La figura del principe in Machiavelli e In Rosmini di Marsala Rosanna

1. Spontaneità di un raffronto

 

Potrebbe sembrare strano e forzato un confronto tra due autori, Niccolò Machiavelli e Antonio Rosmini, tanto lontani nel tempo, quanto nella formazione e nelle esperienze di vita. Eppure, leggendo la prima opera politica del filosofo roveretano, la Politica prima(1), man mano che la figura del principe da lui vagheggiata si va delineando e precisando nei suoi contorni e nella sua fisionomia, viene spontaneo il raffronto con il principe descritto da Machiavelli.

 

Innegabili le differenze di fondo tra i due pensatori politici. Machiavelli, considerato l’iniziatore della moderna scienza politica, separò nettamente la morale dalla politica affermando l’autonomia della seconda e negando il tradizionale primato della prima. Lo stato è considerato nella sua realtà "effettuale", e in questo senso la sua ricerca segna il radicale distacco dalla speculazione classica sul tipo ottimo di stato, capace di realizzare i modelli di una vita virtuosa. La sua idea è quella di uno stato - forza che si identifica con la ragion di stato e si pone al di sopra delle ragioni individuali; per imporsi ricorre anche a mezzi che la morale comune e quella cristiana ritengono illeciti. Tale idea è strettamente connessa con la concezione pessimistica dell’uomo, chiuso nel suo gretto egoismo, pervaso dalla cupidigia e dall’ambizione, sempre pronto a commettere il male. Machiavelli fu il primo ad avere la concezione della politica come esercizio del potere atta a reggere, conservare e aumentare gli stati, in quanto organismi dotati di una propria vita. Suo intento fu quello di delineare le caratteristiche tecniche della nuova politica, più adatta al nascente stato laico svincolato dalla religione e dall’etica. Anzi la religione, sebbene considerata componente essenziale della società, viene degradata a mero strumento della politica.

 

Rosmini, invece, considerato uno dei maggiori rappresentanti dello spiritualismo italiano d’ispirazione cattolica, propugna un’intima connessione tra diritto e morale e, considera la religione garante della tranquillità e della stabilità dell’ordine politico. L’uomo, non più mezzo ma fine ultimo, non più vocato al male ma al bene, recupera tutta la sua dignità di creatura divina anzi di immagine divina, di "soggetto intellettivo" capace di intuire e di applicare l’idea dell’essere. Questa idea dell’essere è "luce della ragione" e consente all’uomo di avere coscienza della propria e dell’altrui esistenza, di percepire e realizzare il bene. Il filosofo roveretano insiste, in modo particolare, sul principio che la società civile, lo stato debbono essere a servizio del cittadino e non viceversa; riconosce l’assoluto primato del bene comune sul bene pubblico e implicitamente la piena supremazia della persona dell’uomo sullo stato. Tuttavia, i due autori si ritrovano ad affrontare il medesimo argomento, e seppur da angolazioni diverse, più volte le loro considerazioni si muovono sullo stesso binario. In pari tempo non sono poche le pagine rosminiane scritte espressamente per confutare le dottrine del segretario fiorentino, e non sono poche le volte in cui il pensiero di chi legge, corre per desiderio di confronto al principe di Machiavelli.

 

Gli avvenimenti del 1820- 1821 (moti rivoluzionari prima in Spagna e poi in Italia, e il congresso di Verona delle monarchie della restaurazione che aveva riscosso la piena adesione di Rosmini), influirono fortemente nella elaborazione del pensiero politico rosminiano e diedero la spinta alla stesura di un trattato di politica (iniziato nel dicembre del 1822) con l’intendimento di dare "un fondamento sistematico alla sua attività svolta in difesa della religione contro il diffondersi delle dottrine che la combattevano e che avrebbe dovuto indicare ai governi della Restaurazione i provvedimenti da assumere per contrastare efficacemente i tentativi di una instaurazione rivoluzionaria di Costituzioni ispirate ai principi della Rivoluzione francese".(2) Essenzialmente diversa la finalità del Principe, inizialmente di ordine pratico (Machiavelli aspirava a riavere un impiego degno del suo passato e delle sue doti e supplicava Lorenzo de’ Medici a volgere "li occhi in questi luoghi bassi" per conoscere "quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna"(3)), si trasforma in una rigorosa precettistica per colui che voglia acquistare il potere e conservarlo e si conclude con un’accorata esortazione patriottica secondo la quale "era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più schiava che li Ebrei, più serva ch’è Persi, più dispersa che li Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, […] in modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, […] e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite".(4)

 

A giudizio di Machiavelli il principe, qualunque sia il modo con il quale accede al potere (ossia con la sua virtù o per fortuna) è obbligato, se vuole conservare il potere e lo stato, a tenere una certa condotta. E sia in politica interna sia in politica estera deve rispettare certe regole pratiche e applicare determinati precetti che sono conformi alle necessità insite al potere e alle caratteristiche della natura umana. La virtù, di cui parla Machiavelli, che deve contraddistinguere un principe nulla ha da spartire con la virtù in senso cristiano. Per essa s’intende la capacità, l’energia e le doti poste a servizio dello stato. Tuttavia il suo realismo politico non deve essere inteso, sempre e comunque, come legittimazione del principio secondo cui il "fine" (conservazione del potere) giustifica i mezzi, ma come valutazione della situazione reale nella quale ci si trova a operare, dei rapporti necessari al potere ineliminabile in qualsiasi società politica.

 

Anche Rosmini, sulla scia di altri pensatori politici di ispirazione cristiana come S.Tommaso, Erasmo da Rotterdam, accingendosi ad elaborare la sua prima opera politica, decide di soffermarsi a descrivere le caratteristiche del principe cristiano e l’arte politica che egli deve escogitare nelle sue relazioni con i sudditi e con gli altri principi. Per il filosofo roveretano l’arte politica è la suprema delle arti perché implica il massimo uso della virtù, "se la virtù della prudenza", per gli scrittori politici classici, "è la suprema governatrice delle umane operazioni e quasi l’architettura della vita ragionevole, chi può negare che questa virtù la più nobile e la più onorevole all’uman genere non si compia e si perfezioni in tutto l’aumento di cui elle può essere capace nell’arte del governare, la quale alla formazione ed al finimento di tutte le virtù accortamente conduce non le forze di una persona ma quelle di tutta intiera la comunità?".(5) La virtù e l’arte del governare costituiscono per Rosmini un binomio inscindibile, mancando la virtù manca il governo. Il primo requisito che un principe deve avere è quello di essere prudente, essendo la prudenza l’auriga di tutte le virtù. Naturalmente, data la sua visione del mondo e il fondamento religioso da cui è ispirato, per Rosmini la virtù ha un contenuto pienamente morale e cristiano.

 

Quando Antonio Rosmini comincia a scrivere la Politica prima ha appena 25 anni ma ha già una notevole conoscenza dei classici antichi, medievali e moderni e della storiografia greco-romana. Così come Machiavelli ritiene che le regole e i precetti della politica debbano essere comprovati da un continuo raffronto con l’esperienza strorica, "Non si maravigli alcuno- scriveva Machiavelli- se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; […] debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche odore".(6)

 

All’interno della Politica prima i riferimenti a Machiavelli sono molteplici. Rosmini se da un lato non si propone di contrapporre la sua figura di principe a quella descritta da Machiavelli, dall’altro nutre una certa ammirazione per lui denominandolo addirittura "sommo politico fiorentino."(7) Più volte Rosmini esprime apprezzamenti nei confronti dell’opera del pensatore fiorentino: "non le bestialità sue gli fecero la fama" bensì l’attenzione da lui rivolta alla "sustanza cioè all’acquistare e tenere gli Stati", pur sbagliando nell’indicare i mezzi, "tien però sempre avanti il fine onde al Principe dà egli stesso per regola che, non avendo uomo perfetto, sappia fuggire l’infamia di quei vizi che gli torrebbero lo stato; e da quelli che non gliene tolgono, guardarsi se egli è possibile".(8) E ancora in una apposita annotazione nel capitolo dedicato ai rapporti fra i sudditi e il principe Rosmini scrive: "Fu antico detto e quasi comune persuasione, senza ingiustizia non potersi reggere la repubblica. Così tenne il Machiavelli darsi ne’ pubblici affari tali strette e congiunzioni di cose da non poterne uscire salvi senza frode, o ingiusta violenza, e quel principe che per rispetto alla giustizia se ne astiene non potere durare a lungo. E ciò pensava il Machiavello per la mera idea fattasi dei principi, essendo toccato a vivere fra principotti faziosi e tristi, e di niente curanti fuori che dare la gambata l’uno all’altro".(9)

 

Rosmini - condividendo non pochi aspetti del pensiero politico machiavelliano- sembra schierarsi con quanti, come Alberico Gentili, Francesco Bacone, Jean-Jacques Rousseau, Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo, ritengono che Machiavelli non rappresenti la summa dell’immoralità, bensì il critico per eccellenza della tirannia dei suoi tempi, colui che ha messo in guardia "contro la tendenza innata nell’uomo ad assolutizzare il suo potere, svelando i malvagi accorgimenti, le subdole macchinazioni e gli efferati delitti dei principi per suscitare contro di essi l’odio dei popoli e l’amore per gli ordinamenti repubblicani".(10) Con un esplicito riferimento a Machiavelli, Rosmini, quasi volendo dare un avvertimento ai principi, scrive: "…temere le inimiche parole dei lusinghieri. Lusinghieri sono tanti filosofi, i quali fanno eccedere i diritti dei sovrani, perché passando il termine si distruggano con sé stessi; […] lusinghieri sono quei politici d’altro genere, che insegnano al principe a fare ogni cosa fanda e nefanda per conservarsi, e sanno, se fa bisogno, deridere la bonarietà di quelli che per risguardo alla giustizia non usano alcuni mezzi ingiusti di tenere lo Stato o di vantaggiarlo.

 

Esempio sia il Macchiavelli". […] il quale "permette anzi insegna a’ Principi ogni scelleratezza che paia utile. Ma […] noi dobbiamo saper grado al Machiavello e ad altri tali scrittori, perché apertamente e senza simulazione proffersero le nequizie de’Principi e li fecero conoscere. E non diceva il Machiavello stesso, avere insegnato nel principe quanto arridesse a quello a cui lo scrivea, a cui se egli facesse così come gl’insegnava venire ad essere per certo breve il suo imperio, cosa che sommamente agognava, ardendo di odio nel suo interno contro quello stesso principe, a cui il libro è rivolto: né con esso libro avere avuto in mente altro che insegnargli il modo di rovinare e precipitare brevissimamente sé medesimo. Così quel Machiavello […]mentre professava a loro d’insegnare il modo di sostenersi svelava pubblicamente a’ popoli tutte le loro arti, e proponendo Cesare Borgia per esempio del perfetto principe eccitava tutti a stomacarsi di lui e detestarlo, incitando anzi la vendetta".(11)

 

L’intento di Rosmini è di fondare una scienza politica di matrice cristiana. Se egli, nei suoi scritti giovanili, tratta della natura del principato e della figura del principe, non è perché abbia una particolare preferenza per le monarchie assolute, ma perchè vivendo in una società organizzata in principati assoluti, ritiene che la sua opera possa essere più utile nel dare suggerimenti e consigli a chi nella società del suo tempo si trova al potere. È il medesimo realismo politico di Machiavelli, volto a valutare la situazione nella quale ci si trova ad operare. Anche il segretario fiorentino pur affermando, all’inizio del suo trattato che "Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati"(12) ritiene più opportuno, in quel momento, occuparsi dei principati e come questi si possano governare e mantenere.(13)

 

Secondo Rosmini la storia di tutti i tempi, dalle prime rozze società a quelle odierne, ci mostra che sempre la moltitudine obbedisce e solo alcuni comandano. La sostanza è che una società esiste in quanto vi sono governanti e governati. Il potere costituito deve sempre e comunque raggiungere i fini che si è proposto e cioè il mantenimento dell’ordine sociale. È dovere del principe individuare, per l’esistenza di ogni società civile, le leggi che la regolano e le norme necessarie al buon governo del proprio stato, deve rafforzare le disuguaglianze naturali ed economiche, ponendo in atto i mezzi più efficaci per soffocare ogni velleità di ribellione negli inferiori e ogni abuso di forza nei superiori.

 

Rosmini, nel determinare la fonte di ogni regola che insegna a governare la società, riprende il principio tomistico della sostanza e dell’accidente.(14) Il principe deve tener conto di ciò che forma la sostanza della società e deve trascurare quello che ne costituisce l’accidente. Ne consegue che in tutte le società, secondo l’esposizione rosminiana, si distinguono tre epoche: la prima è l’infanzia nella quale chi regge la società pensa alla sostanza; la seconda, la maturità, nella quale il reggitore, pur non perdendo di vista la sostanza, comincia ad occuparsi dell’accidente; infine nella terza, la vecchiaia, la sostanza viene completamente dimenticata come cosa da lungo tempo sicura e si bada esclusivamente all’accidente.(15) Ciò condurrà alla morte della società, a meno che il reggitore non la faccia tornare al primo periodo. In questa analisi Rosmini è d’accordo con Machiavelli il quale scrive: "A volere che una setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio".(16)

 

In sostanza Rosmini riprende e reinterpreta la teoria machiavelliana (che a sua volta si rifaceva all’ anaciclosi di Polibio), della naturale tendenza delle forme di governo a corrompersi, trasformandosi in un potere assoluto ed arbitrario, causa di tensioni e di lotte civili che mettono a rischio l’esistenza stessa dello stato. Quindi necessariamente bisogna innovare o restaurare i veri principi e ciò potrà avvenire soltanto in un principato "perché può bene la saggezza d’un principe fare con accorti modi o con magnanimi più temperato il dominio che ha nelle mani.[…] Sia dunque regola per misurare il valore de’politici mezzi quella che si debbano riputar ottimi quei mezzi, con cui un governo venuto ad una forma di reggimento eccessivo, si ritiri o con accortezza o con magnanimità alcuni passi indietro senza che si infranga: perché possa continuare un movimento necessario alla sua vita e d’altronde con questo suo movimento non passare negli eccessi".(17)

 

2. Il principe interprete del sentimento nazionale

 

Posta la naturale disuguaglianza fra gli uomini,(18) l’unione di una moltitudine di consociati esprime necessariamente un’organizzazione politica caratterizzata da rapporti di comando e obbedienza, che si fondano sul principio della superiorità e inferiorità: "Poiché in qualunque unione si vive di uomini che abbia qualche ordine, necessariamente vi debbe essere superiorità ed inferiorità, chi regge e chi è retto, chi comanda e chi ubbidisce, sieno i reggitori e gli imperanti molti ovvero un solo cittadino".(19) Machiavelli esprime la sua piena fiducia nella virtù del principe "perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa, e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo, quando li assai hanno dove appoggiarsi".(20) Anche per Rosmini non il popolo ma il principe deve farsi interprete del sentimento nazionale "che è un prodotto della natura e della storia".(21)

 

Secondo Rosmini "la massa del popolo né pur sogna d’investigare le ragioni delle legittimità de’ sovrani". Il popolo non vuole né sa governare […] "Egli sa che buono è l’esser governato, che l’avere un capo è un gran bene. Che importa cercare donde vengano i diritti di questo capo purchè il capo faccia il suo dovere, faccia da capo, bene unisca e regga le membra?" al popolo importa soltanto giudicare […] "se egli vien trattato bene, o se egli vien trattato male. Questo è di suo interesse, lo star bene o lo star male".(22) Ora tra il corpo superiore ( nobili o principe) e corpo inferiore (plebei o sudditi) vi sarà sempre una certa ostilità perché l’inferiore sarà sempre portato ad invidiare la sorte del superiore, mentre il superiore, non contento del proprio stato cercherà di ridurre ad un livello più basso, simile a quello delle bestie, l’inferiore.(23)

 

Accolta la legittimità del principio di superiorità e inferiorità, non si può non tenere in considerazione che dal contrasto nasce, nella società politica, una forza dissolvente in opposizione alla forza di coesione o di attrazione costituita dall’istinto di socievolezza innato nell’uomo. Quanto maggiore sarà la distanza tra lo stato di superiorità e quello dell’inferiorità, tanto più grande sarà la forza di dissoluzione della società. Il principe che ha di mira la conservazione della società, deve ridurre al minimo possibile la distanza tra il corpo superiore dei cittadini e quello inferiore al fine di contrastare la tendenza dissolvente e dare alla società la maggiore coesione possibile.(24)

 

Machiavelli, nel corso della trattazione del Principe, più volte si era soffermato su questo argomento e dato delle possibili soluzioni: "sempre bisogni offendere quelli di chi si diventa nuovo principe, e con gente d’arme, e con infinite altre iniurie che si trova dietro el nuovo acquisto".(25) Egli è convinto che "quelli stati che si governano per uno principe e per servi, hanno el loro principe con più autorità; perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e, se obbediscono alcun altro, lo fanno come ministro et offiziale, e non li portano particolare amore";(26) ma sa bene che "la natura de’ populi è varia: et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa far credere loro per forza".(27) Tuttavia " …superati che li hanno, e che cominciano ad essere in venerazione, avendo spenti quelli che di sua qualità li avevano invidia, rimangono potenti, securi onorati, felici".(28)

 

Per Rosmini il principe non è un dio ma un uomo, e al pari degli altri uomini non è infallibile e perfetto, anzi di solito egli può divenire superbo e dispotico; tuttavia tale inconveniente non giustifica il sovvertimento dell’ordine costituito in quanto "i falli de’ reggitori sono accidentali, il governo giova essenzialmente se non altro col tenere uniti gli uomini e con tutti i beni incalcolabili che apporta quest’unione; i falli de’ reggitori sono temporanei, i beni di un governo sono così a lui uniti che non possono mai venir meno fino che egli dura perché governo, virtù, utilità sono una cosa sola; i falli dei reggitori vanno quasi sempre a nuocere o degli individui, o una parte, o un ramo della società; i beni del governo sono essenzialmente universali a tutta la società perché egli la produce".(29) La difesa di Rosmini nei confronti dei reggitori risente molto del pensiero tradizionalista e legittimista che considera necessaria qualsiasi forma di governo in quanto esso solo può "rimuovere il disordine, lo stato selvaggio dell’uomo, e tutte le incertezze, le crudeltà e le abominazioni della vita bestiale, a cui sarebbe soggetto: cose che nella felicità del vivere civile né pure si conoscono, né pure s’imaginano, e perciò né pure universalmente si calcolano".(30)

 

A proposito dei principati civili, Machiavelli scrive:"del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per esser troppi", pertanto un principe saggio deve mantenersi il popolo amico "il che li fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso.[…] altrimenti non ha nelle avversità rimedio".(31)

 

Ma quale comportamento dovrà adottare il principe nei confronti dei suoi sudditi? Secondo Machiavelli "colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità".(32) In altri termini, sarebbe auspicabile per un principe essere buono, generoso, clemente, sincero, pietoso, fedele, religioso, ma stante il mondo qual è e stante qual è la natura umana, per la salvezza dello stato egli non può praticare queste virtù. Tuttavia deve fingere di possederle "a uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utile".(33) La ragion di stato deve sempre e comunque avere l’assoluta priorità "e però – continua Machiavelli- bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’è venti e le variazioni della fortuna li comandano e, come […] non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato".(34) In ogni caso qualsiasi mezzo che serva a mantenere lo stato sarà sempre giudicato onorevole e da ciascuno lodato. Naturalmente Rosmini non può condividere questa idea, anzi, contestando il principio romano contenuto nella nota massima Salus reipublicae summa lex esto, afferma, indiscutibilmente, la preminenza della persona "in quanto tale, cittadino di qualsiasi stato, a prescindere anche dall’esserlo, dalla razza, dal grado di civiltà, di ricchezza o altro".(35) Per il filosofo roveretano il bene comune, da lui inteso come "il bene di tutti gli individui che compongono il corpo sociale e che sono oggetti di diritti", non può essere calpestato a vantaggio del bene pubblico considerato come "il bene del corpo sociale preso nel suo tutto".(36) Sovrano e sudditi devono essere reciprocamente rispettosi dei diritti altrui, se vogliono rispettati i diritti propri. Sia dunque fondamento dell’ordine sociale e politico la giustizia, la quale impone al principe di non pretendere nulla con le minacce. Se il principe vorrà conservare il proprio regno e l’amore dei sudditi non deve servirsi di essi come mezzi ma deve volgerli al fine da cui sono stati destinati dal loro creatore. I fini che deve proporsi il principe sono due: l’uno remoto ed è la felicità soprannaturale ed ultraterrena dei sudditi, e l’altro prossimo ed è la perfezione della società di cui egli è capo; il fine prossimo deve servire al remoto come il corpo allo spirito.

 

Machiavelli non ha una grande considerazione per il genere umano. Per lui "li uomini si debbono vezzeggiare o spegnere; perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; sì che l’offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che la non tema la vendetta".(37) La necessità impone che il principe sia guardingo di tutto e di tutti "Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi".(38) Tuttavia secondo Machiavelli conviene che il principe "sia più amato; e, se extraordinari vizii non lo fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia benvoluto da’ sua".(39) E alla domanda se è meglio che un principe sia più amato che temuto o al contrario il segretario fiorentino risponde: "…. si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli […] quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano".(40) È auspicabile che un principe sia pietoso e non crudele nei confronti dei sudditi "non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà […] . Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi sua uniti et in fede" e soprattutto "quando el principe è con li eserciti et ha in governo moltitudine di soldati, allora al tutto è necessario non si curare del nome di crudele; perché sanza questo nome non si tenne mai esercito unito, né disposto ad alcuna fazione".(41)

 

Rosmini condivide il rafforzamento del potere del principe che però deve avere come scopo lo sviluppo e la coesione della società, nonchè l’amore per la giustizia in modo da poter garantire i diritti di ognuno. D’altra parte una unione vera e duratura fra i membri di una società politica non si può ottenere mai con la sola forza; è necessario che il principe accresca nei sudditi i vincoli dell’amore. Per consentire al principe il mantenimento di una società politica, Rosmini come un vero maestro di scienza politica valuta i mezzi politici in relazione alla loro efficacia. Il saggio politico non deve mai " disprezzare quei mezzi, qualunque sieno, che operan sopra la massa degli uomini e si dovranno d’altronde sprezzare quelli che sulla massa degli uomini non hanno una forza".(42) Saranno poi migliori quei mezzi che "operano più estesamente, cioè sopra un numero maggiore di uomini, sieno che operino sugl’individui in quanto che l’uno è diviso dall’altro, sia sopra tutti in quanto sono uniti insieme, purchè rivolgano questi uomini in una uniforme direzione".(43)

 

Secondo Rosmini il principe dovrà temere più degli altri di commettere ingiustizie: 1) perché la potenza, odiosa già di per se stessa ai soggetti, diventa odiosissima se si fa strumento di ingiustizia; 2) perché la potenza facilmente insuperbisce, acceca l’animo e induce ad abusare; 3) perché il potente difficilmente può conoscere la verità, sia per ignoranza, sia per adulazione, sia per trascuratezza, e quindi più facilmente di un privato può commettere ingiustizie; 4) perché le ingiustizie del potente possono essere più gravi e dannose, avendo egli più potere, di quanto non possono fare i privati; ed infine perché le ingiustizie del potente sono più facilmente notate dal pubblico.(44) Ma il principe deve rendere conto al popolo delle proprie ingiustizie? A questa domanda Rosmini risponde decisamente di no. Il principe è l’unico uomo dello stato "che possiede intera la libertà naturale",(45) egli non è soggetto ad alcun altro uomo, ma solamente alla legge naturale. Il giudice di questa legge è solo Dio al quale il principe deve rendere conto delle proprie azioni.(46)

 

3. La precettistica di fronte ai rischi del potere

 

Un rischio dal quale i principi se non sono prudentissimi si difendono con difficoltà, è quello di incappare negli "adulatori, delli quali - dice Machiavelli- le corte sono piene; perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie, et in modo vi si ingannono, che con difficoltà si difendano da questa peste". L’unico modo per evitare gli adulatori consiste nel far comprendere che non vi è nessuna offesa per il principe se gli viene detto il vero; "ma quando ciascuno può dirti il vero - continua Machiavelli- ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé a suo modo; […] fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare dietro alla cosa deliberata, et esser ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’ precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri".(47) Il medesimo consiglio dà Rosmini: "Ma gl’inimici veri quegl’inimici che dovete temere veramente, sono coloro che cantano dolci cose alle vostre orecchie, che allettano il vostro amore proprio, e parlano continuo di mettere difesa ai vostri diritti, di vendicare quelli che vi furono usurpati e di stabilirvi sopra basi nuove, filosofiche, e più solide delle antiche",(48) e ancora "per cui cura sarà del savio principe di voler essere ben istruito e di voler sentire molti sulle stesse cose e fare ogni indagine per venire al chiaro della verità; perché ogni principe può star certo che molta parte di lei trova somme difficoltà di venire a’ suoi orecchi".(49)

 

Dalla sua teoria della superiorità e della inferiorità, Rosmini ricava una regola fondamentale che il principe deve seguire in politica interna: deve mirare a diminuire le forze dei sudditi, o almeno impedire che esse si accrescano, e deve, di contro fare del tutto per accrescere le proprie forze. E poiché le forze fisiche dei sudditi non possono essere diminuite "ma si può bensì impedirne loro l’uso nocevole" che "nasce dal conoscere le proprie forze, dall’unirle, dall’audacia d’usarle, e dall’irritamento, per cui s’aggiunge alle forze l’ira e la vendetta", il principe dovrà evitare le pubbliche adunanze che sono un ottimo mezzo per il popolo per conoscere le proprie forze e "tenga l’occhi fitto su poche persone. Se a tempo toglie i capi si può credere assicurato".(50) Secondo Rosmini l’audacia di per sé non è un male, quindi il principe "dee credersi fortunato d’avere un popolo naturalmente audace; ma debbe egli stesso esser quegli da cui viene, e non debbe permettere che venga da altri ispirata al suo popolo l’audacia, poiché se sarà ispirata da altri, sarà ancora per altri".(51)

 

Oltre a diminuire la forza degli inferiori, il principe dovrà anche cercare di aumentare la propria, attraverso l’opinione che può essere di tre specie: opinione d’interesse, di potere e di proprietà. L’opinione di interesse si ha quando il suddito ritiene che il suo particolare interesse sia congiunto con quello del principe; l’opinione di potere consiste nella persuasione che il superiore abbia la legittima autorità di comandare e infine l’opinione di proprietà riguarda quel certo senso di ossequio e di rispetto che i meno ricchi hanno sempre verso i più ricchi. Per rafforzare nel popolo l’opinione che il potere civile costituito è ordine umano, naturale e provvidenziale e che risponde al suo interesse, il principe saggio deve organizzare il popolo in corpi diversi. È il principio del divide et impera che Rosmini intende applicare ai corpi in cui il popolo è distribuito.(52) Anche Machiavelli fa implicito riferimento a tale principio quando scrive: "Solevano li antiqui nostri, e quelli che erano stimati savi, dire come era necessario tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze; e per questo nutrivano in qualche terra loro suddita le differenzie, per possederle più facilmente".(53) Tuttavia il segretario fiorentino ritiene che non possa essere un precetto adatto per tutti i tempi "anzi è necessario, quando il nimico si accosta, che le città divise si perdino subito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne, e l’altra non potrà reggere".(54)Pertanto le divisioni faranno profitto solo "a tempo di pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare e’ sudditi; ma venendo la guerra, mostra simile ordine la fallacia sua".(55) Entrambi gli autori sono consapevoli che la maggiore difficoltà per un principe consiste nel conservare i nuovi principati: "poiché il più arduo- scrive Rosmini- è fuor di dubbio conservare tali nuove istituzioni, e tanto più arduo quanto sono più nuove. […] Le istituzioni nuove non acquistano dai popoli né quella fede che vien prodotta dal lungo esperimento, né quell’amore che dà l’abitudine, né quella riverenza, che l’antichità sola aggiunge alle cose".(56) Anche Machiavelli scrive: "Ma nel principato nuovo consistono le difficoltà.[…] le quali sono che li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare; e questa credenza gli fa pigliare l’arme contro a quello; di che s’ingannono, perché veggono poi per esperienza avere peggiorato".(57)

 

È necessario che il principe conosca il suo popolo che deve essere trattato secondo le sue naturali inclinazioni. Il filosofo roveretano ha fiducia più che nella forza esteriore, nell’azione psicologica e pedagogica che il principe può esercitare per garantirsi l’obbedienza dei sudditi. A tale scopo la politica deve adeguarsi ai bisogni, all’indole e al grado di sviluppo dei popoli. Rosmini distingue fra nazioni di indole servile e nazioni di indole libere; conoscere l’indole della propria nazione sarà di fondamentale importanza per il principe che non dovrà "mettere né giogo lieve ai popoli servili, né grave ai liberi" poiché "con queste cautelle si minora l’abuso della forza negli inferiori".(58)

 

La medesima indicazione dà Machiavelli al principe a proposito dei principati di nuova acquisizione: "Quando quelli stati che s’acquistano, sono consueti a vivere con le loro legge et in libertà" bisogna […] "lasciarle vivere con le sua legge, traendone una pensione e creandovi drento uno stato di pochi che te le conservino amiche. […] E più facilmente si tiene una città usa a vivere libera con il mezzo de’ sua cittadini, che in alcuno altro modo volendola preservare. […] Ma, quando le città o le provincie sono use a vivere sotto uno principe, e quel sangue sia spento, sendo da uno canto usi ad obbedire, […] vivere liberi non sanno; di modo che sono più tardi a pigliare l’arme; e con più facilità se li può uno principe guadagnare, et assicurarsi di loro. Ma nelle repubbliche è maggior vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia, né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi".(59) È proprio questo il suggerimento che Machiavelli dà al principe che acquisti un nuovo principato: "Ma, quando si acquista stati in una provincia disforme di lingua, di costumi e di ordini, qui sono le difficoltà, e qui bisogna avere gran fortuna e grande industria a tenerli; et uno de’maggiori remedii e più vivi sarebbe che la persona di chi acquista vi andassi ad abitare. Questo farebbe più secura e più durabile quella possessione".(60)

 

Nell’impossibilità che un principe possa essere fisicamente presente in tutti i suoi domini, condividendo le indicazioni di Machiavelli, Rosmini ritiene che "gioverebbono frequenti le effigi de’ principi con moltiplicare i loro ritratti e le loro statue. Essi possono esser presenti in questo modo all’imaginazione de’ popoli e abitare, dirò così, tutti i paesi dell’imperio loro ad un tempo", ma gioverebbe ancor di più "che il principe fosse sempre dipinto o scolpito in atto di fare qualche azione utile allo stato[…] di esercitare tutte le diverse professioni della società, mostrandosi uomo anch’egli simile a’ sudditi suoi".(61) Ciò aumenterebbe la gratitudine nell’animo del popolo e incoraggerebbe gli uomini operativi.

 

Secondo Rosmini l’associazionismo è un ottimo strumento per sostenere un ordine sociale nel quale la naturale tendenza egoistica dell’uomo sia contenuta e si creino dei vincoli tra i singoli. Inoltre egli suggerisce al principe, nelle sue relazioni con i sudditi, di considerare tutte le espressioni artistiche che possono servire per educare il popolo o per corromperlo. Il principe pertanto deve curarle tutte con attenzione e rivolgerle a retti fini, facendone strumento di elevazione per il suo popolo e mezzi politici per rafforzare il suo potere.(62) Anche Machiavelli a tal proposito, scrive:" Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricoltura, et in ogni altro esercizio delli uomini. […] Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettacoli. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenza".(63)

 

 

 

4. Le milizie, la patria e le relazioni internazionali

 

Di fronte a un’Italia divisa, preda degli stranieri, devastata e ridotta in schiavitù, Machiavelli indica al principe il mezzo più efficace per liberare la sua patria dalle mani dei barbari, per riportare stabilità e ordine. Egli considera tra i buoni fondamenti di tutti gli stati sia nuovi, sia vecchi che misti le buone leggi e le buone armi. "E, perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge"(64) è bene che un principe, per conservare e difendere il proprio stato, abbia un esercito adeguato, d’altra parte la storia insegna che "tutti i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinarono".(65) Dopo aver argomentato sulla distinzione tra armi proprie, mercenarie, ausiliarie e miste, il segretario fiorentino conclude dicendo "che, sanza avere arme proprie, nessuno principato è sicuro, anzi è tutto obbligato alla fortuna, non avendo virtù che nelle avversità lo difenda. […] E l’arme proprie son quelle che sono composte o di sudditi o di cittadini o di creati tua".(66) Un principe che sia degno di questo nome non potrà avere altro obiettivo "né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda".(67)

 

Pur essendo trascorsi quattro secoli, lo scenario della penisola resta immutato: un’Italia caratterizzata da divisioni, da una debolezza cronica dei suoi governi, alla mercè dello straniero. Per questo Rosmini, al pari di Machiavelli, si pone il problema dei mezzi che un principe deve usare per conservare e difendere lo stato. Il filosofo roveretano dà un giudizio negativo sui moti del 1821, sull’impreparazione politica e soprattutto militare perché "dall’armi, ella è cosa che apparisce in ogni storia, dall’armi pendettero sempre le condizioni dei popoli, e la virtù dell’armi è perciò quel valore al quale si dovrà inchinare, bensì per vergogna degli uomini, tutte le altre virtù o fortune, come a protettrice loro e a scudo".(68) Tra i mezzi che un principe deve utilizzare è annoverato da Rosmini anche il ricorso alle armi, poiché secondo lui "negli estremi casi la guerra non ripugna alla giustizia".(69) Trattasi, ovviamente, della cosiddetta guerra giusta ammessa dalla migliore tradizione filosofica d’ispirazione cristiana. Accettata la guerra, seppur come estrema ratio, anche Rosmini si preoccupa di indicare al principe quale forza militare debba utilizzare. A tal proposito, egli distingue due tipi di guerre: quelle mosse dai nemici del principe contro la sua persona, e quelle mosse dai nemici della nazione contro tutta quanta la nazione stessa.

 

Il principe, sostiene Rosmini "deve difendere il suo potere con forze proprie: deve difendere la nazione, s’ella è assalita, con forze della nazione. La nazione poi nobile, e generosa e cortese offerirà se stessa a difendere il principe che ella ama. Generosità è del principe se difende la nazione col proprio e non co’ beni della nazione: generosità è della nazione se espone sé stessa ed i fini suoi per la difesa del principe".(70) Per Rosmini "il principe e la nazione sono due esseri che debbono andare a gara a beneficarsi. L’uno esiste per l’altro. Molti principi sono morti per le loro nazioni, molte nazioni si sono sacrificate pe’ loro principi. Non vi può essere una virtù più bella e generosa di questa corrispondenza d’affetto fra la nazione ed il principe. È la stima filiale, l’amor paterno, la beneficenza, che apparisce in tutto il grande di cui è capace, che si mostra sulla più magnifica scena".(71)

 

Diversi i presupposti, ma identica la conclusione anche per Machiavelli: tra il principe e il popolo deve instaurarsi un rapporto di reciproca fedeltà. "A uno principe – scrive Machiavelli- è necessario avere el populo amico: altrimenti non ha nelle avversità remedio. […] E però uno principe savio debba pensare uno modo, per il quale li sua cittadini, sempre et in ogni qualità di tempo, abbino bisogno dello stato e di lui: e sempre poi li saranno fedeli".(72) Se il principe riuscirà a non farsi odiare dai suoi sudditi, nel momento della necessità "tanto più si vengono ad unire con il loro principe, parendo che lui abbia con loro obbligo, sendo loro sute arse le case, ruinate le possessioni, per la difesa sua. E la natura delli uomini è, così obbligarsi per li benefizii che si fanno, come per quelli che si ricevano. Onde, se si considererà bene tutto, non fia difficile a uno principe prudente tenere prima e poi fermi li animi de’ sua cittadini nella ossidione, quando non li manchi da vivere né da difendersi".(73)

 

Per Rosmini l’esercito non è una semplice macchina da guerra, strumento di distruzione e oppressione nelle mani del principe, bensì deve essere l’espressione dell’intera società. Sulla base di queste considerazioni il filosofo roveretano non può condividere un ordinamento militare basato sulla coscrizione obbligatoria. L’esercito, a suo giudizio, deve essere costituito su base volontaria e formato dalle forze proprie del principe, destinate alla difesa del suo potere, e da quelle della nazione, incaricate di respingere gli attacchi portati al suo territorio. Sarà cura del principe promuovere l’arruolamento volontario (più efficiente e più affidabile) in tre modi: conferendo onore e prestigio alla carriera militare, con un’adeguata educazione civile e militare della nazione, mediante un compenso a chi sottoscrive volontariamente la ferma militare.

 

Altro punto di particolare rilevanza che accomuna i due autori è l’auspicio che il principe dia ai sudditi una patria proponendo che ogni città si faccia promotrice dell’educazione militare della nazione. Per Rosmini la formazione del militare non deve indirizzarsi esclusivamente al servizio delle armi ma anche alle "arti utili e alle scienze" in modo tale che "il soldato che si ritrova in pace, abbia dei lavori ordinarj adattati alla sua condizione, ma dai quali il soldato comune possa ricavare un guadagno, migliorare la sua sorte, e non essere né pure un essere perduto per la sua famiglia".(74) Ciò impedirà che si venga a creare una netta separazione tra i militari e il resto della società e che i soldati rimangano inoperosi in periodo di pace. Ma ciò che più deve importare al principe sarà l’educazione politica dei militari, poiché essendo questi, tra le diverse classi sociali, i più forti e causa sempre di grandi rivolgimenti, è necessario che essi siano istruiti e predisposti ad un comportamento ispirato ai valori fondamentali della moralità civile, della solidarietà, della compostezza e della "pulitezza".(75)

 

Inoltre per ravvivare nella nazione lo spirito militare, Rosmini suggerisce al principe di fare pubbliche e frequenti manifestazioni di forze armate, avendo particolare cura per i fanciulli e i giovinetti. Tutto ciò non significa che Rosmini volesse ricreare una novella Sparta, bensì si propone di inculcare nei giovani un interesse per la vita militare, non solo come uso della forza, ma come disciplina dell’animo: "la virtù della fortezza non consiste nella meccanica forza de’ corpi, o nella agilità. Disputare e terminare le questioni colla forza fu sempre il costume di que’ barbari […], la saviezza ovvero la ragione decide con leggi le questioni de’ popoli umani e civili".(76) In altre parole si tratta di educare i giovani all’uso saggio e prudente della forza che sempre deve essere al servizio della giustizia.

 

L’importanza dell’educazione militare per Machiavelli si può esprimere con l’antico detto: si vis pacem para bella. Tuttavia accanto ad una preparazione prettamente militare, il segretario fiorentino considera anche la cura delle menti dei soldati; "Debbe per tanto – scrive Machiavelli- mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra; il che può fare in dua modi: l’uno con le opere, l’altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo a’ disagi; […] Ma, quanto allo esercizio della mente, debbe el principe leggere le istorie, et in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni della vittoria e perdite loro, per potere queste fuggire e quelle imitare. […] Questi simili modi debbe osservare un principe savio, e mai né tempi pacifici stare ozioso, ma con industria farne capitale, per potersene valer nelle avversità, acciò che, quando si muta la fortuna, lo trovi parato a resisterle".(77)

 

Nelle relazioni con gli altri sovrani e nella stipula degli accordi internazionali, Rosmini invita il principe a tenere un comportamento improntato ai dettami della giustizia e della carità. I trattati, afferma il filosofo roveretano, come qualunque altro accordo espresso con parole, non sono mai così chiari da non aver bisogno di interpretazione. Non essendovi tra i principi alcun potere superiore a cui affidare l’interpretazione delle convenzioni pattuite e la sanzione contro i violatori dei patti, ne consegue che i trattati non hanno alcun valore se non sono stipulati in perfetta buona fede e se non sono osservati con senso di giustizia. D’altra parte l’esperienza storica insegna che i trattati sono "amplissimi campi dove la frode e l’insidia può aver luogo",(78) facendo nascere negli uomini un fondato scetticismo sul valore delle convenzioni internazionali. Per Machiavelli è cosa lodevole per un principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, tuttavia l’esperienza dei suoi tempi insegna che i principi i quali hanno tenuto poco conto della fede e hanno saputo aggirare i cervelli degli uomini con l’astuzia hanno fatto grandi cose superando coloro che invece si sono fondati sulla lealtà.(79)

 

"Non può per tanto - scrive Machiavelli- uno signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro".(80) Pertanto un principe può non osservare "tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione".(81)

 

Rosmini, come è ovvio, critica aspramente la dottrina che insegna ai principi a calpestare la giustizia, che fa dell’interesse del principe e della salute della repubblica la legge suprema a cui tutte le altre debbono sottostare, in una parola che fa prevalere sempre e comunque la ragion di stato. E a tal riguardo non usa mezzi termini: "Abboliti e soppressi i principj della immortale giustizia secondo e il consiglio di malconsigliati politici e l’impulso di un’ambizione rotta d’usare della circostanza per soddisfarsi; che altro rimane nelle principesche negoziazioni se non una orribile arte di fraudolenza , germi d’interminabili guerre perché il termine della guerra è quello appunto che l’accagiona".(82) La mancanza di giustizia nelle relazioni internazionali oltre a recare danno agli stati indebolisce il potere sovrano e incide negativamente sul rapporto di fiducia che lega il principe al popolo poiché la condotta dei principi sarebbe un "funestissimo esempio ai popoli, che pur non sono ciechi […]. Sarebbero i gabinetti del re la scuola aperta a tutto il mondo della perfidia, e della slealtà, e le leggi del principe che punissero le frodi private diverrebbero un giorno o l’argomento dello scherno o il codice della rivoluzione".(83) I principi, conclude Rosmini, se vogliono evitare la loro rovina, dimostrino con la loro condotta che la politica è il sistema della saggezza e non il "breviario della furberia"; nelle loro relazioni i sovrani siano di esempio di quelle virtù che vogliono siano praticate, fra cui deve primeggiare la giustizia, la sola che possa dare agli uomini la vera pace e la vera felicità.

 

 

 

Conclusione

 

È evidente l’esistenza di parecchi punti di contatto tra il principe di Machiavelli e il principe di Rosmini. Tuttavia essi stanno agli antipodi, così come in contrasto sono i due pensatori nelle loro premesse filosofiche. Diverso il substrato culturale e religioso: Machiavelli pensa ed opera in un secolo in cui i valori umani e terreni tornano a prendere il sopravvento sui valori morali e cristiani e ha in comune con tutti gli umanisti la tendenza a fare dell’uomo il centro dell’universo. Rosmini pensa e scrive in un ambiente spirituale profondamente permeato dalla dottrina cristiana; egli vive in un periodo storico molto meno paganeggiante e caratterizzato dalla generale tendenza a rimettere nel loro giusto posto i valori assoluti. Machiavelli scrive la sua opera nella maturità, dopo essere vissuto per lunghi anni nelle corti e nei gabinetti degli uomini di governo; rivela, oltre ad una grande dottrina, un’eccezionale conoscenza degli uomini. Rosmini mostra l’entusiasmo e l’ottimismo, tipico dell’età giovanile, Machiavelli si rivela freddo osservatore degli avvenimenti e profondo conoscitore dei vizi dell’animo umano. Machiavelli, come è noto, colloca il suo principe in una sfera che sta al di sopra del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto; Rosmini, invece, poggia tutto il suo sistema sull’idea di giustizia, fondamento dei regni e regolatrice dei rapporti umani, proveniente essa stessa dall’idea dell’essere. Per Machiavelli il principe deve considerare i sudditi come mezzi da utilizzare ai propri fini, per Rosmini il principe deve servire i sudditi ed aiutarli a raggiungere i fini ultraterreni e deve garantire i diritti di ognuno. Rosmini parte da premesse ideali che costituiscono il fondamento del cristianesimo, Machiavelli parte da premesse umanistiche e pagane. Egli è portato a vedere unicamente l’uomo, "ignora non soltanto l’eterno e il trascendente, ma ben anche il dubbio morale e l’ansia tormentosa di una coscienza che si ripieghi su se stessa".(84)

 

Alla luce del messaggio evangelico Rosmini introduce un’idea completamente nuova della sovranità e del governo che deve essenzialmente basarsi sul principio della carità, ossia sull’amore per gli uomini. In altri termini governare non vuol dire dominare, non è un diritto ma un dovere a servizio dei sudditi i quali hanno bisogno di essere governati a causa della loro debolezza. Soltanto un principe cristiano potrà, a suo giudizio, mettere in essere tutti quei mezzi che possono guidare il suo popolo a condurre una vita giusta, pacifica e felice. Come già per Erasmo da Rotterdam anche per Rosmini il potere si identifica con il principe il quale, tuttavia, deve essere consapevole che il suo governo ha dei precisi limiti nella libertà dei sudditi. In tal senso il potere non deve essere concepito come dominio che riduce in proprietà del principe i sudditi, bensì come amministrazione della cosa pubblica finalizzata al bene dei cittadini.(85) "E’ un diritto – scriveva Erasmo- per un principe pagano opprimere col timore i suoi e valersene in opere servili. […] Anzitutto non sono tuoi coloro che tu soggioghi come servi, giacchè è il consenso che fa il principe. Veramente tuoi sono solo quelli che ti obbediscono di loro spontanea e libera volontà. Quando possiedi soggetti oppressi dalla paura non li possiedi neanche a metà: sei padrone dei loro corpi ma gli animi sono alieni da te".(86) Prendendo le parole di Erasmo come criterio di valutazione è facile cogliere, alla luce di due diverse interpretazioni della politica, la sostanziale differenza tra il principe machiavelliano e il principe rosminiano.

 

Rosanna Marsala

 

NOTE

 

(1) Si tratta di un’opera giovanile che l’autore, a sèguito di un’ampia ricerca e sulla base di un dettagliato schema, dettò dal 1822 al 1827, a più riprese, a due suoi segretari e che, avendola rivista solo in parte, non volle mai consegnare alle stampe. Si deve a monsignor Giovan Battista Nicola, noto studioso del filosofo roveretano, il ritrovamento a Stresa, fra le carte rosminiane del manoscritto conosciuto come "Opera politica roveretana". Di questo manoscritto lo stesso monsignor Nicola curò due stesure: una prima trascrizione in poche copie dattilografate e un’edizione litografata dal titolo Antonio Rosmini- Opere inedite di Politica, Milano, Tenconi, 1923; Nel 2003, sotto il nome di Politica prima, sono state pubblicate le opere edite ed inedite di Antonio Rosmini che comprendono anche il manoscritto ritrovato e i frammenti. Tale opera è a cura di Studi Rosminiani di Stresa, con introduzione di Mario D’Addio, Roma, Città Nuova Editrice, 2003.

 

(2) M.D’Addio, Introduzione a A. Rosmini, Politica prima, Roma, Città Nuova editrice, 2003, p.11.

 

(3) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, Milano, Garzanti, 2002, p.14.

 

(4) Ivi, pp. 94-95.

 

(5) A.Rosmini, Politica prima, Roma, Città Nuova Editrice, 2003, p. 244.

 

(6) N.Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 28- 29.

 

(7) A.Rosmini, Politica prima, cit., p. 90.

 

(8) Ivi, p. 91.

 

(9) Ivi, p. 231.

 

(10) M. D’Addio, Introduzione a A. Rosmini Politica prima, cit., p. 17.

 

(11) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 204-206.

 

(12) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.15.

 

(13) Nella diatriba tra un Machiavelli monarchico, autore de Il principe e un Machiavelli repubblicano autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, gran parte della critica ha risolto affermando che il pensatore fiorentino non è altro che l’interprete della verità effettuale dei tempi in cui vive ed opera, nessuna contraddizione, dunque, fra le due opere.

 

(14) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 92-93; in cui fra l’altro si legge: "il divino Tommaso […] riducendo tutti i soffismi ad un solo fonte e principio aveva detto, tutto in due parole, dicendo che provengono dal pigliare l’accidente per la sostanza".

 

(15) Ivi, p.93.

 

(16) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 341.

 

(17) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 194.

 

(18) Ivi, p. 158.

 

(19) Ivi, p. 156.

 

(20) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 69.

 

(21) G. Solari, Rosmini inedito. La formazione del pensiero politico (1822- 1827), a cura di Umberto Muratore, Stresa, Edizioni Rosminiane Sodalitas, 2000, p. 26.

 

(22) A. Rosmini, Politica prima, cit., pp. 163-166. "Governare per il Rosmini è comprendere l’anima del popolo nelle sue virtù e nei suoi difetti, non ispirarsi a principi astratti che i popoli né apprezzano né desiderano. Tali erano per il Rosmini i due dogmi della sovranità popolare e della rappresentanza personale, che avevano ispirato le costituzioni francesi e soprattutto quella spaguola". In G. Solari, Rosmini inedito, cit., p. 27.

 

(23) In queste parole è chiaro il riferimento a Machiavelli, autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., pp. 117-120, pp. 422-425.

 

(24) Cfr. A.Rosmini, Politica prima, cit., pp.156-158.

 

(25) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p.16.

 

(26) Ivi, p.25.

 

(27) Ivi, pp. 30- 31.

 

(28) Ivi, p. 31.

 

(29) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 247.

 

(30) Ivi, p. 248. Rosmini, pur non negando che i governanti possano commettere degli errori, sostanzialmente rimane contrario ad una rivoluzione la quale non offre alcuna garanzia di introdurre una forma di governo più benevola anzi determina una situazione di totale instabilità politica. In tutto ciò il suo pensiero è rivolto alla situazione politica italiana che dopo i moti rivoluzionari del 1821 è ancora più confusa e instabile. Egli vuole un’Italia libera e indipendente dal dominio straniero, tuttavia sconsiglia la rivoluzione e prospetta una soluzione del problema dell’unità politica italiana di chiara ispirazione machiavelliana. Cfr. M.D’Addio, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Roma, Edizioni Studium, 2000, pp. 41-46.

 

(31) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 42-45.

 

(32) Ivi, p. 61.

 

(33) Ivi, p. 68.

 

(34) Ivi, p. 69.

 

(35) A. Rosmini , La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di M. Federico Sciacca, Milano, Principato Editore, seconda edizione riveduta, 1988, p.13.

 

(36) A. Rosmini, Filosofia del diritto, Intra, Tipografia di Paolo Bertolotti, 1865, n. 1643, 1644, pp. 546- 547; la citazione si trova anche in A. Rosmini, La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di Michele F. Sciacca, cit., p.76.

 

(37) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p.19.

 

(38) Ivi, p. 67.

 

(39) Ivi, p. 16.

 

(40) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 65.

 

(41) Ivi, p. 64-66.

 

(42) A. Rosmini, Politica prima, cit., p.186.

 

(43) Ibidem.

 

(44) Cfr. A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 199.

 

(45) Ivi, p. 269.

 

(46) Queste parole di Rosmini non significano che egli non ponga limiti al potere del principe, tutt’altro. Il filosofo roveretano, sulla scorta del pensiero di S. Tommaso che scorgeva nella legge naturale la fonte della morale e affermava la legge positiva essere giusta se conforme ad essa, ritiene che il principe troverà proprio nella legge naturale un limite più forte di qualsiasi altro.

 

(47) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., p. 87- 88.

 

(48) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 207.

 

(49) Ivi, p. 199.

 

(50) Ivi, p. 160.

 

(51) Ibidem.

 

(52) Cfr. G. Solari, Rosmini inedito. La formazione del pensiero politico (1822- 1827), cit., p. 26.

 

(53) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 80.

 

(54) Ibidem.

 

(55) Ibidem.

 

(56) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 287.

 

(57) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.16.

 

(58) A. Rosmini, Politica prima, cit.,p.161.

 

(59) N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., pp. 27- 28.

 

(60) Ivi, p. 18.

 

(61) A.Rosmini, Politica prima, cit., p. 483.

 

(62) Ivi, pp. 412-414, 483.

 

(63) N.Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p. 86.

 

(64) Ivi, p. 50.

 

(65) Ivi, p. 30.

 

(66) Ivi, pp. 57- 58.

 

(67) Ivi, p. 58.

 

(68) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 279.

 

(69) Ivi, p. 301.

 

(70) Ibidem.

 

(71) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 312.

 

(72) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit.,pp. 44-45.

 

(73) Ivi, p. 47.

 

(74) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 304.

 

(75) M. D’Addio, Introduzione a A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 45.

 

(76) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 308.

 

(77) N. Machiavelli, Il principe e le altre opere politiche, cit., pp. 59-60.

 

(78) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 228.

 

(79) Cfr. N. Machiavelli, Il principe e altre opere politiche, cit., p.67.

 

(80) Ivi, p. 68.

 

(81) Ibidem.

 

(82) A. Rosmini, Politica prima, cit., p. 229.

 

(83) Ivi, p. 230.

 

(84) F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi editore, 1964, p. 80.

 

(85) Cfr. M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, Genova, Ecig, 1992 e, vol. I, p. 262.

 

(86) Erasmo da Rotterdam, L’ educazione del principe cristiano, traduzione, introduzione e note a cura di Margherita Isnardi- Parente, Napoli, Morano, 1977, p. 94.

 

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