto in precedenza, nel disciplinare i conteggi dei voti negli uffici circoscrizionali fanno riferimento "ai voti validi attribuiti rispettivamente alla repubblica e alla monarchia". Inoltre non potrebbe essere richiesta una maggioranza qualificata, in quanto la scelta del referendum riguardava due sole possibilità di scelta e la legge non prevedeva una nuova consultazione nel caso in cui una certa maggioranza non si fosse raggiunta. È palese che la volontà del legislatore volesse far riferimento non ad una maggioranza qualificata, ma solo ad una prevalenza numerica di una opzione sull’altra. Queste argomentazioni sono certamente valide e per rendersene conto è forse sufficiente leggere i decreti luogotenenziali sul referendum istituzionale, ma è altrettanto certa la loro lacunosità e la possibilità di una loro interpretazione incerta ed ambigua.
La partenza di Umberto per l’esilio seguita dalla seconda pronunzia della Cassazione, che proclamava i risultati e respingeva il ricorso dei monarchici, spegneva definitivamente le speranze dei fedeli del re. Il battagliero "Italia Nuova", il 19 giugno, chiedeva al governo repubblicano di concedere al paese una nuova consultazione per la scelta elettorale, atto dovuto, secondo il foglio monarchico, considerato il fatto che Umberto, in caso di affermazione monarchica, aveva promesso un nuovo referendum che avrebbe concesso di votare ai tanti che non avevano potuto partecipare, loro malgrado, la prima volta. Naturalmente l’appello cadde nel vuoto. Il Ministro degli Interni Romita segnalò che già dal 15 giugno dalle province d’Italia arrivavano notizie attestanti un’atmosfera tranquilla e distesa(106). Il 21 giugno De Gasperi ricevette Stone al Viminale e ne ebbe la comunicazione che i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna si congratulavano "per la maniera ordinata con cui si sono svolte in Italia le prime elezioni libere dopo il fascismo". Monarchici e qualunquisti si astenevano dall’applaudire i discorsi del presidente dell’Assemblea Costituente Saragat quando essi terminavano con un "Viva la repubblica"(107). Ma i giornali monarchici pubblicavano ormai articoli caratterizzati da un prevalente spirito di distensione. Si era, dunque, cominciato a percorrere la lunga strada della pacificazione. Ma a parte una certa retorica che descrive in termini trionfalistici l’avvento della repubblica in Italia, è francamente difficile non essere d’accordo con Melograni quando afferma che "se è vero che la monarchia finì male, la repubblica non cominciò certo bene il suo cammino"(108).
Vittorio Gaeta
NOTE
(1) Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, 1918-1948, Milano, Lerici, 1962, p. 693.
(2) Tali notizie sono contenute in un opuscolo uscito clandestinamente a Roma all’inizio del ’44. L’autore è Federico Comandini. Il testo è contenuto nell’opera curata da E. Santarelli, Dalla monarchia alla Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 71-78.
(3) Cfr. P. Melograni, Dieci perché sulla repubblica, Milano, Rizzoli, 1994, p. 35.
(4) Cfr. D. Bartoli, I Savoia ultimo atto, Novara, De Agostini, 1986, pp. 176 – 177.
(5) Le dichiarazioni del re sono riportate in "Civiltà Cattolica" del 25 maggio 1946.
(6) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, L’Italia della repubblica, Milano, Rizzoli, 1985, p. 28.
(7) Cfr. P. Melograni, op. cit., p. 36.
(8) Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919 –1948, Milano, Lerici, 1962, p. 702.
(9) La lettera apostolica di Pio XII al cardinale Lavitrano è contenuta in Santarelli, op. cit., pp. 123-124.
(10) Ivi, pp. 189-193.
(11) Cfr. F. Catalano, Una difficile democrazia; Italia 1943-48, Firenze-Messina, Casa Editrice D’Anna, p. 808.
(12) Cfr. L. Urettini, I comitati civici nel Trevigiano e la loro funzione nelle elezioni del 1948, opera citata in F. Catalano, Una difficile democrazia…, cit., p. 808.
(13) Lettera del 16 agosto 1945, citata in P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 214.
(14) Lettera del 26 ottobre 1945, citata in P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., pp. 215 – 216.
(15) Cfr. A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1967.
(16) Cfr.P. Melograni, op. cit., p.28.
(17) Ivi, p.38.
(18) Cfr. D. Bartoli, op. cit., pp.182-183.
(19) Cfr. P. Melograni, op. cit., p. 38.
(20) Brucculeri è citato in Catalano, Una difficile…, cit. p. 810.
(21) Cfr. A. C. Jemolo, op. cit., in E. Santarelli, op. cit. , pp. 248-255.
(22) Cifre riportate in E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 152.
(23) Articolo di F. Platone pubblicato su "Rinascita" e citato in E. Santarelli, op. cit., pp. 209-217.
(24) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p. 210-211.
(25) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p.210.
(26) Cfr. M. R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Milano, Mondadori, 1964, p. 213.
(27) Lettera riportata nell’ appendice documentaria in M. R. De Gasperi, op. cit., documento n. 2.
(28) Testo della lettera in P. Scoppola, op. cit., p. 212.
(29) Ivi, pp. 212-213.
(30) Ivi, pp. 208-209.
(31) Ivi, p. 213.
(32) Ivi, p. 221.
(33) Cfr. E. Piscitelli, op. cit., p. 151.
(34) Ibidem. La notizia è anche in D.W. Ellwood, L’alleato nemico, Milano, Feltrinelli, 1977, p.191.
(35) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p. 224.
(36) Il testo della lettera sta in P. Scoppola, op. cit., p. 231.
(37) Ivi, pp. 234-235.
(38) Ivi, p. 214.
(39) Ivi, p. 224.
(40) Ivi, pp. 241-242.
(41) Cfr. F. Catalano, Una difficile…. cit., p. 798.
(42) Il testo è citato da M. R. De Gasperi, op. cit., pp. 211-212.
(43) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p., 239.
(44) D. W. Ellwood, op. cit.
(45) Fonti d’ archivio dal National Archives di Washington, in D.W. Ellwood, op. cit., p. 188.
(46) Ivi, p. 269.
(47) Memorandum del Foreign Office: Italy, the institutional question, in D.W. Ellwood, op. cit., p. 270.
(48) Ivi, p. 267.
(49) Ivi, pp. 147-148.
(50) Il testo del discorso di Churchill sta in E. Santarelli, op. cit., pp.101-103.
(51) Cfr. D.W. Ellwood, op. cit., p. 149.
(52) Memorandum del Foreign office, cit.
(53) N.A.W. in D.W. Ellwood, op. cit, p. 177.
(54) Ivi, p. 272.
(55) Cfr. "Civiltà Cattolica", 25 maggio 1946, sta in "Cronaca contemporanea".
(56) Cfr. F. Catalano, L’ Italia …., cit., p. 699.
(57) Le parole riprese dal diario del Generale Puntoni, sono riportate da F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 698.
(58) Cfr. G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, opera citata in F. Catalano, op. cit. p. 699.
(59) Testo riportato in " Civiltà Cattolica", numero del 25 maggio 1946.
(60) Anche le notizie de "L’Avanti" sono riportate in "Civiltà Cattolica" del 25 maggio 1946.
(61) Ibidem.
(62) Ibidem.
(63) Ibidem.
(64) Sono parole di risposta da parte del Supremo Comando Alleato e riferite da De Gasperi; ibidem.
(65) Cfr. "Il Popolo", 24 maggio 1946
(66) Cfr. "Il Popolo", 28 maggio 1946.
(67) Cfr. L’ "Osservatore Romano", 5 giugno 1946.
(68) Cfr. G. Galli,. Il comportamento elettorale in Italia, il Mulino, Bologna, 1968, p. 68; P. Melograni, op. cit., p.39.
(69) L’episodio è raccontato da Luigi Cavicchioli in un saggio dal titolo Il referendum che esiliò i Savoia, apparso a puntate sul settimanale "Oggi" nel 1952. A tale episodio si fa riferimento nella prima puntata del n. 42 del 16 ottobre 1952.
(70) Ibidem.
(71) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, op. cit., p. 37.
(72) Cfr. "Il Corriere della Sera", 5 giugno 1946.
(73) Cfr. "Oggi" del 16 ottobre 1952, n. 42 , saggio di Chiavicchioli, op. cit.
(74) Cfr. "Civiltà Cattolica", 1° dicembre 1945.
(75) Cfr. nota n. 63.
(76) Cfr. I. Montanelli-M. Cervi, op. cit., p. 30.
(77) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 189.
(78) Notizie riportate su "Il Corriere della Sera", 9 giugno 1946.
(79) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 183.
(80) Le accuse de "L’Avanti" sono riportate su "Il Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(81) Le parole di Garofalo sono riportate da F. Catalano, L’ Italia…., cit., p. 710.
(82) Cfr. sul settimanale "Oggi" del 16 ottobre 1952, n. 42, il saggio di Chiaviccoli, op. cit.
(83) Cfr. "Il Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(84) Cfr. P. Melograni, op. cit., p.39.
(85) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 183.
(86) Ivi, p. 188 e l’ "Osservatore Romano", 14 giugno 1946.
(87) Notizie riportate dal "Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(88) Le memorie di Romita sono in E. Santarelli, op. cit., pp. 202-207.
(89) Cfr. D. Bartoli. op. cit., p. 192.
(90) Cfr. "Corriere della Sera",13 giugno 1946.
(91) Le memorie di Romita in E. Santarelli, op. cit,. pp. 202-207.
(92) Cfr. F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 853.
(93) Cfr. F. Catalano, L’ Italia… cit., p. 703.
(94) Cfr. F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 857.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.
(97) Il testo del proclama è stato desunto da "Il popolo", 14 giugno 1946.
(98) Cfr. le memorie di Romita in E. Santarelli, op. cit., pp. 202-207
(99) Sono parole del proclama di Umberto.
(100) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, op. cit., p. 58.
(101) Cfr. "Il Popolo", 14 giugno 1946.
(102) Cfr. "Il Corriere d’Informazione", edizione del pomeriggio, 12-13 giugno 1946.
(103) Cfr. "Il Corriere della Sera", 14 giugno 1946.
(104) Sono parole dal proclama di Umberto, cit.
(105) Cfr. "Il Corriere della Sera", 14 giugno 1946.
(106) Cfr. "Il Corriere della Sera", 15 giugno 1946.
(107) Cfr. "Il Corriere della Sera", 27 giugno 1946.
(108) P. Melograni, op. cit., p. 40.
1. Spontaneità di un raffronto
Potrebbe sembrare strano e forzato un confronto tra due autori, Niccolò Machiavelli e Antonio Rosmini, tanto lontani nel tempo, quanto nella formazione e nelle esperienze di vita. Eppure, leggendo la prima opera politica del filosofo roveretano, la Politica prima(1), man mano che la figura del principe da lui vagheggiata si va delineando e precisando nei suoi contorni e nella sua fisionomia, viene spontaneo il raffronto con il principe descritto da Machiavelli.
Innegabili le differenze di fondo tra i due pensatori politici. Machiavelli, considerato l’iniziatore della moderna scienza politica, separò nettamente la morale dalla politica affermando l’autonomia della seconda e negando il tradizionale primato della prima. Lo stato è considerato nella sua realtà "effettuale", e in questo senso la sua ricerca segna il radicale distacco dalla speculazione classica sul tipo ottimo di stato, capace di realizzare i modelli di una vita virtuosa. La sua idea è quella di uno stato - forza che si identifica con la ragion di stato e si pone al di sopra delle ragioni individuali; per imporsi ricorre anche a mezzi che la morale comune e quella cristiana ritengono illeciti. Tale idea è strettamente connessa con la concezione pessimistica dell’uomo, chiuso nel suo gretto egoismo, pervaso dalla cupidigia e dall’ambizione, sempre pronto a commettere il male. Machiavelli fu il primo ad avere la concezione della politica come esercizio del potere atta a reggere, conservare e aumentare gli stati, in quanto organismi dotati di una propria vita. Suo intento fu quello di delineare le caratteristiche tecniche della nuova politica, più adatta al nascente stato laico svincolato dalla religione e dall’etica. Anzi la religione, sebbene considerata componente essenziale della società, viene degradata a mero strumento della politica.
Rosmini, invece, considerato uno dei maggiori rappresentanti dello spiritualismo italiano d’ispirazione cattolica, propugna un’intima connessione tra diritto e morale e, considera la religione garante della tranquillità e della stabilità dell’ordine politico. L’uomo, non più mezzo ma fine ultimo, non più vocato al male ma al bene, recupera tutta la sua dignità di creatura divina anzi di immagine divina, di "soggetto intellettivo" capace di intuire e di applicare l’idea dell’essere. Questa idea dell’essere è "luce della ragione" e consente all’uomo di avere coscienza della propria e dell’altrui esistenza, di percepire e realizzare il bene. Il filosofo roveretano insiste, in modo particolare, sul principio che la società civile, lo stato debbono essere a servizio del cittadino e non viceversa; riconosce l’assoluto primato del bene comune sul bene pubblico e implicitamente la piena supremazia della persona dell’uomo sullo stato. Tuttavia, i due autori si ritrovano ad affrontare il medesimo argomento, e seppur da angolazioni diverse, più volte le loro considerazioni si muovono sullo stesso binario. In pari tempo non sono poche le pagine rosminiane scritte espressamente per confutare le dottrine del segretario fiorentino, e non sono poche le volte in cui il pensiero di chi legge, corre per desiderio di confronto al principe di Machiavelli.
Gli avvenimenti del 1820- 1821 (moti rivoluzionari prima in Spagna e poi in Italia, e il congresso di Verona delle monarchie della restaurazione che aveva riscosso la piena adesione di Rosmini), influirono fortemente nella elaborazione del pensiero politico rosminiano e diedero la spinta alla stesura di un trattato di politica (iniziato nel dicembre del 1822) con l’intendimento di dare "un fondamento sistematico alla sua attività svolta in difesa della religione contro il diffondersi delle dottrine che la combattevano e che avrebbe dovuto indicare ai governi della Restaurazione i provvedimenti da assumere per contrastare efficacemente i tentativi di una instaurazione rivoluzionaria di Costituzioni ispirate ai principi della Rivoluzione francese".(2) Essenzialmente diversa la finalità del Principe, inizialmente di ordine pratico (Machiavelli aspirava a riavere un impiego degno del suo passato e delle sue doti e supplicava Lorenzo de’ Medici a volgere "li occhi in questi luoghi bassi" per conoscere "quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna"(3)), si trasforma in una rigorosa precettistica per colui che voglia acquistare il potere e conservarlo e si conclude con un’accorata esortazione patriottica secondo la quale "era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più schiava che li Ebrei, più serva ch’è Persi, più dispersa che li Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, […] in modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, […] e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite".(4)
A giudizio di Machiavelli il principe, qualunque sia il modo con il quale accede al potere (ossia con la sua virtù o per fortuna) è obbligato, se vuole conservare il potere e lo stato, a tenere una certa condotta. E sia in politica interna sia in politica estera deve rispettare certe regole pratiche e applicare determinati precetti che sono conformi alle necessità insite al potere e alle caratteristiche della natura umana. La virtù, di cui parla Machiavelli, che deve contraddistinguere un principe nulla ha da spartire con la virtù in senso cristiano. Per essa s’intende la capacità, l’energia e le doti poste a servizio dello stato. Tuttavia il suo realismo politico non deve essere inteso, sempre e comunque, come legittimazione del principio secondo cui il "fine" (conservazione del potere) giustifica i mezzi, ma come valutazione della situazione reale nella quale ci si trova a operare, dei rapporti necessari al potere ineliminabile in qualsiasi società politica.
Anche Rosmini, sulla scia di altri pensatori politici di ispirazione cristiana come S.Tommaso, Erasmo da Rotterdam, accingendosi ad elaborare la sua prima opera politica, decide di soffermarsi a descrivere le caratteristiche del principe cristiano e l’arte politica che egli deve escogitare nelle sue relazioni con i sudditi e con gli altri principi. Per il filosofo roveretano l’arte politica è la suprema delle arti perché implica il massimo uso della virtù, "se la virtù della prudenza", per gli scrittori politici classici, "è la suprema governatrice delle umane operazioni e quasi l’architettura della vita ragionevole, chi può negare che questa virtù la più nobile e la più onorevole all’uman genere non si compia e si perfezioni in tutto l’aumento di cui elle può essere capace nell’arte del governare, la quale alla formazione ed al finimento di tutte le virtù accortamente conduce non le forze di una persona ma quelle di tutta intiera la comunità?".(5) La virtù e l’arte del governare costituiscono per Rosmini un binomio inscindibile, mancando la virtù manca il governo. Il primo requisito che un principe deve avere è quello di essere prudente, essendo la prudenza l’auriga di tutte le virtù. Naturalmente, data la sua visione del mondo e il fondamento religioso da cui è ispirato, per Rosmini la virtù ha un contenuto pienamente morale e cristiano.
Quando Antonio Rosmini comincia a scrivere la Politica prima ha appena 25 anni ma ha già una notevole conoscenza dei classici antichi, medievali e moderni e della storiografia greco-romana. Così come Machiavelli ritiene che le regole e i precetti della politica debbano essere comprovati da un continuo raffronto con l’esperienza strorica, "Non si maravigli alcuno- scriveva Machiavelli- se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; […] debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore".(6)
All’interno della Politica prima i riferimenti a Machiavelli sono molteplici. Rosmini se da un lato non si propone di contrapporre la sua figura di principe a quella descritta da Machiavelli, dall’altro nutre una certa ammirazione per lui denominandolo addirittura "sommo politico fiorentino."(7) Più volte Rosmini esprime apprezzamenti nei confronti dell’opera del pensatore fiorentino: "non le bestialità sue gli fecero la fama" bensì l’attenzione da lui rivolta alla "sustanza cioè all’acquistare e tenere gli Stati", pur sbagliando nell’indicare i mezzi, "tien però sempre avanti il fine onde al Principe dà egli stesso per regola che, non avendo uomo perfetto, sappia fuggire l’infamia di quei vizi che gli torrebbero lo stato; e da quelli che non gliene tolgono, guardarsi se egli è possibile".(8) E ancora in una apposita annotazione nel capitolo dedicato ai rapporti fra i sudditi e il principe Rosmini scrive: "Fu antico detto e quasi comune persuasione, senza ingiustizia non potersi reggere la repubblica. Così tenne il Machiavelli darsi ne’ pubblici affari tali strette e congiunzioni di cose da non poterne uscire salvi senza frode, o ingiusta violenza, e quel principe che per rispetto alla giustizia se ne astiene non potere durare a lungo. E ciò pensava il Machiavello per la mera idea fattasi dei principi, essendo toccato a vivere fra principotti faziosi e tristi, e di niente curanti fuori che dare la gambata l’uno all’altro".(9)
Rosmini - condividendo non pochi aspetti del pensiero politico machiavelliano- sembra schierarsi con quanti, come Alberico Gentili, Francesco Bacone, Jean-Jacques Rousseau, Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo, ritengono che Machiavelli non rappresenti la summa dell’immoralità, bensì il critico per eccellenza della tirannia dei suoi tempi, colui che ha messo in guardia "contro la tendenza innata nell’uomo ad assolutizzare il suo potere, svelando i malvagi accorgimenti, le subdole macchinazioni e gli efferati delitti dei principi per suscitare contro di essi l’odio dei popoli e l’amore per gli ordinamenti repubblicani".(10) Con un esplicito riferimento a Machiavelli, Rosmini, quasi volendo dare un avvertimento ai principi, scrive: "…temere le inimiche parole dei lusinghieri. Lusinghieri sono tanti filosofi, i quali fanno eccedere i diritti dei sovrani, perché passando il termine si distruggano con sé stessi; […] lusinghieri sono quei politici d’altro genere, che insegnano al principe a fare ogni cosa fanda e nefanda per conservarsi, e sanno, se fa bisogno, deridere la bonarietà di quelli che per risguardo alla giustizia non usano alcuni mezzi ingiusti di tenere lo Stato o di vantaggiarlo.
Esempio sia il Macchiavelli". […] il quale "permette anzi insegna a’ Principi ogni scelleratezza che paia utile. Ma […] noi dobbiamo saper grado al Machiavello e ad altri tali scrittori, perché apertamente e senza simulazione proffersero le nequizie de’Principi e li fecero conoscere. E non diceva il Machiavello stesso, avere insegnato nel principe quanto arridesse a quello a cui lo scrivea, a cui se egli facesse così come gl’insegnava venire ad essere per certo breve il suo imperio, cosa che sommamente agognava, ardendo di odio nel suo interno contro quello stesso principe, a cui il libro è rivolto: né con esso libro avere avuto in mente altro che insegnargli il modo di rovinare e precipitare brevissimamente sé medesimo. Così quel Machiavello […]mentre professava a loro d’insegnare il modo di sostenersi svelava pubblicamente a’ popoli tutte le loro arti, e proponendo Cesare Borgia per esempio del perfetto principe eccitava tutti a stomacarsi di lui e detestarlo, incitando anzi la vendetta".(11)
L’intento di Rosmini è di fondare una scienza politica di matrice cristiana. Se egli, nei suoi scritti giovanili, tratta della natura del principato e della figura del principe, non è perché abbia una particolare preferenza per le monarchie assolute, ma perchè vivendo in una società organizzata in principati assoluti, ritiene che la sua opera possa essere più utile nel dare suggerimenti e consigli a chi nella società del suo tempo si trova al potere. È il medesimo realismo politico di Machiavelli, volto a valutare la situazione nella quale ci si trova ad operare. Anche il segretario fiorentino pur affermando, all’inizio del suo trattato che "Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati"(12) ritiene più opportuno, in quel momento, occuparsi dei principati e come questi si possano governare e mantenere.(13)
Secondo Rosmini la storia di tutti i tempi, dalle prime rozze società a quelle odierne, ci mostra che sempre la moltitudine obbedisce e solo alcuni comandano. La sostanza è che una società esiste in quanto vi sono governanti e governati. Il potere costituito deve sempre e comunque raggiungere i fini che si è proposto e cioè il mantenimento dell’ordine sociale. È dovere del principe individuare, per l’esistenza di ogni società civile, le leggi che la regolano e le norme necessarie al buon governo del proprio stato, deve rafforzare le disuguaglianze naturali ed economiche, ponendo in atto i mezzi più efficaci per soffocare ogni velleità di ribellione negli inferiori e ogni abuso di forza nei superiori.
Rosmini, nel determinare la fonte di ogni regola che insegna a governare la società, riprende il principio tomistico della sostanza e dell’accidente.(14) Il principe deve tener conto di ciò che forma la sostanza della società e deve trascurare quello che ne costituisce l’accidente. Ne consegue che in tutte le società, secondo l’esposizione rosminiana, si distinguono tre epoche: la prima è l’infanzia nella quale chi regge la società pensa alla sostanza; la seconda, la maturità, nella quale il reggitore, pur non perdendo di vista la sostanza, comincia ad occuparsi dell’accidente; infine nella terza, la vecchiaia, la sostanza viene completamente dimenticata come cosa da lungo tempo sicura e si bada esclusivamente all’accidente.(15) Ciò condurrà alla morte della società, a meno che il reggitore non la faccia tornare al primo periodo. In questa analisi Rosmini è d’accordo con Machiavelli il quale scrive: "A volere che una setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio".(16)
In sostanza Rosmini riprende e reinterpreta la teoria machiavelliana (che a sua volta si rifaceva all’ anaciclosi di Polibio), della naturale tendenza delle forme di governo a corrompersi, trasformandosi in un potere assoluto ed arbitrario, causa di tensioni e di lotte civili che mettono a rischio l’esistenza stessa dello stato. Quindi necessariamente bisogna innovare o restaurare i veri principi e ciò potrà avvenire soltanto in un principato "perché può bene la saggezza d’un principe fare con accorti modi o con magnanimi più temperato il dominio che ha nelle mani.[…] Sia dunque regola per misurare il valore de’politici mezzi quella che si debbano riputar ottimi quei mezzi, con cui un governo venuto ad una forma di reggimento eccessivo, si ritiri o con accortezza o con magnanimità alcuni passi indietro senza che si infranga: perché possa continuare un movimento necessario alla sua vita e d’altronde con questo suo movimento non passare negli eccessi".(17)
2. Il principe interprete del sentimento nazionale
Posta la naturale disuguaglianza fra gli uomini,(18) l’unione di una moltitudine di consociati esprime necessariamente un’organizzazione politica caratterizzata da rapporti di comando e obbedienza, che si fondano sul principio della superiorità e inferiorità: "Poiché in qualunque unione si vive di uomini che abbia qualche ordine, necessariamente vi debbe essere superiorità ed inferiorità, chi regge e chi è retto, chi comanda e chi ubbidisce, sieno i reggitori e gli imperanti molti ovvero un solo cittadino".(19) Machiavelli esprime la sua piena fiducia nella virtù del principe "perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa, e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo, quando li assai hanno dove appoggiarsi".(20) Anche per Rosmini non il popolo ma il principe deve farsi interprete del sentimento nazionale "che è un prodotto della natura e della storia".(21)
Secondo Rosmini "la massa del popolo né pur sogna d’investigare le ragioni delle legittimità de’ sovrani". Il popolo non vuole né sa governare […] "Egli sa che buono è l’esser governato, che l’avere un capo è un gran bene. Che importa cercare donde vengano i diritti di questo capo purchè il capo faccia il suo dovere, faccia da capo, bene unisca e regga le membra?" al popolo importa soltanto giudicare […] "se egli vien trattato bene, o se egli vien trattato male. Questo è di suo interesse, lo star bene o lo star male".(22) Ora tra il corpo superiore ( nobili o principe) e corpo inferiore (plebei o sudditi) vi sarà sempre una certa ostilità perché l’inferiore sarà sempre portato ad invidiare la sorte del superiore, mentre il superiore, non contento del proprio stato cercherà di ridurre ad un livello più basso, simile a quello delle bestie, l’inferiore.(23)
Accolta la legittimità del principio di superiorità e inferiorità, non si può non tenere in considerazione che dal contrasto nasce, nella società politica, una forza dissolvente in opposizione alla forza di coesione o di attrazione costituita dall’istinto di socievolezza innato nell’uomo. Quanto maggiore sarà la distanza tra lo stato di superiorità e quello dell’inferiorità, tanto più grande sarà la forza di dissoluzione della società. Il principe che ha di mira la conservazione della società, deve ridurre al minimo possibile la distanza tra il corpo superiore dei cittadini e quello inferiore al fine di contrastare la tendenza dissolvente e dare alla società la maggiore coesione possibile.(24)
Machiavelli, nel corso della trattazione del Principe, più volte si era soffermato su questo argomento e dato delle possibili soluzioni: "sempre bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo principe, e con gente d’arme, e con infinite altre iniurie che si trova dietro el nuovo acquisto".(25) Egli è convinto che "quelli stati che si governano per uno principe e per servi, hanno el loro principe con più autorità; perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e, se obbediscono alcun altro, lo fanno come ministro et offiziale, e non li portano particolare amore";(26) ma sa bene che "la natura de’ populi è varia: et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa far credere loro per forza".(27) Tuttavia " …superati che li hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità li avevano invidia, rimangono potenti, securi onorati, felici".(28)
Per Rosmini il principe non è un dio ma un uomo, e al pari degli altri uomini non è infallibile e perfetto, anzi di solito egli può divenire superbo e dispotico; tuttavia tale inconveniente non giustifica il sovvertimento dell’ordine costituito in quanto "i falli de’ reggitori sono accidentali, il governo giova essenzialmente se non altro col tenere uniti gli uomini e con tutti i beni incalcolabili che apporta quest’unione; i falli de’ reggitori sono temporanei, i beni di un governo sono così a lui uniti che non possono mai venir meno fino che egli dura perché governo, virtù, utilità sono una cosa sola; i falli dei reggitori vanno quasi sempre a nuocere o degli individui, o una parte, o un ramo della società; i beni del governo sono essenzialmente universali a tutta la società perché egli la produce".(29) La difesa di Rosmini nei confronti dei reggitori risente molto del pensiero tradizionalista e legittimista che considera necessaria qualsiasi forma di governo in quanto esso solo può "rimuovere il disordine, lo stato selvaggio dell’uomo, e tutte le incertezze, le crudeltà e le abominazioni della vita bestiale, a cui sarebbe soggetto: cose che nella felicità del vivere civile né pure si conoscono, né pure s’imaginano, e perciò né pure universalmente si calcolano".(30)
A proposito dei principati civili, Machiavelli scrive:"del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per esser troppi", pertanto un principe saggio deve mantenersi il popolo amico "il che li fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso.[…] altrimenti non ha nelle avversità rimedio".(31)
Ma quale comportamento dovrà adottare il principe nei confronti dei suoi sudditi? Secondo Machiavelli "colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità".(32) In altri termini, sarebbe auspicabile per un principe essere buono, generoso, clemente, sincero, pietoso, fedele, religioso, ma stante il mondo qual è e stante qual è la natura umana, per la salvezza dello stato egli non può praticare queste virtù. Tuttavia deve fingere di possederle "a uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utile".(33) La ragion di stato deve sempre e comunque avere l’assoluta priorità "e però – continua Machiavelli- bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’è venti e le variazioni della fortuna li comandano e, come […] non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato".(34) In ogni caso qualsiasi mezzo che serva a mantenere lo stato sarà sempre giudicato onorevole e da ciascuno lodato. Naturalmente Rosmini non può condividere questa idea, anzi, contestando il principio romano contenuto nella nota massima Salus reipublicae summa lex esto, afferma, indiscutibilmente, la preminenza della persona "in quanto tale, cittadino di qualsiasi stato, a prescindere anche dall’esserlo, dalla razza, dal grado di civiltà, di ricchezza o altro".(35) Per il filosofo roveretano il bene comune, da lui inteso come "il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale e che sono oggetti di diritti", non può essere calpestato a vantaggio del bene pubblico considerato come "il bene del corpo sociale preso nel suo tutto".(36) Sovrano e sudditi devono essere reciprocamente rispettosi dei diritti altrui, se vogliono rispettati i diritti propri. Sia dunque fondamento dell’ordine sociale e politico la giustizia, la quale impone al principe di non pretendere nulla con le minacce. Se il principe vorrà conservare il proprio regno e l’amore dei sudditi non deve servirsi di essi come mezzi ma deve volgerli al fine da cui sono stati destinati dal loro creatore. I fini che deve proporsi il principe sono due: l’uno remoto ed è la felicità soprannaturale ed ultraterrena dei sudditi, e l’altro prossimo ed è la perfezione della società di cui egli è capo; il fine prossimo deve servire al remoto come il corpo allo spirito.
Machiavelli non ha una grande considerazione per il genere umano. Per lui "li uomini si debbono vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; sì che l’offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che la non tema la vendetta".(37) La necessità impone che il principe sia guardingo di tutto e di tutti "Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi".(38) Tuttavia secondo Machiavelli conviene che il principe "sia più amato; e, se extraordinari vizii non lo fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia benvoluto da’ sua".(39) E alla domanda se è meglio che un principe sia più amato che temuto o al contrario il segretario fiorentino risponde: "…. si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli […] quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano".(40) È auspicabile che un principe sia pietoso e non crudele nei confronti dei sudditi "non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà […] . Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede" e soprattutto "quando el principe è con li eserciti et ha in governo moltitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito, né disposto ad alcuna fazione".(41)
Rosmini condivide il rafforzamento del potere del principe che però deve avere come scopo lo sviluppo e la coesione della società, nonchè l’amore per la giustizia in modo da poter garantire i diritti di ognuno. D’altra parte una unione vera e duratura fra i membri di una società politica non si può ottenere mai con la sola forza; è necessario che il principe accresca nei sudditi i vincoli dell’amore. Per consentire al principe il mantenimento di una società politica, Rosmini come un vero maestro di scienza politica valuta i mezzi politici in relazione alla loro efficacia. Il saggio politico non deve mai " disprezzare quei mezzi, qualunque sieno, che operan sopra la massa degli uomini e si dovranno d’altronde sprezzare quelli che sulla massa degli uomini non hanno una forza".(42) Saranno poi migliori quei mezzi che "operano più estesamente, cioè sopra un numero maggiore di uomini, sieno che operino sugl’individui in quanto che l’uno è diviso dall’altro, sia sopra tutti in quanto sono uniti insieme, purchè rivolgano questi uomini in una uniforme direzione".(43)
Secondo Rosmini il principe dovrà temere più degli altri di commettere ingiustizie: 1) perché la potenza, odiosa già di per se stessa ai soggetti, diventa odiosissima se si fa strumento di ingiustizia; 2) perché la potenza facilmente insuperbisce, acceca l’animo e induce ad abusare; 3) perché il potente difficilmente può conoscere la verità, sia per ignoranza, sia per adulazione, sia per trascuratezza, e quindi più facilmente di un privato può commettere ingiustizie; 4) perché le ingiustizie del potente possono essere più gravi e dannose, avendo egli più potere, di quanto non possono fare i privati; ed infine perché le ingiustizie del potente sono più facilmente notate dal pubblico.(44) Ma il principe deve rendere conto al popolo delle proprie ingiustizie? A questa domanda Rosmini risponde decisamente di no. Il principe è l’unico uomo dello stato "che possiede intera la libertà naturale",(45) egli non è soggetto ad alcun altro uomo, ma solamente alla legge naturale. Il giudice di questa legge è solo Dio al quale il principe deve rendere conto delle proprie azioni.(46)
3. La precettistica di fronte ai rischi del potere
Un rischio dal quale i principi se non sono prudentissimi si difendono con difficoltà, è quello di incappare negli "adulatori, delli quali - dice Machiavelli- le corte sono piene; perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie, et in modo vi si ingannono, che con difficoltà si difendano da questa peste". L’unico modo per evitare gli adulatori consiste nel far comprendere che non vi è nessuna offesa per il principe se gli viene detto il vero; "ma quando ciascuno può dirti il vero - continua Machiavelli- ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé a suo modo; […] fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare dietro alla cosa deliberata, et esser ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’ precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri".(47) Il medesimo consiglio dà Rosmini: "Ma gl’inimici veri quegl’inimici che dovete temere veramente, sono coloro che cantano dolci cose alle vostre orecchie, che allettano il vostro amore proprio, e parlano continuo di mettere difesa ai vostri diritti, di vendicare quelli che vi furono usurpati e di stabilirvi sopra basi nuove, filosofiche, e più solide delle antiche",(48) e ancora "per cui cura sarà del savio principe di voler essere ben istruito e di voler sentire molti sulle stesse cose e fare ogni indagine per venire al chiaro della verità; perché ogni principe può star certo che molta parte di lei trova somme difficoltà di venire a’ suoi orecchi".(49)
Dalla sua teoria della superiorità e della inferiorità, Rosmini ricava una regola fondamentale che il principe deve seguire in politica interna: deve mirare a diminuire le forze dei sudditi, o almeno impedire che esse si accrescano, e deve, di contro fare del tutto per accrescere le proprie forze. E poiché le forze fisiche dei sudditi non possono essere diminuite "ma si può bensì impedirne loro l’uso nocevole" che "nasce dal conoscere le proprie forze, dall’unirle, dall’audacia d’usarle, e dall’irritamento, per cui s’aggiunge alle forze l’ira e la vendetta", il principe dovrà evitare le pubbliche adunanze che sono un ottimo mezzo per il popolo per conoscere le proprie forze e "tenga l’occhi fitto su poche persone. Se a tempo toglie i capi si può credere assicurato".(50) Secondo Rosmini l’audacia di per sé non è un male, quindi il principe "dee credersi fortunato d’avere un popolo naturalmente audace; ma debbe egli stesso esser quegli da cui viene, e non debbe permettere che venga da altri ispirata al suo popolo l’audacia, poiché se sarà ispirata da altri, sarà ancora per altri".(51)
Oltre a diminuire la forza degli inferiori, il principe dovrà anche cercare di aumentare la propria, attraverso l’opinione che può essere di tre specie: opinione d’interesse, di potere e di proprietà. L’opinione di interesse si ha quando il suddito ritiene che il suo particolare interesse sia congiunto con quello del principe; l’opinione di potere consiste nella persuasione che il superiore abbia la legittima autorità di comandare e infine l’opinione di proprietà riguarda quel certo senso di ossequio e di rispetto che i meno ricchi hanno sempre verso i più ricchi. Per rafforzare nel popolo l’opinione che il potere civile costituito è ordine umano, naturale e provvidenziale e che risponde al suo interesse, il principe saggio deve organizzare il popolo in corpi diversi. È il principio del divide et impera che Rosmini intende applicare ai corpi in cui il popolo è distribuito.(52) Anche Machiavelli fa implicito riferimento a tale principio quando scrive: "Solevano li antiqui nostri, e quelli che erano stimati savi, dire come era necessario tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze; e per questo nutrivano in qualche terra loro suddita le differenzie, per possederle più facilmente".(53) Tuttavia il segretario fiorentino ritiene che non possa essere un precetto adatto per tutti i tempi "anzi è necessario, quando il nimico si accosta, che le città divise si perdino subito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne, e l’altra non potrà reggere".(54)Pertanto le divisioni faranno profitto solo "a tempo di pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare e’ sudditi; ma venendo la guerra, mostra simile ordine la fallacia sua".(55) Entrambi gli autori sono consapevoli che la maggiore difficoltà per un principe consiste nel conservare i nuovi principati: "poiché il più arduo- scrive Rosmini- è fuor di dubbio conservare tali nuove istituzioni, e tanto più arduo quanto sono più nuove. […] Le istituzioni nuove non acquistano dai popoli né quella fede che vien prodotta dal lungo esperimento, né quell’amore che dà l’abitudine, né quella riverenza, che l’antichità sola aggiunge alle cose".(56) Anche Machiavelli scrive: "Ma nel principato nuovo consistono le difficoltà.[…] le quali sono che li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare l’arme contro a quello; di che s’ingannono, perché veggono poi per esperienza avere peggiorato".(57)
È necessario che il principe conosca il suo popolo che deve essere trattato secondo le sue naturali inclinazioni. Il filosofo roveretano ha fiducia più che nella forza esteriore, nell’azione psicologica e pedagogica che il principe può esercitare per garantirsi l’obbedienza dei sudditi. A tale scopo la politica deve adeguarsi ai bisogni, all’indole e al grado di sviluppo dei popoli. Rosmini distingue fra nazioni di indole servile e nazioni di indole libere; conoscere l’indole della propria nazione sarà di fondamentale importanza per il principe che non dovrà "mettere né giogo lieve ai popoli servili, né grave ai liberi" poiché "con queste cautelle si minora l’abuso della forza negli inferiori".(58)
La medesima indicazione dà Machiavelli al principe a proposito dei principati di nuova acquisizione: "Quando quelli stati che s’acquistano, sono consueti a vivere con le loro legge et in libertà" bisogna […] "lasciarle vivere con le sua legge, traendone una pensione e creandovi drento uno stato di pochi che te le conservino amiche. […] E più facilmente si tiene una città usa a vivere libera con il mezzo de’ sua cittadini, che in alcuno altro modo volendola preservare. […] Ma, quando le città o le provincie sono use a vivere sotto uno principe, e quel sangue sia spento, sendo da uno canto usi ad obbedire, […] vivere liberi non sanno; di modo che sono più tardi a pigliare l’arme; e con più facilità se li può uno principe guadagnare, et assicurarsi di loro. Ma nelle repubbliche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi".(59) È proprio questo il suggerimento che Machiavelli dà al principe che acquisti un nuovo principato: "Ma, quando si acquista stati in una provincia disforme di lingua, di costumi e di ordini, qui sono le difficoltà, e qui bisogna avere gran fortuna e grande industria a tenerli; et uno de’maggiori remedii e più vivi sarebbe che la persona di chi acquista vi andassi ad abitare. Questo farebbe più secura e più durabile quella possessione".(60)
Nell’impossibilità che un principe possa essere fisicamente presente in tutti i suoi domini, condividendo le indicazioni di Machiavelli, Rosmini ritiene che "gioverebbono frequenti le effigi de’ principi con moltiplicare i loro ritratti e le loro statue. Essi possono esser presenti in questo modo all’imaginazione de’ popoli e abitare, dirò così, tutti i paesi dell’imperio loro ad un tempo", ma gioverebbe ancor di più "che il principe fosse sempre dipinto o scolpito in atto di fare qualche azione utile allo stato[…] di esercitare tutte le diverse professioni della società, mostrandosi uomo anch’egli simile a’ sudditi suoi".(61) Ciò aumenterebbe la gratitudine nell’animo del popolo e incoraggerebbe gli uomini operativi.
Secondo Rosmini l’associazionismo è un ottimo strumento per sostenere un ordine sociale nel quale la naturale tendenza egoistica dell’uomo sia contenuta e si creino dei vincoli tra i singoli. Inoltre egli suggerisce al principe, nelle sue relazioni con i sudditi, di considerare tutte le espressioni artistiche che possono servire per educare il popolo o per corromperlo. Il principe pertanto deve curarle tutte con attenzione e rivolgerle a retti fini, facendone strumento di elevazione per il suo popolo e mezzi politici per rafforzare il suo potere.(62) Anche Machiavelli a tal proposito, scrive:" Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricoltura, et in ogni altro esercizio delli uomini. […] Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettacoli. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenza".(63)
4. Le milizie, la patria e le relazioni internazionali
Di fronte a un’Italia divisa, preda degli stranieri, devastata e ridotta in schiavitù, Machiavelli indica al principe il mezzo più efficace per liberare la sua patria dalle mani dei barbari, per riportare stabilità e ordine. Egli considera tra i buoni fondamenti di tutti gli stati sia nuovi, sia vecchi che misti le buone leggi e le buone armi. "E, perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge"(64) è bene che un principe, per conservare e difendere il proprio stato, abbia un esercito adeguato, d’altra parte la storia insegna che "tutti i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinarono".(65) Dopo aver argomentato sulla distinzione tra armi proprie, mercenarie, ausiliarie e miste, il segretario fiorentino conclude dicendo "che, sanza avere arme proprie, nessuno principato è sicuro, anzi è tutto obbligato alla fortuna, non avendo virtù che nelle avversità lo difenda. […] E l’arme proprie son quelle che sono composte o di sudditi o di cittadini o di creati tua".(66) Un principe che sia degno di questo nome non potrà avere altro obiettivo "né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda".(67)
Pur essendo trascorsi quattro secoli, lo scenario della penisola resta immutato: un’Italia caratterizzata da divisioni, da una debolezza cronica dei suoi governi, alla mercè dello straniero. Per questo Rosmini, al pari di Machiavelli, si pone il problema dei mezzi che un principe deve usare per conservare e difendere lo stato. Il filosofo roveretano dà un giudizio negativo sui moti del 1821, sull’impreparazione politica e soprattutto militare perché "dall’armi, ella è cosa che apparisce in ogni storia, dall’armi pendettero sempre le condizioni dei popoli, e la virtù dell’armi è perciò quel valore al quale si dovrà inchinare, bensì per vergogna degli uomini, tutte le altre virtù o fortune, come a protettrice loro e a scudo".(68) Tra i mezzi che un principe deve utilizzare è annoverato da Rosmini anche il ricorso alle armi, poiché secondo lui "negli estremi casi la guerra non ripugna alla giustizia".(69) Trattasi, ovviamente, della cosiddetta guerra giusta ammessa dalla migliore tradizione filosofica d’ispirazione cristiana. Accettata la guerra, seppur come estrema ratio, anche Rosmini si preoccupa di indicare al principe quale forza militare debba utilizzare. A tal proposito, egli distingue due tipi di guerre: quelle mosse dai nemici del principe contro la sua persona, e quelle mosse dai nemici della nazione contro tutta quanta la nazione stessa.
Il principe, sostiene Rosmini "deve difendere il suo potere con forze proprie: deve difendere la nazione, s’ella è assalita, con forze della nazione. La nazione poi nobile, e generosa e cortese offerirà se stessa a difendere il principe che ella ama. Generosità è del principe se difende la nazione col proprio e non co’ beni della nazione: generosità è della nazione se espone sé stessa ed i fini suoi per la difesa del principe".(70) Per Rosmini "il principe e la nazione sono due esseri che debbono andare a gara a beneficarsi. L’uno esiste per l’altro. Molti principi sono morti per le loro nazioni, molte nazioni si sono sacrificate pe’ loro principi. Non vi può essere una virtù più bella e generosa di questa corrispondenza d’affetto fra la nazione ed il principe. È la stima filiale, l’amor paterno, la beneficenza, che apparisce in tutto il grande di cui è capace, che si mostra sulla più magnifica scena".(71)
Diversi i presupposti, ma identica la conclusione anche per Machiavelli: tra il principe e il popolo deve instaurarsi un rapporto di reciproca fedeltà. "A uno principe – scrive Machiavelli- è necessario avere el populo amico: altrimenti non ha nelle avversità remedio. […] E però uno principe savio debba pensare uno modo, per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui: e sempre poi li saranno fedeli".(72) Se il principe riuscirà a non farsi odiare dai suoi sudditi, nel momento della necessità "tanto più si vengono ad unire con il loro principe, parendo che lui abbia con loro obbligo, sendo loro sute arse le case, ruinate le possessioni, per la difesa sua. E la natura delli uomini è, così obbligarsi per li benefizii che si fanno, come per quelli che si ricevano. Onde, se si considererà bene tutto, non fia difficile a uno principe prudente tenere prima e poi fermi li animi de’ sua cittadini nella ossidione, quando non li manchi da vivere né da difendersi".(73)
Per Rosmini l’esercito non è una semplice macchina da guerra, strumento di distruzione e oppressione nelle mani del principe, bensì deve essere l’espressione dell’intera società. Sulla base di queste considerazioni il filosofo roveretano non può condividere un ordinamento militare basato sulla coscrizione obbligatoria. L’esercito, a suo giudizio, deve essere costituito su base volontaria e formato dalle forze proprie del principe, destinate alla difesa del suo potere, e da quelle della nazione, incaricate di respingere gli attacchi portati al suo territorio. Sarà cura del principe promuovere l’arruolamento volontario (più efficiente e più affidabile) in tre modi: conferendo onore e prestigio alla carriera militare, con un’adeguata educazione civile e militare della nazione, mediante un compenso a chi sottoscrive volontariamente la ferma militare.
Altro punto di particolare rilevanza che accomuna i due autori è l’auspicio che il principe dia ai sudditi una patria proponendo che ogni città si faccia promotrice dell’educazione militare della nazione. Per Rosmini la formazione del militare non deve indirizzarsi esclusivamente al servizio delle armi ma anche alle "arti utili e alle scienze" in modo tale che "il soldato che si ritrova in pace, abbia dei lavori ordinarj adattati alla sua condizione, ma dai quali il soldato comune possa ricavare un guadagno, migliorare la sua sorte, e non essere né pure un essere perduto per la sua famiglia".(74) Ciò impedirà che si venga a creare una netta separazione tra i militari e il resto della società e che i soldati rimangano inoperosi in periodo di pace. Ma ciò che più deve importare al principe sarà l’educazione politica dei militari, poiché essendo questi, tra le diverse classi sociali, i più forti e causa sempre di grandi rivolgimenti, è necessario che essi siano istruiti e predisposti ad un comportamento ispirato ai valori fondamentali della moralità civile, della solidarietà, della compostezza e della "pulitezza".(75)
Inoltre per ravvivare nella nazione lo spirito militare, Rosmini suggerisce al principe di fare pubbliche e frequenti manifestazioni di forze armate, avendo particolare cura per i fanciulli e i giovinetti. Tutto ciò non significa che Rosmini volesse ricreare una novella Sparta, bensì si propone di inculcare nei giovani un interesse per la vita militare, non solo come uso della forza, ma come disciplina dell’animo: "la virtù della fortezza non consiste nella meccanica forza de’ corpi, o nella agilità. Disputare e terminare le questioni colla forza fu sempre il costume di que’ barbari […], la saviezza ovvero la ragione decide con leggi le questioni de’ popoli umani e civili".(76) In altre parole si tratta di educare i giovani all’uso saggio e prudente della forza che sempre deve essere al servizio della giustizia.
L’importanza dell’educazione militare per Machiavelli si può esprimere con l’antico detto: si vis pacem para bella. Tuttavia accanto ad una preparazione prettamente militare, il segretario fiorentino considera anche la cura delle menti dei soldati; "Debbe per tanto – scrive Machiavelli- mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra; il che può fare in dua modi: l’uno con le opere, l’altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo a’ disagi; […] Ma, quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per potere queste fuggire e quelle imitare. […] Questi simili modi debbe osservare un principe savio, e mai né tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale, per potersene valer nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo trovi parato a resisterle".(77)
Nelle relazioni con gli altri sovrani e nella stipula degli accordi internazionali, Rosmini invita il principe a tenere un comportamento improntato ai dettami della giustizia e della carità. I trattati, afferma il filosofo roveretano, come qualunque altro accordo espresso con parole, non sono mai così chiari da non aver bisogno di interpretazione. Non essendovi tra i principi alcun potere superiore a cui affidare l’interpretazione delle convenzioni pattuite e la sanzione contro i violatori dei patti, ne consegue che i trattati non hanno alcun valore se non sono stipulati in perfetta buona fede e se non sono osservati con senso di giustizia. D’altra parte l’esperienza storica insegna che i trattati sono "amplissimi campi dove la frode e l’insidia può aver luogo",(78) facendo nascere negli uomini un fondato scetticismo sul valore delle convenzioni internazionali. Per Machiavelli è cosa lodevole per un principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, tuttavia l’esperienza dei suoi tempi insegna che i principi i quali hanno tenuto poco conto della fede e hanno saputo aggirare i cervelli degli uomini con l’astuzia hanno fatto grandi cose superando coloro che invece si sono fondati sulla lealtà.(79)
"Non può per tanto - scrive Machiavelli- uno signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro".(80) Pertanto un principe può non osservare "tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione".(81)
Rosmini, come è ovvio, critica aspramente la dottrina che insegna ai principi a calpestare la giustizia, che fa dell’interesse del principe e della salute della repubblica la legge suprema a cui tutte le altre debbono sottostare, in una parola che fa prevalere sempre e comunque la ragion di stato. E a tal riguardo non usa mezzi termini: "Abboliti e soppressi i principj della immortale giustizia secondo e il consiglio di malconsigliati politici e l’impulso di un’ambizione rotta d’usare della circostanza per soddisfarsi; che altro rimane nelle principesche negoziazioni se non una orribile arte di fraudolenza , germi d’interminabili guerre perché il termine della guerra è quello appunto che l’accagiona".(82) La mancanza di giustizia nelle relazioni internazionali oltre a recare danno agli stati indebolisce il potere sovrano e incide negativamente sul rapporto di fiducia che lega il principe al popolo poiché la condotta dei principi sarebbe un "funestissimo esempio ai popoli, che pur non sono ciechi […]. Sarebbero i gabinetti del re la scuola aperta a tutto il mondo della perfidia, e della slealtà, e le leggi del principe che punissero le frodi private diverrebbero un giorno o l’argomento dello scherno o il codice della rivoluzione".(83) I principi, conclude Rosmini, se vogliono evitare la loro rovina, dimostrino con la loro condotta che la politica è il sistema della saggezza e non il "breviario della furberia"; nelle loro relazioni i sovrani siano di esempio di quelle virtù che vogliono siano praticate, fra cui deve primeggiare la giustizia, la sola che possa dare agli uomini la vera pace e la vera felicità.
Conclusione
È evidente l’esistenza di parecchi punti di contatto tra il principe di Machiavelli e il principe di Rosmini. Tuttavia essi stanno agli antipodi, così come in contrasto sono i due pensatori nelle loro premesse filosofiche. Diverso il substrato culturale e religioso: Machiavelli pensa ed opera in un secolo in cui i valori umani e terreni tornano a prendere il sopravvento sui valori morali e cristiani e ha in comune con tutti gli umanisti la tendenza a fare dell’uomo il centro dell’universo. Rosmini pensa e scrive in un ambiente spirituale profondamente permeato dalla dottrina cristiana; egli vive in un periodo storico molto meno paganeggiante e caratterizzato dalla generale tendenza a rimettere nel loro giusto posto i valori assoluti. Machiavelli scrive la sua opera nella maturità, dopo essere vissuto per lunghi anni nelle corti e nei gabinetti degli uomini di governo; rivela, oltre ad una grande dottrina, un’eccezionale conoscenza degli uomini. Rosmini mostra l’entusiasmo e l’ottimismo, tipico dell’età giovanile, Machiavelli si rivela freddo osservatore degli avvenimenti e profondo conoscitore dei vizi dell’animo umano. Machiavelli, come è noto, colloca il suo principe in una sfera che sta al di sopra del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto; Rosmini, invece, poggia tutto il suo sistema sull’idea di giustizia, fondamento dei regni e regolatrice dei rapporti umani, proveniente essa stessa dall’idea dell’essere. Per Machiavelli il principe deve considerare i sudditi come mezzi da utilizzare ai propri fini, per Rosmini il principe deve servire i sudditi ed aiutarli a raggiungere i fini ultraterreni e deve garantire i diritti di ognuno. Rosmini parte da premesse ideali che costituiscono il fondamento del cristianesimo, Machiavelli parte da premesse umanistiche e pagane. Egli è portato a vedere unicamente l’uomo, "ignora non soltanto l’eterno e il trascendente, ma ben anche il dubbio morale e l’ansia tormentosa di una coscienza che si ripieghi su se stessa".(84)
Alla luce del messaggio evangelico Rosmini introduce un’idea completamente nuova della sovranità e del governo che deve essenzialmente basarsi sul principio della carità, ossia sull’amore per gli uomini. In altri termini governare non vuol dire dominare, non è un diritto ma un dovere a servizio dei sudditi i quali hanno bisogno di essere governati a causa della loro debolezza. Soltanto un principe cristiano potrà, a suo giudizio, mettere in essere tutti quei mezzi che possono guidare il suo popolo a condurre una vita giusta, pacifica e felice. Come già per Erasmo da Rotterdam anche per Rosmini il potere si identifica con il principe il quale, tuttavia, deve essere consapevole che il suo governo ha dei precisi limiti nella libertà dei sudditi. In tal senso il potere non deve essere concepito come dominio che riduce in proprietà del principe i sudditi, bensì come amministrazione della cosa pubblica finalizzata al bene dei cittadini.(85) "E’ un diritto – scriveva Erasmo- per un principe pagano opprimere col timore i suoi e valersene in opere servili. […] Anzitutto non sono tuoi coloro che tu soggioghi come servi, giacchè è il consenso che fa il principe. Veramente tuoi sono solo quelli che ti obbediscono di loro spontanea e libera volontà. Quando possiedi soggetti oppressi dalla paura non li possiedi neanche a metà: sei padrone dei loro corpi ma gli animi sono alieni da te".(86) Prendendo le parole di Erasmo come criterio di valutazione è facile cogliere, alla luce di due diverse interpretazioni della politica, la sostanziale differenza tra il principe machiavelliano e il principe rosminiano.
Rosanna Marsala
NOTE
(1) Si tratta di un’opera giovanile che l’autore, a sèguito di un’ampia ricerca e sulla base di un dettagliato schema, dettò dal 1822 al 1827, a più riprese, a due suoi segretari e che, avendola rivista solo in parte, non volle mai consegnare alle stampe. Si deve a monsignor Giovan Battista Nicola, noto studioso del filosofo roveretano, il ritrovamento a Stresa, fra le carte rosminiane del manoscritto conosciuto come "Opera politica roveretana". Di questo manoscritto lo stesso monsignor Nicola curò due stesure: una prima trascrizione in poche copie dattilografate e un’edizione litografata dal titolo Antonio Rosmini- Opere inedite di Politica, Milano, Tenconi, 1923; Nel 2003, sotto il nome di Politica prima, sono state pubblicate le opere edite ed inedite di Antonio Rosmini che comprendono anche il manoscritto ritrovato e i frammenti. Tale opera è a cura di Studi Rosminiani di Stresa, con introduzione di Mario D’Addio, Roma, Città Nuova Editrice, 2003.
(2) M.D’Addio, Introduzione a A. Rosmini, Politica prima, Roma, Città Nuova editrice, 2003, p.11.
(3) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, Milano, Garzanti, 2002, p.14.
(4) Ivi, pp. 94-95.
(5) A.Rosmini, Politica prima, Roma, Città Nuova Editrice, 2003, p. 244.
(6) N.Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 28- 29.
(7) A.Rosmini, Politica prima, cit., p. 90.
(8) Ivi, p. 91.
(9) Ivi, p. 231.
(10) M. D’Addio, Introduzione a A. Rosmini Politica prima, cit., p. 17.
(11) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 204-206.
(12) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.15.
(13) Nella diatriba tra un Machiavelli monarchico, autore de Il principe e un Machiavelli repubblicano autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, gran parte della critica ha risolto affermando che il pensatore fiorentino non è altro che l’interprete della verità effettuale dei tempi in cui vive ed opera, nessuna contraddizione, dunque, fra le due opere.
(14) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 92-93; in cui fra l’altro si legge: "il divino Tommaso […] riducendo tutti i soffismi ad un solo fonte e principio aveva detto, tutto in due parole, dicendo che provengono dal pigliare l’accidente per la sostanza".
(15) Ivi, p.93.
(16) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 341.
(17) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 194.
(18) Ivi, p. 158.
(19) Ivi, p. 156.
(20) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 69.
(21) G. Solari, Rosmini inedito. La formazione del pensiero politico (1822- 1827), a cura di Umberto Muratore, Stresa, Edizioni Rosminiane Sodalitas, 2000, p. 26.
(22) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 163-166. "Governare per il Rosmini è comprendere l’anima del popolo nelle sue virtù e nei suoi difetti, non ispirarsi a principi astratti che i popoli né apprezzano né desiderano. Tali erano per il Rosmini i due dogmi della sovranità popolare e della rappresentanza personale, che avevano ispirato le costituzioni francesi e soprattutto quella spaguola". In G. Solari, Rosmini inedito, cit., p. 27.
(23) In queste parole è chiaro il riferimento a Machiavelli, autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., pp. 117-120, pp. 422-425.
(24) Cfr. A.Rosmini, Politica prima, cit., pp.156-158.
(25) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p.16.
(26) Ivi, p.25.
(27) Ivi, pp. 30- 31.
(28) Ivi, p. 31.
(29) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 247.
(30) Ivi, p. 248. Rosmini, pur non negando che i governanti possano commettere degli errori, sostanzialmente rimane contrario ad una rivoluzione la quale non offre alcuna garanzia di introdurre una forma di governo più benevola anzi determina una situazione di totale instabilità politica. In tutto ciò il suo pensiero è rivolto alla situazione politica italiana che dopo i moti rivoluzionari del 1821 è ancora più confusa e instabile. Egli vuole un’Italia libera e indipendente dal dominio straniero, tuttavia sconsiglia la rivoluzione e prospetta una soluzione del problema dell’unità politica italiana di chiara ispirazione machiavelliana. Cfr. M.D’Addio, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Roma, Edizioni Studium, 2000, pp. 41-46.
(31) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 42-45.
(32) Ivi, p. 61.
(33) Ivi, p. 68.
(34) Ivi, p. 69.
(35) A. Rosmini , La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di M. Federico Sciacca, Milano, Principato Editore, seconda edizione riveduta, 1988, p.13.
(36) A. Rosmini, Filosofia del diritto, Intra, Tipografia di Paolo Bertolotti, 1865, n. 1643, 1644, pp. 546- 547; la citazione si trova anche in A. Rosmini, La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di Michele F. Sciacca, cit., p.76.
(37) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p.19.
(38) Ivi, p. 67.
(39) Ivi, p. 16.
(40) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 65.
(41) Ivi, p. 64-66.
(42) A. Rosmini, Politica prima, cit., p.186.
(43) Ibidem.
(44) Cfr. A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 199.
(45) Ivi, p. 269.
(46) Queste parole di Rosmini non significano che egli non ponga limiti al potere del principe, tutt’altro. Il filosofo roveretano, sulla scorta del pensiero di S. Tommaso che scorgeva nella legge naturale la fonte della morale e affermava la legge positiva essere giusta se conforme ad essa, ritiene che il principe troverà proprio nella legge naturale un limite più forte di qualsiasi altro.
(47) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 87- 88.
(48) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 207.
(49) Ivi, p. 199.
(50) Ivi, p. 160.
(51) Ibidem.
(52) Cfr. G. Solari, Rosmini inedito. La formazione del pensiero politico (1822- 1827), cit., p. 26.
(53) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 80.
(54) Ibidem.
(55) Ibidem.
(56) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 287.
(57) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.16.
(58) A. Rosmini, Politica prima, cit.,p.161.
(59) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 27- 28.
(60) Ivi, p. 18.
(61) A.Rosmini, Politica prima, cit., p. 483.
(62) Ivi, pp. 412-414, 483.
(63) N.Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 86.
(64) Ivi, p. 50.
(65) Ivi, p. 30.
(66) Ivi, pp. 57- 58.
(67) Ivi, p. 58.
(68) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 279.
(69) Ivi, p. 301.
(70) Ibidem.
(71) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 312.
(72) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit.,pp. 44-45.
(73) Ivi, p. 47.
(74) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 304.
(75) M. D’Addio, Introduzione a A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 45.
(76) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 308.
(77) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., pp. 59-60.
(78) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 228.
(79) Cfr. N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.67.
(80) Ivi, p. 68.
(81) Ibidem.
(82) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 229.
(83) Ivi, p. 230.
(84) F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi editore, 1964, p. 80.
(85) Cfr. M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, Genova, Ecig, 1992 e, vol. I, p. 262.
(86) Erasmo da Rotterdam, L’ educazione del principe cristiano, traduzione, introduzione e note a cura di Margherita Isnardi- Parente, Napoli, Morano, 1977, p. 94.
La storiografia contemporanea ha fornito ricchi contributi alla biografia di Napoleone Colajanni (1847-1921), ma non ha focalizzato abbastanza gli anni compresi tra la guerra di Libia e quella mondiale(1). Eppure essi – dopo quelli connessi alle denunce dello scandalo della Banca Romana e alla confutazione delle teorie lombrosiane(2) – furono i più significativi nell’operosa attività politica del repubblicano siciliano, che propose in termini problematici il superamento del sistema giolittiano, messo in crisi proprio nel periodo cruciale in cui si dibattevano i temi del monopolio delle assicurazioni, del suffragio universale e del colonialismo(3). Nel giugno 1911 il progetto di legge sul monopolio delle assicurazioni suscitò un intenso dibattito alla Camera, dove il democostituzionale Leone Caetani approfittò dell’occasione per opporsi nettamente ad una eventuale spedizione in Tripolitania(4). Il tema agitava da parecchi anni lo scenario politico, su cui la stampa nazionalista aveva intrapreso una campagna favorevole per forzare il governo ad agire. La posizione antilibica di Caetani, seppure assunta per la prima volta in una sede istituzionale, passò quasi inosservata tra i partiti democratici: né i socialisti né i repubblicani accolsero l’invito, forse occupati e divisi da quelle riforme della legge elettorale, del monopolio delle assicurazioni e delle pensioni operaie che Giolitti aveva preannunciato nel programma governativo durante il suo IV ministero (30 marzo 1911-21 marzo 1914).
Sarà la guerra di Libia ad imprimere una svolta sulla politica estera e a favorire un cambio della direzione del partito repubblicano. Il suo indirizzo in politica internazionale – come venne ribadito in tutti i congressi nazionali – aveva una matrice mazziniana, propugnava l’autodeterminazione dei popoli e l’indipendenza delle nazioni, fu antitriplicista e come logico corollario anticolonialista. Sulla scia della tradizione mazziniana e della fedeltà ai valori nazionali, seppure con l’eccezione di una sparuta minoranza, i repubblicani furono contrari agli aumenti delle spese militari e condannarono il militarismo sin dalla prima guerra d’Africa(5).
In questa direzione si mosse Napoleone Colajanni, che dedicò largo spazio al colonialismo, alla guerra e alla politica estera su una miriade di periodici e quotidiani nazionali(6). Come antiafricanista convinto, egli criticò le spese militari, opponendosi a quanti auspicavano la conquista di una colonia africana e una valorizzazione organica dell’Eritrea(7). La "Rivista Popolare", rilevata nel 1895 da Antonio Fratti e diretta da Colajanni sino alla morte (1921), si mostrò attenta a questi temi e al dibattito che si esplicò sulla stampa socialista(8). Dalle rubriche risulta che il periodico effettuava il cambio con le maggiori riviste socialiste europee, le quali riproducevano le sue vignette, come risulta dallo spoglio del settimanle viennese "Der Neue Gluhlichter", di quello tedesco "Der Wahre Jacob", di quello americano "The Judge" o del mensile francese "Devenir social"(9). Tuttavia il motivo dominante della sua elaborazione politica, già espressa dal suo direttore in polemica con altre riviste, fu l’accento che pose nella lotta contro le spese militari(10), nell’impegno per il primato del "diritto" contro le armi della "forza"(11), nel richiamo agli ideali pacifisti per sconfiggere lo spettro della guerra e nella necessità di ricercare i rimedi della questione sociale "non al di fuori nella fondazione di nuove colonie, ma in casa propria"(12). Il netto rifiuto del triste e "doloroso" fenomeno della guerra, invece, fu espresso in una miriade di articoli, con i quali denunciò il legame pernicioso tra colonialismo e imperialismo, inteso quest’ultimo come fenomeno più vasto imperniato sull’occupazione e sulla conquista territoriale(13). Nella definizione dell’avventura africana come atto di "brigantaggio coloniale", egli contrappose ad essa la necessità di promuovere la "colonizzazione interna" e di emancipare le popolazioni del Mezzogiorno. Già nel volume Politica coloniale, pubblicato nel 1891 e considerato "l’opera più importante di polemica anticoloniale"(14), egli denunciò l’avventura in Eritrea con il suo groviglio di errori, violenze, inganni e violazioni:
L’incertezza, l’impreviggenza, la jattanza, la contraddizione, la menzogna sono i caratteri di tutta la breve storia della nostra politica coloniale(15).
La condanna dell’espansione coloniale, di cui il militarismo era l’aspetto più eclatante(16), fu dettata da alcuni motivi, che andavano dalle conseguenze negative sull’economia meridionale alla minaccia incombente sulle libertà politiche e parlamentari a causa della condotta imperialista di Francesco Crispi. La posizione crispina, già enunciata nel suo discorso del 14 ottobre 1889(17), fu aspramente criticata da Colajanni, che denunciò l’imbroglio coloniale diretto ad eludere la grave questione del Mezzogiorno e a sfociare in una guerra scellerata per l’ingiusta aggressione ad un popolo inerme e desideroso di conservare la propria libertà e indipendenza:
Di questa nostra slealtà gli abissini ormai hanno coscienza – e il fatto ci toglie quella forza morale necessaria per esercitare sugli inferiori una azione miglioratrice(18).
Analizzando il divario economico tra Nord e Sud, Colajanni respinse la tesi degli altri meridionalisti, che consideravano il colonialismo come la panacèa dei mali che affliggevano il meridione d’Italia: si trattava per lui di un semplice palliativo, poiché la soluzione si sarebbe dovuta trovare in un mutamento radicale della politica doganale e tributaria, nella trasformazione dell’assetto politico-istituzionale, nell’incremento della produzione nazionale e nell’introduzione del federalismo(19). Come discorso conclusivo, l’avversione per il colonialismo era dettata dalla sua fede nella democrazia, la quale "odia e combatte la politica coloniale, perché più si preoccupa della distribuzione equa di una modesta ricchezza che dell’accumulo di una colossale nelle mani di pochi cresi […], perché la sperimentò pericolosa per la libertà interna ed è convinta che l’imperium e la libertas […] sono termini che si contraddicono e si elidono, mentre la libertà armonizza e si concilia colla pace ch’è termine antinomico di politica coloniale"(20). Il tema della questione meridionale era così connesso alla politica coloniale e sviluppato in chiave critica della scuola antropologica, secondo cui la tesi dell’inferiorità razziale dei meridionali denotava un rapporto di subordinazione, le cui conseguenze alimentavano i pregiudizi e minacciavano l’unità nazionale. L’identificazione della questione con i fattori atavici e l’interpretazione naturalistica avrebbe finito per legittimare l’"assenteismo" dello Stato e avrebbe allontanato ogni soluzione di riforma politica(21). Così le tesi degli antropologi Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo erano respinte, perché prefiguravano per il Sud un rapporto simile a quello che le potenze coloniali riservavano ai popoli conquistati:
La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco – dannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa, dell’Australia, ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre(22).
Per quanto eclettico possa sembrare il programma anticolonialista di Colajanni, egli configurò il suo meridionalismo su rigorose analisi scientifiche, pervase da una lucida proposta di nuove soluzioni che investivano la politica economica e l’accentramento istituzionale. In entrambe le soluzioni il confronto con le "varie tendenze della democrazia radicale" e della criminologia positiva sfociò in un acceso dibattito su quattro aspetti fondamentali del dibattito politico e culturale: natura del socialismo, rapporto tra protezionismo e liberismo, riforma dell’ordinamento amministrativo, rilevanza della questione penale e eziologia del delitto nella società. Sul primo aspetto Colajanni sostenne la linea evoluzionista di Herbert Spencer, in contrapposizione a quella di Charles Darwin e di Karl Marx; sul secondo avviò un serrato confronto con il "fanatismo liberista" di economisti come Antonio De Viti De Marco, Luigi Einaudi, Maffeo Pantaleoni per avanzare una proposta di "protezionismo condizionato"(23); sul terzo criticò le dottrine lombrosiane per confutare la naturalità del delitto; sul quarto si ricollegò all’idea federale di Carlo Cattaneo in una ferma critica delle istituzioni statali accentrate per la promozione dell’associazionismo politico operante nella società civile(24).
Su questo impianto teorico-istituzionale, diretto ad una "instauratio ab imis" della struttura statale in senso federativo e autonomistico, il deputato nisseno congiunse la riforma del costume politico alla trasformazione sociale per combattere il colonialismo, per debellare fenomeni atavici come la mafia e per avviare a soluzione la questione del Mezzogiorno(25). La fiera opposizione al colonialismo, già espressa durante la prima guerra d’Africa, fu tenuta viva nel primo decennio del XX secolo(26) e ripresa allo scoppio della guerra libica (settembre 1911), quando Colajanni sollevò i temi consueti avanzati sullo scorcio del XIX secolo per invitare il governo a "volgere le cure al Mezzogiorno" e per ribadire la sua contrarietà alla "nuova e brigantesca impresa coloniale" in un’aspra condanna di quella che egli definì il risultato dell’"ubbriacatura tripolina"(27). In una devastante critica ai "guerrafondai partigiani della politica coloniale", Colajanni denunciò "la deviazione delle cure dello Stato dalla Sicilia e dal Mezzogiorno" e rilevò la conseguenza pericolosa "che si potrà avere dalla conquista della Tripolitania":
La deviazione – scrisse egli – non sarà intenzionale certamente, ma automatica poiché di centinaia di milioni e forse di miliardi quanti ne occorreranno per cercare di mettere in valore la Tripolitania non ne ha disponibili tanti da poterli contemporaneamente spendere in Sicilia, nel Mezzogiorno, nella Campagna romana e in altri punti dell’Italia centrale che non soffrono meno, forse, del mezzogiorno. Se i 600 milioni che assorbì l’Eritrea per procurarci soltanto le grandi amarezze di Dogali e di Adua fossero stati impiegati nelle parti del Regno che sono maggiormente bisognose dell’aiuto dello Stato con certezza le feste cinquantenarie sarebbero state celebrate con maggiore spontaneità e letizia.
La deviazione delle cure e dei milioni dello Stato italiano […] mi sembra più che un delitto, un grave errore politico(28).
In numerosi articoli pubblicati sulla "Rivista Popolare", Colajanni concentrò la propria attenzione sulle varie posizioni delle forze politiche (socialisti, cattolici, repubblicani, radicali), ma riassunse con chiarezza anche quelle dei nazionalisti, dei sindacalisti rivoluzionari e dei pacifisti. Se riguardo ai socialisti egli cercò di attenuare le divergenze ideali e politiche, verso i cattolici assunse una posizione molto critica, scrivendo che "il movente" della guerra di Libia non era imputabile all’"antico fanatismo cristiano, che generò le crociate", ma agli interessi economici che ruotavano intorno al Banco di Roma: "l’istituto di credito dei clericali che si è spinto arditamente sulla via della penetrazione economica in Tripolitania"(29). La convinzione di Arturo Labriola e di Giuseppe De Felice Giuffrida, secondo cui la conquista della Libia potesse trasformarsi in un serbatoio della manodopera eccedente nel Meridione d’Italia(30), fu duramente criticata da Colajanni, che considerò le loro posizioni alla stregua delle aspirazioni coloniali dei nazionalisti alla "terra promessa" e al diritto storico sul "mare nostrum"(31). La sua posizione fu resa nota anche sul quotidiano radicale umbro "La Democrazia", dove il deputato repubblicano respinse ogni illusione della "terra promessa" per il fatto che la conquista della Libia non poteva dare alcun beneficio all’economia siciliana con lo sfruttamento di "ipotetiche" miniere di zolfo e di terre da colonizzare con la manodopera dei contadini. Per Colajanni la conquista della Libia, almeno in questa fase, era un’operazione illusoria, che non poteva essere giustificata neppure con l’esistenza di miniere, da cui potevano trarre benefici solo i capitalisti siciliani(32). Ma non mancò di rivolgere aspre critiche a Ernesto Teodoro Moneta, considerato un "rinnegato" e un affossatore del movimento pacifista per avere inviato due telegrammi di "plauso" alla condotta tenuta da Giolitti e da Di San Giuliano nel conflitto italo-turco(33).
Nei mesi successivi, a guerra già inoltrata, Colajanni chiarì meglio i termini della sua opposizione, rinvigorendo sul piano concreto la critica alla guerra di Libia e l’avversione alle spese coloniali(34). Difformemente alle sue idee, Colajanni votò nel febbraio 1912 il decreto di annessione della Tripolitania e Cirenaica, poiché gli sembrò doveroso riconoscere che essa non doveva essere soltanto prerogativa del partito di corte, ma di tutta la nazione: un eventuale ritiro – scrisse egli – "avrebbe significato il suicidio politico e morale dell’Italia, con grave suo danno futuro; con danno gravissimo immediato pei cinque milioni d’Italiani che vivono all’estero e che vi sarebbero maltrattati e calpestati come appartenenti ad una nazione senza volontà, senza consistenza, senza forza, senza energia. Perciò anche quelli che detestano l’impresa, hanno dato il loro voto al decreto di annessione"(35). Questa sua posizione fu meglio precisata in un nuovo articolo sulla guerra di Libia, dove mise in rilievo gli aspetti positivi, che potevano essere colti nella solidarietà nazionale, nella maggiore considerazione dei nostri connazionali all’estero, nel riconoscimento da parte degli stranieri del valore dell’esercito e della marina italiani(36).
Criticato da più parti, ed in modo particolare dall’ala intransigente dei repubblicani, la posizione di Colajanni fu difesa da Achille Loria, che per l’occasione gli inviò una lettera di solidarietà, con cui ricordò il caso di Jean Jaurès, critico implacabile del colonialismo, ma favorevole nel suo voto alla Camera per l’annessione del Marocco da parte della Francia(37). La critica dei repubblicani venne nell’XI congresso nazionale (18-20 maggio 1912), durante il quale prevalsero le posizioni anticolonialiste di Arcangelo Ghisleri(38). Ne riferì sulla "Rivista Popolare" lo stesso Colajanni, che annoverò tra i suoi più decisi oppositori Giovanni Conti, Eugenio Chiesa, Giovanni Battista Pirolini, Pio Viazzi, mentre plaudirono la sua iniziativa Salvatore Barzilai, Cesare Briganti e Gino Meschiari(39). Nonostante queste critiche, Colajanni fu rieletto "come indipendente" nelle prime elezioni a suffragio universale maschile del 1913 per la XXIV legislatura, durante la quale pronunciò numerosi discorsi sulla questione meridionale con lo scopo di eliminare le gravi sperequazioni tra le due Italie secondo la definizione di Giustino Fortunato(40). Egli fece parte del gruppo parlamentare repubblicano(41), non sempre condividendone le scelte politiche in politica estera. Il PRI, pur tra contrasti e lacerazioni interne, riqualificò la propria linea politica nella ripresa della lotta alla monarchia e al militarismo, mentre Colajanni attenuò la sua opposizione alla guerra libica e riesaminò l’impresa coloniale alla luce di considerazioni più realistiche, accentuando – secondo un suo studioso – "i termini di una innegabile involuzione conservatrice" con la manifestata insofferenza nei confronti degli scioperi(42).
Nel dicembre 1913 Colajanni deprecò l’inutile sperpero di denaro, che valutò intorno a "un miliardo e 200milioni" con grave peso sulle finanze dello Stato e sull’economia nazionale(43). Svanita "la speranza di volgere verso la Libia la nostra emigrazione" e rimastoci "l’orgoglio di portare la civiltà italica dove fiorì in altri tempi quella greca e romana", Colajanni affermò che per ora l’unica certezza era quell’"opera incivile" compiuta sui "soldati a fare da boia"(44). Nel febbraio 1914, in un articolo apparso sulla "Rivista Popolare", Colajanni precisò meglio le sue posizioni sulla guerra africana: l’Italia aveva guadagnato fiducia in se stessa, ma quel guadagno era stato rovinato dall’incapacità del governo, che non era riuscito a pacificare e sfruttare la colonia tripolina(45). Al di là del giudizio politico, nel quale confermava la sua definizione del colonialismo come forma di "brigantaggio collettivo", egli sottolineò che l’Italia non avrebbe tratto alcun vantaggio economico dall’occupazione della Libia, così come il Mezzogiorno non vi avrebbe trovato terre fertili per i suoi emigranti, data la scarsa produttività di quel territorio(46). Fermamente convinto che la conquista della Libia era ormai un fatto compiuto, Colajanni condannò in linea di principio ogni forma di politica coloniale, ma non si oppose alla permanenza delle truppe italiane in Africa, perché – come sostenne in un suo discorso alla Camera del 28 febbraio 1914 – ritornare avrebbe significato non solo "squalificare l’Italia di fronte al consesso delle nazioni", ma anche perdere "tutto quello che hanno conquistato di autorità morale i nostri sei milioni d’italiani che vivono all’estero"(47). Così egli invitò Giolitti a destinare per il futuro i finanziamenti alla Libia alle regioni più povere dell’Italia:
Quando voi farete o tenterete di fare in Libia i porti, le strade, i pozzi artesiani, gli sbarramenti, la Sicilia, la Calabria, il Lazio, la Sardegna vi grideranno: Queste opere fatele prima in casa nostra!(48).
La critica alla politica giolittiana fu sviluppata concordemente alle tesi che nel 1913 Colajanni aveva sostenuto in una ponderosa opera diretta a sostenere l’industrializzazione del Mezzogiorno: lungi dal creare contrapposizioni economiche con l’economia settentrionale e dal soffocare le industrie nazionali, l’indirizzo governativo avrebbe dovuto impedire lo spopolamento di vaste regioni del Paese e favorire la formazione del capitale con una politica protezionista, che appariva a Colajanni la vera chiave del progresso economico(49). Non si trattava di una "difesa ad oltranza" o di "un eccesso di zelo" verso il protezionismo, soprattutto per quanto riguardava l’ottimistica fiducia nella capacità "quasi automatiche" dell’industrializzazione, come è stato sostenuto(50); ma di salvaguardare i prodotti nazionali e modificare l’asettico e inerme ambiente meridionale mediante un’oculata politica governativa basata sullo sviluppo e sulla modernizzazione dell’intero Paese. Per la sua fedeltà ad una "politica nazionale", Colajanni sembrò vicino alle posizioni dei nazionalisti, ma invece rivolse loro aspre critiche per il carattere "brutalmente" reazionario con cui avevano cercato di spogliarsi di ogni scoria liberale. L’unico aspetto positivo poteva essere il sostegno al protezionismo, ma il loro fanatismo e il linguaggio offensivo contro il liberismo di Luigi Einaudi, Achille Loria e Maffeo Pantaleoni suscitarono un giudizio negativo sui nazionalisti, criticati inoltre per le sovvenzioni ricevute per la pubblicazione della loro stampa(51).
Scoppiata la Grande Guerra, Colajanni aderì all’interventismo nel solco della tradizione mazziniana e "nel disegno di una guerra che avrebbe completato l’unità italiana con Trento e Trieste", così decisivo delle sorti dello sviluppo della democrazia(52). Da una iniziale posizione favorevole alla neutralità armata, sostenuta il 15 agosto 1914 e giustificata per le enormi spese che un’eventuale partecipazione italiana comportava sul piano bellico, Colajanni assunse alla fine del mese una posizione interventista, dichiarandosi apertamente per la guerra all’Austria e per l’alleanza con la Francia e l’Inghilterra, la cui vittoria sarebbe stata quella della "civiltà e della libertà contro la barbarie degli Unni" e avrebbe portato alla liberazione dalla tirannide austriaca e al dominio dell’Adriatico, considerato mare nostrum(53): il 15 novembre si riferì alla neutralità come un tradimento, mentre il 31 dicembre ritornò sui lamenti carducciani durante la ricorrenza della morte di Guglielmo Oberdan(54). Prima del Patto di Londra (aprile 1915) e la partecipazione italiana al conflitto, il deputato siciliano cominciò a pubblicare sulla "Rivista Popolare" il resoconto degli atti di guerra, dello schieramento delle nazioni e dell’atteggiamentto dei partiti politici in Italia e all’estero.
Su questa linea interventista si mantenne fedele durante la sua attività parlamentare e come presidente del Consiglio provinciale di Enna, pronunciando numerosi discorsi e riconducendo le ragioni della guerra allo spirito prevaricatore tedesco. Allora la Germania, alleata dell’Austria-Ungheria, era presentata come una nazione che cercava di soffocare le nuove nazionalità per realizzare un pangermanesimo destinato a costituire l’impero coloniale tedesco. Per quanto riguardava l’Italia, la situazione era molto sfumata, perché il ricordo della tradizione risorgimentale non era ancora spento: e in ogni caso si occupava a farla rivivere proprio la politica austriaca che, per combattere in modo idealmente più efficace le aspirazioni dei popoli slavi, voleva annientare anche l’irredentismo filoitaliano che indeboliva le "marche" di frontiera del Trentino e di Trieste (appoggio del governatore asburgico di Trieste alle manifestazioni antiitaliane del 1° maggio 1914, diniego all’Università italiana di Innsbruck, politica contro gli impiegati italianizzanti nel comune di Trieste). Il 14 dicembre 1914 pronunciò alla Camera dei deputati un discorso con cui la guerra fu presentata come forza unificatrice, come redenzione della debolezza post-risorgimentale.
Il popolo – disse in quell’occasione Colajanni – aveva dato poco sangue per l’Italia. Guardate le schiere dei Mille […] troverete una grande prevalenza di borghesi più che di lavoratori. Io direi, anzi, […] che la mancanza di un vero contributo popolare al processo unitario risulta dal fatto che il sentimento unitario che avremmo desiderato vedere completamente sviluppato non è stato ancora sufficientemente raggiunto. E vorrei poter augurare […] che la guerra, che io spero vicina, ancor meglio che quella predicata dai nazionalisti, nell’infausto 1911, possa, attraverso il comune sangue versato, saldamente cementare la nazione italiana(55).
Sulla "Rivista Popolare" egli difese la posizione interventista di Mussoli-ni, sostenendo che essa rappresentava una continuità con la tradizione più viva del socialismo(56). La scelta interventista di Mussolini fu spiegata come il risultato di un dissidio interiore "tra la disciplina di partito" e "il sentimento d’italianità; tra il domma teorico del marxismo internazionalista e la realtà che trionfava tragicamente sui campi di battaglia"(57). Di fronte all’ambiguo neutralismo di Giolitti reagì Colajanni, che criticò con vigore la sua condotta, inficiata di slealtà e di "tradimento", poiché per un verso esprimeva fiducia al governo Salandra e per un altro cospirava con gli ambasciatori dell’Austria e della Germania, con la pretesa di un compenso dovuto all’Italia per avere intrapreso la guerra senza alcun preavviso(58). Nel febbraio 1915 Colajanni si dichiarò favorevole ai provvedimenti del ministero Salandra, diretti alla proibizione delle manifestazioni neutraliste ad opera delle forze socialiste per evitare l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco delle potenze occidentali. Per Colajanni l’intervento del governo, contro cui si era pronunciato il Partito repubblicano, era legittimo, anzi necessario, perché finalizzato a proibire le "violenze sistematiche, premeditate, volute, preannunziate con jattanza veramente teutonica dai socialisti italiani. Tollerarle ancora, senza tentare d’impedirle sarebbe lo stesso che incoraggiare non solo la delinquenza comune, ma un delitto contro la nazione"(59). Con questi provvedimenti, secondo Colajanni, non si voleva "contrastare la libertà pura, ma sibbene si vuole impedire la libertà di mal pensare, la libertà dell’antipatriottismo, la libertà del vilipendio delle istituzioni, la libertà … della violenza"(60). L’approssimarsi della guerra acuì i contrasti con i dirigenti socialisti per i pericolosi elementi di disgregazione che diffondevano nell’opinione pubblica, quando era necessaria la massima coesione nazionale: una critica che divenne più aspra nei mesi successivi e si trasformò in un vero atto di accusa verso i socialisti, tacciati di essere al servizio della Germania e di essere stati sudekumizzati dalla Spd, cioè contaminati e spossessati della loro anima nazionale, trasformandosi quindi in nemici dell’Italia(61). Persino il discorso di Filippo Turati alla Camera, che "avrebbe voluto essere ispirato all’idealismo socialista", fu criticato da Colajanni e considerato "un anacronistico sfogo di chi dimenticava la realtà straziante del momento"(62). Di tenore diverso giudicò il discorso di Ciccotti, che nella seduta del 4 dicembre 1915 si poneva al di sopra delle sue convinzioni socialiste e dava la fiducia al governo in nome della causa nazionale(63).
In un articolo pubblicato il 31 maggio 1915, proprio dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia a fianco dell’Intesa, Colajanni ricollegò i motivi del suo interventismo alla possibilità di conquistare i territori italiani, alla sicurezza dei confini, alla liberazione di circa un milione di italiani dalla tirannide austriaca, allla sconfitta della barbarie germanica, all’indipendenza del Belgio, alla solidarietà delle nazioni democratiche, al trionfo del principio di nazionalità e alla garanzia di una lunga pace(64).
Sempre nel 1915 Colajanni pubblicò a puntate sulla "Rivista Popolare" un saggio, raccolto anche in opuscolo, sul pensiero di Mazzini e la sua posizione sulla politica balcanica e sull’avvenire dei popoli slavi, in cui sostenne il principio mazziniano di nazionalità "come regolatore supremo delle relazioni internazionali"(65) e come elemento costitutivo della Nuova Europa:
I fatti sul terreno politico posero Mazzini al di sopra di Marx e dimostrarono che le nazioni sono entità naturali e vive che non si possono sopprimere e che non saranno soppresse nemmeno quando, realizzate le aspirazioni mazziniane, ci sarà un organismo internazionale che rappresenterà l’ultimo circolo entro il quale concentricamente saranno compresi quello delle nazioni, delle regioni, delle città, delle famiglie(66).
Nello stesso opuscolo sostenne il principio mazziniano dell’intervento contro il "sacro egoismo" di Antonio Salandra e ripropose una visione di politica internazionale come soluzione della "scellerata e immane guerra", cioè l’appoggio leale alle nazionalità oppresse dalle potenze centrali e la distruzione degli "imperi briganteschi" plurinazionali (Austria e Turchia)(67). Di fronte alla sollevazione nazionale dei popoli danubiani e balcanici, di fronte alla minacciosa reazione dell’Austria-Ungheria e al suo sostegno del colosso germanico, di fronte alle ambizioni imperialistiche dei nazionalisti, la ripresa del pensiero mazziniano – sostenne con vigore Colajanni – potè uscire dai circuiti culturali strettamente connessi al PRI ed investì il campo dei socialisti riformisti, da Ivanoe Bonomi a Leonida Bissolati e ad Angiolo Cabrini, ed anche quello di alcuni settori del mondo cattolico legati alla Lega democratica nazionale di Eligio Cacciaguerra, di Giuseppe Donati e di Eugenio Vaina de’ Pava. Grazie all’azione culturale di ristretti gruppi fu possibile salvaguardare l’identità nazionale e tenere vivo il significato della politica internazionale quale era stata intesa da Mazzini. Al convegno del Pri, tenuto a Roma nel febbraio 1916, Colajanni impostò il suo discorso alla luce della dottrina mazziniana, contribuendo così alle deliberazioni conclusive, votate nell’assise repubblicana e finalizzate a contrastare il militarismo tedesco, a fondare un nuovo assetto europeo secondo il principio di nazionalità e sul rispetto della libertà politica ed economica di ogni Stato. L’auspicio degli "Stati Uniti d’Europa" era così strettamente congiunto alla limitazione obbligatoria degli armamenti e alla riduzione progressiva fino al disarmo, all’abolizione della diplomazia segreta e alla pubblicità negli affari esteri, alla costituzione e all’impegno d’una entità sovranazionale in difesa di uno Stato invaso o minacciato(68).
In questo contesto Colajanni guardò con simpatia alla Francia e alla Gran Bretagna per motivi ideali e per la possibilità che esse potessero conservare l’equilibrio europeo. La sua azione fu ispirata dalla preoccupazione che le forze dell’assolutismo non prevalessero e non consentissero alla Germania di conquistare una zona coloniale nell’Europa centro-orientale, contro le indicazioni stabilite nel convegno di Bruxelles del 1884 e dirette a stabilire le modalità degli acquisti coloniali senza turbare la pace europea. Nel biennio 1915-16 Colajanni elogiò l’opera dei soldati italiani "impegnati nella difesa della patria", schierandosi a favore degli alleati: "dai "valorosi russi", che nonostante le gravi perdite hanno saputo resistere al nemico; agli eserciti francesi, che si sono resi più valorosi degli eserciti di Napoleone nella difesa delle loro terre; agli inglesi, che hanno saputo rinunciare all’individualismo avanzato che coltivavano da circa sei secoli". Dell’ispirazione democratica del suo interventismo lasciò traccia in un volume, in larga misura basato sulla denuncia dell’imperialismo tedesco e del pericolo rappresentato per la libertà d’Europa(69).
Per me – scrisse Colajanni – non c’è dubbio alcuno: [le responsabilità] spettano alla Germania, di cui l’Austria-Ungheria non è stata che lo strumento, sebbene essa vi fosse più interessata e le appartenesse l’episodio ultimo, la favilla che accese l’incendio: l’ultimatum alla Serbia e il rifiuto di contentarsi delle soddisfazioni che questa era pronta a darle e che non potevano arrivare al suicidio – cioè alla rinunzia della propria autonomia, della propria indipendenza.
La profonda mia convinzione sulla responsabilità della Germania non risulta soltanto dai documenti diplomatici del mese di luglio; ma anche e più dalla sua attitudine, dalla sua preparazione alla guerra, dalla sua decisa intenzione di provocarla(70).
Tra le responsabilità addotte alla Germania nello scoppio della guerra, Colajanni indicò l’aumento considerevole delle spese militari con la politica di armamento terrestre e navale, il rifiuto di effettuarne una riduzione secondo le indicazioni della Conferenza dell’Aja, il disinteresse nelle controversie tra Austria e Serbia. Così l’assassinio del granduca Francesco Ferdinando, perpetrato a Sarajevo il 28 giugno 1914, diede all’Austria-Ungheria il pretesto "d’invadere le terre altrui" con l’appoggio della Germania(71). La guerra fu ricondotta non alla lotta razziale o all’antagonismo religioso, ma all’"esasperato sentimento nazionale"(72) e al disegno egemonico tedesco. Ricollegandosi ai saggi di Paolo Giordano e di Henry Hauser(73), Colajanni criticò aspramente Benedetto Croce per la sua apologia della Germania(74). Durante l’accesa polemica con il filosofo napoletano, egli respinse i sentimenti "germanofili", sottoponendo a una stringente disamina la sua posizione a favore degli Imperi centrali. Anzi, per parecchi mesi, tenne vivo nella sua rivista il dibattito sulle posizioni "tripliciste" di Croce e sulla sua profonda avversione ad un’alleanza dell’Italia con l’Intesa(75). Un articolo di Croce, pubblicato su "La Critica" del 1915, fornì a Colajanni l’occasione di criticare la sua posizione sulla guerra, che per il deputato siciliano doveva essere ricondotta ad un "hegelismo fanatico", secondo cui ogni evento bellico appartenesse alla natura profonda dei popoli, al loro istinto primordiale di affermarsi sulla scena del mondo e di accrescervi la propria potenza(76).
La contrapposizione interventismo-neutralismo, se condizionò la politica italiana negli ultimi anni del conflitto bellico, influì notevolmente sulle scelte politiche di Colajanni. Il processo di radicalizzazione politica, già in atto sin dalle radiose giornate di maggio, si accentuò e proseguì con i successivi sviluppi nello sforzo di resistenza interna durante la guerra. La crisi di governo Salandra, sopraggiunta nel giugno 1916, ricevette particolare attenzione da parte di Colajanni, che riconobbe la gravità del momento, ma non mancò di rilevarne la scarsa duttilità politica e il poco rispetto delle varie correnti parlamentari(77). Il nuovo gabinetto Boselli, entrato in carica il 19 giugno, riscosse la fiducia di Colajanni, che accolse con favore l’ingresso del repubblicano nella nuova compagine governativa per la possibilità che egli poteva nel denunciare accordi sotteranei da parte della monarchia(78). La rottura delle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con la Germania e l’intervento della potenza americana in guerra furono salutati con entusiasmo da Colajanni per il contributo che essi avrebbero dato nella lotta contro la barbarie. Una posizione critica assunse, invece, nei riguardi della rivoluzione russa (ottobre 1917), che non era altro che una immane tragedia per la democrazia europea e per la civiltà mondiale; anzi il nuovo regime – secondo un suo giudizio espresso l’anno successivo – aveva messo in difficoltà gli alleati ed aveva rafforzato il militarismo tedesco, senza mantenere la promessa della liberazione del popolo russo e salvaguardare l’identità nazionale della Lituania, dell’Estonia e dell’Ucraina(79).
Fu in questa nuova situazione internazionale e in un pesante clima di radicalizzazione dello scontro politico che egli aderì al Fascio parlamentare di difesa nazionale, promosso nel dicembre 1917 da un gruppo di deputati interventisti sull’onda della commozione suscitata dal disastro di Caporetto e destinata a essere sempre più egemonizzata dalla destra nazionalista(80). L’adesione di Colajanni, seppure coerentemente in linea ad un progetto di riscossa nazionale, segnò un decisivo mutamento del suo atteggiamento nei confronti della sinistra, tacciata di voler disperdere il risultato della vittoria e con essa l’immane sforzo bellico compiuto per conseguirla. A spingerlo verso il nuovo raggruppamento politico contribuì soprattutto la convinzione che bisognava rinsaldare il legame politico tra uomini e partiti disposti a lottare contro il mito della rivoluzione russa e il propagarsi delle idee bolsceviche tra i lavoratori. L’esperimento leninista e la tenace volontà dei socialisti d’introdurlo anche in Italia divenne un bersaglio per Colajanni, che negli ultimi anni della sua vita si batté per scongiurare la minaccia della rivoluzione comunista(81).
In questo contesto, nell’immediato dopoguerra, Colajanni collegò infatti la conclusione del conflitto con lo spettro della rivoluzione leninista, che avrebbe vanificato i risultati di una vittoria militare conseguita a prezzo di immani sacrifici. Egli intervenne più volte alla Camera per deplorare il fatto che il maggior reclutamento di soldati al Sud aveva provocato una forte diminuzione della manodopera agricola, non compensata poi da adeguati provvedimenti governativi; ma non mancò d’intervenire durante il dibattito sulla questione contadina, mettendo in rapporto il suo rifiuto della collettivizzazione delle terre con l’individualismo dei contadini, che nel Mezzogiorno come in Russia "volevano per sé il loro pezzo di terra"(82). Sull’esperienza dei soviet e del "bolscevismo dissolvitore" egli espresse la più netta ripulsa, ma difese con fermezza la "causa grandiosa" del socialismo e dei suoi rappresentanti, costretti ad abbandonare il congresso internazionale di Berna (1919). La critica fu rivolta ad Oddino Morgari e a Giulio Casalini, i quali – secondo Colajanni – si erano ritirati dal congresso, perché "si è permesso di discutere le responsabilità della guerra senza assegnarle all’anonimo capitalismo; e soprattutto perché non ha fatto l’apologia del bolscevismo, anzi gli si è mostrato avverso"(83). Ma ad essere preso di mira fu anche Filippo Turati, accusato d’ambiguità e di cedimento ai massimalisti per solidarietà di partito e per devozione ad una vocazione unitaria che sarebbe diventata sempre meno difendibile e aleatoria(84). In polemica con il deputato milanese, Colajanni imputò il fallimento degli ideali di giustizia alla crisi del socialismo europeo, che non era riuscito a contrastare le aspirazioni belliciste della borghesia(85). Così accusò i socialisti di voler "preparare una Caporetto della pace" e non esitò a definire "scellerato" il bolscevismo, la cui diffusione potrà essere scongiurata dal Fascio parlamentare, insieme ad "un Fascio uguale, più largo, più combattivo, che nel paese potrà, dovrà salvarci dal pericolo e della tirannide del bolscevismo"(86).
Alla stessa stregua Colajanni guardò con sospetto la proposta repubblicana della Costituente nel timore che uno sconvolgimento politico-istituzionale potesse favorire una disastrosa avventura comunista(87). La critica fu rivolta soprattutto a Oliviero Zuccarini e al suo periodico "L’Iniziativa", accusato di avere tradito l’insegnamento di Mazzini e di avere espresso "sincera solidarietà con gli uomini che vorrebbero ridurre la patria nostra alle condizioni della Russia"(88). L’eccidio di palazzo D’Accursio, perpetratosi il 21 novembre 1920, segnò l’apertura favorevole verso i fascisti, la cui azione fu giustificata per la risposta alle provocazioni dei socialisti. In un netto rifiuto degli opposti estremismi, Colajanni considerò "falso che ci fosse equivalenza nella bestialità tra Fascisti e socialisti", gli uni per l’"inesistenza" delle loro responsabilità e gli altri per l’istigazione a "reati brutali e orrendi come quelli del Tribunale rosso di Torino, del Consiglio comunale di Bologna, dell’occupazione delle fabbriche, degli incendi, delle violenze, degli assassini agrari dell’Emilia"(89). La condanna degli scioperi, definiti "semina della miseria", fu così netta da indurre Colajanni a giudicarli inutili e pericolosi per la sopravvivenza delle istituzioni liberali. Secondo il suo giudizio, le responsabilità erano imputabili alla propaganda rivoluzionaria dei massimalisti, i quali illudevano le masse popolari con il miraggio d’una palingenesi sociale imminente e d’una nuova organizzazione politica(90). Ma la polemica colajannea non fu rivolta soltanto ad episodi circoscritti alla realtà italiana, ma investì anche la natura del comunismo, ritenuto "il grande e pericoloso nemico interno, più pericoloso di quel che sia stato l’Impero austro-ungarico":
Più pericoloso perché le persecuzioni e le minacce dell’Impero austro-ungarico destavano la vigorosa reazione patriottica e facevano sorgere il sentimento nazionale italiano, mentre il partito comunista, pur propugnando gl’interessi della patria altrui, nega risolutamente la patria propria, nega il diritto alla vita della nazione italiana per affermare e favorire l’avvento di un falso internazionalismo in cui la Russia asiatica e medioevale dovrebbe mantenere non una egemonia che consente una certa libertà, la dittatura più assoluta e più tirannica(91).
Allo stesso modo Colajanni guardò con diffidenza l’apertura dei repubblicani alle "nuove tendenze bolsceviche" per contrastare l’equivoco "tendenzialmente repubblicano" di Mussolini e dei suoi adepti(92). Sulla "Rivista Popolare" egli intraprese un’aspra polemica nei confronti del gruppo dirigente del PRI, accusato di "scimiottatura leninista" e di avversione preconcetta al nascente movimento fascista(93). Egli considerò infatti il fascismo delle origini "un argine all’avanzata del massimalismo socialista, una salutare e genuina reazione al terrore rosso, all’anarchia serpeggiante nel paese"(94). In una valutazione comune ad altri interpreti coevi, Colajanni considerò il fascismo alla stregua di un fenomeno provvidenziale ed effimero, destinato a scomparire dalla scena politica, non appena avrebbe esaurito il suo compito di contrasto del bolscevismo antinazionale. Ma la scomparsa, avvenuta nel settembre 1921, lasciò sospeso il suo giudizio sul fascismo, la cui evoluzione conservatrice contraddiceva quegli ideali di democrazia politica, di progresso sociale e di solidarietà dei popoli ai quali Colajanni si mantenne fedele nel corso della sua operosa e inquieta esistenza.
Nunzio Dell’Erba
NOTE
(1) Sull’attività politica di Colajanni, dal suo esordio nel volontariato garibaldino al 1903, colma una lacuna il volume di J.-Yves Frétigné, Biographie intellectuelle d’un protagoniste de l’Italie libérale: Napoleone Colajanni (1847-1921). Essai sur la culture politique d’un sociologue et député sicilien à l’age du positivisme (1860-1903, Ecole française de Rome, Roma 2002. Dopo questa edizione francese è preannunciato un altro volume: Dall’ottimismo al pessimismo: itinerario politico e intellettuale di Napoleone Colajanni dalla svolta liberale al fascismo, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, 2006.
(2) N. Colajanni, Banche e parlamento: fatti, discussioni e commenti, Treves, Milano 1893; Id., Per la razza maledetta, Palermo, Sandron, 1898; Id., Settentrionali e meridionali. Agli italiani del Mezzogiorno, Palermo, Sandron, 1898.
(3) B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 61-62.
(4) Durante il suo intervento Caetani si chiese quale fosse "il valore strategico della Tripolitania" ed affermò: "La Tripolitania lo insegna la storia di oltre 2.000 anni, non ha mai avuto valore strategico nella storia del bacino del Mediterraneo per la ragione, che ha la costa la più infida di tutto il mare nostro […]. Le vicende della Tripolitania non ebbero influenza alcuna sui destini del nostro Paese"; cfr. il discorso di L. Caetani, 7 giugno 1911, in Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sessione 1909-11, Discussioni, vol. XIII, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1911, pp. 15361-15374. La citazione è alla p. 15368.
(5) Riguardo all’occupazione di Massaua, Colajanni "aveva affermato l’esistenza di un contagio psichico analogo al contagio biologico, che spingeva le moltitudini a sentire in modo identico e a manifestare in identica forma le sensazioni quasi si trattasse di un individuo solo"; cfr. A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Roma, Tibergraph, 1989, p. 42. Per un altro storico, Colajanni portò alla ribalta il tema del colonialismo, contribuendo a rendere più vistoso il contrasto fra il dibattito sulla situazione italiana e quello ampio sulle questioni coloniali da parte delle altre potenze europee; cfr. N. Labanca, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993, p. 69.
(6) N. Colajanni, Le due utopie, in "Rivista Italiana del Socialismo", febbraio 1887, a. II, n. 4, pp. 97-105; Id., Colonie e commercio, in "Giornale degli Economisti", novembre 1891, a. II, fasc. I, pp. 410-442; Id., Nell’Africa italiana, in "Il Secolo", 1-2 dicembre 1897. Per la sua posizione antecedente alla guerra di Libia cfr. S. Massimo Ganci, Profilo di Napoleone Colajanni dagli esordi al movimento dei fasci dei lavoratori (1959), in Id., L’Italia antimoderata. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi, Parma, Guanda, 1968; Id., Introduzione a Democrazia e socialismo in Italia. Carteggi di Napoleone Colajanni 1878-1898, Milano, Feltrinelli, 1959; F. Vegas, Colajanni e la questione coloniale, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, Epos, Palermo 1983, pp. 116-119; R. Tumminelli, La polemica di Colajanni sulla guerra e il colonialismo, in "Il Risorgimento", ottobre 1982, a. XXXIV, n. 3, pp. 213-219.
(7) Lo Zotico [N. Colajanni], Che cosa fare dell’Eritrea?, in "Rivista Popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali" (d’ora in poi "RP"), 30 ottobre 1897, a. III, n. 8, pp. 141-143. Il riferimento era all’articolo di D. Primerano, Che cosa fare dell’Eritrea, in "Nuova Antologia", 16 ottobre 1897, vol. 155, pp. 614-636, segnalato da A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale cit., p. 145.
(8) Il saggio più completo è quello di M. Savoca, La Rivista Popolare di Napoleone Colajanni, in "Archivio Storico Siciliano", 1998, serie IV, vol. XXIV, fasc. I, pp. 323-443.
(9) Per i rapporti di Colajanni con la cultura socialista francese cfr. G. Biagio Furiozzi, Sorel e l’Italia, Messina-Firenze, D’Anna, 1975, p. 65, p. 99, pp. 117-120 e pp. 155-157; S. Massimo Ganci, I rapporti tra Sorel-Colajanni nella "crisi del marxismo" (1896-1905), in "Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli", 1976, a. XVII, pp. 191-217.
(10) N. Colajanni, Armi e politica, in "RP", 30 giugno 1904, a. X, n. 12, pp. 313-314; Id., Responsabilità della Germania nella corsa agli armamenti, ivi, 31 agosto 1910, a. XVI, n. 16, pp. 425-434; Id., Consummatum est!. (La rinnovazione della Triplice), ivi, 15 dicembre 1912, a. XVIII, n. 23, pp. 566-570.
(11) N. Colajanni, Il socialismo, Palermo-Milano, Sandron s.d (ma 1898), p. 325. L’opera costituisce un’edizione "rivista e accresciuta" del volume pubblicato nel 1884; cfr. Il socialismo. Appunti, Catania, Tropea, 1894. Sulla fortuna dell’opera cfr. E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 34-35.
(12) R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi, 1958, p. 335.
(13) N. Colajanni, Democrazia imperialista? La più grande in Italia, in "RP", 15 giugno 1901, a. VII, n. 11, pp. 205-207. Lungo questa linea di pensiero, Colajanni precisava: "Un imperialismo alimentato dalla miseria e che dev’essere mezzo per raggiungere la ricchezza e non risultato della medesima non è mai esistito" (p. 207). Per altri aspetti si veda A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale cit., p. 265 (nota 15) e p. 271.
(14) R. Battaglia, La prima guerra d’Africa cit., p. 335. Il giudizio è confermato da un altro storico, che definisce l’opera colajannea "l’unico serio tentativo di riassumere le tesi anticolonialiste italiane"; cfr. R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, p. 244.
(15) N. Colajanni, Politica coloniale, Palermo, Clausen, 1891, p. 39. Per una ponderata valutazione del suo anticolonialismo si vedano R. Battaglia, La prima guerra d’Africa cit., pp. 173-174 e pp. 465-466; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Milano, Mondadori, 1992 (I ed. 1976), pp. 353-354 e pp. 439-440.
(16) Nel 1894 Colajanni sottolineava così questo aspetto: "Il più gran malanno della politica coloniale è il militarismo. La nostra cronaca africana narra cose vergognose. L’insipienza fu pari alla corruzione; questa pari alla crudeltà; si conoscono fatti scandalosi, disonesti favoritismi e sfacciate ladrerie, si sanno da tutti le stragi e gli atti orribili di giustizia sommaria colà perpetrati. E pensare che eravamo andati là per civilizzare i barbari!"; cfr. N. Colajanni, Il Madagascar e la politica coloniale, in "La Rivista Popolare", 15 dicembre 1894, a. II, n. 19, p. 645.
(17) Il discorso crispino del 14 ottobre 1889 è riportato in F. Crispi, Scritti e discorsi politici (1849-1890), Roma, Unione cooperativa editrice, 1890, pp. 713-743.
(18) N. Colajanni, Politica coloniale cit., p. 66.
(19) Sulla visione politica di Colajanni e le sue implicazioni con la questione del Mezzogiorno cfr. Massimo L. Salvadori, Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1960, pp. 206-236; C. Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 150-153 e pp. 211-214; Id., Le ‘due Italie’. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 70-71, pp. 84-85.
(20) N. Colajanni, Politica coloniale cit., pp. 318-319. Sul dibattito precedente al volume colajanneo cfr. M. Grazia Patanè, Le polemiche sul colonialismo nel movimento repubblicano e socialista (1887-1890), in "Archivio Trimestrale", 1979, a. V, pp. 637-654; 1980, a. VI, pp. 129-137.
(21) N. Colajanni, L’assenteismo dello Stato italiano nel mezzogiorno, in "RP", 30 agosto 1899, a. V, n. 4, pp. 64-66. Su questo aspetto Colajanni scrisse che "in Italia l’assenteismo dello Stato si svolge a tutto danno dell’Italia meridionale e delle isole […]. Con un regime federale avrebbe il diritto di contribuire meno del resto della penisola sulle spese di mantenimento dell’esercito" (p. 65).
(22) N. Colajanni, Per la razza maledetta, in "RP", 30 settembre 1897, a. III, n. 6, p. 106.
(23) N. Colajanni, L’utopia liberista. (Far male al Nord, senza arrecare del bene al Sud!), in "RP", 15 e 31 agosto 1903, a. IX, n. 15 e 16, pp. 405-409 e pp. 427-432; Id., A proposito di uno stravaso di bile di un liberista, ivi, 30 ottobre 1903, a. IX, n. 20, pp. 549-556. Sui rapporti tra Colajanni e Pantaleoni si veda L. Michelini, Marginalismo e socialismo: Maffeo Pantaleoni (1882-1904), Milano, Franco Angeli, 1998, passim. Ma per alcuni riferimenti alla posizione di Colajanni cfr. G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale 1890-1915, Bologna, il Mulino, 1974, pp. 119-126; A. Cardini, Stato liberale e protezionismo in Italia (1890-1900), Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 228, p. 234 e pp. 247-248.
(24) Sul dibattito politico suscitato dalle sue opere cfr. N. Colajanni, Introduzione, in Il socialismo, II ed., Palermo-Roma, Sandron, s. d. (ma 1898), pp. III-VII. La prima edizione era apparsa quattordici anni prima con il titolo Il socialismo. Appunti, Catania, Tropea, 1884.
(25) G. Angelini, Colajanni e la questione meridionale, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento cit, pp. 98-115.
(26) Si veda ad esempio N. Colajanni, Per la nostra politica coloniale, in in "RP", 15 febbraio 1908, a. XIV, n. 3, pp. 67-69.
(27) N. Colajanni, Da Verbicaro a Tripoli; da Mazzini a Giolitti, I. I partiti politici e l’impresa di Tripoli, in "RP", 30 settembre 1911, a. XVII, n. 18, p. 484 e p. 485; Id., L’ubbriacatura tripolina, in "La Ragione", 29 agosto 1911. Di "ubbriacatura coloniale" parlò invece durante l’impresa di Adua; cfr. La Rivista [N. Colajanni], L’utopia africana e l’impotenza del militarismo, in "RP", 30 ottobre 1895, a. I, n. 8, pp. 113-115. Il riferimento è alla p. 113.
(28) N. Colajanni, Da Verbicaro a Tripoli; da Mazzini a Giolitti, I. I partiti politici e l’impresa di Tripoli cit. p. 485.
(29) Ivi, p. 486.
(30) Sulle posizioni filolibiche dei due esponenti socialisti rinvio ai saggi di D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1970, pp. 203-207; R. Spampinato, Giuseppe De Felice Giuffrida, in Aa. Vv., I Fasci siciliani, vol. II: La crisi italiana di fine secolo, Bari, De Donato, 1976, pp. 144-146.
(31) [N. Colajanni], La Tripolitania non è … la terra promessa, in "RP", 31 ottobre 1911, a. XVII, n. 20, p. 534.
(32) N. Colajanni, La Sicilia e la conquista della Tripolitania, in "La Democrazia", 18 settembre 1911, cit. da G. Biagio Furiozzi, Socialisti e radicali nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 94.
(33) [N. Colajanni], La liquidazione della Società per la pace e per l’arbitrato in Italia, in "RP", 15 ottobre 1911, a. XVII, n. 19, p. 508; Id., Ernesto Teodoro Moneta si difende … come può, in "RP", 30 novembre 1911, a. XVII, n. 22, pp. 590-591. Per la critica di Colajanni a Moneta un accenno si trova in R. Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento, Milano, Angeli, 1990, p. 180.
(34) S. Bono, La guerra libica 1911-1912, in "Storia contemporanea", marzo 1972, a. III, n. 1, pp. 70-72; H. Ullrich, L’atteggiamento politico di Colajanni negli anni 1912-1914, in "Bollettino della Domus Mazziniana", gennaio 1973, a. XIX, n. 1, pp. 87-92.
(35) Cfr. Atti Parlamentari, XXIII Legislatura, tornata del 23 febbraio 1912, pp. 17178-17180; N. Colajanni, La grande seduta storica, in "RP",
(36) N. Colajanni, Il bilancio della guerra libica, in "RP", 15 ottobre 1912, a. XVIII, n. 19, pp. 458-461. Per altri riferimenti si veda l’interessante saggio di M. Savoca, La Rivista Popolare di Napoleone Colajanni cit., p. 366 e ss.
(37) Cfr. Una lettera di Loria, in "RP", 31 marzo 1912, a. XVIII, n. 6, p. 141. Nella lettera, datata 21 marzo 1912, Loria aveva ricordato che Jaurès, "dopo avere svelato nell’Humanité i retroscena finanziari dell’impresa marocchina, la sancì col suo voto" (p. 141). Per la posizione del socialista francese sulla questione coloniale si veda M. Rebérioux, Introduction a J. Jaurès, Textes choisis, I: Contre la guerre et la politique coloniale, Paris, Editions sociales, 1959, pp. 15-58. Ringrazio la collega Aurelia Camparini per la segnalazione del testo antologico su Jaurès, di cui ha fornito ottimi saggi.
(38) Cfr. PRI, Resoconto delle sedute del XI Congresso Nazionale. Ancona, 18-19-20 maggio 1912, Forlì 1914. Per le posizioni anticolonialiste di A. Ghisleri si veda il suo opuscolo, La guerra e il diritto delle genti secondo la tradizione italiana. Conferenza tenuta nel Teatro di Forlì il 3 novembre 1912, con appendice di note e documenti, Roma, Libreria Politica Moderna, 1913.
(39) [N. Colajanni], Il congresso repubblicano di Ancona, in "RP", 31 maggio 1912, a. XVIII, n. 10, pp. 253-254.
(40) Proprio in questo periodo Colajanni dedicò sulla "Rivista Popolare" cinque articoli all’insigne meridionalista; cfr. N. Colajanni, Il problema meridionale nei discorsi e negli scritti di Giustino Fortunato, in "RP", 15 aprile 1912, a. XVIII, n. 7, pp. 174-176; 30 aprile, n. 8, pp. 205-209; 30 giugno, n. 12, pp. 319-323; 15 luglio, n. 13, pp. 349-353; 30 luglio, n. 14, pp. 377-381.
(41) L’elenco completo dei deputati aderenti al Gruppo parlamentare repubblicano è riportato nell’appendice a cura di M. Tesoro, Il partito repubblicano da galassia a partito nazionale, in Aa. Vv., Il partito politico nella bella époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ’800 e ’900, a cura di G. Quagliarello, Milano, Giuffrè 1990, p. 523.
(42) S. Fedele, Napoleone Colajanni. Profilo di un protagonista, in "Archivio Trimestrale", aprile-giugno 1986, a. XII, n. 2, p. 304.
(43) [N. Colajanni], L’impresa libica: quanto costa; e come si disonora. Autorizza anche la profanazione del nome di Garibaldi, in "RP", 31 dicembre 1913, a. XIX, n. 24, p. 645. Alcuni mesi dopo Colajanni ritornò sull’argomento e ribadì: "A conti fatti l’impresa libica ci costa un miliardo e duecento milioni […]. Che cosa vi abbiamo guadagnato? […]. La spedizione libica ha disorganizzato l’esercito e lo ha posto in una condizione di terribile inferiorità in Europa"; cfr. N. Colajanni, La discussione Libica, in "RP", 15 febbraio 1914, a. XX, n. 3, pp. 68-69.
(44) [N. Colajanni], L’impresa libica: quanto costa; e come si si disonora. Autorizza anche la profanazione del nome di Garibaldi cit., p. 645.
(45) N. Colajanni, La discussione Libica, in "RP", 15 febbraio 1914, a. XX, n. 3, pp. 66-70.
(46) Una posizione simile venne espressa da Gaetano Mosca e da Gaetano Salvemini, i quali sostennero che l’Italia non avrebbe tratto alcun beneficio sul piano della colonizzazione agricola e dell’emigrazione; cfr. G. Mosca, Italia e Libia. Considerazioni politiche, Milano, Treves, 1912; G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 90-332.
(47) Cfr. il discorso di N. Colajanni alla Camera dei deputati, 28 febbraio 1914, ora parzialmente pubblicato in Id., La condizione meridionale. Scritti e discorsi, a cura di A. Maria Cittadini Ciprì, Napoli, Bibliopolis, 1994, p. 452.
(48) Ivi, p. 453.
(49) N. Colajanni, Il progresso economico, voll. I-III, Milano, Bontempelli, 1913.
(50) A. Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915). Le premesse politiche ed economiche, Bologna, il Mulino, 1981, p. 394.
(51) Lo zotico [N. Colajanni], E’ caduta la maschera del nazionalismo, in "RP", 15 aprile 1914, a. XX, n. 7, pp. 262-263; La Rivista [N. Colajanni], Dagli eccidi alla protesta: e viceversa, in "RP", 15 giugno 1914, a. XX, n. 11, pp. 289-290. Sul programma dei nazionalisti e la loro posizione nei confronti del liberismo cfr. F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia (1903-1914), Roma, Bonacci, 1984, pp. 172-179.
(52) L. Lotti, Il Partito repubblicano dal 1895 al 1921, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana tra otto e novecento cit., p. 65.
(53) La Rivista [N. Colajanni], La guerra scellerata e vergognosa, in "RP", 15 agosto 1914, a. XX, n. 15, pp. 393-397; N. colajanni, Le probabili conseguenze della nostra neutralità, ivi, pp. 397-400; ID., La guerra scellerata e vergognosa. Ora angosciosa!, in "RP", 31 agosto 1914, a. XX, n. 16, pp. 409-410. Sull’interventismo di Colajanni un cenno si ritrova, in B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla guerra mondiale, L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi 1966, passim; Id., Da Giolitti a Salandra cit., p. 160. Ma più diffusamente si sofferma A. John Thayer, L’Italia e la Grande guerra. Politica e cultura dal 1870 al 1915, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 378-379, 386, 392, 443, 556.
(54) N. Colajanni, Il nuovo ministero Salandra, in "RP", 15 novembre 1914, a. XX, n. 21, p. 513-514; Id., La commemorazione di Guglielmo Oberdan, in "RP", 31 dicembre 1914, a. XX, n. 24, p. 581.
(55) In Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sessione 1913-15, Discussioni, vol. VI, Tipografia della Camera dei deputati, pp. 5561-5565.
(56) N. Colajanni, Nel campo socialista. Il caso Mussolini, in "RP", 30 novembre 1914, a. XX, n. 22, pp. 540-541.
(57) Ivi, p. 540.
(58) [la rivista] N. Colajanni, La nostra guerra. Pel trionfo della giustizia e della civiltà, in "RP", 31 maggio 1915, a. XXI, n. 10, p. 245.
(59) N. Colajanni, Contro la libertà…della violenza, in "RP", 28 febbraio 1915, a. XXI, n. 4, p. 89.
(60) Ivi, p. 89. Su questo articolo ha richiamato l’attenzione A. Ventrone nel suo libro La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, p. 100.
(61) N. Colajanni, Italia e Francia, in "RP", 15 aprile 1915, a. XXI, n. 7, pp. 171-174; Id., Gli austriaci... d’Italia perdono la pazienza, ivi, 30 aprile 1915, a. XXI, n. 8, p. 191.
(62) N. Colajanni, La nostra guerra cit., p. 245.
(63) Cfr. siculo [N. Colajanni], I contrasti del socialismo italiano, 15 dicembre 1915, a. XXI, n. 23, pp. 561-564; la rivista [N. Colajanni], La grande affermazione del patriottismo italiano, ivi, pp. 559-561; la rivista [N. Colajanni], I socialisti italiani contro la guerra nazionale, in "RP", 31 marzo 1916, a. XXII, n. 6, pp. 123-125.
(64) N. Colajanni, La nostra guerra, in "RP", 31 maggio 1915, a. XXI, n. 10, pp. -.
(65) N. Colajanni, Il pensiero di Giuseppe Mazzini sulla politica balcanica e sull’avvenire degli slavi, Roma, Libreria Politica Moderna, 1915, p. 31.
(66) Ivi, p. 12.
(67) Ivi, p. 12 e p. 39.
(68) Cfr. Il Convegno repubblicano di Roma, in "RP", 29 febbraio 1916, a. XXII, n. 4, pp. 82-84. In questo convegno Colajanni attualizzò anche il pensiero di Mazzini alla realtà politica dei popoli danubiano-balcanici con un richiamo alle Lettere slave del pensatore genovese.
(69) N. Colajanni, Le cause della guerra, Federico Sangiovanni, Napoli 1916. Il volume fu ripubblicato l’anno successivo con nuove aggiunte e alcune modifiche di carattere formale; cfr. Id., Le responsabilità e le cause della guerra, "La Rivista Popolare", Roma-Napoli 1917.
(70) N. Colajanni, Le cause della guerra cit., pp. 4-5.
(71) Ivi, p. 34.
(72) Ivi, p. 25.
(73) P. Giordano, L’Impero coloniale tedesco, come nacque e come finisce, Milano, Treves, 1915; H. Hauser, Le problème colonial, Paris, Librairie Chapelot, 1915.
(74) N. Colajanni, Le cause della guerra cit., p. 105.
(75) In una lettera a Gentile del 15 marzo 1915, Croce confidava all’amico siciliano di sperare "sempre che avvenga un’intesa con l’Austria e che l’Italia resti così al gruppo degli Imperi centrali, conforme ai trattati e conforme ai suoi interessi politici ed economici"; cfr. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), Milano, Mondadori, 1981, p. 491. Sull’atteggiamento "germanofilo" di Croce cfr. N. Colajanni, La laida reticenza della filosofia del Senatore Croce, in "RP", 15 agosto 1915, a. XXI, n. 15, pp. 359-360; Id., L’ingenuità di Benedetto Croce, ivi, 15 ottobre 1915, a. XXI, n. 19, pp. 464-467; Id., Le postille austro-tedesche del senatore Croce, ivi, 15 aprile 1916, a. XXII, n. 7, pp. 150-153; Id., Gl’italiani contro il Senatore Croce, ivi, 30 aprile 1916, a. XXII, n. 8, p. 158.
(76) A questo proposito Colajanni scrisse che "il senatore Croce […] non vedeva le ragioni chiaramente nazionali dell’intervento dell’Italia in guerra"; cfr. N. Colajanni, L’ingenuità di Benedetto Croce cit., p. 465.
(77) la rivista [N. Colajanni], La crisi, in "RP", 15 giugno 1916, a. XXII, n. 11, pp. 223-224.
(78) la rivista [N. Colajanni], Il nuovo Ministero. I repubblicani al governo: da Barzilai a Comandini , in "RP", 30 giugno 1916, a. XXII, n. 12, p.
(79) la rivista [N. Colajanni], Il grande tradimento russo, in "RP", 15 dicembre 1917, a. XXIII, n. 23, p. 443.
(80) F. Lorenzo Pulle - G. Celesia di Vegliasco, Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale, Bologna, Cappelli, 1932.
(81) Sull’argomento cfr. G. Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-1925, Roma-Bari, Laterza, 1982; G. Sabbatucci, Il mito dell’Urss e il socialismo italiano, in Aa. Vv., L’Urss il mito le masse, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 45-78.
(82) Cfr. il discorso di N. Colajanni alla Camera dei deputati, 12 luglio 1919, ora parzialmente pubblicato in Id., La condizione meridionale. Scritti e discorsi cit., p. 637.
(83) N. Colajanni, Il Congresso internazionale socialista di Berna e le responsabilità della guerra, in "RP", 15 febbraio 1919, a. XXV, n. 3, p. 41.
(84) lo zotico [N. Colajanni], Il movimento bolsceviko ed il gruppo parlamentare socialista, in "RP", 30 aprile 1919, a. XXV, n. 8, pp. 166-167. Ma il riferimento potrebbe essere esteso ad altri articoli, che suscitarono la reazione di Turati e un suo drastico giudizio in una lettera ad A. Kuliscioff: "È umiliante […] essere rimasto nell’aula forse tre ore per ascoltare quella vecchia pettegola (al femminile) di Napoleone Colajanni. Ma, poiché la Camera sta a sentirlo, e lo prende sul serio, e poiché i suoi discorsi da donnetta sono un continuo attacco a Turati, a Treves, a Very Well, alla Giudice ecc., ho pur dovuto star là (tanto più che Treves era inchiodato in revisione) per rimbeccarlo di tanto in tanto"; cfr. la lettera di Turati ad A. Kuliscioff, 21 febbraio 1918, in F. Turati e Anna Kuliscioff, Carteggio, IV: 1915-1918. La Grande guerra e la rivoluzione, tomo II, Torino, Einaudi, 1977, p. 884.
(85) la rivista [N. Colajanni], Ritornando sulla giornata parlamentare del 29 aprile, in "RP", 15 maggio 1919, a. XXV, n. 9, pp. 185-187. "L’imperialismo, ecco il nemico, che noi detestiamo. Che cosa hanno fatto i socialisti della Francia e dell’Inghilterra contro i loro imperialismi, veri e maggiori? Nulla" (p. 187).
(86) la rivista [N. Colajanni], Il disfattismo della pace, in "RP", 15 aprile 1919, a. XXV, n. 7, p. 140. Nell’articolo Colajanni aggiunse: "Questo Fascio dovrà educare e combattere per la salvezza dell’Italia; dovrà impedire che i frutti della vittoria contro i nemici stranieri non vengano perduti durante la pace colla organizzazione della guerra civile preconizzata, augurata e preparata dal leninismo indigeno" (p. 140).
(87) N. Colajanni, Il Congresso repubblicano di Firenze, in "RP", 15-31 dicembre 1918, a. XXIV, n. 23-24, pp. 430-431; Id., Il programma di Firenze del partito repubblicano, in "RP", 15-31 gennaio 1919, a. XXV, n. 1-2, pp. 15-18.
(88) lo zotico [N. Colajanni], La scissione del partito repubblicano provocata dalle nuove tendenze bolsceviche, in "RP", 15 dicembre 1920, a. XXVI, n. 23, p. 389.
(89) Ivi, p. 389.
(90) Sulla critica degli scioperi e del massimalismo socialista cfr. la rivista [N. Colajanni], Gli scioperi criminosi, in "RP", 15-31 gennaio 1920, a. XXVI, n. 1-2, pp. 7-9; Id., La rivolta dei metallurgici e il massimalismo dei socialisti antibolscevichi. Verso la rivoluzione?, in "RP", 15-31 agosto 1920, a. XXVI, n. 15-16, p. 241.
(91) la rivista [N. Colajanni], Contro l’Italia e per la guerra civile, in "RP", 31 dicembre 1920, a. XXVI, n. 24, pp. 406-408. La citazione si trova alla p. 406.
(92) lo zotico [N. Colajanni], La scissione del partito repubblicano provocata dalle nuove tendenze bolsceviche cit., p. 389.
(93) Su questi temi rinvio a S. Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), Firenze, Le Monnier, 1983.
(94) G. De Stefani, Napoleone Colajanni e la crisi del primo dopoguerra italiano (1919-1921), in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana tra otto e novecento cit., p. 135.