È apparso nel 2003, curato da Stefano Simonetta, medievista che ha tra i suoi autori Marsilio, Wyclif e Occam, ma anche, come si vedrà a proposito del testo che di seguito si discuterà, una particolare familiarità con il periodo tudoriano della storia inglese che conduce alla frattura istituzionale ed intellettuale della rivoluzione repubblicana, un volume collettaneo per i tipi del Mulino, dal titolo Potere sovrano: simboli, limiti, abusi. La nota da me proposta prenderà spunto proprio dalla natura complessiva del progetto di ricerca di Simonetta, e svilupperà criticamente sia il taglio dell’opera che alcuni specifici contributi. Un’occasione per una riflessione sulle tematiche indagate dal testo, un concetto – quello del potere sovrano – straordinariamente primario della tradizione filosofico-politica occidentale.
Come sarà subito visibile, il primo pregio di quest’opera è quello della sua impostazione. Come un ipertesto, i link dei vari contributi si collegano in un itinerario che traccia un viaggio parallelo ad una storia canonica del pensiero politico. La rappresentazione della sovranità in differenti luoghi storici (e, quindi, intellettuali, ideologici, politici) della civiltà occidentale è l’oggetto della ricerca che, proprio per questa strutturazione, procede da un criterio di coralità. Il plurale risulterà armonioso nel metodo di lavoro che offre, e si giustifica per due ragioni, a cominciare da quello evidente del carattere miscellaneo che può riunire così competenze specifiche, voci diverse per un dibattito che focalizza la propria attenzione sul modo con cui via via è stata elaborata una concezione del potere capace di essere condivisa, attraverso una precisa mediazione simbolica, in una determinata comunità. La polifonia (uso il termine del curatore) è oltremodo una ricchezza per la diversa provenienza degli approcci con cui è guardato l’oggetto della ricerca: filosofi politici e del diritto, storici del pensiero politico, storici dell’antichità, medievalisti e contemporaneisti, antropologi, intervengono per raccontare da punti di vista diversi la metafora ‘vincente’ per la proiezione dell’autorità nei processi di dominio nella prima sezione (Simbologie, immagini e metafore del potere sovrano); il sottostante meccanismo istituzionale nel secondo momento dello studio, con particolare riguardo al modello costituzionalista, che in fondo rappresenta la prassi politica più affermata tra le possibili organizzazioni del potere nell’Europa moderna (Anatomie e dissezioni del potere sovrano). La conclusione della tripartizione (Deformazioni e metamorfosi del potere sovrano) riflette sulla distorsione dell’immagine e della realtà del potere, ovvero lo ‘sdrucciolare’ della sovranità in quelle forme perniciose e ree, come diceva l’antico Segretario fiorentino. L’idea suggerita è che la metamorfosi del potere si riveli una deformazione, con precisa galleria di famiglia – l’usurpatore (di Tebe), il principe barbaro (il Serse del Gorgia), il tiranno (municipale) e l’incognita tenuta della sovranità moderna di fronte al futuro – ma si lascia al contempo la sensazione che sia intervenuta nella catalogazione scientifica un’ispirazione latu sensu ideologica. Ma anche quest’ultimo è un dubbio che riesce a problematizzarsi, dato che due saggi per certi versi paralleli, quello sul fascismo, ottima scelta sulla simbologia del potere, e la riflessione su Lorenzo il Magnifico, ulteriore simbolo di sapienza mediatica della trasmissione dell’immagine dell’egemonia, sono posti rispettivamente nella prima e nella seconda sezione, e non nella terza, la cui aderenza sarebbe stata forse più conveniente. Probabilmente una introduzione chiarificatrice sulle ragioni delle collocazioni dei contributi avrebbe dato una chiave di accesso ai quadri tematici, che estendono un arco temporale che affonda un’estremità nella spiegazione mitologica della questione, per arrivare agli orizzonti odierni, l’"età globale", indubbiamente una felice espressione che di per sé spinge nell’archeologia la vecchia polis, il luogo geo-storico di nascita della politica, e impone una riconsiderazione sulla natura e i fini della sovranità nell’universo (post)attuale.
Il progetto, l’esperimento (un’ulteriore, onesta, autodefinizione), forse ha un’inconsapevole struttura, dato che sembra poggiarsi su due assi. Il versante del faticoso percorso del costituzionalismo anglosassone, considerato centrale da una consolidata storiografia (ma qui spostato indietro, nei precorrimenti ed anticipazioni della formulazione della ‘libertà inglese’ tra medioevo e conclusione dell’era tudoriana), come saggio che dialoga con altri testi dell’opera: l’imprescindibile idea di sovranità di Thomas Hobbes, le successive risposte liberali e radicali di Jeremy Bentham e Thomas Paine, vale a dire il momento cruciale della formazione del mondo politico contemporaneo rappresentato dalla lotta della nascente democrazia americana all’impero britannico. Quattro tasselli sui compressivi quattordici che, variamente incardinati nelle tre aree indicate, esplorano la speculazione platonica e quella senechiana, la ricezione aristotelica nel Duecento nell’elaborazione delle cautelae tyrannicae, la riflessione umanistica sulla figura del tiranno personificata in Lorenzo de’ Medici, per arrivare al Novecento proposto con una ‘simbologia’ presa dalla retorica fascista e una ‘dissezione’ studiata dalla microfisica del potere di Foucault.
Per necessità di cose la scelta rimane non esauriente dei contesti storico-linguistici possibili, tendenzialmente inesauribili, ma la selezione è ugualmente significativa, talvolta anche stimolante nell’accostamento, per esempio nell’ultimo ritaglio, della degenerazione dispotica del sovrano, un topos colto nella trattatistica medievale, compreso da uno studio sull’opposizione, primordiale nella nostra civiltà, tra democrazia occidentale (Callicle) e dispotismo persiano (Serse), e una riflessione sulle attuali sfide alla sovranità della globalizzazione.
Ma il volume mostra anche di prediligere ancora più opportunamente, nel secondo fondamento del progetto, una puntualizzazione della radice classica della filosofia politica europea, cosicché diversi saggi (ben 5) insistono sulla originaria riflessione della cultura greca e latina attorno alla simbologia del potere da cui si evince il debito che le successive ‘civiltà’ occidentali hanno contratto con Omero o Seneca.
Simili contenuti che il piano dell’opera offre non coprono però un seme vitale della nostra tradizione, perfino dominante, rappresentato dalla cultura biblica. Non traslare l’esame che è stato condotto su alcuni testi mitologici, letterari e storici del mondo antico a uno spazio confinante e tuttavia decisivo come quello in cui viene concepito il corpus di scritti che proprio l’Europa adotterà come sacri può essere una lacuna importante. A mio modo di vedere manca in tal senso un presupposto ermeneutico considerevole nello studio della civiltà medievale, o in quella puritana inglese del Seicento, solo per accennare a plateali connessioni. Sarebbe stato più agevole per il lettore seguire l’elaborazione concettuale delle dinamiche di dominio durante la scolastica o nel periodo in cui l’esercito dei santi porta sul patibolo Carlo Stuart attraverso un precedente esame su ‘Gerusalemme’, usando le figure della dicotomia di Leo Strauss, per proporre anche la genesi e le genealogie dei riferimenti ideologici ed intellettuali familiari a quelle culture, così come è stato fatto abbondantemente per ‘Atene’. Un esempio quasi obbligatorio è un noto saggio di Michel Walzer, che ha mostrato come il linguaggio biblico fosse il naturale mezzo espressivo per Girolamo Savonarola o Martin Luther King, costituendo un paradigma del processo politico di emancipazione dalla condizione di servitù fortemente condiviso e dunque immediatamente accessibile nei loro rispettivi ambienti, l’umanesimo fiorentino e la lotta afroamericana per i diritti civili negli anni Sessanta.
Qui si potrebbe inserire, in forma di proposta, un duplice lemma che forse avrebbe arricchito la polifonia. Lo studio della simbologia del potere, le varie strategie comunicative a cui è ricorso il detentore dell’autorità per significare il proprio comando, avrebbe potuto includere, anche in un solo, emblematico esempio, un discorso sull’arte in tutte le sue espressioni (pittura, scultura, architettura, letteratura …), che ha avuto un ruolo sicuramente privilegiato nella trasmissione dell’idea, dominante o alternativa, di potere.
Penso intanto ad un primo semplice passo. Sarebbe stato interessante percorrere il genere utopico e fantastico (o toglierne da quello una citazione), che, come il viaggiatore rinascimentale Itlodeo o gli orientali di Montesquieu, ha variamente descritto in termini di rappresentazioni critiche la realtà della ‘nostra’ civiltà politica (che è di volta in volta quella inglese di Enrico VIII o quella francese del Re Sole) da altri punti di vista. La favola delle api o la fattoria degli animali possono dirci, con altre simbologie rispetto alla fraseologia immediatamente politica, la rappresentazione vulgata di un modello ideologico affermato, ovvero la denuncia, da altre angolature del gioco ideologico, di deformazioni, anche latenti e potenziali, della sovranità; o recuperare da questo linguaggio letterario, attraverso le parabole ‘perdenti’ di gruppi concorrenti alle elites predominanti, aspirazioni irrealizzate ma comunque produttive di cultura politica.
Allo stesso modo al taglio dell’opera, così originalmente attenta alla complessità della storia intellettuale, non sarebbe neanche dispiaciuto il contributo dello storico dell’arte, i cui panni indossano di tanto in tanto gli storici politici come Nicolai Rubinstein o Quentin Skinner, ai quali chiedere la decifrazione politica, proprio nel senso indagato in questi saggi, dei contenuti ideologici e dei messaggi imperativi di un affresco (si pensi anche allo studio degli affreschi perduti di Portorno a San Lorenzo studiati da Massimo Firpo), o delle ragioni politiche della committenza di una statua, o ancora degli equivalenti significati del progetto di una chiesa o di un palazzo, dalla sua ubicazione urbanistica alla configurazione architettonica fino alla decorazione artistica.
In sostanza, incrociare per esempio la mitologia greca con la favola letteraria latina (per quanto riguarda altri linguaggi), e proporre un confronto con i testi della tradizione biblica (per ciò che concerne altre culture antiche) può essere un esercizio interessante e proficuo.
Pur avendo trascurato queste ultime opportunità, l’opera propone in ogni caso una molteplicità di spunti che inducono alla riflessione e, se si vuole, alla riscrittura. Sotto questo aspetto, non credo ci possa essere migliore pregio per un’impresa culturale e, nel caso, per un libro. Come le differenti versioni della storia di Abramo raccontate, nelle medesime pagine, da Kierkegaard, o la variante proposta da Andrè Gide alla parabola del figliol prodigo, il lettore reinterpreta le interpretazioni degli autori di questi saggi, offrendo la propria suggestione, come analisi, come contributo, come risposta all’invito che la coralità, che nella scienza non è un cerchio chiuso, quasi per definizione propone. Ho letto così il saggio, brillante, di Marxiano Melotti sullo Scettro di Zeus, senza alcuna presunzione critica, guidato dalle indicazioni che il mito sempre suscita – "i miti sono fatti perché l’immaginazione li animi" – un fiume fecondo che ha ispirato le letture di Camus su Sisifo, o il nuovo Prometeo dello stesso Gide o di un Dürrenmatt. Sono invece tornato alla critica storiografica e filologica, pensando di esercitare una qualche competenza scientifica, per il saggio di Giuseppe Civati su Lorenzo, il tiranno. Il resto è lasciato ad altre letture, ad altri interpreti, a nuove occasioni.
Gli abitanti di Cheronea tra gli dei onorano soprattutto lo scettro che, secondo Omero, Efesto fece per Zeus, Hermes, ricevuto da Zeus, diede a Pelope, Pelope lasciò ad Atreo, Atreo passò a Tieste a da Tieste ebbe Agamennone. Venerano questo scettro, chiamandolo Lancia.
La sua "epifania" tra gli uomini chiarisce appieno la sua natura particolarmente divina. Raccontano infatti che venne scoperto sui loro confini con Panopeo in Focile e che con esso i Focesi scoprirono anche dell’oro, ma preferirono tenere lo scettro invece dell’oro. Io sono invece convinto che questo scettro sia stato portato in Focile da Elettra, figlia di Agamennone.
Per questo scettro non c’è un tempio costruito a spese pubbliche, ma chi officia la funzione sacra tiene lo scettro nella propria casa per un anno e ogni giorno vengono effettuati sacrifici e viene preparata una tavola piena di carni e dolci di ogni tipo.
I Focesi, come racconta Pausania (Guida della Grecia, 9, 40, 11-12), scoprirono ai loro confini uno scettro e dell’oro, e lasciarono l’oro per portare in patria lo scettro. Nella mia opinione, tra le parole-chiave, oltre a quelle evidenti di oro e scettro, c’è anche il confine; e che esse siano tali risulta dal loro reciproco rimando, dal gioco di specchi che produce.
Che Pausania non creda alla versione locale della regalità, che contempla una trasmissione, con vari passaggi, da Zeus ad Agamennone, non sposta di molto l’idea di potere che il racconto consegna, sia perché il suo intervento da commentatore esterno partecipa comunque di un cosmo a cui egli appartiene, sia perché la sua opinione, nel condividere quel cosmo, è in definitiva un’inconsapevole (inevitabilmente inconsapevole) variante della trama mitica. È stata Elettra, figlia di Agamennone, a portare lo scettro a Cheronea. L’origine divina e religiosa del potere è la lezione immediata. Io rimango incuriosito non tanto dalla sfida oro e scettro – che motivo c’è infatti di scegliere tra le due scoperte? non è possibile portare in città entrambi? – che è ovviamente una traduzione dell’opposizione tra economia e politica, ma dal ‘confine’, il luogo del ritrovamento delle risorse, che in definitiva non salta dalla critica ‘illuministica’ di Pausania.
Anche nel secondo caso infatti il potere, il suo simbolo più significativo, lo scettro, viene da fuori, con una trama che ha un’evocazione sovrumana. Questo dettaglio trascende la lettura più ovvia (ma non è una deminutio dell’interpretazione), il valore politico e militare della funzione dello scettro-lancia che delimita la sovranità, segna la riappacificazione dopo la (probabile) conquista. Lo scettro è infatti una metafora gentile, rassicurante nella sua autorevolezza, che cela la prima sembianza senza cui non può esistere, il momento della guerra. Il posto del ritrovamento dell’oggetto, lontano dalla città, parla verosimilmente di una dinamica originaria di scontro cruento rielaborata con il rito dell’apparizione magica dello scettro: il confine segna la costituzione della sovranità, il suo primo atto, l’estensione della sua effettività.
Eppure la strutturazione della vicenda può offrire una lettura sottostante che l’epifania dello scettro inizia, e che la sua inclusione, che avviene secondo la modalità itinerante della turnazione, completa. C’è forse, ai confini storici, laddove, nel mito, si perviene ad una dimensione ancestrale, il magma di una violenza che è stata ‘interna’, ‘civile’, in cui ogni famiglia era (divenuta?) hobbesiana, straniera all’altra. Sembrerebbe il movimento inverso nella degenerazione di Agamennone, identificato allo scettro dal racconto omerico nella funzione simbolica del potere, che da pastore diviene lupo. La degenerazione è appunto una regressione, un’involuzione da un’iniziale normalità. I Focesi invece preferirono all’oro lo scettro perché il metallo prezioso divideva, squartava il tessuto sociale; lo scettro, la politica, riuscì invece a riannodare la lacerazione. La normalità civile è il risultato di un processo faticoso che sconfigge la lotta sublimandola nelle regole del gioco politico. Il rito dello scettro senza re e della sua peregrinazione di casa in casa, come lo descrive Pausania, pongono l’idea che il potere non appartiene a nessuno specificatamente ma a dio, e la politica ha un’origine religiosa, come il mito suggerisce, per ciò che essa svolge: legare la potenziale dissolvenza umana. E ha un’origine divina perché solo un dio può deviare il conflitto naturale attraverso la legge. Il confine allora evoca anche questo, l’alterità della politica rispetto alle possibilità umane per un’impresa titanica. Benché dunque assolutamente umana, come l’autorevolezza di Aristotele sancirà – talmente umana nell’immaginario greco che l’allontanamento dalla polis, per il barbaro come per lo schiavo, è un distacco antropologico – la politica è tuttavia ai ‘limiti’ delle capacità del dio che Prometeo ha plasmato: l’uomo. Sconfiggere la violenza non è facile. Pausania perfino rafforza, con la sua correzione, una simile idea: lo scettro condotto da Elettra è un dono degli dei. Se la politica sostituisce la violenza, se uno scettro riesce ad essere tale, l’uomo si appropria di se stesso, scarta la degradazione belluina ed assume la dignità che la polis gli assegna. C’è un iniziale movimento infatti prima di compiere all’infinito la danza rituale tra le famiglie di Cherorea, che è un simbolo di ouverture ancora più significativo: il viaggio dal confine alla città. Alla fine possiamo esplicitare le due cose con un’anacronistica categoria politica, e avremo nei due passaggi – il primo dall’esterno all’interno della polis, che è un atto iniziale ed unico, e il secondo tra le famiglie, i gruppi che compongono la polis, che è un rituale, un atto destinato a ripetersi nel tempo – la descrizione dei due patti secondo quella linea contrattualistica dal medioevo a Rousseau, vale a dire il duplice momento del patto sociale che fonda la sovranità, quello istituitivo, e il successivo di governo, che la gestisce ed esercita. Sotto questo profilo, a rafforzarmi nell’idea di una metafora fondativa della politica nella scoperta/apparizione dello scettro al di fuori della mura cittadine, è un tratto tipico di una simbologia che dall’antichità, greca latina ed ebraica, arriva fino al rinascimento. Sul Sinai Mosè riceve da Dio le tavole della legge, e Numa, dopo la precaria fondazione di Romolo, ricorre alla ninfa silvestre per accreditarsi come provvidenziale legislatore presso il suo popolo. Sia il monte che la foresta, come il confine della regione della Focide, parlano, esaltando la lontananza dalla ordinarietà civica, dell’origine divina della politica (Dio, la ninfa, gli dei), ma vogliono significare con questo la natura ‘divina’ di quella, più preziosa dell’oro. Etsi Deus non daretur, anche se gli dei non ci fossero, la politica rimarrebbe divina. La conclusione credo sia questa. Ma non definitiva. Due interessanti divagazioni il bastone del comando, divino e regale, può ancora darlo. La trasmissione del potere da Dio a Mosè avviene con una serie di prodigi, a partire dall’epifania del roveto ardente (altra zona di distanza dal quotidiano transito umano, ed esplicitamente sacra), necessari a superare quel comprensibile scetticismo mosaico nell’accettazione della missione divina. Il passaggio centrale della persuasione che il Signore compie su Mosè è compiuto nel bastone, che diviene per intervento miracoloso un serpente, ovvero da pastorale a regale, con significati che si sovrappongono, si arricchiscono. Anche i sacerdoti del faraone dovranno arrendersi al nuovo potere di Mosè significato nel suo bastone straordinario. Ma in ciò è anche racchiuso il senso della possibile degenerazione della politica. Il potere è, può essere, pastorale o demonico (il serpente). Come in Agamennone, o per lo scettro di Zeus, il modello si ripete nelle altre culture antiche che tematizzano la questione della politica. Con la favola di Esopo tramandata da Fedro, chiudiamo la questione con la satira, che ripete esattamente, curiosamente, il modello ebraico: le rane vagabonde (liberis vagantes paludibus) lamentano al Padre degli Dei la mancanza di un sovrano. Zeus rise (!), e getta nello stagno un bastoncino di legno (parvum tigillum), che dapprima atterrì le bestie paurose, ma alla fine il lignum mandato da Zeus non reggerà il peso della turba insolente (turba petulans). Ne chiederanno dunque un altro più capace, e il pietoso dio manderà loro un terrificante hydrum, peraltro dai duri denti, aspero dente, come si compiace di puntualizzare il poeta, per enfatizzare il fatto che prese a divorarle una per una, corripere coepit singulas. Un serpente d’acqua dunque, ricordato anche nell’Eneide, seguendo la mitologia, come mostro infernale. L’apologo è fin troppo chiaro in tutti i suoi passaggi, ma piace rivedervi i simboli del potere fino nella sua mostruosa, infernale degenerazione.
Ma le suggestioni si susseguono nella stratificazione dei significati. Il potere, capace di sdoppiarsi a seconda dei casi, scettro e lancia al contempo, prisma da più volti secondo la necessità, ordina e si fa obbedire. Piantandosi sul suolo delimita un confine o, come benissimo è stato osservato, conficcandosi su una porta ne segna il possesso. Proprio qui è evocato un altro conflitto, notturno e irrisolto. Lo scettro, con un tropo perfetto, indica il genere della potenza, specifica una supremazia: il potere è fallocratico. Del resto Crono, nelle genesi delle storie mitologiche, per spodestare suo padre Urano dal regno dell’universo lo evira, e sarà sconfitto a sua volta, in queste saghe familiari e regali, dal figlio Zeus, secondo uno schema ancor più atroce del delitto di Edipo, sublimato nell’inconsapevolezza del parricida. Ma quest’ultimo mito intreccia in modo ancor più chiaro la polivalenza semiotica dello scettro, dato che la tragedia si consuma nella duplice lotta – maschile – per il potere, che è politico e nuziale, combinando i differenti spazi del possesso. La repubblica ideale depotenzia, con la comunanza delle donne, impulsi nocivi all’ordine civico provenienti dai maschi – i pretendenti naturali, esclusivi al potere. Più prammaticamente di Platone, Aristotele, con un consiglio particolarmente indicato dai suoi commentatori di epoche successive, invita il principe ad astenersi dalla brama maschile verso la donna altrui, cosa del resto evidente ai legislatori antichi di altre culture, a partire da quelli biblici ma anche dagli storici latini, come la vicenda di Lucrezia insegna. Sullo sfondo di questa variegata e comune conoscenza, lo scontro leggendario che è alla base della sapienza arcaica, in cui si assommano tutti questi significati: quello per la conquista della città, Troia, causato, come si ricorderà, dal desiderio principesco (Paride, il figlio di Priamo) per Elena, la più bella delle donne, ma già sposa di un re, Agamennone. La lotta per lo scettro è su due livelli comunicanti, per il dominio della polis e della casa: ciò che è inferiore, la donna e lo schiavo, è il bottino del vincitore. La politica è indubbiamente una questione maschile.
L’aspirazione dei diritti femminili saranno relegati nell’imponderabile, capricciosa, talvolta onnipotente fortuna, che gli umanisti, amorosi eredi di quella cultura, immaginano aiutare gli audaci e i giovani (un evidente sinonimo), ovvero, nella tematizzazione (erotica) machiavelliana, preferire gli impetuosi rispetto al procedere freddo dei tiepidi, raffigurazione (malevola) della saggezza senile. Al di là di questo regno intoccabile se non per arcani favori della dea, il potere argina la donna nei confini del focolare domestico, con le relative, sorvegliate, esaltazioni, che appartengono anche alla tradizione cristiana, laddove il femminile è talmente esaltato fino ad essere depotenziato – sine macula o semper virgo, come i successivi dogmi morbosamente puntualizzeranno – essendo affidato esclusivamente all’angelico volto mariano, un’icona magnificata negli spazi angusti del cenacolo apostolico. O la brucia nelle eresie di ogni civiltà, che ha creato le proprie verità e i suoi necessari, eccitati controllori: figure oracolanti e spettrali, streghe utili per tutte le repressioni. La rivincita di questo cosmo su cui si erge lo scettro maschile del paterfamilias, è fatalmente quel focolare in cui, secondo la sociologia adorniana dei tempi presenti, Bauci ‘finalmente’ domina Filomene.
La sezione sulle Anatomie e dissezioni del potere sovrano è inaugurata da un saggio incentrato sulla figura di Lorenzo de’ Medici, il tiranno, come è definito fin dal titolo, e nella specificazione del sottotitolo – Dalla sovranità della legge al governo di "uno solo" – il canale entro cui l’autore intende svolgere la propria riflessione storiografica. Un percorso e una meta, come dichiarano le preposizioni, da una situazione (il governo della legge) ad un’altra (quello personale del Magnifico).
Questo itinerario si poggia particolarmente, come risulterà con maggiore chiarezza nella conclusione, su due maestri del pensiero politico umanistico e rinascimentale, Hans Baron e Quentin Skinner, ciascuno dei quali incarna, come è noto, una fase precisa della storiografia politica sull’Europa che si affaccia alle soglie della modernità. Potremmo dire due generazioni di studiosi a confronto, come il più recente manuale sull’origine del pensiero politico moderno di Skinner (edizione inglese 1978) esplicitamente si pone: una dichiarata divergenza dalle tesi di Baron sul sorgere della libertà comunale italiana. Questa precisazione, non marginale, è doverosamente offerta al lettore fin da subito, e dato il preciso richiamo, che vuole essere strategico nell’economia del contributo, alle differenti ricostruzioni che i due storici hanno dato dello sviluppo delle idee politiche di quell’epoca, forse una nota per contestualizzare e definire anche i loro studi sarebbe stata utile, nonostante gli stretti margini entro cui l’autore è costretto a muoversi.
Sulla scia di questa storiografia, il discorso su cui si ergerà ad emblema dell’epoca Lorenzo de’ Medici è innanzitutto centrato nell’antitesi storico-politica – repubblica versus (lasciamo l’ottimo simbolo oppositivo di Civati) principato – ed ideologico-ideale (la libertà contro la tirannide) tra Firenze e Milano, su cui Eugenio Garin (richiamato peraltro in testo celebre quale Medioevo e Rinascimento) ha in particolare lasciato pagine, come si suol dire, definitive, con i celebri ritratti dei cancellieri umanisti inquadrati nella cultura filosofica del rinascimento italiano.
Manca, tuttavia, nell’inevitabilmente veloce apparato bibliografico che è possibile lasciare in quegli spazi, un altrettanto inevitabile riferimento, insieme ai debiti rimandi a Kristeller, Rubinstein, a quel ricco – e a mio parere imprescindibile – binomio machiavelliano costituito da Gennaro Sasso e Mario Martelli (sebbene un articolo di quest’ultimo venga richiamato a proposito di Alamanno Rinuccini, irrilevante rispetto alla copiosa interpretazione machiavelliana). Del tutto assente sono poi una bibliografia savonaroliana, a parte un’introduzione di Ciliberto al Trattato sul governo del frate (citato solitamente dall’edizione nazionale), e un’altra guicciardiniana. Ma rimane soprattutto curioso che, se almeno questi ultimi compaiano nel corpo del discorso, Niccolò Machiavelli sia tenuto fuori da un tema così machiavelliano come quello della contrapposizione tra libertà e tirannide focalizzato peraltro ‘in casa sua’ (luogo e data), vale a dire nella Firenze medicea. A meno che non si consideri l’epilogo del saggio rispetto di matrice skinneriana relativa al Segretario fiorentino come un compendio esaustivo della riflessione machiavelliana sulla libertà. Una conclusione che lascia comunque la sensazione di rimanere ‘strozzata’ (forse per esigenze editoriali?) e certamente il dubbio che è proprio lì che la ricerca avrebbe potuto fornire alcune riflessioni salienti sul tema.
Tutto ciò serve per argomentare il mio parere, ritenendo che uno studio che guarda al tiranno rinascimentale attraverso la riflessione che i contemporanei produssero sulla personalità di Lorenzo sia una scelta doppiamente appropriata e significativa, sia per l’individuazione di una figura emblematica come l’erede di Cosimo, il vero fondatore della fortuna e della stirpe ‘principesca’ medicea, sia per l’approccio contestualistico con cui lo storico ha osservato il signore di Firenze. Ma il metodo rischia di dare frutti insufficienti se poggia quasi esclusivamente sul De Libertate di Rinuccini. Una testimonianza indiscutibilmente importante, quella che lo studioso Giustiniani definì "intrinseca" a Lorenzo, e proprio per questo l’apprezzabile recupero e riproposizione in questo saggio è opportuna, pur precisando che l’opposizione di Rinuccini, colta e nobiliare (il suo dialogo è scritto in latino), rivela e anticipa quella che sarà una vera e propria fronda aristocratica alla morte di Lorenzo (indicativo il fatto che Rinuccini ebbe a dedicare una traduzione di Plutarco a Piero de’ Medici, padre del futuro tiranno), quando gli equilibri oligarchici salteranno a causa dell’alterazione degli ordini tenuti dal successore del Magnifico (un caso, non è stato in genere granché notato, discusso nella trattazione dei principati ereditari da Machiavelli). Soprattutto, non si evince dal testo la diffusione della critica di Rinuccini, né è chiarita la circolazione del testo, che comunque avrei portato a corredo delle più robuste percezioni che di quel ‘tiranno’ (un virgolettato comunque sempre opportuno, dato che si tratta, come bene spiega Civati, di una potestà esercitata in maniera del tutto sui generis, rimanendo intatta la superficie delle magistrature repubblicane) ebbero altre personalità decisive di quel contesto quali il priore di San Marco, il vero (ma inizialmente ambiguo, se prestiamo fede più a Weinstein che a Ridolfi) rivale di Lorenzo, il Profeta, la reale alterativa politica a quella costituita dalla strategia istituzionale medicea. Alternativa non illusoria o coltivata nel locus amenus dell’evasione letteraria e affidata ai diari privati e ai ricordi di famiglia, ma pericolosamente manifesta e praticabile, tanto che al frate la città si rivolse e quindi si consegnò nel momento drammatico dell’invasione francese. Un dato, quest’ultimo, enorme, essenziale, di cui bisogna tener conto nella ricostruzione del contesto che vede l’affermazione del tiranno fiorentino con gli immancabili corollari dell’adulazione e reazione.
E a proposito del contesto, con Savonarola, ovviamente l’autore del Principe e quello della Storia d’Italia.
Una triade, come è evidente, d’eccezione, che ci consegna peraltro "in tempo reale" la fabbrica dell’immagine del pater patriae da angolature e sensibilità autonome e simultanee. Il potere di Lorenzo è giudicato dalle stesse relazioni con cui si innerva ogni potere, religioso popolare ed aristocratico, e nell’elaborazione storiografica che quell’ambiente appronta è utile scorgervi, per il nostro discorso storiografico, il motivo ideologico e politico che agisce nei detrattori come nei lodatori. E qui si apre la vera riflessione che una simile ricerca sollecita, sulle ragioni della nascita di quel mito che finisce con il condizionare la nostra stessa percezione di un personaggio come Lorenzo de’ Medici, data la formidabile autorevolezza di quei giudizi coevi. Una ricerca che farei muovere da un dato apparentemente banale, vale a dire come quel titolo con cui si omaggiano i signori della città (lo stesso Principe è indirizzato al "Magnifico Laurentio Medici Iuniori", finisca per qualificare, tra i suoi concittadini e contemporanei, questo tiranno, che diviene appunto il magnifico per antonomasia.
Un’indagine suggestiva, su cui Felix Gilbert ha indagato in testi oramai da letteratura ma specialmente in un saggio del 1958, naturalmente citato da Sasso (sia pure in nota) nel quale fa luce sul ruolo primario che nella formazione del mito laurenziano ebbe Niccolò Valori, il cui elogio del Magnifico è un documento prezioso già per la stessa vicenda editoriale dello scritto, quasi uno specchio di una cronaca municipale che testimonia il correre, il farsi e il disfarsi di alleanze e fazioni, decisive nel sostegno di un regime e dell’affermazione di un altro. Composto infatti all’epoca dell’apogeo di Lorenzo, per celebrarne la scomparsa, viene ripreso e pubblicato in volgare dall’autore, eminente cittadino della stagione repubblicana e quindi inevitabile avversario dei Medici, allorquando questi ultimi riprendono nel 1512 il potere della città. La vita esemplare che Valori racconta e accredita ai suoi lettori (idest i nuovi signori, i discendenti del Magnifico) è tesa ad avvalorare l’idea di una concordia civica e di un rispetto della legge a cui la maggiore casa di Firenze si è tradizionalmente attenuta, specialmente nel binomio aureo di Cosimo e Lorenzo, una rilettura ideologica del governo mediceo quattrocentesco. Gilbert ha potuto facilmente dimostrare che dalla Vita di Lorenzo di Niccolò Valori dipendono, per lo meno per le notizie biografiche, il successivo ritratto delle Istorie fiorentine machiavelliane e quello di Guicciardini. Ma è la nuova collocazione dell’opera che indica la specificità del diverso clima intellettuale. È in questa fase nuova della vita fiorentina, quella della restaurazione che costa la fine del Consiglio Maggiore, del Gonfalonierato perpetuo, e l’esilio di chi al Gonfaloniere era stato vicino (Niccolò Valori appunto) se non addirittura "mannerino" (Niccolò Machiavelli), in una fase cioè in cui inizia il percorso, che condurrà alla formalizzazione del Granducato, di una signoria ispirata dai papi di famiglia, Leone X, figlio di Lorenzo, a cui viene dedicata la Vita laurenziana del Valori, e Clemente VII, nipote carissimo allo stesso Lorenzo (figlio di quel fratello rimasto ucciso nella congiura dei Pazzi), che commissionerà all’ex segretario della cancelleria repubblicana la storia della città, che l’elogio del Magnifico viene tessuto. Così come, talvolta dissimulata tra le medesime pagine, talvolta nell’irriducibilità repubblicana o piagnona, viene adombrata o esaltata la sua condanna.
Se mai esiste, nella storia politica ed intellettuale, un esempio della metafora del potere, della sua capacità di proporsi attraverso i canali ideologici della propria cultura per la trasmissione del comando ovvero per la sua legittimazione e accettabilità, e nella resistenza che per ciò stesso suscita in quelle zone che per varie ragioni sono indisponibili all’adesione della vulgata dominante, e se ne discostano come possono, dalla dissimulazione alla contestazione, se non aperta almeno traslata su campi collaterali alla politica (religione, letteratura, arte…) – un ulteriore tema che approfondisce lo studio della creazione o percezione del tiranno – la vicenda di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico è indubbiamente tra le più espressive e, almeno per chi scrive, tra le più affascinanti.
Giorgio E.M. Scichilone