Il "libro", di Salvatore Costanza, Tra Sicilia e Africa. Trapani. Storia di una città mediterranea (Corrao ed. Trapani 2006, pp. 415), non uno studio o un lavoro, ma assolutamente un "libro" - così come lo definisce nella presentazione, il sen. D’Alì – viene accolto dai trapanesi come un monumento alla città atteso da quasi cinquecento anni, tanti quanti sono gli anni ormai trascorsi dalla pubblicazione dell’ultima grande opera storica sulla città, "la più esatta e completa", fonte di tutte le scritture erudite trapanesi. Mi riferisco alla Istoria di Trapani, del 1591, del bresciano capitan d’armi Giovan Francesco Pugnatore, dietro il cui pseudonimo si nasconde l’ingegnere Lazzaro Locadello, di cui lo stesso Costanza vent’anni fa pubblicava l’edizione critica, rivelando il mistero dell’identità dell’autore.
Il motivo per cui a Trapani manchino degli esaustivi studi storici sulla città, se si eccettua l’opera cinquecentesca del Pugnatore, uno straniero, secondo Costanza, non è conseguenza dell’insufficiente livello della cultura locale, ma della assenza della cosiddetta cultura della tradizione. Tale mancanza è essenzialmente dovuta al fatto che il ceto patrizio cittadino, spinto dai frequenti ricambi sociali e dai flussi migratori, non si pose il problema di immortalare il passato delle proprie famiglie che non avevano certo brillato per dedizione alla Civitas. E infatti fu uno straniero, che non aveva glorie familiari da rivendicare, a scrivere, su incarico dei giurati cittadini, l’unica monumentale opera sulla città, degna di citazione e di ricordo, visto che la storia scritta dall’Orlandini nel 1591, Trapani in una breve descittione tratta fuori dal compendio di cinque antiche città di Sicilia, e quella coeva di Vito Sorba, De Rebus Drepanitanis, risultano delle imitazioni succinte dell’opera del Pugnatore. Del resto, Trapani produsse ben poco anche dal punto di vista della poesia e della letteratura in genere. Durante il fervore letterario dovuto all’età umanistica, la città si mostrò alquanto insensibile ai nuovi fermenti artistici vivacissimi a Palermo, Messina e anche in alcuni centri minori del suo stesso entroterra, come Marsala, Mazara e Alcamo. Ciò fu dovuto, non solo agli interessi pragmatici del ceto erudito cittadino, che preferiva dedicarsi agli studi astronomici o nautici, ma anche all’assenza dell’influenza della Chiesa la cui più vicina sede vescovile si trovava a Mazara.
La monumentale opera di Costanza, arricchita da un’iconografia preziosa e abbondante, costituita da stampe antiche, da carte topografiche e geografiche anche risalenti al XVI e al XVII secolo, nonché di fotografie difficoltosamente reperite in archivi privati, riveste una particolare importanza scientifica per la serietà delle ricerche e per l‘originalità dei documenti su cui poggia. L’autore oltre a servirsi dell’Istoria del Pugnatore, attinge a piene mani dalle fonti finanziarie, amministrative e giudiziarie che si trovano nell’Archivio di Stato di Palermo ( Real Cancelleria di Sicilia, Protonotaro del Regno, Tribunale del Real Patrimonio, ecc.), dalle carte del Consejo de Estrado, conservate a Simancas e a Madrid, dai reveli dei beni e delle anime ordinati in Sicilia tra l’inizio del XVI secolo e la fina del XVIII, dai documenti conservati negli archivi di Stato di Genova, Dubrovnik, Tunisi e Venezia, nonché dagli atti notarili dell’Archivio di Stato di Trapani dal XIV secolo in poi. A tutto ciò si aggiungano gli atti della Sacrezia, organo finanziario e giurisdizionale che si occupava di materia fiscale, e i documenti relativi alle Corporazioni Religiose soppresse, dal XV al XIX secolo, con particolare attenzione alla Compagnia di Gesù. Non sono stati trascurati gli atti dell’Archivio del Senato di Trapani conservati nella locale Biblioteca Fardelliana.
Grande attenzione, nel formare l’ordito dell’opera, è stata data agli studi del grande Braudel, concernenti la Sicilia e le civiltà mediterranee, soprattutto in relazione ai collegamenti che lo storico francese, sottolinea con particolare enfasi, tra l’Isola e l’Africa. La vocazione propria della Sicilia di fungere da ponte nel mediterraneo tra l’Europa e l’Africa, tra l’est e l’Ovest, vocazione compresa appieno dai re della dinastia normanna, da Federico II e da Federico III, è stata insufficientemente evidenziata dalla storiografia moderna. La Sicilia tende ad essere vista in funzione del continente europeo, della penisola italiana e soprattutto in subordine a Napoli e quasi mai in rapporto con il Sud, con il continente africano, verso cui la proietta inevitabilmente il suo mare.
La Trapani che scaturisce dall’amoroso, quanto rigoroso studio del Costanza, è una città fatta per il mare, che dal mare trae il suo sostentamento e che nel mare vede il realizzarsi dei suoi sogni di ricchezza e di prosperità. Il mare, per la Trapani, identificata dall’inglese Butler con la città dei Feaci toccata da Ulisse nel suo decennale viaggio, che altro non sarebbe se non il periplo della Sicilia, non costituisce una barriera di isolamento, un marchio indelebile di insularità, bensì uno scrigno di ricchezze che collega la città al mondo, ma soprattutto all’Africa, le cui coste distano dalla città siciliana molto meno delle coste della penisola italiana. Dal mare del resto, giunsero in Sicilia, e in particolare in questa sua propaggine occidentale, gli alfieri della civiltà mediterranea, e del progresso, sotto le insegne dei navigatori fenici, che sulla vetta del monte Erice edificarono il tempio della dea Astarte, dei Greci, dei Cartaginesi, dei Romani, degli Arabi, dei Normanni, degli Spagnoli e degli Inglesi.
L’importanza della città lilibea, soprattutto per la sua posizione strategica sul mare, nell’estrema punta occidentale della Trinacria, cominciò a manifestarsi durante le guerre puniche, di cui molte battaglie furono, appunto, combattute nel tratto di mare compreso tra Drepanum e le Isole Egadi. Quando la Sicilia divenne provincia romana, Drepanum fu compresa fra le città censorie i cui abitanti erano obbligati verso Roma come stipendiarii, dotata di un suo Senato e con dignità sociale di civitas, fornita di notevole quantità di manodopera servile, adibita, prevalentemente ai lavori agricoli. Durante l’impero, così come nel periodo della dominazione dei Vandali e poi sotto il dominio bizantino, Trapani, come gli altri municipi dell’Isola, mantenne la sua autonomia, mentre il suo porto, nella logica dello scontro tra bizantini e barbari, bizantini ed arabi, acquistava un’importanza ogni giorno maggiore.
Sotto i Normanni, Trapani, benché meno importante di Mazara, elevata da Ruggero II a sede di episcopato, fu compresa fra le quaranta città demaniali dell’isola. Grazie alla politica "africana" di Ruggero II e al passaggio di alcune spedizioni crociate, nei due secoli di dominio normanno, il porto di Trapani ebbe un notevole progresso e ad esso furono estesi i privilegi goduti da Messina in relazione alla riduzione o all’esenzione dei dazi di importazione. Ma dal porto di Trapani, che ebbe un ruolo privilegiato per il flusso di uomini e di merci con Tunisi ( era trapanese il console siciliano a Tunisi, Enrico Abbate), partivano navi anche per Genova, Venezia e Pisa. Per i mercanti pisani e genovesi, quel porto costituiva un indispensabile appoggio nei loro traffici con l’Africa, tanto che accarezzarono l’idea di creare nella città siciliana una loro colonia. Dovettero poi accontentarsi di costituire in essa magazzini o logge che resero, man mano, più frequente lo stanziamento in loco di toscani e di liguri, la cui presenza è comprovata dalla facoltà, concessa loro da Federico II, di costruire all’interno della chiesa di San Lorenzo, una cappella intitolata al patrono di Genova, San Giorgio. Il porto di Trapani, divenne così, dopo il porto di Palermo, lo scalo siciliano più importante in relazione al commercio del grano, inoltre la presenza di nuclei sempre più numerosi di commercianti genovesi e pisani, lo sviluppo delle saline e delle tonnare e il decollare del commercio degli schiavi, fecero sì che a partire dalla metà del XIII secolo la città vivesse un periodo di particolare prosperità, anche per la sua posizione marginale rispetto alle zone dell’Isola funestate dalle lotte intestine fra i baroni, o maggiormente coinvolte nelle guerre fra le grandi potenze per la conquista dell’appetibile territorio siciliano; tutto ciò comportò un incremento demografico della popolazione e l’avvento in città di un nucleo numeroso e attivo di commercianti ebrei. Nel XV secolo la comunità ebraica di Trapani, prevalentemente di lingua araba, era stimabile intorno ai tremila individui, circa un quarto della popolazione, aveva una sua sinagoga e si dedicava all’artigianato del corallo, del ferro e dei tessuti, al commercio dei prodotti agricoli e del pesce e all’esercizio della professione medica, nonché allo sfruttamento delle sorgenti termali di monte San Giuliano. La cacciata degli ebrei nel 1492, se fu accolta come una benedizione da parte della popolazione indottrinata dalla propaganda antisemita di cui si fece portavoce la Chiesa locale, fu accompagnata dalle proteste della parte più attiva della popolazione, che vedeva nell’espulsione di quella comunità laboriosa e lautamente fornita di capitale liquido, un vero danno per l’economia cittadina.
I tentativi d’invasione da parte saracena, soprattutto sotto il regno di Carlo V, non potevano non coinvolgere Trapani che, essendo la città portuale più vicina all’Africa, fu necessariamente dotata d’imponenti fortificazioni, divenne, anzi, l’epicentro del sistema fortificatorio che la monarchia spagnola decise di costruire nella costa nord-occidentale siciliana. La costruzione delle opera di difesa fu affidata ad un ingegnere militare originario di Brescia, Vincenzo Locadello, insieme a suo figlio Lazzaro che gli succederà nell’incarico e che sarà poi l’autore di quella famosa Istoria di Trapani, sotto lo pseudonimo di Pugnatore.
Dai reveli della popolazione e dalle relazioni ad limina dei vescovi, la popolazione della città di Trapani, che contava, sia nel XVI che nel XVII secolo, circa sedicimila individui, era prevalentemente dedita alle attività marinare, a differenza di quella della vicina Marsala che trovava il suo principale sfogo nelle attività agricole. Esisteva una notevole parte della popolazione, costituita soprattutto da marrani, ebrei apparentemente convertitisi per evitare l’espulsione, dedita alle attività artigianali, come la lavorazione del corallo e dell’argento. Scarso il numero dei liberi professionisti, notevole, invece, quello dei membri del clero secolare. Alla fine del ’500 si manifestò, fra il patriziato locale, la tendenza ad investire nell’acquisto di terre; il fenomeno era dovuto sia all’aumento del prezzo del grano, sia al rischio che comportavano i commerci marittimi, per le scorrerie dei pirati barbareschi che infestavano il mediterraneo.
Le leve del potere erano nelle mani dell’aristocrazia che deteneva le magistrature civili e militari, ma la presenza in città di una borghesia imprenditoriale che costituiva la spina dorsale dell’economia cittadina, determinò vivaci scontri interni relativamente al controllo politico locale. Malgrado l’estrazione nobiliare, tuttavia, i Giurati cittadini, rivelarono di essere sensibili alle esigenze produttive e commerciali della loro città e di non appartenere a quella nobiltà parassitaria che con il suo immobilismo avrebbe segnato tristemente i destini dell’Isola. Infatti, si operarono attivamente per sconfiggere il problema della sete, atavico per i siciliani, e per arricchire la città di nuove attività produttive, finanziando, per esempio, il trasferimento in loco e l’attività di un maestro tessitore messinese, perché importasse nel centro lilibeo l’arte di tessere la seta, vista la fiorente coltivazione del baco nella vicina Marsala.
In una città ricca e attiva quale era la Trapani cinquecentesca, il pauperismo era visto come un fastidio dalle pubbliche autorità che poco o niente fecero per arginare il problema, affidandone la soluzione alla carità dei singoli. L’istituzione del Monte di Pietà fu voluta dal carmelitano Vincenzo de Leone, non tanto per combattere l’usura, quanto per dispensare l’elemosina, impedire l’accattonaggio, procurare lavoro alle orfane presso le famiglie patrizie e curare l’assistenza medica per i più poveri per i quali venivano approntate anche le spese funerarie.
Nel XIII secolo fu costruito a spese della famiglia Luna l’ospedale S. Antonio, affidato, alla fine del’500, alla compagnia dei Bon Fratelli, cacciati sette anni dopo per "cattivo governo". Tale Ospedale, oltre ad essere centro di cura per gli ammalati, divenne in seguito, centro di ricerca medica e Studium per l’abilitazione all’esercizio della professione medica. In esso insegnarono Erasmo Salato e Pietro Parisi che si distinsero soprattutto per la cura e la profilassi della peste che si manifestò in maniera particolarmente grave a Trapani nel 1575, causando circa cinque mila vittime.
Poche città come Trapani hanno saputo sfruttare così bene e così razionalmente il mare, porta d’ingresso di civiltà, ma anche di guerre, di novità e di progresso; non tutte le popolazioni costiere, infatti, hanno saputo ingegnarsi per fare del mare la loro principale risorsa di vita. Se prendiamo, ad esempio, le popolazioni sarde, ebbero con il mare un rapporto conflittuale che determinò lo svilupparsi di un’economia nettamente agricola e pastorale; probabilmente ciò fu dovuto alla malaria che infestava la maggior parte delle coste sarde o alla paura di razzie e di invasioni; fatto sta che i porti sardi non ebbero alcuna rilevanza né militare, né commerciale all’interno del Mediterraneo e per indicare il rapporto della popolazione con il mare, basta pensare alla tradizione culinaria sarda in cui è assente il pesce, mentre sono assolutamente dominanti la carne e i formaggi. In Sicilia le cose andarono diversamente; il mare, lo abbiamo già detto, fu visto dalle popolazioni non come una barriera d’isolamento, ma come una porta che le metteva in contatto con il resto del mondo, con altre civiltà da cui i siciliani presero elementi positivi e negativi riadattati alle esigenze economiche e sociali del luogo. La nostra stessa cucina è costituita da un insieme di tradizioni diverse importate dai vari popoli le cui navi approdarono nei nostri porti. Questo sincretismo culturale, aspetto peculiare della storia siciliana, favorito soprattutto dalla politica illuminata e pragmatica dei sovrani normanni, si avverte in particolar modo a Trapani e nel suo territorio; se si guarda alla cucina trapanese si coglie subito la predisposizione di quella gente a trarre da ciò che era importato dalla sponda africana il meglio, rielaborandolo e adattandolo agli usi e ai gusti locali. Il pensiero corre chiaramente al cous cous, piatto che Trapani importò dalla Tunisia e che rielaborò sostituendo la carne di montone con il pesce più consono al gusto della sua gente.
Il rapporto con le popolazioni africane della costa opposta è sempre stato vissuto dai trapanesi in maniera particolare; in un contesto caratterizzato dalla totale assenza di razzismo o di fondamentalismo religioso, le popolazioni lilibee miravano a trarre il massimo profitto dalla vicinanza delle coste africane, in termini soprattutto commerciali, ma anche sfruttando quei mari, particolarmente pescosi, per incrementare il loro patrimonio ittico. La tendenza della popolazione ad investire capitali in Africa, costituendo delle vere e proprie colonie di imprenditori e di lavoratori, non si arrestò mai, nemmeno dopo la conquista della Tunisia da parte della Francia nel 1881, quando la popolazione di Tunisi era costituita per il 10% da italiani, di cui i trapanesi rappresentavano la porzione più consistente. La Tunisia era vista dalle popolazioni della costa occidentale siciliana non tanto come terra di emigrazione, ma come parte integrante della nazione italiana. Particolarmente sentite furono, dunque, per i trapanesi, le discriminazioni create dalla Francia dopo la colonizzazione del Paese, nei confronti soprattutto degli italiani, sia perché rappresentavano la più cospicua minoranza straniera, sia per il contenzioso politico e doganale che aveva determinato forti tensioni con lo stato italiano. Fu Nunzio Nasi a preoccuparsi di rendere più distesi i rapporti con la colonia francese, rendendosi conto di quanto importante fosse per la città lilibea mantenere la piena libertà di commercio con la costa africana e la possibilità di continuare ad investire in Tunisia i capitali eccedenti. Peraltro, essendo Trapani la porta dell’Italia dalla parte dell’Africa, la costruzione del fortificatissimo porto militare di Biserta, si presentava particolarmente minaccioso soprattutto nei suoi confronti.
Con il passare degli anni, vista la percentuale della popolazione che si dedicava ad attività connesse allo sfruttamento delle risorse marine, (nel 1881 su una popolazione di 39.240 abitanti, ben dodicimila lavoravano nel settore marittimo come pescatori, salinari, tonnaroti, portuali, naviganti, corallari, impiegati nelle industrie conserviere) il porto di Trapani acquisì gradatamente un ruolo sempre più importante, soprattutto per l’esportazione di sale e di tonno. Il naviglio trapanese, che costituiva la più numerosa flotta della Sicilia (nel 1839 i natanti erano 729 per una stazza di 8865 tonnellate, su un totale di 2371 natanti siciliani), apparteneva in gran parte alla categoria del cabotaggio, confermando che la parte principale del commercio marittimo di quel porto avveniva all’interno del regno italiano, tuttavia, l’enorme quantità di sale esportato, rendeva il porto trapanese fortemente frequentato anche dal naviglio straniero. Nel ventennio precedente l’Unità d’Italia, l’esportazione di sale registrò un incremento del 53,85%, soprattutto per le misure agevolative predisposte dal governo borbonico che culminarono nel 1840 con l’abolizione del dazio sul sale. Tutto ciò portò alcuni tecnici, fra cui l’ing. Paleocapa, tra i progettisti del canale di Suez, a chiedere al governo la costruzione di un bacino di carenaggio nel porto di Trapani che presentava condizioni quanto mai favorevoli per la costruzione all’asciutto di detto bacino, con una spesa relativamente modica. L’opposizione di Palermo e le difficoltà finanziare, oltre allo scarso interesse manifestato dal governo, costrinsero i trapanesi a rinunciare ad un’opera che avrebbe potuto fare del loro porto uno dei più importanti del Mediterraneo.
Il frutto più prezioso che i trapanesi ricavavano dal mare era senz’altro il rosso corallo la cui lavorazione era presente in città fin dalla prima metà del XVI secolo. La lavorazione del corallo era un’attività da sempre praticata da un certo numero di abitanti della città siciliana, anche se ad un livello molto elementare; i corallieri, infatti, per la maggior parte ebrei, si limitarono per molto tempo ad utilizzare il corallo pescato, solo per fabbricare i grani delle coroncine del S. Rosario. Nel cinquecento erano presenti a Trapani ben venticinque botteghe di corallieri, tutte disposte lungo la medesima strada, che davano lavoro ciascuna ad un discreto numero di persone; da queste botteghe non uscivano più solo coroncine per il Rosario, ma manufatti di grande maestria, fra cui si ricorda il collage di 85 figure sacre in corallo, dono del vicerè Avalos de Aquino a Filippo II, regalo che non arrivò mai a destinazione, poiché la nave che lo trasportava fu intercettata dai pirati. Il periodo di maggior splendore di tale attività oltre che economica, soprattutto artistica, è quello relativo ai secoli XVI e XVII, successivamente alla scoperta di un ricchissimo banco corallifero, in prossimità della coste tunisine, nella località chiamata Tabarka.
Le società dei pescatori di corallo venivano costituite tra i proprietari delle barche (ligudelli) e degli attrezzi e i componenti la ciurma, che erano cinque o sei uomini se la pesca avveniva nella lontana località di Tabarka, due o tre per la pesca nei mari più vicini. L’industria del corallo, malgrado una breve stasi alla fine dl secolo XV, in corrispondenza con la cacciata degli ebrei (che tuttavia in gran parte si convertirono per rimanere in Sicilia), si incrementò di anno in anno, producendo manufatti di rara qualità richiesti in Italia e in Europa, dove erano conosciuti, anche perché i maestri corallari trapanesi esponevano i loro prodotti nelle principali fiere italiane. La piccola bottega domestica, quasi sempre di proprietà di ebrei, della Trapani del ‘400, nel XVI e nel XVII secolo si trasforma quasi in una piccola fabbrica, con varie fasi di lavorazione affidate ad un personale che diventa via,via, più numeroso e qualificato e si arricchisce anche della presenza femminile. Nel ‘600 gli addetti alla pesca e alla lavorazione del corallo erano circa 500 e, nel 1785, il viaggiatore straniero Friedrich Munter, contava 3000 addetti a tali attività. I mastri corallari godevano di esclusive protezioni regie volte ad incentivare la produzione dei manufatti in corallo ed erano tenuti a pagare soltanto la gabella della cassa d’estrazione per il corallo esportato. I corallini, ovvero i pescatori di corallo era stati esentati dal Re Alfonso dal pagamento dei tributi doganali sul corallo grezzo pescato e dovevano pagare solo una gabella regia di 10 grani al giorno per ogni barca che armavano con gli arnesi adatti alla bisogna (ingegna), mentre non erano esentati dal dazio sul corallo acquistato in Sardegna, a Napoli o a Messina.
La Corporazione dei corallari si distingueva per la sua turbolenza - furono i protagonisti dell’insurrezione del 1672-73 a carattere antinobiliare - e per la vivacità con cui partecipava alla vita comunitaria, ritenendosi portavoce degli interessi dell’intera Civitas; ciò determinava una progressiva acquisizione di prestigio sociale che li vedeva spesso accanto ai rappresentanti del patriziato cittadino durante la manifestazioni pubbliche. Il ceto dei corallari si presentava come un ceto aperto visto che molti dei rappresentanti delle generazioni successive passarono all’esercizio del commercio o delle professioni libere. Questo abbandono dell’arte paterna, diventato sempre più frequente nel ‘700, oltre all’emigrazione di alcuni maestri corallari in Sardegna o nel napoletano, nonché l’agguerrita concorrenza straniera, comportarono il declino ineluttabile dell’industria corallifera.
Altro tesoro che il mare forniva alla popolazione trapanese era il tonno, detto anche il maiale del mare, poiché, così come avviene per i suini, anche per questo tipo di pesce ogni parte del suo corpo viene utilizzata e commerciata, favorendo così la nascita di attività legate alla sua trasformazione e conservazione. La pesca del tonno, nel trapanese, ha origini molto lontane, visto che dei graffiti trovati in una caverna preistorica dell’isola di Favignana richiamano le sagome dei tonni e visto che lo stesso Plinio parla diffusamente di tale attività. Alla pesca e alla lavorazione del tonno diedero forte impulso gli arabi introducendo metodi di lavorazione e di pesca prima sconosciuti, tanto è vero che molti termini legati a tali attività, hanno origini indiscutibilmente arabe, a cominciare dal titolo con cui viene indicato il capo della ciurma, il rais per arrivar poi ai nomi dei diversi tipi di barche impiegate nella pesca: caicco, filuca, musciara, ecc. Con l’avvento dei normanni, fu necessaria una concessione regia per autorizzare i privati allo sfruttamento delle tonnare già esistenti. Le tonnare, insieme al terreno circostante, venivano date in concessione alla stregua di veri e propri feudi e i concessionari dovevano pagare le decime al vescovo di Mazara in tonni.
Il tonno si vendeva fondamentalmente sotto sale e ciò consentiva sia di esportarlo, sia di sottrarsi alla necessità di vendere il prodotto anche nei momenti in cui i prezzi risultavano particolarmente bassi. Le tonnare, che lavoravano anche al di fuori della stagione della pesca, che andava da aprile a giugno, per la preparazione delle barche, dell’attrezzatura, per la conservazione e la lavorazione del tonno, impiegavano circa 100 persone tra ciurma di mare e ciurma di terra (falegnami, bottai, calafati, ecc.), costituendo, dunque, un’industria importantissima sia per l’ammontare del fatturato che per le numerose persone coinvolte.
Un’altra fonte di ricchezza offerta dal mare, era il sale, raccolto nelle saline costruite sul litorale trapanese fin dall’antichità per le particolari condizioni climatiche e morfologiche dei luoghi (clima asciutto, alte temperature, mancanza di precipitazioni, fondi bassi ed arenosi). Importante era il ruolo esercitato dalle isole Egadi, sulle saline trapanesi, per favorire l’evaporazione del sale dalle vasche; tali isole, infatti, riuscivano a difenderle, a mo’ di barriera, dai venti di scirocco e di maestrale. Per l’esistenza di tutte queste condizioni naturali favorevoli, nell’immaginario popolare, il mestiere del salinaro era considerato particolarmente leggero. Si pensava che poco dovesse faticare per raccogliere la ricchezza che mare, sole e venti gli fornivano gratuitamente; nulla di più sbagliato, visto che la costruzione e la sistemazione delle vasche, in modo da ovviare alle intemperie e alle forze contrarie della natura, abbisognava di notevoli conoscenze tecniche e di duro lavoro. Alla fine del ‘700 fu introdotto nelle saline trapanesi un ingegnoso sistema di macinazione attuato attraverso i mulini a vento che precedentemente venivano usati solo per il sollevamento delle acque.
La gestione delle saline era generalmente di competenza della nobiltà proveniente dai ranghi della burocrazia fiscale o giudiziaria o dalle libere professioni, nobilitata poi dai titoli che accompagnavano la concessione regia delle saline.
L’industria del sale decollò progressivamente soprattutto dopo la perdita da parte dei veneziani dell’isola di Cipro, ricca di saline, che nel 1570, cadde in mano turca.
Il pregio dell’opera sta, non solo nel rigore e nella scientificità delle ricerche, nella ricchezza e bellezza dell’iconografia, nell’abbondanza e originalità dei documenti riportati, ma anche nel messaggio che Salvatore Costanza trasmette attraverso la storia della sua città. È un messaggio che riguarda tutti i siciliani e che ci sprona a cercare nel nostro passato per modellare il nostro presente. La Sicilia è ricca di industrie da sempre presenti nel territorio; sono le industrie relative ai prodotti che il nostro mare ci dà, le industrie relative alle attività, sia commerciali che turistiche, dei nostri porti, le industrie concernenti la trasformazione dei prodotti della nostra terra, l’artigianato, di antichissime tradizioni, ma il cui declino appare oggi inarrestabile.
Ma, soprattutto, questo libro ci invita a dar vita ad un rapporto particolare con la costa africana che ci fronteggia, e a riprendere il ruolo di ponte con il sud del mondo e di principale referente commerciale e culturale del nord-Africa. La Sicilia potrebbe attrezzarsi per accogliere un’immigrazione africana anche culturale, le nostre università potrebbero essere porti d’accoglienza per quelle popolazioni in cerca non soltanto di lavoro, ma anche di moderni apporti scientifici e di tecnologia.
Forse tornando alla politica "africana" che fu propria di grandi sovrani siciliani come Ruggero II, Federico II e Federico III, la Sicilia potrebbe ritrovare la sua vocazione naturale, potrebbe tornare ad occupare, con i suoi porti, un ruolo commerciale strategico nel Mediterraneo, potrebbe ovviare a quelle situazioni di svantaggio e di emarginazione che la costituzione del mercato europeo le ha causato.
Gabriella Portatone