I. La riscossa della monarchia
Furono in molti a stupirsi per il risultato che la monarchia riportò nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Sull’esito erano in pochi a nutrire dubbi: nel clima avvelenato di quei mesi la vittoria della repubblica avrebbe dovuto essere tanto netta e schiacciante da far risultare inequivocabile la condanna del popolo italiano della monarchia, rea di aver colluso con il fascismo e di aver trascinato l’Italia in una guerra rovinosa. Ad avvalorare tali pronostici contribuirono notevolmente pure i risultati delle precedenti elezioni amministrative. In 5.580 comuni solamente l’1,9% dei seggi era andato ai partiti monarchici, mentre i partiti repubblicani avevano raggiunto il 42%, gli indipendenti l’11% ed i partiti di centro (DC e PLI) il 41% complessivo(1). Nella migliore delle ipotesi per i monarchici almeno un terzo degli elettori di centro potevano ritenersi a favore della repubblica: il quadro della situazione era per essi piuttosto sconfortante.
Quando il 25 luglio 1943 si seppe che il Re aveva destituito formalmente Mussolini sostituendolo con Badoglio, Roma acclamò Vittorio Emanuele III e per la città vennero esposte sue immagini e lo stemma sabaudo. Questa ondata di entusiasmo era giustificata dalla sensazione che la fine della guerra fosse imminente ed in quel momento era l’unica cosa che contasse veramente per la popolazione sfinita dai lunghi mesi della guerra, tanto più che pochi giorni prima, il 19 luglio, Roma era stata sottoposta ad un violento bombardamento da parte degli Alleati. Invece la guerra proseguì e la disillusione che la gente ebbe al proclama di Badoglio sulla sua continuazione non giovò di certo all’immagine del re. Ancor meno giovò, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, la clamorosa fuga a Pescara inscenata dal re, dal principe ereditario Umberto e da Badoglio, attuata con l’evidente scopo di sottrarsi alla prevedibile ritorsione dei tedeschi. Anche il capo di stato maggiore dell’esercito Roatta ed il capo di stato maggiore generale Ambrosio seguirono il re e Badoglio. Tale abbandono ebbe prevedibilmente ripercussioni sia sul morale dei combattenti che sull’organizzazione delle operazioni militari. Prima della fuga Roatta firmò un ordine di concentrazione delle truppe corazzate su Tivoli, dove non vi erano forze nemiche, lasciando Roma indifesa(2). È probabile che Roatta mirasse a proteggere le spalle al re in fuga più che a proteggere la popolazione. Tale abbandono del campo da parte di Vittorio Emanuele III è stato visto certamente come un atto di viltà che ne che minò pesantemente il senso di autorità. Secondo Melograni(3) fu proprio in quei drammatici giorni che ebbe inizio il grande processo alla monarchia. Gli oltre dieci milioni di suffragi avuti dalla casa regnante quasi tre anni dopo dimostrarono che l’attaccamento del popolo italiano ai Savoia non era stato del tutto cancellato dalle sofferenze della guerra persa. È possibile che il passare del tempo, allontanando il ricordo dell’8 settembre, affievolisse le passioni e favorisse una ripresa dei consensi alla monarchia. Domenico Bartoli(4) ritiene che lo stesso re Umberto II (luogotenente fino all’abdicazione del padre) favorì tale rimonta. L’atteggiamento di Umberto in un clima fortemente ostile alla monarchia fu improntato alla massima regalità. Accettò insulti e offese con grande serenità, ricevette tutti i ministri del governo sempre con il sorriso ed una affabilità disarmante; dovette firmare anche leggi per lui ripugnanti, ma lo fece con paziente rassegnazione, senza creare scontri con i partiti. Questo atteggiamento garbato contribuì non poco a risollevare la monarchia. Lo stesso autore ritiene sia stato un errore la mancata partecipazione, pur simbolica, della casa regnante alla resistenza nel periodo della lotta di liberazione. Ma sostanzialmente Bartoli evidenzia quanto il contributo di Umberto fosse stato importante nella rimonta monarchica. Alla vigilia del voto egli fece una promessa solenne. Dichiarò che in caso di successo monarchico al referendum, non appena la costituente avesse "assolto al suo compito", avrebbe indetto un nuovo referendum sulla questione istituzionale. Nelle parole del proclama vi sono, implicite, anche le motivazioni: "Allora molte passioni si saranno placate; molti che oggi sono perplessi avranno avuto il tempo per fare una scelta ponderata. Allora potranno partecipare alla consultazione - come ognuno di noi fervidamente desidera - tutti i cittadini italiani, anche quelli dei territori di frontiera, oggi esclusi dal diritto di voto, anche i prigionieri di guerra che ancora attendono di ritornare alle loro case"(5). Così il re faceva leva ancora sull’ incompletezza della consultazione, ma l’abilità della mossa fu nello sdrammatizzare il referendum promettendone un altro e dare così agli incerti la possibilità di una prova d’ appello se la monarchia avesse vinto(6). Anche gli avversari della corona, a ridosso del referendum, ebbero la sensazione di quanto la real Casa si fosse risollevata. E prova ne fu l’energica protesta di Togliatti alla notizia dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III, al quale succedeva automaticamente il figlio Umberto II. A circa un mese dalle elezioni la mossa del re aveva chiaramente il fine di favorire la dinastia togliendo di mezzo l’ uomo che aveva "collaborato" "con il fascismo, ed il leader comunista non esitò a definirla l’"ultima fellonia di casa Savoia". Dietro tale protesta è difficile non cogliere la preoccupazione di chi sapeva che era in atto una rimonta monarchica e che l’ abdicazione del "re fascista" l’avrebbe potuta accelerare. Questa sensazione non doveva essere estranea neppure allo stesso Umberto ed ai suoi consiglieri che cercarono di far rinviare la data del referendum sottolineando che le urne sarebbero state forzatamente disertate da centinaia di migliaia di prigionieri in attesa del rimpatrio, nonché dai cittadini della Venezia Giulia e del Trentino Alto Adige. Si può presumere che i reduci militari avrebbero votato per il re, essendo tradizionalmente legati all’ istituto monarchico. Gli alleati, che in precedenza erano stati determinanti in merito alla decisione di risolvere la questione istituzionale con il referendum, non appoggiarono ulteriormente la monarchia per il rischio di creare attriti troppo forti con i partiti repubblicani. Può essere un’altra prova della percezione di una rimonta monarchica e che il fattore tempo giocasse in favore del re. Dunque l’esito del referendum non era più scontato.
II. La posizione del Vaticano e la politica della DC in merito alla questione istituzionale
Come ricorda Melograni(7), in mesi così concitati e difficili le passioni avevano la meglio su ogni altro tipo di valutazione; così la monarchia trasse sicuro vantaggio dall’assopimento nel tempo della forte ostilità nei suoi confronti procurata dalla continuazione della guerra e dall’infamante fuga dopo l’armistizio. Ma intorno al ribollire delle passioni vi fu una serie di manovre per incanalarle a vantaggio dell’una o dell’altra parte. L’esito finale della consultazione referendaria ha evidenziato quanto esigua fosse la maggioranza dei voti dati alla repubblica. In una situazione di sostanziale equilibrio qualsiasi avvenimento, situazione o decisione poteva avere nell’ambito della contesa un peso importante. Quando fu certo che la scelta istituzionale sarebbe stata demandata ad un referendum popolare, il re tentò di procurarsi l’appoggio della Chiesa, che avrebbe potuto indirizzare decisamente il voto di milioni di cattolici italiani. Una certa tradizione pubblicistica ritiene che la Chiesa durante quei mesi rimase sostanzialmente neutrale. Anche la stampa cattolica di allora proclamava con fierezza l’assoluta imparzialità nella scelta istituzionale. Un’analisi sufficientemente approfondita evidenzia, però, quanto sia superficiale attribuire alla Chiesa cattolica una totale astensione dalla contesa tra monarchia e repubblica. Certo non vi fu una posizione ufficiale né un appoggio totale e manifesto, ma è difficile sostenere l’estraneità della Chiesa nel risultato conseguito dalla monarchia. Mi sembra si possa sostenere, invece, che una certa stampa cattolica del tempo, al di là di una neutralità di facciata, proponesse tesi di intonazione chiaramente monarchica. È questo per esempio che si evince scorrendo alcune note e chiose apparse a fine ’45 su "Civiltà Cattolica", nello spazio titolato Cronaca contemporanea. In data 20 ottobre 1945 si parla di un discorso del Presidente del Consiglio Parri, da questi concluso in invettive contro fascismo e monarchia, suscitando gli applausi dei sostenitori delle sinistre, ma non dei sostenitori della DC e della destra. Il 1° dicembre "Civiltà Cattolica" si schierò apertamente contro l’Esecutivo Parri, reo di aver scritto che la permanenza della monarchia avrebbe significato la guerra civile. In una nota del 15 dicembre dello stesso anno il periodico dichiara, senza troppa convinzione, essere false le voci in merito ad un presunto veto del Vaticano al ritorno in Italia dall’America di don Sturzo, che aveva assunto una posizione repubblicana, ma ricorda che il Concordato sanciva il divieto assoluto per i sacerdoti di iscriversi e militare in un qualsiasi partito politico. E ancora più decisa mi sembra la posizione del periodico cattolico pochi giorni prima del referendum, quando criticò quei democristiani che si frammisero tra le bandiere comuniste a manifestare per la repubblica(8).
Una lettera apostolica di Pio XII, indirizzata al cardinale Luigi Lavitrano, presidente della commissione ecclesiastica per l’alta direzione dell’Azione Cattolica Italiana, in occasione della diciannovesima Settimana sociale (Firenze 22-28 ottobre 1945), spiega i timori del Pontefice sulla diffusa brama di novità in campo politico, timori giustificati dal fatto che non sempre "la novità delle leggi è fonte di salute del popolo" e che anzi le "radicali innovazioni" sono indice di oblio della propria storia e di un popolo permeabile a strane influenze e "idee non meditate". Da qui l’esortazione ai cattolici di rimanere fedeli alle migliori e provate tradizioni spirituali e giuridiche(9). Interessante è pure l’articolo, apparso alla vigilia del voto, di monsignor Pietro Barbieri sulla rivista "Idea" da lui diretta e fondata(10). Lo scritto mette in un piano di parità repubblica e monarchia come istituzioni e pone l’accento sull’importanza dei loro rappresentanti. E nella situazione italiana, secondo monsignor Barbieri, difficilmente si avrà attuazione di una buona repubblica, anzi, essa porterebbe "nuovi e gravi" problemi e mutamenti costituzionali che avranno notevoli conseguenze sull’ordine economico e sociale. Il giorno prima del voto Pio XII, in una "allocuzione al S. Collegio sulla condizioni presenti nel mondo e della Chiesa"(11) dichiarò che le forze dell’ateismo si adoperavano per condurre gli uomini verso mete tenute nascoste sotto false sembianze. Inoltre ricordò i reduci di guerra e quelli tenuti ancora in prigionia, tema sul quale avevano fatto leva i monarchici nel già ricordato tentativo di posticipare la data del referendum. Urettini, in un’opera apposita(12), ci parla di comitati elettorali cattolici sorti nel trevigiano e ci dice che nel marzo 1946 una circolare ordinava a tali comitati di procurarsi l’elenco degli elettori delle varie parrocchie e segnare con una crocetta colorata quelli che presumibilmente avrebbero votato per il partito cristiano; doveva seguire poi la visita alle famiglie per insegnare a votare, e ancora l’elenco di vecchi e ammalati per procurare loro un trasporto il giorno delle elezioni. È evidente che interesse della Chiesa fosse soprattutto la sorte elettorale della Democrazia Cristiana, ma da quanto esposto sembra altresì chiaro l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche alla corona. A conferma della tendenza della Chiesa in favore della monarchia credo sia illuminante l’episodio, già citato, del mancato ritorno in Italia di don Luigi Sturzo, esule in America. La posizione repubblicana del fondatore del PPI era ben nota. Nell’agosto del 1945 scrisse dagli USA una lettera a De Gasperi in cui si diceva sicuro del successo della repubblica, e anzi riteneva non necessario il referendum per la scelta istituzionale, in quanto avrebbe dovuto essere l’Assemblea Costituente eletta a decidere la forma istituzionale dell’Italia(13). Inoltre ammoniva De Gasperi che una eventuale scelta del partito di non appoggiare la repubblica gli avrebbe fatto perdere autorità nell’ambito della Costituente e spinto a destra tutta la DC.
Nell’ottobre del 1945 don Sturzo decise di tornare in Italia ma, valigie pronte, arrivò il veto del Vaticano, comunicatogli dal Delegato Apostolico a Washington Amleto Cicognani. De Gasperi, in una successiva lettera a don Sturzo(14), ne spiega chiaramente le ragioni: la sua ben nota posizione sulla questione istituzionale avrebbe rotto la neutralità della Chiesa, considerato il seguito e il prestigio che egli aveva. In definitiva, è presumibile che l’organizzazione gerarchica, periferica e capillare della Chiesa giovasse senz’altro alla causa del re, se non altro perché la monarchia veniva vista come un baluardo nei confronti del comunismo che stava dilagando in Europa. Ma è pur vero che la mobilitazione della Chiesa a favore della monarchia non fu né totale né massiccia come è stato per la DC e ancor più per la DC nelle elezioni del 18 aprile 1948. Come ricorda Jemolo(15), la maggioranza del clero votò monarchia, ma l’autorità ecclesiastica mai prospettò ai cattolici di votare monarchia come un dovere di coscienza. Ed è sicuramente lecito chiedersi se un appoggio più deciso della Chiesa a casa Savoia non ne avrebbe potuto determinare la vittoria, visto lo scarto che ne ha sancito invece la sconfitta. Probabilmente lo stesso re non si aspettò niente di più dal Vaticano. Del resto, al di là della paura del comunismo, non c’era tanto altro, se non a livello simbolico, che legasse la Chiesa alla Casa reale. Come ci ricorda Melograni(16), l’unità d’Italia si realizzò proprio con una guerra contro il Papa nel 1870. Pio IX allora scomunicò i Savoia, ed essi nei primi anni post unitari dovettero accollarsi anche il conflitto con la Chiesa di Roma, oltre che i problemi logistici dovuti alle profonde diversità socio-economiche della penisola. Nel 1878, in punto di morte, Vittorio Emanuele II chiese i sacramenti al canonico della Chiesa dei SS. Vincenzo e SS. Anastasio, ma questi inizialmente si rifiutò. L’eventuale liquidazione della monarchia poteva dunque essere vista pure come una storica vittoria della Chiesa nel contrasto con lo stato sviluppatosi durante il processo unitario. Certamente nel 1913, con il patto Gentiloni, le organizzazioni cattoliche erano rientrate nella vita politica, e nel 1929 il Concordato aveva sancito la riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, ma la "vecchia ruggine"(17) non si era cancellata del tutto. Domenico Bartoli(18) pone invece l’accento su una sorta di "antagonismo" fra la corona e la Chiesa nel dividersi il sentimento di devozione del popolo italiano. E lo stesso Melograni(19) afferma che casa Savoia poteva rappresentare un contrappeso al potere carismatico del Pontefice; venendo meno la popolarità del re tutta la devozione popolare si sarebbe indirizzata verso il Papa, come accadde il giorno della ritirata dei tedeschi da Roma, allorché vi fu un’immensa adunata in piazza S. Pietro per acclamare Pio XII.
Un appoggio della Chiesa alla monarchia meno ambiguo e nascosto, come ci ricorda Brucculeri,(20) non vi fu anche perché la vittoria repubblicana era data per certa, anche se forse sempre meno con il passare del tempo. Si preferì dunque concentrare gli sforzi nel favorire il successo del partito cattolico alla Costituente. Per Carlo Arturo Jemolo(21) sembra esserci anzi quasi un nesso causale tra la caduta della monarchia e la seguente egemonia politica dei cattolici.
La Democrazia Cristiana, sotto la sapiente conduzione di Alcide De Gasperi, in merito alla questione istituzionale ebbe per lungo tempo una posizione di neutralità del tutto simile, a mio avviso, a quella della Chiesa. Del resto un partito di ispirazione cristiana non poteva non risentire delle posizioni del Vaticano nei momenti delle scelte cruciali, ma, come vedremo, la DC fu un interlocutore privilegiato degli alleati ed è indubbio che essi ne condizionarono fortemente la politica. Un referendum interno alla DC svoltosi in occasione del Congresso Nazionale di Roma tra il 18 ed il 24 aprile del 1946 dette un risultato ampiamente favorevole alla repubblica, che ottenne 503.085 consensi contro i 146.081 della monarchia, mentre 187.660 si dichiararono agnostici(22). Un tale risultato autorizzava a credere che la DC avrebbe attuato una politica di pieno appoggio ai partiti ad orientamento repubblicano. Ma i condizionamenti cui era sottoposto il maggior partito italiano ed il suo segretario furono molteplici e vari.
Il segretario della DC, e capo del governo, De Gasperi finì con l’assumere un ruolo di arbitro tra le parti, in questo certamente influenzato dalle decisioni degli alleati e dal volere delle alte gerarchie ecclesiastiche. Così si vedrà come anche l’ambigua neutralità della DC si risolverà, in alcuni casi, in una parzialità a favore della monarchia. Ciò che emerge dalle testimonianze, dai discorsi, e dalle manovre di De Gasperi, è come la DC rappresentasse in quel tempo la forza sulla quale puntavano tanto gli alleati quanto la Chiesa per garantire all’Italia un posto sicuro nel campo occidentale dello scacchiere internazionale che si andava definendo e l’egemonia dei cattolici in politica interna. Partiamo dal dato elettorale. Come lucidamente dimostrò Felice Platone su "Rinascita", organo del PCI, in un articolo riportato anche in una raccolta di saggi curata da Enzo Santarelli(23), il 2 giugno nelle schede riguardanti la Costituente la DC riportò 8.102.828 voti mentre i partiti monarchici e di destra andarono di poco oltre i quattro milioni; avendo riportato la monarchia 10.719.502 voti, risulta evidente che più di sei milioni dei votanti DC si espressero per la monarchia. Così nonostante la pronuncia repubblicana scaturita al congresso della DC, ben 2/3 dei suoi elettori votarono monarchia. In questa marcata incoerenza vi stanno tutte le contraddizioni, le esitazioni, i contrasti interni, i condizionamenti che gravavano allora sul partito cattolico. In un contesto così complicato emerse l’autorevole guida di Alcide De Gasperi. È vero che egli non poté trascurare il parere degli alleati o quello della Chiesa, né poté sottrarsi a varie pressioni interne ed esterne al suo partito, ma lo statista trentino riuscì comunque a ritagliarsi un margine di autonomia, che seppe gestire con profondo realismo e che gli consentì di servire meglio i suoi ideali cattolici. Del resto le affermazioni elettorali della DC del dopoguerra non possono essere disgiunte dall’opera di De Gasperi. Pietro Scoppola(24) ritiene che De Gasperi fu uomo attento più alla realtà politica che alle ideologie, ed anche lo spinoso problema istituzionale si pose per lui in termini concreti e storici. Lo stesso Scoppola evidenzia come De Gasperi abbia ricevuto una formazione austriaca, al contrario di Sturzo, che aveva vissuto esule in regimi repubblicani (Francia e USA). Dai suoi studi sulla tradizione cattolico-liberale francese aveva ereditato una relativa indifferenza per la forma istituzionale, ma non aveva alcuna simpatia per i Savoia, soprattutto in ricordo delle collusioni con il regime(25).
La scelta istituzionale non aveva dunque, per De Gasperi, una valenza ideologica, né egli vedeva nello scontro una portata drammatica. Credo che su questo aspetto ben renda l’idea la testimonianza della figlia Maria Romana(26), la quale affermò che lei ed il padre votarono per la repubblica, la zia per la monarchia e la madre non lo dichiarò mai "lasciando a noi repubblicani l’illusione di una maggioranza". Ritengo che ciò faccia comprendere la serenità che regnava in casa De Gasperi in merito alla scelta istituzionale. Anche l’"Osservatore Romano" ci riferisce in una cronaca del 1 giugno ’46 di un discorso elettorale di De Gasperi in cui egli tende a sdrammatizzare la questione istituzionale e dare ben altra importanza alla "sostanza costituzionale". La vera preoccupazione del leader democristiano è espressa nella lettera da lui inviata a don Sturzo in data 26 ottobre 1945 e riportata nell’appendice documentaria dell’opera biografica della figlia Maria Romana(27). Egli fa capire che lo scopo della sua politica ("rebus") è quello di "come impedire l’avvento di una maggioranza social-comunista". E come spiega espressamente a don Sturzo, il rischio da evitare era quello di "buttare" a destra i cattolici conservatori; e per questo gli risulta "difficile trovare la strategia giusta". In queste righe della lettera a don Luigi Sturzo vi è il condizionamento o il movente principale della politica degasperiana, in piena sintonia con gli alleati e il Vaticano. Ma ancor prima, in una lettera del 15 giugno 1944(28), De Gasperi espresse a don Sturzo tutta la sua preoccupazione che la questione istituzionale potesse spaccare il partito, nonché quanto difficile fosse per lui mantenere "la tregua" tra le correnti cattolico-monarchiche e quelle repubblicane. Il 18 agosto(29) scrisse sempre a don Sturzo la difficoltà di "unire tutti i democristiani e sollevarli al di sopra della questione contingente della forma statale", e come i repubblicani "a qualunque costo" gli creassero "imbarazzi", così come i monarchici. Fatta questa doverosa premessa, credo si possano giudicare meglio le manovre di De Gasperi e tutta la politica della DC nei mesi che precedettero il referendum istituzionale e gli immediati giorni che lo seguirono. Il relativo disinteresse per la scelta istituzionale non comportò però un’assoluta neutralità del partito cattolico.
Una lettera apostolica di Pio XII, indirizzata al cardinale Luigi Lavitrano, presidente della commissione ecclesiastica per l’alta direzione dell’Azione Cattolica Italiana, in occasione della diciannovesima Settimana sociale (Firenze 22-28 ottobre 1945), spiega i timori del Pontefice sulla diffusa brama di novità in campo politico, timori giustificati dal fatto che non sempre "la novità delle leggi è fonte di salute del popolo" e che anzi le "radicali innovazioni" sono indice di oblio della propria storia e di un popolo permeabile a strane influenze e "idee non meditate". Da qui l’esortazione ai cattolici di rimanere fedeli alle migliori e provate tradizioni spirituali e giuridiche(9). Interessante è pure l’articolo, apparso alla vigilia del voto, di monsignor Pietro Barbieri sulla rivista "Idea" da lui diretta e fondata(10). Lo scritto mette in un piano di parità repubblica e monarchia come istituzioni e pone l’accento sull’importanza dei loro rappresentanti. E nella situazione italiana, secondo monsignor Barbieri, difficilmente si avrà attuazione di una buona repubblica, anzi, essa porterebbe "nuovi e gravi" problemi e mutamenti costituzionali che avranno notevoli conseguenze sull’ordine economico e sociale. Il giorno prima del voto Pio XII, in una "allocuzione al S. Collegio sulla condizioni presenti nel mondo e della Chiesa"(11) dichiarò che le forze dell’ateismo si adoperavano per condurre gli uomini verso mete tenute nascoste sotto false sembianze. Inoltre ricordò i reduci di guerra e quelli tenuti ancora in prigionia, tema sul quale avevano fatto leva i monarchici nel già ricordato tentativo di posticipare la data del referendum. Urettini, in un’opera apposita(12), ci parla di comitati elettorali cattolici sorti nel trevigiano e ci dice che nel marzo 1946 una circolare ordinava a tali comitati di procurarsi l’elenco degli elettori delle varie parrocchie e segnare con una crocetta colorata quelli che presumibilmente avrebbero votato per il partito cristiano; doveva seguire poi la visita alle famiglie per insegnare a votare, e ancora l’elenco di vecchi e ammalati per procurare loro un trasporto il giorno delle elezioni. È evidente che interesse della Chiesa fosse soprattutto la sorte elettorale della Democrazia Cristiana, ma da quanto esposto sembra altresì chiaro l’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche alla corona. A conferma della tendenza della Chiesa in favore della monarchia credo sia illuminante l’episodio, già citato, del mancato ritorno in Italia di don Luigi Sturzo, esule in America. La posizione repubblicana del fondatore del PPI era ben nota. Nell’agosto del 1945 scrisse dagli USA una lettera a De Gasperi in cui si diceva sicuro del successo della repubblica, e anzi riteneva non necessario il referendum per la scelta istituzionale, in quanto avrebbe dovuto essere l’Assemblea Costituente eletta a decidere la forma istituzionale dell’Italia(13). Inoltre ammoniva De Gasperi che una eventuale scelta del partito di non appoggiare la repubblica gli avrebbe fatto perdere autorità nell’ambito della Costituente e spinto a destra tutta la DC.
Nell’ottobre del 1945 don Sturzo decise di tornare in Italia ma, valigie pronte, arrivò il veto del Vaticano, comunicatogli dal Delegato Apostolico a Washington Amleto Cicognani. De Gasperi, in una successiva lettera a don Sturzo(14), ne spiega chiaramente le ragioni: la sua ben nota posizione sulla questione istituzionale avrebbe rotto la neutralità della Chiesa, considerato il seguito e il prestigio che egli aveva. In definitiva, è presumibile che l’organizzazione gerarchica, periferica e capillare della Chiesa giovasse senz’altro alla causa del re, se non altro perché la monarchia veniva vista come un baluardo nei confronti del comunismo che stava dilagando in Europa. Ma è pur vero che la mobilitazione della Chiesa a favore della monarchia non fu né totale né massiccia come è stato per la DC e ancor più per la DC nelle elezioni del 18 aprile 1948. Come ricorda Jemolo(15), la maggioranza del clero votò monarchia, ma l’autorità ecclesiastica mai prospettò ai cattolici di votare monarchia come un dovere di coscienza. Ed è sicuramente lecito chiedersi se un appoggio più deciso della Chiesa a casa Savoia non ne avrebbe potuto determinare la vittoria, visto lo scarto che ne ha sancito invece la sconfitta. Probabilmente lo stesso re non si aspettò niente di più dal Vaticano. Del resto, al di là della paura del comunismo, non c’era tanto altro, se non a livello simbolico, che legasse la Chiesa alla Casa reale. Come ci ricorda Melograni(16), l’unità d’Italia si realizzò proprio con una guerra contro il Papa nel 1870. Pio IX allora scomunicò i Savoia, ed essi nei primi anni post unitari dovettero accollarsi anche il conflitto con la Chiesa di Roma, oltre che i problemi logistici dovuti alle profonde diversità socio-economiche della penisola. Nel 1878, in punto di morte, Vittorio Emanuele II chiese i sacramenti al canonico della Chiesa dei SS. Vincenzo e SS. Anastasio, ma questi inizialmente si rifiutò. L’eventuale liquidazione della monarchia poteva dunque essere vista pure come una storica vittoria della Chiesa nel contrasto con lo stato sviluppatosi durante il processo unitario. Certamente nel 1913, con il patto Gentiloni, le organizzazioni cattoliche erano rientrate nella vita politica, e nel 1929 il Concordato aveva sancito la riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, ma la "vecchia ruggine"(17) non si era cancellata del tutto. Domenico Bartoli(18) pone invece l’accento su una sorta di "antagonismo" fra la corona e la Chiesa nel dividersi il sentimento di devozione del popolo italiano. E lo stesso Melograni(19) afferma che casa Savoia poteva rappresentare un contrappeso al potere carismatico del Pontefice; venendo meno la popolarità del re tutta la devozione popolare si sarebbe indirizzata verso il Papa, come accadde il giorno della ritirata dei tedeschi da Roma, allorché vi fu un’immensa adunata in piazza S. Pietro per acclamare Pio XII.
Un appoggio della Chiesa alla monarchia meno ambiguo e nascosto, come ci ricorda Brucculeri,(20) non vi fu anche perché la vittoria repubblicana era data per certa, anche se forse sempre meno con il passare del tempo. Si preferì dunque concentrare gli sforzi nel favorire il successo del partito cattolico alla Costituente. Per Carlo Arturo Jemolo(21) sembra esserci anzi quasi un nesso causale tra la caduta della monarchia e la seguente egemonia politica dei cattolici.
La Democrazia Cristiana, sotto la sapiente conduzione di Alcide De Gasperi, in merito alla questione istituzionale ebbe per lungo tempo una posizione di neutralità del tutto simile, a mio avviso, a quella della Chiesa. Del resto un partito di ispirazione cristiana non poteva non risentire delle posizioni del Vaticano nei momenti delle scelte cruciali, ma, come vedremo, la DC fu un interlocutore privilegiato degli alleati ed è indubbio che essi ne condizionarono fortemente la politica. Un referendum interno alla DC svoltosi in occasione del Congresso Nazionale di Roma tra il 18 ed il 24 aprile del 1946 dette un risultato ampiamente favorevole alla repubblica, che ottenne 503.085 consensi contro i 146.081 della monarchia, mentre 187.660 si dichiararono agnostici(22). Un tale risultato autorizzava a credere che la DC avrebbe attuato una politica di pieno appoggio ai partiti ad orientamento repubblicano. Ma i condizionamenti cui era sottoposto il maggior partito italiano ed il suo segretario furono molteplici e vari.
Il segretario della DC, e capo del governo, De Gasperi finì con l’assumere un ruolo di arbitro tra le parti, in questo certamente influenzato dalle decisioni degli alleati e dal volere delle alte gerarchie ecclesiastiche. Così si vedrà come anche l’ambigua neutralità della DC si risolverà, in alcuni casi, in una parzialità a favore della monarchia. Ciò che emerge dalle testimonianze, dai discorsi, e dalle manovre di De Gasperi, è come la DC rappresentasse in quel tempo la forza sulla quale puntavano tanto gli alleati quanto la Chiesa per garantire all’Italia un posto sicuro nel campo occidentale dello scacchiere internazionale che si andava definendo e l’egemonia dei cattolici in politica interna. Partiamo dal dato elettorale. Come lucidamente dimostrò Felice Platone su "Rinascita", organo del PCI, in un articolo riportato anche in una raccolta di saggi curata da Enzo Santarelli(23), il 2 giugno nelle schede riguardanti la Costituente la DC riportò 8.102.828 voti mentre i partiti monarchici e di destra andarono di poco oltre i quattro milioni; avendo riportato la monarchia 10.719.502 voti, risulta evidente che più di sei milioni dei votanti DC si espressero per la monarchia. Così nonostante la pronuncia repubblicana scaturita al congresso della DC, ben 2/3 dei suoi elettori votarono monarchia. In questa marcata incoerenza vi stanno tutte le contraddizioni, le esitazioni, i contrasti interni, i condizionamenti che gravavano allora sul partito cattolico. In un contesto così complicato emerse l’autorevole guida di Alcide De Gasperi. È vero che egli non poté trascurare il parere degli alleati o quello della Chiesa, né poté sottrarsi a varie pressioni interne ed esterne al suo partito, ma lo statista trentino riuscì comunque a ritagliarsi un margine di autonomia, che seppe gestire con profondo realismo e che gli consentì di servire meglio i suoi ideali cattolici. Del resto le affermazioni elettorali della DC del dopoguerra non possono essere disgiunte dall’opera di De Gasperi. Pietro Scoppola(24) ritiene che De Gasperi fu uomo attento più alla realtà politica che alle ideologie, ed anche lo spinoso problema istituzionale si pose per lui in termini concreti e storici. Lo stesso Scoppola evidenzia come De Gasperi abbia ricevuto una formazione austriaca, al contrario di Sturzo, che aveva vissuto esule in regimi repubblicani (Francia e USA). Dai suoi studi sulla tradizione cattolico-liberale francese aveva ereditato una relativa indifferenza per la forma istituzionale, ma non aveva alcuna simpatia per i Savoia, soprattutto in ricordo delle collusioni con il regime(25).
La scelta istituzionale non aveva dunque, per De Gasperi, una valenza ideologica, né egli vedeva nello scontro una portata drammatica. Credo che su questo aspetto ben renda l’idea la testimonianza della figlia Maria Romana(26), la quale affermò che lei ed il padre votarono per la repubblica, la zia per la monarchia e la madre non lo dichiarò mai "lasciando a noi repubblicani l’illusione di una maggioranza". Ritengo che ciò faccia comprendere la serenità che regnava in casa De Gasperi in merito alla scelta istituzionale. Anche l’"Osservatore Romano" ci riferisce in una cronaca del 1 giugno ’46 di un discorso elettorale di De Gasperi in cui egli tende a sdrammatizzare la questione istituzionale e dare ben altra importanza alla "sostanza costituzionale". La vera preoccupazione del leader democristiano è espressa nella lettera da lui inviata a don Sturzo in data 26 ottobre 1945 e riportata nell’appendice documentaria dell’opera biografica della figlia Maria Romana(27). Egli fa capire che lo scopo della sua politica ("rebus") è quello di "come impedire l’avvento di una maggioranza social-comunista". E come spiega espressamente a don Sturzo, il rischio da evitare era quello di "buttare" a destra i cattolici conservatori; e per questo gli risulta "difficile trovare la strategia giusta". In queste righe della lettera a don Luigi Sturzo vi è il condizionamento o il movente principale della politica degasperiana, in piena sintonia con gli alleati e il Vaticano. Ma ancor prima, in una lettera del 15 giugno 1944(28), De Gasperi espresse a don Sturzo tutta la sua preoccupazione che la questione istituzionale potesse spaccare il partito, nonché quanto difficile fosse per lui mantenere "la tregua" tra le correnti cattolico-monarchiche e quelle repubblicane. Il 18 agosto(29) scrisse sempre a don Sturzo la difficoltà di "unire tutti i democristiani e sollevarli al di sopra della questione contingente della forma statale", e come i repubblicani "a qualunque costo" gli creassero "imbarazzi", così come i monarchici. Fatta questa doverosa premessa, credo si possano giudicare meglio le manovre di De Gasperi e tutta la politica della DC nei mesi che precedettero il referendum istituzionale e gli immediati giorni che lo seguirono. Il relativo disinteresse per la scelta istituzionale non comportò però un’assoluta neutralità del partito cattolico.
La strategia seguita da De Gasperi per ottimizzare il risultato elettorale del suo partito nella Costituente risultò spesso di aiuto alla monarchia, ma viene da dire che lo fu inevitabilmente, e non per una precisa volontà. E questo a cominciare dalla scelta del referendum. I fautori della monarchia volevano il referendum perché vedevano in esso l’unica via di scampo. Una decisione presa in seno alla Costituente non sarebbe certo stata influenzata da fattori emotivi di attaccamento all’istituzione monarchica come invece sarebbe stato prevedibilmente per vasti strati della popolazione. Il decreto del governo Bonomi del 25 giugno 1944 n° 251 prevedeva che ad avvenuta liberazione del territorio nazionale il popolo italiano avrebbe scelto la forma istituzionale, e "che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, un’assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato". Il decreto escludeva dunque implicitamente il ricorso al referendum, ma lasciava comunque aperta la "possibilità di tornare sulla questione"(30). Le tesi dei monarchici furono assecondate da De Gasperi, ma con fini profondamente diversi da essi. Il 12 novembre 1944(31) il leader democristiano scriveva a don Sturzo sull’"alto valore morale" del referendum, che "dà il senso democratico e pacificatore di una suprema decisione popolare", ed aggiungeva che gli stessi alleati, nelle conferenze di Mosca e Teheran, "pensavano" ad un referendum per la scelta istituzionale in Italia. Da qui un rapporto di frequenti contatti tra De Gasperi e l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Alexander Kirk. Il 22 ottobre il governo degli Stati Uniti comunicò a Kirk di approvare l’idea del referendum espressa da De Gasperi all’ambasciatore stesso(32).
In un rapporto del 7 gennaio 1946(33) sempre Alexander Kirk annunciò la richiesta di De Gasperi di un intervento degli Alleati per appoggiare il referendum, perché ciò avrebbe rafforzato la posizione dei partiti moderati. Enzo Piscitelli(34) scrive che De Gasperi si rivolse ancora a Kirk chiedendogli di far pressione sul ministro degli Esteri inglese, il laburista Bevin, affinché convincesse Nenni sull’opportunità del referendum. Il fatto è confermato da una dichiarazione di Kirk al Dipartimento di Stato del 22 febbraio ’46, nella quale afferma che De Gasperi chiese se Bevin fosse stato disposto a dire a Nenni che sarebbe stato auspicabile un plebiscito o un referendum. E questo riflette la coerenza di de Gasperi nel timore, espresso a Kirk a metà estate del ’45, che un’assemblea costituente con troppi poteri avrebbe preparato la dittatura di Nenni e Togliatti. Così gli ultimi giorni del febbraio 1946, dopo una serie di riunioni del Consiglio di Gabinetto, anche i leader dei partiti di sinistra Nenni e Togliatti si videro disposti o costretti ad accettare il referendum; del resto De Gasperi era forte dell’appoggio, se pur ufficioso, dei governi alleati, e le sinistre non volevano offrire alla DC il pretesto di una rottura per spezzare la coalizione dei partiti antifascisti; una rottura che, come disse Nenni, sarebbe avvenuta "su delle questioni che sono più di forma che di sostanza"(35). L’atteggiamento di De Gasperi fu valutato come filo-monarchico da Giuseppe Dossetti, primo esponente della sinistra democristiana. In un’appassionata lettera a De Gasperi del 28 febbraio ’46(36), Dossetti poneva l’accento sulle ragioni che hanno determinato l’azione del leader democristiano. Sosteneva come essa fosse solo il frutto di calcoli elettorali che tengono conto delle tendenze monarchiche dei cattolici del sud, del pericolo di una frattura interna del partito e delle preferenze di un clero per lo più monarchico. Lo sfogo di Dossetti continuava con la previsione categorica che il referendum avrebbe visto vincere la monarchia, accusa De Gasperi di aver portato il peso del suo partito in favore del re, e ancora di volere la vittoria della monarchia. Al termine della lettera Dossetti dichiarava, quindi, di dimettersi da membro della Segreteria, della Direzione e del Consiglio Nazionale. Ma quella di Dossetti non rimase una voce isolata. Anche Mario Scelba, in una lettera a Sturzo dell’11 aprile(37) riprese le accuse di Dossetti. De Gasperi, secondo Scelba, vede che è in gioco la "civiltà cristiana" e che essa sia meglio tutelata dalla monarchia che non dalla repubblica. Prosegue affermando che forti sono le pressioni delle alte gerarchie ecclesiastiche ("quasi tutti i vescovi sono per la monarchia la quale, in questi ultimi tempi, ha guadagnato qualche punto"), e come De Gasperi tema il congresso della DC in quanto un pronunciamento repubblicano sarebbe inevitabile, visto l’esito del referendum interno. Pietro Scoppola ritiene invece che l’intento di De Gasperi fosse addirittura opposto a quello dei monarchici: il referendum avrebbe portato alla repubblica senza uno scontro di partiti, senza spaccare il mondo cattolico, e la vittoria della repubblica avrebbe avuto una base molto più solida(38). Scoppola respinge decisamente i giudizi che vedono in De Gasperi un conservatore. A sostegno della sua tesi ricorda il fatto, confermato dalla figlia Maria Romana, che De Gasperi aveva tentato inizialmente di indire prima le elezioni della costituente e dopo quattro mesi, una volta delineate le linee generali della nuova costituzione, scegliere la forma istituzionale con referendum popolare. La proposta venne rigettata sia dalle sinistre che dai monarchici, entrambi fautori invece del referendum preventivo (contemporaneo alle elezioni per la Costituente). E direi che Scoppola ne coglie bene i motivi quando afferma che i partiti monarchici temevano che dopo le elezioni avrebbe perduto di consistenza la paura del "salto nel buio" sulla quale facevano leva per convincere gli incerti; così le sinistre speravano di giovarsi di uno scontro aspro tra monarchia e repubblica perché, in un clima carico di tensione, l’elettore repubblicano sarebbe stato meglio portato a votare contemporaneamente per i partiti di sinistra. Unire dunque il voto per il referendun al voto per la Costituente svantaggiava evidentemente la DC, che nella contesa aveva assunto una posizione sfumata ed incerta. Ma Scoppola va oltre, ed afferma che il referendum preventivo, secondo la logica di De Gasperi, avvantaggiava la monarchia, che poteva così contare sui timori degli incerti di "un salto nel buio" di cui , senza la nuova costituzione, non si potevano valutarne le conseguenze(39).
Così la proposta di De Gasperi, se accettata, avrebbe favorito la soluzione repubblicana, e ciò contribuisce a confutare, per Scoppola , "l’immagine di un De Gasperi schierato con la destra" contro la sinistra, che Dossetti invece aveva sostenuto.
Non è del tutto agevole scorgere nelle manovre di De Gasperi un disegno che potesse favorire la repubblica, pur premesso che neanche la tesi dossettiana di un De Gasperi filo-monarchico sembra facilmente dimostrabile. Del resto, il rinvio del referendum era stato inizialmente chiesto agli Alleati dallo stesso re che, come abbiamo visto, contava sul fattore tempo per stiepidire le passioni e i sentimenti di avversione alla monarchia. Inoltre la sdrammatizzazione dello scontro cui, come giustamente ricorda Scoppola, avrebbe portato un referendum fatto dopo l’elezione della Costituente, non necessariamente avrebbe favorito la repubblica. È vero che la paura del "salto nel buio" ne sarebbe stata stemperata, ma è altrettanto vero che i grandi cambiamenti sono favoriti dalle esasperazioni, dagli aspri scontri, dalle passioni più violente, mentre le "acque calme" tendono a favorire lo statu quo. Mario Scelba, in una lettera a Sturzo del 1° luglio 1956, affermò che De Gasperi aveva fatto di tutto per salvare la monarchia e che, contrariamente alla direzione del suo partito, volle che la mozione uscente dal congresso DC dell’aprile 1946 parlasse di "orientamento repubblicano" e non di "indirizzo", e che per il rifiuto unanime che se ne ebbe, "piantò in asso la direzione"(40). È giusto tenere in conto le testimonianze di Scelba, come pure quelle di Dossetti, tenendo presente però che essi erano fautori, così come Sturzo, di un ufficiale pronunciamento della DC in favore della repubblica; invece rimasero fortemente delusi dal comportamento di De Gasperi che, stando alle testimonianze delle lettere, appare più come un avversario politico che un compagno di partito. Si può presumere, al di là delle convinzioni personali dello statista trentino, che la testimonianza della figlia ci porta a credere filo-repubblicano, che l’azione di De Gasperi portò probabilmente più giovamento alla causa monarchica. Del resto Catalano e Jemolo ritengono gli ultimi discorsi di De Gasperi di intonazione "sostanzialmente monarchica"(41).
In effetti basta esaminare il discorso tenuto dal leader della DC l’11 maggio 1946 alla Basilica di Massenzio in Roma, per comprendere la fondatezza di tali opinioni. Rivolgendosi ai cittadini romani chiese loro se si sentissero pronti ad assumersi quelle responsabilità che richiede un regime in cui tutto dipende dalla volontà di ognuno, anche il capo dello stato. Poi, riflettendo sulla forma repubblicana, De Gasperi affermò che essa non sarebbe stata automaticamente una repubblica cristiana e che "il marxismo abusa del referendum considerando la repubblica l’anticamera del socialismo e del comunismo". E ancora parlò del rischio di "un nuovo regime e di una responsabilità personale", che chi vota repubblica deve sentirsi di assumere, e della comprensione per chi non se la sentisse e volesse "onestamente differire a tempi più calmi il perfezionamento del sistema democratico". Così De Gasperi non chiese "per il referendum un obbligo morale" come invece "abbiamo il diritto di chiedere per tutto ciò che è sostanza della Costituzione"(42). Le preoccupazioni di De Gasperi erano in fondo tutte legate al "salto nel buio", tema caro ai monarchici; inoltre veniva prospettato in maniera palese il pericolo che la repubblica potesse favorire i disegni rivoluzionari dei comunisti. Da qui l’implicito invito ad aspettare tempi più calmi prima di prendere decisioni così importanti e gravose. Va anche ricordato che tale discorso fu fatto da De Gasperi pochi giorni dopo il congresso del suo partito, nel quale risultò vincente la mozione Pellizzari, che sanciva l’indirizzo repubblicano della DC. Ma Scoppola, che pur riporta il discorso dell’11 maggio, non sembra coglierne gli accenti monarchici, ma solo un De Gasperi che, "scavalcando la scelta", si pone al di sopra della contesa.(43) Certo, però, all’autorevole storico non sfugge la portata generale ed il valore complessivo dell’atteggiamento dello statista trentino. L’opera di De Gasperi in merito alla questione istituzionale fu quella di evitare qualsiasi frattura all’interno del partito, ma soprattutto del mondo cattolico in genere. Non si fidava affatto del risultato del referendum interno, che vedeva i repubblicani in netta maggioranza, anche per la provenienza settentrionale della maggioranza dei votanti. De Gasperi coglieva bene più di altri quanto forte fosse l’anima conservatrice degli elettori cattolici. E, cifre alla mano, i 2/3 dell’elettorato DC si espressero in effetti a favore della monarchia, confermando l’intuizione di De Gasperi. Ancor più aveva compreso l’orientamento monarchico della Chiesa.
Dalle pagine del quotidiano "Osservatore Romano", organo del Vaticano, risulta chiara ed espressa ufficialmente l’adesione della Chiesa alla DC nel sostenerla nello sforzo elettorale. In un fondo apparso il 24 maggio 1946 per spiegare la posizione del quotidiano e dare ai suoi lettori le indicazioni di voto, viene affermata la scelta di puntare sulla DC nelle elezioni della Costituente per la difesa e l’affermazione dei valori religiosi. Per quanto riguarda il referendum, viene dichiarato che nessuna delle due forme istituzionali "si oppone di per sé alla religione", ma "dall’astrazione ai fatti", considerando dunque il momento attraversato dall’Italia, la difesa della religione sarebbe stata meglio assicurata da un istituto piuttosto che da un altro. È fin troppo evidente il richiamo ai pericoli che il mondo cattolico avrebbe derivato da un’affermazione del comunismo, e come quindi nella situazione italiana fosse auspicabile la vittoria dell’istituto monarchico. Le preoccupazioni del Vaticano sono ben analizzate da David W. Ellwood in un’opera in cui si serve abbondantemente di fonti d’archivio(44). Da esse risulta che l’incaricato d’affari americano al Vaticano, Harold Tittman, trasmise al suo governo in data 8 dicembre 1945 le preoccupazioni del Papa nel constatare l’unione dei partiti di sinistra, nonché il loro attivismo, la loro tenacia, il fatto che disponessero di fondi illimitati, ed il timore che al momento delle elezioni avessero applicato una tecnica terrorista(45). Appena pochi giorni più tardi, il 14 dicembre, lo stesso Tittman riferì al Dipartimento di Stato lo scontento del Vaticano per il diffondersi del repubblicanesimo nei cattolici, e che per questo la Chiesa era pronta a dare istruzioni ai propri fedeli affinché, ove possibile, votassero per partiti e candidati filo-monarchici piuttosto che per i democristiani repubblicani(46).
Quanto riportato da Ellwood, grazie alla documentazione che ha rinvenuto nei National Archives a Washington, fa piena luce su quanto fossero legittime le apprensioni di De Gasperi sui rischi di perdere, almeno in parte, l’appoggio del mondo cattolico, e che la Chiesa potesse orientare i suoi favori verso altre formazioni politiche più a destra della DC, come l’ "Uomo Qualunque", un partito considerato cattolico, che godeva di un buon seguito e di molte simpatie negli ambienti ecclesiastici. È dunque pienamente condivisibile il pensiero di Scoppola quando afferma che l’opera di De Gasperi sia da valutare alla luce dei condizionamenti che la contingenza dei tempi gli portava, quasi a salvarlo dal giudizio di chi lo vede come uomo di destra che ha condotto il partito ad una politica che ha assecondato le forze moderate monarchiche, ma ben lontana dall’ideale politico che la DC avrebbe dovuto rappresentare.
III. Gli Alleati e la questione istituzionale
Come abbiamo visto, in ambito cattolico risultava evidente l’interesse relativo mostrato sia dalla Chiesa che dalla DC per la questione istituzionale. Eppure con il referendum del 2 giugno si decideva la forma del futuro assetto istituzionale; veniva decisa la prosecuzione o meno della vecchia dinastia sabauda, sotto la quale il paese aveva raggiunto l’unità politica e aveva vissuto le gloriose pagine del Risorgimento. In un contesto esclusivamente nazionale la questione avrebbe avuto una rilevanza certamente ben maggiore ed anzi, alla luce di ciò che accadde all’indomani del 2 giugno, lo scontro avrebbe potuto spaccare irrimediabilmente il paese e portarlo alla guerra civile. Ma la situazione italiana del dopoguerra non poteva essere disgiunta dal clima internazionale creatosi alla fine delle ostilità. Stati Uniti ed Unione Sovietica, le grandi potenze uscite vincitrici dalla guerra, stavano dividendo il mondo in due distinti blocchi e quello che più premeva loro era estendere il più possibile la propria sfera di influenza. Lo sbarco in Sicilia delle truppe americane ed inglesi, con la conseguente occupazione del territorio nazionale, aveva posto una certa garanzia sull’appartenenza dell’Italia alla parte occidentale. La presenza interna di un partito comunista molto forte ed organizzato e la vicinanza della Jugoslavia del maresciallo Tito rendeva però la situazione meno certa e sicura. Ed è in quest’ottica che gli Alleati vedevano la questione istituzionale italiana, che certo non poteva rappresentare un problema centrale, tanto più che tra essi vi era rappresentata sia la forma monarchica che quella repubblicana. Dunque la posizione degli Alleati in merito alla questione istituzionale non fu affatto diversa da quella assunta dalla Chiesa e dalla DC.
Da un punto di vista rigorosamente ufficiale il comando alleato in Italia e gli stessi governi americano ed inglese ribadirono più volte la propria estraneità alla contesa istituzionale e di voler rispettare la volontà del popolo italiano, ma sicuramente tennero ben presente che la liquidazione di casa Savoia poteva rappresentare per i comunisti un primo ed essenziale passo verso la creazione di una repubblica socialista sul modello di quella sovietica. Emblematica a questo riguardo è la dichiarazione del Foreign Office britannico contenuta nel memorandum Italy: the institutional question del 16 maggio 1945(47); infatti veniva affermato che il problema non era tanto quello di favorire la monarchia, quanto quello di mettere in atto procedure che ostacolassero i comunisti. David W. Ellwood afferma che già prima dell’armistizio gli Alleati avevano deciso che casa Savoia fosse la legittima fonte di autorità dello Stato italiano. I dubbi riguardavano la persona di Vittorio Emanuele III, in quanto, secondo gli alleati non aveva la popolarità dei suoi antenati, soprattutto era macchiato di infamia per aver violato lo Statuto quando aprì la via del potere a Mussolini. Per questo venne convinto a ritirarsi a vita privata dopo la liberazione di Roma, lasciando la luogotenenza del regno al principe ereditario Umberto(48). Da diversi documenti risulta quanto la situazione postbellica italiana preoccupasse gli Alleati. Un saggio del giugno 1945 del comandante alleato in Italia, ammiraglio Ellery Stone, descriveva una lunga serie di miserie, una grave mancanza di mezzi di produzione, una frammentazione politica esasperata, milioni di disoccupati. Inoltre vi si rilevava la presenza di armi detenute illegalmente e nascoste ovunque. Una situazione esplosiva ed allarmante, dalla quale l’ammiraglio americano traeva la conclusione che in Italia fosse urgente un aiuto economico ed una guida, per impedire che il paese si unisse agli stati comunisti passando nel campo di egemonia sovietica(49).
Il governo inglese, come testimonia un discorso di Churchill alla Camera dei Comuni il 22 febbraio 1944, in cui si difendeva lo statu quo in Italia contro qualsiasi forma di eccesso di potere dei partiti antifascisti, inizialmente teneva alla conservazione della monarchia(50). Ma il Foreign Office proprio dal giugno del 1945 cambiò indirizzo: se prima salvare la monarchia italiana poteva essere comunque un obiettivo della politica inglese, ora il problema non si poneva più nei termini di monarchia o repubblica, bensì nel sapere se il futuro riservava per l’Italia una dittatura comunista o una democrazia liberale. Ed è per questo che Churchill insistette con il partner americano per l’invio in Italia di un ingente fornitura di materie prime ed altri vari aiuti. Lo scopo era quello di sostenere "una serie di manovre che egli stava preparando"(51) per la questione istituzionale e le elezioni, misure atte a frenare i partiti di sinistra e favorire i moderati. Nel già citato memorandum del 16 maggio 1945 del Foreign Office si constatava fra l’altro quanto fossero sfortunati gli anticomunisti a dover combattere sotto la bandiera della monarchia e si valutavano le difficoltà a sostenere un istituto screditato come baluardo alla penetrazione dell’ideologia comunista. La debolezza di casa Savoia era dunque ben compresa dagli inglesi, così che si potevano favorire decisamente i partiti moderati, ma non la monarchia. Infatti nello stesso memorandum si valuta il fatto che appoggiare il re avrebbe significato correre il rischio di rafforzare l’opposizione a sinistra, rischio valutato troppo alto, visto che la sopravvivenza di quella dinastia in Italia non dava comunque garanzia di un regime moderato e stabile. Il memorandum si concludeva con la constatazione che il Dipartimento di Stato americano non aveva alcuna simpatia per i Savoia, ma che fosse altresì conveniente evitare possibili accuse di indebite ingerenze su questioni altrui, lasciando casa Savoia al corso degli eventi(52). Ed è plausibile che per gli Alleati anche il problema se decidere la forma istituzionale italiana tramite referendum o conferirne il potere all’Assemblea Costituente eletta venne inquadrato in questa ottica.
Abbiamo già parlato del pieno appoggio accordato dagli Alleati a De Gasperi nella richiesta del referendum, che già garantiva al re una prova d’appello dopo la sconfitta militare. Già il 10 agosto 1944 il Dipartimento di Stato aveva dichiarato che nel decidere la questione istituzionale con una consultazione popolare o con una decisione della Costituente bisognava tener conto che quest’ultima sarebbe stata facilmente manovrabile dalle sinistre(53). Quanto poco gli Alleati si fidassero dell’eleggenda Assemblea Costituente e quanti timori avessero nell’affidarle ampi poteri risulta chiaro dai carteggi studiati da David Ellwood, relativi ai contatti fra De Gasperi e l’ambasciatore statunitense Alexander Kirk. A metà estate del 1945 De Gasperi espresse a Kirk la sua preoccupazione sul rapporto di forze che si sarebbe potuto verificare in seno alla Costituente e per questo chiese che si tenessero elezioni amministrative preventive. Così il Dipartimento di Stato prese posizione per lo svolgimento di elezioni amministrative da svolgersi prima della consultazione politica, così da valutare la forma ed il seguito dei partiti settore per settore(54).
Come abbiamo già visto nel primo paragrafo, la monarchia nel corso dei mesi andò recuperando gran parte del credito presso la pubblica opinione anche grazie al comportamento del luogotenente Umberto. Ma gli scenari che si delineavano in quei mesi in politica internazionale contribuirono non poco a polarizzare la vicenda politica italiana ed a drammatizzarla. Così lo slogan monarchico del "salto nel buio" ebbe una presa maggiore sugli indecisi ed il recupero di consensi da parte della monarchia fu notevole negli ultimi tempi. Tutto questo non poteva sfuggire agli Alleati, che erano ancora presenti sul territorio italiano. La storiografia contemporanea è generalmente unita nel ritenere che l’episodio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III il 9 maggio fu favorito e forse determinato dalla volontà dei governi alleati. L’ufficio stampa del Ministero della Real Casa, la sera del 9 maggio, annunciava che in tale giorno "…alle ore 12 in Napoli, il re Vittorio Emanuele III ha firmato l’atto di abdicazione e, secondo la consuetudine, è partito in volontario esilio…". L’atto di abdicazione fu firmato nello studio del re a Villa Maria Pia. Così diceva: "Abdico alla corona del Regno d’Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia Principe di Piemonte. Vittorio Emanuele III re d’Italia – Napoli 9 maggio 1946". L’atto venne poi consegnato al notaio Nicola Angrisani, residente a Napoli, per l’autenticazione(55). Anche Catalano sostiene la tesi dell’intervento alleato nell’atto di abdicazione, aggiungendo che forte di tale appoggio il re sfidò la nazione dichiarando che l’abdicazione avvantaggiava il figlio e che dell’opinione pubblica nulla gli importava(56). Il diario del generale Paolo Puntoni, aiutante in campo del re, sembra tra l’altro spazzare via ogni dubbio in proposito: ci rivela infatti che il 25 aprile Vittorio Emanuele III si confidò con lui rivelando che "gli Alleati, di accordo con il luogotenente e con i capi dei partiti di centro e di destra, [avevano] manifestato l’opinione che [egli dovesse] abdicare prima del 2 giugno", perché ciò avrebbe reso più probabile la vittoria della monarchia(57). Queste poche righe del diario del generale Puntoni riflettono perfettamente la realtà di quei due mesi che precedettero il 2 giugno. Non solo emerge il peso decisivo degli Alleati nelle vicende interne italiane, ma anche la loro sottile intesa con le forze moderate conservatrici. Anche la testimonianza di Giulio Andreotti (De Gasperi e il suo tempo) riportata da Franco Catalano, che parla di un De Gasperi assolutamente non sorpreso dalla notizia dell’abdicazione, ci porta a credere ciò(58). Ad essere sorpresi furono invece i partiti repubblicani, come testimonia la dura protesta inscenata dal leader comunista Togliatti, già menzionata nel primo paragrafo. La mossa dell’abdicazione aveva uno scopo palesemente elettorale. Vittorio Emanuele III, mettendosi da parte, ammetteva implicitamente le proprie responsabilità sull’era fascista e sulla guerra. Gli succedeva il figlio Umberto, che da luogotenente del regno diventava automaticamente sovrano. Umberto veniva generalmente giudicato più progressista di suo padre e dunque l’intento era quello di far apparire una monarchia più democratica e più favorevole di un tempo alle trasformazioni sociali. Anche dal punto di vista degli equilibri politici la mossa del re non fu certo priva di implicazioni. Infatti l’automatica successione del figlio senza interpellare i partiti del governo provvisorio andava a modificare un compromesso stabilito fra i partiti e la corona con la luogotenenza, che avrebbe dovuto protrarsi sino al referendum. Il 10 maggio Umberto ricevette al Quirinale De Gasperi, al quale diede una copia notarile dell’atto di abdicazione ed una lettera da lui firmata, nella quale dichiarava che "l’abdicazione (del padre lo aveva) portato ope legis alla successione", e che comunque l’atto non avrebbe mutato "in nulla i poteri costituzionali da (egli) esercitati in qualità di luogotenente generale", né avrebbe modificato "in alcuna maniera l’impegno da (esso) assunto in confronto del referendum e della Costituente"(59). Mentre "l’Avanti", organo socialista, parlava di "un diversivo per turbare l’ordinata preparazione del referendum" e di una "fuga del sovrano di fronte all’imminente giudizio del popolo"(60), ben più deciso il leader comunista Togliatti affermava che si trattava di una "violazione degli impegni assunti dalla corona" e ancora di più di un atto nullo, in quanto l’abdicazione era un atto che non gli competeva più(61). Ancora Togliatti insistette sul fatto che mancando il capo dello stato spettasse al presidente del consiglio in carica assumere temporaneamente l’incarico, come prevedeva la legge in caso, però, di vittoria repubblicana. Ma più rilevante fu l’affermazione relativa alla possibilità di non "collaborazione con la monarchia in caso di successo monarchico del referendum"(62). Come rilevò il ministro liberale Cattani, una tale dichiarazione suonava come un preavviso di passaggio al "metodo rivoluzionario" ed anche un espresso "ricatto alla nazione"(63). La situazione divenne piuttosto tesa, ma l’abilità diplomatica di De Gasperi riuscì a ricomporre la frattura con le sinistre. Egli ricevette una lettera dal capo della commissione alleata Ellery Stone in data 8 maggio in seguito ad una precisa richiesta di un parere agli Alleati riguardo all’ipotesi di abdicazione. Il supremo comando alleato, fece sapere Stone a De Gasperi, riteneva che l’abdicazione del re "non comporta nessuna azione o commento da parte della Commissione Alleata, in quanto non tocca per nulla i poteri costituzionali del principe Umberto"(64). Dunque gli alleati accettavano di fatto la successione. Forte così del parere degli Alleati, De Gasperi fece accettare un compromesso: Umberto non avrebbe ereditato la formula "Per Grazia di Dio e volontà della Nazione" che si apponeva ai decreti regi e alle sentenze giudiziarie.
IV. Il 2 giugno e le giornate successive
La giornata elettorale del 2 giugno non mise fine alle lotte e alle controversie tra gli attori della vicenda politica italiana, ma anzi ne inasprì alquanto i toni. La prima manifestazione di ritorno alla vita democratica dopo gli anni del fascismo fu seguita infatti da una lunga serie di accuse e polemiche oltreché da movimentate e spesso violente manifestazioni di piazza. La giornata delle elezioni, come si apprende da varie fonti, trascorse piuttosto tranquilla, nonostante le apprensioni della vigilia. Il primo degli ordini del giorno del governo del 23 maggio riguardava infatti proprio l’ordine pubblico, e testimoniava i timori di possibili atti di violenza, tanto che si annunciava la repressione di "ogni eventuale tentativo di preparare o costituire formazioni armate di parte".(65) Lo stesso presidente del consiglio De Gasperi, in quei giorni, tenendo discorsi nel Meridione, espresse la sua preoccupazione per possibili "moti inconsulti" che potessero far apparire le elezioni contestabili e giustificare l’intervento degli Alleati(66). Il 5 giugno il Corriere della Sera riportava invece la notizia dei commenti degli Alleati, che parlavano della grande prova di maturità data e del perfetto ordine in cui si erano svolte le elezioni. Umberto, il 2 giugno, si recò a votare a Roma in via Lovagno, accompagnato dal Ministro della Real Casa Marchese Falcone Lucifero, che in seguito, intervistato dai giornalisti, dichiarò che presumibilmente il re aveva deposto nelle urne due schede bianche(67). Era la prima volta, dopo la dittatura fascista, che il paese viveva l’esperienza di libere elezioni e l’affluenza al voto fu altissima in quasi tutte le zone d’Italia. Il "Corriere della Sera", il 4 giugno, al giungere dei primi dati, evidenziava proprio la grande partecipazione popolare al voto, che aveva superato ogni più ottimistica previsione. E anzi, veniva sollevato il dubbio che l’affluenza sarebbe potuta essere ancora maggiore se non si fossero create, in parecchi casi, lunghissime file ai seggi, che avevano quasi certamente reso impraticabile per alcuni la via al voto, nonostante si potesse votare anche il lunedì mattina. Tutti i giornali parlavano di un’affluenza alle urne che di provincia in provincia variava dal 75% al 90% degli aventi diritto, ma in alcuni casi era anche superiore(68).
I primi dati sul risultato del referendum cominciarono ad arrivare lentamente e in maniera contraddittoria. I primi dati che confluirono al Viminale videro in vantaggio la monarchia, poi vi fu una ripresa della repubblica e ancora la monarchia si riportò in vantaggio fra il 3 e il 4 giugno, tanto che De Gasperi inviò una lettera al Ministro della Real Casa Lucifero informandolo che una vittoria della repubblica fosse da ritenere ormai improbabile. Sembra che un alto ufficiale ascoltò per caso una telefonata del ministro della guerra Brosio a Romita, dalla quale comprese l’amarezza dei due per come si stavano profilando gli esiti del referendum(69). Un lungo silenzio sui risultati e minacce di scioperi generali precedettero la definitiva rimonta repubblicana. Circolarono anche voci su movimenti di truppe jugoslave alla frontiera e di "propositi insurrezionali dei social comunisti"(70). Il generale Artieri non mancò di parlare di "assurdo, inspiegabile rovesciamento di fronte"(71). La vittoria della repubblica apparve già sicura nella giornata del 4 giugno, ed il 5 tutti i giornali ne riportavano ormai la notizia. Il Ministro degli Interni Romita, il giorno 4, dichiarò che vi era "una leggera maggioranza repubblicana", ma che mancavano ancora i dati di molte sezioni. Poi, dalle indiscrezioni provenienti dal Viminale, si venne comunque a sapere che il margine era consistente(72). Il "Corriere della Sera" del 5 giugno riporta la notizia di una telefonata del ministro Romita a Togliatti, alle due del mattino, con la quale riservatamente gli comunicava che in base a venti milioni di voti scrutinati la repubblica aveva ormai un vantaggio ben definito intorno ai due milioni di voti. Per di più Romita espresse la convinzione che mutamenti importanti non avrebbero potuto esserci, in quanto le sezioni "dalle quali si attendeva un risultato monarchico avevano già inviato i dati sul referendum".
La proclamazione ufficiale della repubblica italiana avrebbe dovuto avere luogo già sabato 8 da parte della Corte di Cassazione. I verbali con i risultati ufficiali della doppia consultazione confluivano a Roma da tutt’Italia con gli aerei militari che per l’occasione avevano sospeso il loro normale servizio, ma, non arrivando in tempo tutti i verbali, la proclamazione venne rinviata al giorno 10. Mentre ancora erano in conteggio i voti dei candidati alla Costituente, il risultato del referendum istituzionale fu oggetto di una lunga serie di contestazioni, di gravi accuse di brogli ed anche di numerosi ricorsi alla magistratura. Una prima rivendicazione monarchica, tra l’altro già espressa prima del referendum, riguardò lo status d’inferiorità dal quale la monarchia affrontò la battaglia referendaria. Il periodico monarchico "Italia Nuova" il 6 giugno affermava che i ministeri più importanti, tra cui quello degli Interni, erano controllati dai repubblicani, ma anche tutti gli enti parastatali, le industrie, le banche, le aziende commerciali erano in mano ai commissari politici del CLN, e così pure le prefetture. Un ufficiale monarchico parlò di un "regolare duello a dieci passi di distanza; ma la repubblica si è battuta alla pistola, mentre la monarchia disponeva soltanto di una sciabola"(73). Vale la pena ricordare che probabilmente queste cose fossero ben note, tanto che di una smentita da parte repubblicana non v’è traccia; resta da giudicare quanto tutto ciò abbia influenzato il voto e comunque se mai, dopo la caduta del fascismo, fosse stato possibile creare una situazione più equilibrata di quella denunciata dai monarchici. Il giorno dopo "Italia Nuova" rincarava la dose parlando di una consultazione "arbitraria, intempestiva, incompleta e impreparata, senza parlare dell’onestà delle elezioni, della quale si potrà parlare a misura che ne emergano le prove".
Come emerge dalla "Civiltà Cattolica" del 25 maggio nello spazio riservato alla cronaca contemporanea, i giornali di destra stavano denunciando brogli e irregolarità nella distribuzione dei certificati elettorali che in alcune occasioni sarebbero stati duplicati e persino triplicati a vantaggio di chi era ritenuto un fautore dei partiti di sinistra, mentre a "decine di migliaia di cittadini" non sarebbero stati recapitati. E su questo si pronunciò anche la Corte di Cassazione in seguito a due ricorsi presentati dall’avvocato Riccardo Antonucci, uno dei quali riguardava il fatto che non tutti gli elettori ricevettero il certificato elettorale, mentre alcuni ne ebbero più di uno perché iscritti in due o più liste. Inoltre la maggioranza dei reduci di guerra non ebbe mai il certificato, e stesso trattamento vi fu per chi si trovava lontano dal comune di residenza e per gli ammalati. La pronuncia della Cassazione fu di incompetenza a giudicare, in quanto la legge riservava al giudizio della Corte solo le contestazioni che riguardassero "lo svolgimento delle operazioni relative al referendum". Si parlò anche di certificati distribuiti in modo da rendere difficile la partecipazione al voto di una stessa famiglia, indirizzandola a votare in luoghi lontani. E ancora si scrisse che il certificato elettorale era un articolo molto ricercato, e a volte quotato diverse migliaia di lire. "Civiltà Cattolica" non sembra porre troppa attenzione a tali accuse dei monarchici, ma tiene in seria considerazione il pericolo del formarsi di squadre armate disposte a servire il proprio partito con la forza. Anche il governo, abbiamo visto, era in allarme, tanto più che venivano spesso scoperti depositi di armi clandestine e alcuni volantini che si facevano circolare fra i soldati, nei quali si esortavano tutti i militari ad abbandonare le caserme dopo le elezioni. Del resto dai partiti di sinistra, sia al vertice che alla base, più volte riecheggiò la minaccia "O repubblica o rivoluzione". È difficile giudicare quanto reali fossero queste minacce, ma certo è che i partiti di sinistra in alcune occasioni alimentarono queste prospettive sulla questione istituzionale. Si ripensi al già citato episodio dei tempi dell’esecutivo Parri, il quale aveva sostenuto che la permanenza della monarchia avrebbe determinato la guerra civile(74); o ancora alle dichiarazioni di Togliatti alla notizia dell’abdicazione del re, quando mise in dubbio, senza mezzi termini, il prosieguo della collaborazione del partito comunista in caso di successo del partito monarchico, tanto che il ministro liberale Cattani parlò di "ricatto alla nazione"(75). E la politica di Togliatti nel dopoguerra fu ispirata da profondo realismo e sempre fu conciliante e collaborativa nei rapporti fra partiti di governo, ma sulla questione istituzionale mostrò un’intransigenza assoluta, così come tutti i partiti dell’area repubblicana. Aveva bandito il metodo rivoluzionario nonostante le aspettative degli elettori comunisti, aveva accettato di buon grado le regole di una democrazia liberale, ma non la prospettiva di una permanenza della monarchia sabauda. Emblematiche sono a mio avviso le parole riportate dal "Corriere della Sera" del 5 giugno, che il leader comunista pronunciò non appena il ministro Romita gli comunicò l’ormai certa vittoria della repubblica nel referendum: "avevamo un solo scopo: quello di fare la repubblica. Lo abbiamo raggiunto, e il nostro programma è realizzato". Non si può amplificare l’importanza di una dichiarazione fatta a caldo dopo la notizia della vittoria repubblicana, ma è evidente come Togliatti sia ben consapevole che, per gli equilibri internazionali che si stavano definendo, il massimo obiettivo raggiungibile in Italia fosse quello della cacciata dei Savoia e l’instaurazione della repubblica.
Un’altra accusa dell’opposizione monarchica fu quella di arresti arbitrari di persone presumibilmente monarchiche, avvenuti a ridosso delle elezioni con la pretestuosa accusa di "neofascismo". A Milano e a Roma alcune persone vennero effettivamente arrestate, ma il numero esiguo di esse e le seguenti dichiarazioni di Romita sul pronto rilascio di gran parte delle persone fermate attenuarono l’importanza di questi episodi, che restano pur sempre possibili atti intimidatori di rivali politici. Il giornale monarchico "Italia Nuova", diretto dal segretario del Partito Democratico Enzo Selvaggi, il 10 giugno dava voce a nuove recriminazioni avanzando sospetti sull’autenticità delle cifre degli elettori recatisi a votare. Come è noto, l’affluenza alle urne fu molto elevata, ed il governo rese pubbliche le cifre dichiarando che su 28.021.375 iscritti avevano partecipato al voto in 24.935.343, che equivale a dire 89,1% degli aventi diritto. Una partecipazione al voto così alta sembrava cosa impossibile ai monarchici, anche considerando le difficoltà a votare che si ebbero per l’alta affluenza, i già citati problemi con i certificati elettorali, e i disagi per gli spostamenti solo in parte risolti dai partiti, che organizzarono dei servizi di trasporto per gli elettori.
La polemica dei monarchici riguardò anche la pubblicistica, in quanto quasi interamente ostile al re. Come ricordano Indro Montanelli e Mario Cervi, la lotta non fu in effetti ad armi pari, considerato che, a parte qualche giornale romano, tutti i periodici erano chiaramente repubblicani e tra questi il "Corriere della Sera", di gran lunga il più influente. Essi ricordano anche come in ampie aree del Settentrione vi furono pesanti intimidazioni contro gli attacchini dei manifesti monarchici, e addirittura che molti tipografi si rifiutavano di stampare volantini e pubblicazioni monarchiche, mentre abbondava la pubblicistica ostile(76). Anche Domenico Bartoli parla di sicure violenze e pressioni intimidatorie, non esclude anche frodi elettorali isolate, ma non crede ad un voto "manipolato o coatto", in quanto il risultato finale fu comunque sorprendente per la monarchia, che veniva giudicata nel suo momento di massimo declino(77). In quei giorni si parlò, e tutt’oggi alcuni nostalgici del re ne parlano, di un gigantesco broglio perpetrato al Ministero degli Interni, ma molti storici non sembrano attribuire fondamento a tali tesi, e Bartoli le esclude decisamente, considerato che il ministro Romita era circondato al Viminale da molti collaboratori di dichiarata fede monarchica, come il capo dell’Ufficio Elettorale del Viminale, Straneo.
Ma le contestazioni monarchiche investirono anche l’aspetto giuridico. Mentre il re sembrava disposto ad andarsene senza porre tanti problemi, i suoi fedelissimi speravano ancora di salvare la monarchia. Il giorno 7 giugno Enzo Selvaggi, insieme ad un comitato di eminenti giuristi padovani, presentò un ricorso alla Corte di Cassazione contestando il criterio seguito da Romita nel conteggio della maggioranza in base ai soli voti validi espressi in favore della monarchia o della repubblica. Secondo tali giuristi la forma istituzionale vincente avrebbe invece dovuto ottenere la maggioranza assoluta dei votanti, mettendo nel computo anche le schede lasciate in bianco ed i voti nulli. In base alle cifre diffuse dal Ministero degli Interni la repubblica aveva vinto la battaglia elettorale sopravanzando la monarchia con una differenza di circa due milioni di voti, e vi furono quasi un milione e mezzo di schede senza voto, tra bianche e nulle. È facile osservare che pure sommando queste ultime ai voti della monarchia non sarebbero bastate per colmare lo scarto dalla repubblica, ma certamente esso viene sensibilmente ridotto. Ed infatti con il metodo di conteggio adoperato dal Viminale, la repubblica si attestava intorno al 54% dei suffragi, mentre il calcolo effettuato tenendo conto anche delle schede senza voto le dava una maggioranza di appena il 51%. Il fatto che comunque la repubblica andasse oltre la metà dei suffragi complessivi mitigò le tensioni, le attese e le aspettative intorno alla pronuncia della Cassazione, ma è anche vero che se la magistratura avesse accolto il ricorso dei monarchici la maggioranza repubblicana sarebbe stata così esigua e impugnabile che la scoperta di qualche errore o illegalità avrebbe potuto vanificarla del tutto.
Il comitato di eminenti giuristi che presentò il ricorso alla Corte di Cassazione basava le contestazioni in merito alla dicitura dell’Art. 2 del Decreto Luogotenenziale n° 98 del 16 marzo 1946, che disciplinava per l’appunto il referendum istituzionale. Esso stabiliva che "Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della repubblica, l’Assemblea, dopo la sua costituzione, come suo primo atto, eleggerà il Capo provvisorio dello Stato" e ancora "Qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci in favore della monarchia, continuerà l’attuale regime luogotenenziale fino all’entrata in vigore delle deliberazioni dell’Assemblea sulla nuova Costituzione" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia", 23 marzo 1946 n° 69). Il nodo centrale della questione stava su cosa la legge intendesse per "maggioranza degli elettori votanti". Come pubblicato da "Il Tempo" l’8 giugno, i giuristi promotori del ricorso affermavano che erano da considerarsi come elettori votanti anche coloro che avevano annullato la scheda o l’avevano lasciata in bianco "perché anch’essi hanno compiuto una manifestazione elettorale". Per quanto riguarda i voti nulli, il Decreto Luogotenenziale del 23 aprile 1946 n° 219, all’art. 15, così spiegava: "Sono nulli i voti per il referendum quando le schede: 1) non siano quelle prescritte all’art. 1 o non portino il bollo o la firma dello scrutatore… 2) Presentino qualsiasi traccia di scrittura o segni i quali debbano ritenersi fatti artificiosamente dal votante. 3) Non esprimano un voto per alcuno dei due contrassegni, o lo esprimano per entrambi, o non offrano la possibilità di identificare il contrassegno prescelto" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia", 3 maggio 1946). L’art. 2 del Decreto Luogotenenziale n° 98 sembra, in effetti, lasciare piuttosto indefinito il significato del termine "votanti" e quindi soggetto a fondate contestazioni, ma l’art. 16 dello stesso Decreto dà implicitamente una riposta. Al comma terzo esso afferma che "l’ufficio centrale circoscrizionale effettua le somme dei voti validi attribuiti rispettivamente alla repubblica e alla monarchia". E ancora l’art. 17, al comma primo così stabilisce: "La corte di Cassazione, in pubblica adunanza…, appena pervenuti i verbali di cui all’art. 16, trasmessi da tutti gli uffici centrali circoscrizionali, procede alla somma dei voti attribuiti alla repubblica e di quelli attribuiti alla monarchia in tutti i collegi e fa la proclamazione dei risultati del referendum" ("Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia" n° 102, 3 maggio 1946). E fu proprio tenendo conto di questi che la Cassazione, come vedremo, respinse il ricorso.
Ma il comitato di eminenti giuristi presentò un secondo ricorso, con lo scopo di rinviare la proclamazione, obiettando su ciò che veniva stabilito dalla legge del 16 marzo 1946 n° 99, che all’art. 1 convocava i comizi elettorali e al secondo comma affermava che facevano "…eccezione per il Collegio elettorale delle Venezia Giulia e la provincia di Bolzano, per i quali la convocazione dei comizi elettorali sarà disposta con successivi provvedimenti". La richiesta dei ricorrenti era, quindi, che la Corte di Cassazione dovesse attendere la convocazione di tali comizi elettorali, prima di una pronuncia definitiva. L’eco delle contestazioni e dei ricorsi sul referendum fu notevole in tutta Italia, anche perché esse ridiedero speranza ai fedeli della monarchia. Furono giornate di enormi tensioni e, come i risultati del referendum evidenziarono, vi erano due Italie contrapposte: una repubblicana delle regioni del centro e del nord e una, fedele al re, delle regioni meridionali e delle isole. La spaccatura non era dunque solo nel voto, ma anche geografica, e questo inaspriva senza dubbio i termini della contrapposizione. Di manifestazioni di piazza con relativi incidenti è piena la cronaca contemporanea. Nella città di Napoli, in Puglia, in Calabria, in Sicilia, il separatismo trasse nuova linfa dal risultato referendario. Si fece leva sul fatto che la Sicilia venne unita al Regno d’Italia con il Plebiscito del 1860 sotto Vittorio Emanuele II e i suoi discendenti, così l’allontanamento dei Savoia creava le premesse perché le fosse restituita in pieno la sovranità. Il giorno 9 il "Corriere della Sera" diede notizia che il presidente dell’Unione Monarchica Italiana, Tullio Benedetti, aveva inviato una lettera all’ammiraglio Stone in cui dichiarava che alla sua organizzazione erano giunte notizie di gravi brogli elettorali in favore della repubblica. Questo l’aveva portato a chiedere all’autorità alleata di verificare immediatamente i verbali elettorali ed i reclami inoltrati dai cittadini, revisionando tutto il materiale presso la Corte di Cassazione prima che essa procedesse alla proclamazione ufficiale dei risultati. Secondo Benedetti questo era dovere degli Alleati, in quanto si erano impegnati a vigilare sulla perfetta regolarità delle elezioni, ed inoltre un controllo alleato avrebbe dato la più completa garanzia sulla lealtà dell’esito elettorale, scacciando tutti i dubbi e i sospetti, così da poter avere una serena accettazione dei risultati(78). Domenico Bartoli ci dice che la speranza dei monarchici era quella di creare le condizioni per un intervento degli Alleati, tanto che il generale Infante fece loro giungere la notizia delle pressioni del governo sulla Corte di Cassazione per la proclamazione del risultato(79). Invece "L’Avanti", quotidiano socialista, accusò Benedetti di "servilismo" nei confronti degli stranieri, per averli invitati a controllare la regolarità delle elezioni, usurpando i poteri della Corte di Cassazione, tanto più che Benedetti era stato eletto deputato alla Costituente(80).
Franco Catalano riporta una tesi dell’ammiraglio Franco Garofalo, aiutante di campo del re, il quale vedeva nell’ "acrimonia" dei repubblicani nei confronti dei ricorsi dei monarchici quanto fosse fragile la coscienza dei vincitori ed impugnabile la loro vittoria, così che cercavano con "frettolosa intransigenza di velare l’una e l’altra indagine dell’opinione pubblica"(81). Fervida fu anche l’attività di Enzo Selvaggi, leader del Partito Democratico e fervente monarchico. La cronaca dell’edizione pomeridiana del "Corriere d’informazione" del 10 giugno diede la notizia di una lettera inviata da Selvaggi a De Gasperi, tramite la quale lo informava di aver ricevuto notizia che il governo avrebbe voluto, anticipando la sentenza della Corte di Cassazione, "far funzionare un governo provvisorio repubblicano", cosa paragonabile ad un colpo di stato, in quanto non avrebbe lasciato la Corte serena e libera nel decidere. Ed ancora Selvaggi fece la proposta che un governo provvisorio repubblicano avrebbe dovuto prendere l’impegno di fronte alla nazione e garantito internazionalmente, di indire un nuovo e regolare referendum sulla questione istituzionale. Il "Corriere della Sera", il 9 giugno, parlò di ben 150 ricorsi presentati alla Cassazione. Luigi Cavicchioli(82) scrisse a sei anni di distanza come il governo volesse "mettere i monarchici di fronte al fatto compiuto". Raccontò anche di un trucco cui ricorse Romita per esercitare pressioni sulla Cassazione: il 9 giugno il segretario generale della Camera Cosentino inviò il consigliere Vitali dal presidente della Corte Pagano a riferirgli che il Re aveva deciso di partire in esilio, ma prima desiderava che la situazione si fosse normalizzata. Dunque il Re avrebbe voluto che la Corte si riunisse presto per una proclamazione ufficiale. In seguito Lucifero scoprì l’ inganno e ne riferì a De Gasperi che tramite il segretario del governo Arpesani informò Pagano dell’inganno. Arpesani, poi, riferì a Lucifero che il mandante di Cosentino e Vitali era Romita, cosa a lui detta direttamente dallo stesso Cosentino "raccomandandosi che la cosa resti fra noi".
In tale clima si arrivò al giorno 10, atteso per la proclamazione dei risultati definitivi e della vittoria della Repubblica. Alle ore 18, nella sala della Lupa di Montecitorio, il presidente della suprema Corte di Cassazione Giuseppe Pagano proclamò i risultati dando lettura della "somma dei voti conseguiti secondo quanto attestavano i verbali: repubblica 12.672.767; monarchia 10.688.905. Pagano continuò annunciando che la Corte, in altra adunanza, avrebbe emesso un giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste ed i reclami presentati agli uffici delle singole sezioni ed agli uffici centrali circoscrizionali, o alla stessa corte, concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum, integrerà i risultati con i dati delle sezioni ancora mancanti ed indicherà il numero complessivo degli elettori votanti e dei voti nulli"(83). Melograni è convinto che una simile pronunzia, senza fornire la cifra dei voti validi "avvalorò i peggiori sospetti"(84). Certo è che, invece di porre fine alla conflittualità dei due schieramenti, la pronunzia parziale della corte inasprì ulteriormente lo scontro e diede vita ad un lungo braccio di ferro tra il re ed il governo, tanto da far pensare, ci dice Domenico Bartoli, che l’Italia fosse giunta sull’orlo di una guerra civile(85).
A Napoli il 12 giugno, durante una dimostrazione monarchica, scoppiò un conflitto che produsse sette morti ed una settantina di feriti. Il 14 vi furono scontri e feriti a Taranto, Napoli e Reggio Calabria(86). La parziale pronunzia della Cassazione del 10 giugno pose immediatamente la questione del trapasso dei poteri. La legge sulla Costituente stabiliva che, in caso di successo repubblicano, dal giorno della proclamazione, le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, in attesa della sua elezione da parte della Costituente, dovesse essere esercitata dal Presidente del Consiglio in carica. Ora era da vedere se si poteva ritenere la proclamazione come cosa avvenuta. Anche la "Voce Repubblicana", del resto, riconosceva come non fossero senza valide ragioni le tesi di chi pensava che la Cassazione non avesse ancora fatto la sua proclamazione(87). La tesi del re e dei suoi consiglieri era quella di aspettare il 18 giugno, giorno stabilito per la definitiva proclamazione dei risultati e della decisione sui ricorsi. Il governo riteneva invece che la repubblica poteva considerarsi nata a tutti gli effetti, in quanto le contestazioni non erano tali da poter mettere in discussione l’esito del referendum, considerando lo scarto di voti che vi era in favore della repubblica. Umberto sembrava disposto ad una delega di poteri, ma non quella prevista dalla legge sulla Costituente, perché non voleva perdere definitivamente i suoi, e studiava insieme ai suoi collaboratori una formula di delega a lui accettabile. La sera del 10 giugno, su proposta di Togliatti, il Consiglio dei Ministri propose al re che la delega dei poteri avvenisse con una dichiarazione del governo secondo cui, visto l’art. 2 della legge sul referendum, i poteri passavano al presidente del consiglio, ed un’altra dichiarazione contemporanea da parte del re, con la quale avrebbe delegato i suoi poteri al capo del governo. Umberto prese tempo per consultare i suoi giuristi e consiglieri. E fu in riferimento all’art. 2 per la delega dei poteri che Umberto non accettò, in quanto avrebbe così riconosciuta come già nata la repubblica. Dalle memorie del ministro degli Interni Romita sappiamo che De Gasperi era in attesa di ricevere la lettera di delega da parte di Umberto, ma alla mezzanotte fra il giorno 11 e 12 giugno ne ebbe un rifiuto. Romita ci dice poi che il mattino successivo De Gasperi si vide consegnare la lettera di rifiuto dal ministro della Real Casa Falcone Lucifero: il re avrebbe accettato il trapasso dei poteri solo dopo la definitiva sentenza della Corte di Cassazione(88).
Le possibilità di manovra che i monarchici discutevano erano essenzialmente tre: la tesi più estremista era quella di un colpo di stato, pure a costo di una guerra civile, i moderati pensavano ad una partenza del re seguita da un documento di ufficiale protesta, mentre altri credevano fosse meglio che il re restasse in attesa senza prendere posizione alcuna. Anche al governo, del resto, come disse De Gasperi, si prospettavano tre ipotesi da considerare: quella di un compromesso con il re, quella di restare fermi sulle proprie posizioni e lottare e quella di attendere il 18 giugno la definitiva sanzione della Cassazione, ma quest’ultima ipotesi, che pure sembrò tanto ovvia e naturale da essere battezzata come l’"uovo di Colombo", non fu presa molto in considerazione. La sera del 12 giugno il re apprese che il governo aveva annunciato il passaggio dei poteri di capo dello Stato al presidente del consiglio in carica on. Alcide De Gasperi. Era così il governo, e non la Corte di Cassazione, a decidere il trapasso dei poteri. Bartoli vede molta sbrigatività nella decisione dei partiti del governo(89). Anche il "Corriere della Sera", il quotidiano più importante e di chiara fede repubblicana, sembra suffragare questa tesi. Nel fondo di prima pagina del 13 giugno vi è infatti un invito all’attesa della proclamazione della Cassazione, motivato dal fatto che proprio la "puntigliosa precipitazione" può gettare sospetti e ombre sulla vittoria repubblicana, e che il voler "anticipare il verdetto della magistratura" dava la sensazione che "il dissidio non è tra governo e re per l’interpretazione formale di un testo, ma tra governo e magistratura su una questione di sostanza"(90). Va detto che la sollecitudine del governo nel risolvere la crisi politica determinatasi dal contrasto con il re può, in parte, trovare giustificazione nella situazione interna del paese. Le manifestazioni di piazza, gli incidenti anche tragici, alcune volte, la presenza di armi detenute clandestinamente e pronte all’uso, le varie voci su possibili colpi di stato rendevano il clima piuttosto avvelenato e urgente una pacificazione. Nel già citato articolo del "Corriere della Sera" del 13 giugno vi è comunque una netta sdrammatizzazione sulla pericolosità delle manifestazioni di piazza, sugli incidenti che sono "dolorosi, ma non preordinati", come pure la confutazione di probabili azioni di forza "per la situazione di fatto che evidentissimamente non la consente".
Non ho trovato molte spiegazioni da parte della storiografia contemporanea sulla decisione del governo di non attendere i pochi giorni che mancavano al 18 giugno. Certo è però che si possa facilmente cadere in errore se non si giudicano quasi tutti gli avvenimenti di quel tempo non tenendo presente i forti condizionamenti internazionali esistenti. Le memorie di Romita ci parlano di colloqui avvenuti tra Umberto e l’ammiraglio Stone, durante i quali il re voleva rendersi conto dell’atteggiamento delle forze di occupazione alleate e se avessero accettato un eventuale colpo si stato monarchico. Secondo una fonte che cita come autorevole, Romita dice di essere stato informato in via riservata che gli alleati non volevano intromettersi(91). Anche Catalano riferisce sui colloqui fra Umberto e Stone, citando come fonte Romita, che sarebbe stato informato dal servizio americano(92). Abbiamo già parlato del vano tentativo del generale Infante presso gli alleati. L’"Osservatore Romano" del 14 giugno riporta una notizia di agenzia secondo la quale Bevin avrebbe comunicato a De Gasperi che la Gran Bretagna non avrebbe riconosciuto la nuova repubblica italiana finché i dati del referendum non fossero stati ufficialmente proclamati e resi definitivi. Ma nello stesso articolo tale notizia viene smentita facendo riferimento all’organo democristiano "Il Popolo" il quale, negando qualsiasi messaggio di Bevin in tal senso, riporta che l’ambasciatore italiano a Londra Carandini aveva invece comunicato a De Gasperi la soddisfazione di Bevin per lo svolgimento delle elezioni in Italia, e che non appena ne fosse giunta notizia, Londra sarebbe stata ben lieta di riconoscere il nuovo governo repubblicano. È comprensibile come il re e i suoi consiglieri, nell’accanimento contro i risultati del referendum, cercassero dagli alleati almeno un tiepido appoggio, e contassero anche sul fatto che il capo del governo fosse anche il leader di un partito i cui elettori si erano espressi per due terzi a favore della monarchia. Ma nessun appoggio al re venne dagli alleati; Catalano ritiene che Umberto ed il suo entourage rimasero addirittura sorpresi dalla difesa del risultato del referendum da parte di De Gasperi, considerando l’orientamento del suo elettorato, ma anche dagli alleati, che comunque gli avevano garantito la via di scampo dal referendum(93). Ma gli alleati, secondo Catalano, avevano ormai interesse a difendere la repubblica istituita con il referendum(94). Se le contestazioni monarchiche avessero avuto la meglio e portato magari ad un nuovo referendum, difficilmente si sarebbe potuto garantire la sopravvivenza del metodo democratico; si sarebbe creato un precedente pericoloso e veramente si sarebbe potuta verificare una guerra civile, della quale avrebbe potuto approfittare l’Unione Sovietica, che manteneva ancora aperta la questione della nostra frontiera orientale. In effetti, togliere credibilità alla neonata democrazia, con un partito comunista italiano così forte, e ricordando anche l’intransigenza delle sinistre sulla questione istituzionale, poteva significare mettere in pericolo il compromesso raggiunto sulla divisione delle zone di influenza in Europa a favore dell’area comunista. Mi sembra opportuno aggiungere che l’esito dell’elezione dell’Assemblea Costituente fu largamente propizio per la DC, e quindi l’obiettivo che come abbiamo visto era quello di gran lunga più importante era stato comunque raggiunto, cosicché appoggiare la monarchia nella contestazione del referendum avrebbe significato correre dei rischi pressoché gratuiti. Catalano sostiene che fu proprio questa posizione degli alleati a portare probabilmente De Gasperi, che dapprima aveva mediato tra corona e governo con molto equilibrio, anche per evitare che si arrivasse a soluzioni estreme, definitivamente dalla parte repubblicana(95). Ed il colloquio dell’11 giugno tra Umberto e Stone, secondo Catalano, placò definitivamente le acque(96).
In effetti, il trapasso dei poteri compiuto dal governo con un atto unilaterale poneva Umberto innanzi alla scelta di abbandonare la lotta lasciando l’Italia o resistere, con tutte le conseguenze che il caso comportava. E Umberto decise di lasciar cadere gli incitamenti alla resistenza provenienti dai suoi più stretti collaboratori. Così il 13 giugno partì dall’aeroporto di Ciampino alle 15.40 alla volta di Lisbona in Portogallo. Prima della partenza Umberto rilasciò un proclama ufficiale di protesta, in cui manifestò il rifiuto di considerare definitivamente risolta la questione istituzionale. Puntò l’indice contro "il colpo di stato" compiuto dal governo che, "in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura", lo aveva messo nella situazione di "spargere sangue o subire la violenza". Il proclama di Umberto conteneva anche lo scioglimento del giuramento di fedeltà al re ed il saluto finale agli Italiani(97). Su "Il Popolo" del 14 giugno si avanzò l’ipotesi che il proclama del re fosse ben altro. Del testo originale sarebbero rimasti solamente i saluti finali e lo scioglimento del giuramento di fedeltà, mentre la parte del proclama riguardante le accuse sarebbe stato voluto dai collaboratori di Umberto. Al di là dell’episodio del proclama va detto che tutti gli storici concordano nel considerare Umberto, anche per la mitezza che contraddistingueva il suo carattere, piuttosto restio ad una resistenza ad oltranza di opposizione al governo e ai risultati del referendum, ma erano i consiglieri che lo incoraggiavano a dare battaglia e a non arrendersi. Secondo Romita il proclama era invece un invito alla violenza rivolto ai dieci milioni di persone che avevano votato la monarchia, mentre il re avrebbe atteso in Portogallo l’evolvere della situazione(98). È vero che nel testo Umberto si diceva ancora fiducioso che la magistratura, "la cui tradizione di indipendenza e libertà sono una delle glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola", e dunque alimentava ancora delle speranze, ma al tempo stesso invitava "a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del paese…e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace"(99). Così Indro Montanelli e Mario Cervi definiscono quella del re "la scelta più distensiva"(100). Ma su tale scelta è difficile pensare che non abbia pesato la volontà degli Alleati, considerato l’accanimento che animava i fedeli collaboratori del re prima della sua partenza per l’esilio.
Il 14 giugno "Il Popolo" smentiva con un piccolo articolo in prima pagina, dal titolo Fantasie e fandonie della stampa serale, la notizia trasmessa da "Il giornale della sera" e dal "Giornale d’Italia", che l’immediata partenza del re fosse da attribuirsi all’iniziativa degli Alleati. E lo stesso ammiraglio Stone aveva chiesto a De Gasperi di smentire tale notizia, in quanto "inventata di sana pianta"(101). Nello stesso articolo viene pure confutata due volte la voce che circolava sulle dimissioni del presidente della Cassazione Pagano, smentita proveniente dall’ANSA ed autorizzata espressamente dall’interessato. Giuseppe Pagano era un monarchico, e le sue eventuali dimissioni avrebbero avuto un significato piuttosto forte, perché sarebbero state la conferma di indebite pressioni del governo sulla magistratura, e dell’usurpazione avvenuta con il trapasso dei poteri senza attendere la sentenza della Corte. È probabile che certe notizie non trovassero fondamento, soprattutto perché sostenute da giornali e ambienti monarchici, ma pensando ai contatti che si ebbero, e che trovano puntuale conferma nei giornali di allora, è difficile pensare che non vi fosse alcuna ingerenza da parte alleata, anche considerando quanto l’Italia fosse punto importante della politica internazionale degli Anglo-Americani. Il "Corriere d’informazione", nell’edizione del pomeriggio del 12-13 giugno, nella cronaca di prima pagina, dava notizia di un incontro tenutosi nella mattinata del 12 giugno al Viminale tra De Gasperi e l’ambasciatore d’Inghilterra sir Noel Charles e con l’ammiraglio Stone. Del colloquio viene riportata un’"impressione" di Noel Charles, secondo la quale è comprensibile ritenere la decisione della Corte di Cassazione come non definitiva. Per quanto riguarda Stone, che aveva avuto il giorno prima un colloquio con Umberto, egli espresse l’opinione che la Cassazione aveva dato l’impressione di voler "sfuggire al rapporto definitivo". Inoltre Stone fece presente a De Gasperi come la miglior cosa sarebbe stata che il potere "venisse messo nelle mani del presidente del consiglio", ma su questo punto si chiedeva che cosa sarebbe accaduto se la Corte avesse ancora rimandata la sentenza definitiva(102). Da parte inglese si riconosceva l’ambiguità della prima pronuncia della magistratura, e quanto essa fosse pericolosa. È pure evidente l’apprensione che le contestazioni sfociate nei ricorsi non fossero così facilmente risolvibili dalla magistratura, la quale si era riservata infatti un tempo maggiore per prendere le sue decisioni. È naturale la sensazione che anche da parte inglese la mezza pronuncia della Cassazione fosse considerata come un intralcio inopportuno al passaggio dei poteri, cosa ormai gradita agli alleati.
Il "Corriere della Sera" del 14 giugno fa menzione delle voci che si erano diffuse intorno all’improvvisa partenza del re. Une delle ipotesi più accreditate fu quella di un intervento da parte del Vaticano. Vi fu infatti una lunga visita del nunzio apostolico mons. Borgoncini Duca a De Gasperi, il quale lo aveva invitato a Palazzo Chigi. Inoltre, i fogli monarchici, secondo il "Corriere della Sera" hanno dato notizia che alle 14.15 l’autorità alleata aveva comunicato al re "il desiderio che egli si allontanasse immediatamente dal territorio nazionale, allo scopo di evitare disordini". Questo stato di cose sarebbe stato determinato dalla notizia avuta dagli Alleati di "una imminente mossa militare di Tito su Trieste qualora Umberto fosse rimasto in Italia"(103). Il "Corriere" dice però che la notizia era stata subito smentita dal segretario di De Gasperi su autorizzazione di Stone, il quale, da fonte ben informata, sapeva al contrario che il re non era ancora disposto a partire. Inoltre l’ufficio romano dell’agenzia Reuter, su autorizzazione dell’autorità britannica, provvide alla smentita ufficiale delle voci di un intervento alleato sulla partenza del re, in quanto "la questione istituzionale è stata considerata dagli Alleati come una questione di politica interna italiana nella quale essi non avevano motivo di ingerirsi". Ma di nuovo l’"Osservatore Romano" del 16 giugno riferiva le accuse del monarchico "Italia nuova", secondo il quale gli alleati avrebbero fatto valere ancora le ragioni superiori di interesse internazionale e che l’interesse alleato era quello di instaurare la repubblica in Italia. Le smentite ufficiali da sole non possono avere che un credito assai relativo, in quanto gli Alleati non potevano certo ingerirsi nelle faccende italiane in modo dichiarato, così come non si possono prender per buone le ipotesi che la stampa monarchica sosteneva, per evidenti ragioni di parzialità. Ho già affermato come mi sia stato difficile trovare delle spiegazioni da parte degli storici sulla presa di posizione del governo e sull’uscita di scena del re, ma comunque è del tutto errato negare l’influenza dei governi alleati. Per l’autorità che essi avevano in quanto ancora forze di occupazione sul territorio nazionale, anche un semplice parere, per quanto informale fosse, poteva avere una forza di fatto vincolante, e una decisione presa con il consenso o il parere favorevole degli alleati era destinata a sicuro successo. Del resto, pur ritenendo valida la smentita del "Corriere della Sera" sul pericolo di una mossa militare slava nei nostri confronti, erano comunque reali le pressioni di Tito su Trieste e la forza del Partito Comunista Italiano era ben presente a tutti. Lo stesso proclama di Umberto, a ben guardare, parla espressamente di "frontiere minacciate", di "unità in pericolo" e invita i fedeli monarchici a seguire il suo esempio ed "evitare l’acuirsi dei dissensi che minaccerebbero l’unità del paese"(104). Una guerra civile avrebbe senz’altro sconvolto i delicati equilibri creatisi all’interno del paese, ma anche, e forse soprattutto, la posizione dell’Italia in ambito internazionale. Questo non poteva certo piacere agli alleati che, smentite a parte, a ben vedere, non potevano considerare le nostre vicende solo come "una questione di politica interna italiana"(105).
Il giudizio definitivo della Corte di Cassazione si ebbe, come previsto, il giorno 18 giugno in un’aula di Montecitorio alle ore 18.00. Era presente il procuratore generale Massimo Pilotti. La partenza del re aveva senza dubbio mitigato il clima e stemperato le tensioni intorno a questa seconda pronuncia dei magistrati della corte e le aspettative del monarchici erano ormai alquanto tiepide. Il primo presidente Giuseppe Pagano diede lettura di qualche modifica di scarsa entità sull’attribuzione di alcuni voti. Integrò poi i risultati annunciati il 10 giugno con quelli delle sezioni che allora mancavano e dichiarò che i voti dati alla repubblica erano 12.717.923, quelli dati alla monarchia 10.719.284, le schede nulle complessivamente arrivavano a 1.498.136. Nei giorni successivi la Corte avrebbe deciso sui reclami e le proteste contenute nel verbale depositato alla cancelleria della Corte. Il ricorso principale, quello promosso dall’on. Enzo Selvaggi, che chiedeva una nuova consultazione e che riteneva giuridicamente corretto un modo di calcolare la maggioranza in base alla cifra complessiva degli elettori e non in base ai soli voti validi, venne respinto. Il "Corriere della Sera" del 19 giugno dà notizia anche delle motivazioni e di altri particolari. La sentenza che respingeva il ricorso venne emessa dai diciannove giudici della Cassazione con una maggioranza di dodici a sette. In seno alla corte, sul modo di calcolare la maggioranza, si erano manifestate due correnti, una per l’accoglimento del ricorso, sostenuta dal procuratore generale Pilotto, e un’altra sostenuta dal consigliere Colagrosso, che era per il rigetto del ricorso. La camera di consiglio durò circa tre ore e finì dunque col respingere il ricorso di Selvaggi e degli eminenti giuristi. La Corte aveva così deciso che per "elettori votanti", come si legge nel Decreto Luogotenenziale del 16 marzo 1946 n° 98 all’art. 2, debbano intendersi coloro che hanno depositato nell’urna dei voti validamente espressi. Questo perché il Decreto Luogotenenziale n° 98 del 16 marzo deve collegarsi, per comprendere la volontà del legislatore, con il Decreto Luogotenenziale del 23 aprile 1946 n° 219 agli art. 16 e 17 che, come abbiamo visto in precedenza, nel disciplinare i conteggi dei voti negli uffici circoscrizionali fanno riferimento "ai voti validi attribuiti rispettivamente alla repubblica e alla monarchia". Inoltre non potrebbe essere richiesta una maggioranza qualificata, in quanto la scelta del referendum riguardava due sole possibilità di scelta e la legge non prevedeva una nuova consultazione nel caso in cui una certa maggioranza non si fosse raggiunta. È palese che la volontà del legislatore volesse far riferimento non ad una maggioranza qualificata, ma solo ad una prevalenza numerica di una opzione sull’altra. Queste argomentazioni sono certamente valide e per rendersene conto è forse sufficiente leggere i decreti luogotenenziali sul referendum istituzionale, ma è altrettanto certa la loro lacunosità e la possibilità di una loro interpretazione incerta ed ambigua.
La partenza di Umberto per l’esilio seguita dalla seconda pronunzia della Cassazione, che proclamava i risultati e respingeva il ricorso dei monarchici, spegneva definitivamente le speranze dei fedeli del re. Il battagliero "Italia Nuova", il 19 giugno, chiedeva al governo repubblicano di concedere al paese una nuova consultazione per la scelta elettorale, atto dovuto, secondo il foglio monarchico, considerato il fatto che Umberto, in caso di affermazione monarchica, aveva promesso un nuovo referendum che avrebbe concesso di votare ai tanti che non avevano potuto partecipare, loro malgrado, la prima volta. Naturalmente l’appello cadde nel vuoto. Il Ministro degli Interni Romita segnalò che già dal 15 giugno dalle province d’Italia arrivavano notizie attestanti un’atmosfera tranquilla e distesa(106). Il 21 giugno De Gasperi ricevette Stone al Viminale e ne ebbe la comunicazione che i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna si congratulavano "per la maniera ordinata con cui si sono svolte in Italia le prime elezioni libere dopo il fascismo". Monarchici e qualunquisti si astenevano dall’applaudire i discorsi del presidente dell’Assemblea Costituente Saragat quando essi terminavano con un "Viva la repubblica"(107). Ma i giornali monarchici pubblicavano ormai articoli caratterizzati da un prevalente spirito di distensione. Si era, dunque, cominciato a percorrere la lunga strada della pacificazione. Ma a parte una certa retorica che descrive in termini trionfalistici l’avvento della repubblica in Italia, è francamente difficile non essere d’accordo con Melograni quando afferma che "se è vero che la monarchia finì male, la repubblica non cominciò certo bene il suo cammino"(108).
Vittorio Gaeta
NOTE
(1) Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, 1918-1948, Milano, Lerici, 1962, p. 693.
(2) Tali notizie sono contenute in un opuscolo uscito clandestinamente a Roma all’inizio del ’44. L’autore è Federico Comandini. Il testo è contenuto nell’opera curata da E. Santarelli, Dalla monarchia alla Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 71-78.
(3) Cfr. P. Melograni, Dieci perché sulla repubblica, Milano, Rizzoli, 1994, p. 35.
(4) Cfr. D. Bartoli, I Savoia ultimo atto, Novara, De Agostini, 1986, pp. 176 – 177.
(5) Le dichiarazioni del re sono riportate in "Civiltà Cattolica" del 25 maggio 1946.
(6) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, L’Italia della repubblica, Milano, Rizzoli, 1985, p. 28.
(7) Cfr. P. Melograni, op. cit., p. 36.
(8) Cfr. F. Catalano, L’Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919 –1948, Milano, Lerici, 1962, p. 702.
(9) La lettera apostolica di Pio XII al cardinale Lavitrano è contenuta in Santarelli, op. cit., pp. 123-124.
(10) Ivi, pp. 189-193.
(11) Cfr. F. Catalano, Una difficile democrazia; Italia 1943-48, Firenze-Messina, Casa Editrice D’Anna, p. 808.
(12) Cfr. L. Urettini, I comitati civici nel Trevigiano e la loro funzione nelle elezioni del 1948, opera citata in F. Catalano, Una difficile democrazia…, cit., p. 808.
(13) Lettera del 16 agosto 1945, citata in P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, p. 214.
(14) Lettera del 26 ottobre 1945, citata in P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit., pp. 215 – 216.
(15) Cfr. A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1967.
(16) Cfr.P. Melograni, op. cit., p.28.
(17) Ivi, p.38.
(18) Cfr. D. Bartoli, op. cit., pp.182-183.
(19) Cfr. P. Melograni, op. cit., p. 38.
(20) Brucculeri è citato in Catalano, Una difficile…, cit. p. 810.
(21) Cfr. A. C. Jemolo, op. cit., in E. Santarelli, op. cit. , pp. 248-255.
(22) Cifre riportate in E. Piscitelli, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra 1945-1948, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 152.
(23) Articolo di F. Platone pubblicato su "Rinascita" e citato in E. Santarelli, op. cit., pp. 209-217.
(24) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p. 210-211.
(25) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p.210.
(26) Cfr. M. R. Catti De Gasperi, De Gasperi uomo solo, Milano, Mondadori, 1964, p. 213.
(27) Lettera riportata nell’ appendice documentaria in M. R. De Gasperi, op. cit., documento n. 2.
(28) Testo della lettera in P. Scoppola, op. cit., p. 212.
(29) Ivi, pp. 212-213.
(30) Ivi, pp. 208-209.
(31) Ivi, p. 213.
(32) Ivi, p. 221.
(33) Cfr. E. Piscitelli, op. cit., p. 151.
(34) Ibidem. La notizia è anche in D.W. Ellwood, L’alleato nemico, Milano, Feltrinelli, 1977, p.191.
(35) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p. 224.
(36) Il testo della lettera sta in P. Scoppola, op. cit., p. 231.
(37) Ivi, pp. 234-235.
(38) Ivi, p. 214.
(39) Ivi, p. 224.
(40) Ivi, pp. 241-242.
(41) Cfr. F. Catalano, Una difficile…. cit., p. 798.
(42) Il testo è citato da M. R. De Gasperi, op. cit., pp. 211-212.
(43) Cfr. P. Scoppola, op. cit., p., 239.
(44) D. W. Ellwood, op. cit.
(45) Fonti d’ archivio dal National Archives di Washington, in D.W. Ellwood, op. cit., p. 188.
(46) Ivi, p. 269.
(47) Memorandum del Foreign Office: Italy, the institutional question, in D.W. Ellwood, op. cit., p. 270.
(48) Ivi, p. 267.
(49) Ivi, pp. 147-148.
(50) Il testo del discorso di Churchill sta in E. Santarelli, op. cit., pp.101-103.
(51) Cfr. D.W. Ellwood, op. cit., p. 149.
(52) Memorandum del Foreign office, cit.
(53) N.A.W. in D.W. Ellwood, op. cit, p. 177.
(54) Ivi, p. 272.
(55) Cfr. "Civiltà Cattolica", 25 maggio 1946, sta in "Cronaca contemporanea".
(56) Cfr. F. Catalano, L’ Italia …., cit., p. 699.
(57) Le parole riprese dal diario del Generale Puntoni, sono riportate da F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 698.
(58) Cfr. G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, opera citata in F. Catalano, op. cit. p. 699.
(59) Testo riportato in " Civiltà Cattolica", numero del 25 maggio 1946.
(60) Anche le notizie de "L’Avanti" sono riportate in "Civiltà Cattolica" del 25 maggio 1946.
(61) Ibidem.
(62) Ibidem.
(63) Ibidem.
(64) Sono parole di risposta da parte del Supremo Comando Alleato e riferite da De Gasperi; ibidem.
(65) Cfr. "Il Popolo", 24 maggio 1946
(66) Cfr. "Il Popolo", 28 maggio 1946.
(67) Cfr. L’ "Osservatore Romano", 5 giugno 1946.
(68) Cfr. G. Galli,. Il comportamento elettorale in Italia, il Mulino, Bologna, 1968, p. 68; P. Melograni, op. cit., p.39.
(69) L’episodio è raccontato da Luigi Cavicchioli in un saggio dal titolo Il referendum che esiliò i Savoia, apparso a puntate sul settimanale "Oggi" nel 1952. A tale episodio si fa riferimento nella prima puntata del n. 42 del 16 ottobre 1952.
(70) Ibidem.
(71) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, op. cit., p. 37.
(72) Cfr. "Il Corriere della Sera", 5 giugno 1946.
(73) Cfr. "Oggi" del 16 ottobre 1952, n. 42 , saggio di Chiavicchioli, op. cit.
(74) Cfr. "Civiltà Cattolica", 1° dicembre 1945.
(75) Cfr. nota n. 63.
(76) Cfr. I. Montanelli-M. Cervi, op. cit., p. 30.
(77) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 189.
(78) Notizie riportate su "Il Corriere della Sera", 9 giugno 1946.
(79) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 183.
(80) Le accuse de "L’Avanti" sono riportate su "Il Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(81) Le parole di Garofalo sono riportate da F. Catalano, L’ Italia…., cit., p. 710.
(82) Cfr. sul settimanale "Oggi" del 16 ottobre 1952, n. 42, il saggio di Chiaviccoli, op. cit.
(83) Cfr. "Il Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(84) Cfr. P. Melograni, op. cit., p.39.
(85) Cfr. D. Bartoli, op. cit., p. 183.
(86) Ivi, p. 188 e l’ "Osservatore Romano", 14 giugno 1946.
(87) Notizie riportate dal "Corriere della Sera", 11 giugno 1946.
(88) Le memorie di Romita sono in E. Santarelli, op. cit., pp. 202-207.
(89) Cfr. D. Bartoli. op. cit., p. 192.
(90) Cfr. "Corriere della Sera",13 giugno 1946.
(91) Le memorie di Romita in E. Santarelli, op. cit,. pp. 202-207.
(92) Cfr. F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 853.
(93) Cfr. F. Catalano, L’ Italia… cit., p. 703.
(94) Cfr. F. Catalano, Una difficile…, cit., p. 857.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.
(97) Il testo del proclama è stato desunto da "Il popolo", 14 giugno 1946.
(98) Cfr. le memorie di Romita in E. Santarelli, op. cit., pp. 202-207
(99) Sono parole del proclama di Umberto.
(100) Cfr. I. Montanelli- M. Cervi, op. cit., p. 58.
(101) Cfr. "Il Popolo", 14 giugno 1946.
(102) Cfr. "Il Corriere d’Informazione", edizione del pomeriggio, 12-13 giugno 1946.
(103) Cfr. "Il Corriere della Sera", 14 giugno 1946.
(104) Sono parole dal proclama di Umberto, cit.
(105) Cfr. "Il Corriere della Sera", 14 giugno 1946.
(106) Cfr. "Il Corriere della Sera", 15 giugno 1946.
(107) Cfr. "Il Corriere della Sera", 27 giugno 1946.
(108) P. Melograni, op. cit., p. 40.